Il razzismo velenoso di un’America sgradevole

di Darrell L. Bock

Quello che è accaduto a Floyd è qualcosa che negli Stati Uniti ha una lunga, triste storia, una storia che degenera ogni pochi anni. Questa volta la differenza sta nel fatto che ci sono le registrazioni a mostrare ciò che è accaduto così che diventa difficile costruire una difesa con un controracconto che nega i fatti. In realtà, nelle ultime settimane si sono verificati tre incidenti del genere, tutti registrati. Questo ha colpito una corda che ha fatto venire a galla una profonda frustrazione nelle minoranze.

La violenza razziale è un attacco alla persona fatta all’immagine di Dio.

Non c’è posto per una cosa del genere in una fede che raccoglie molte tribù, lingue e nazioni.

E’ uno sfregio per la croce che mostra l’amore che Dio ha per gli uomini del mondo.

Viola l’appello di Gesù ad amare perfino i nostri nemici.

E’ un’offesa per le vie di Dio.

La saga di George Floyd non è nuova. Si tratta di un incidente che questa volta è stato documentato. Uno di tre solo nelle ultime settimane, come ho detto sopra. Se avete amici afro–americani allora sicuramente avrete saputo da loro che incidenti del genere non sono né rari né isolati ma piuttosto comuni.

Questo significa che qualcosa è veramente sbagliato e va avanti così da tanto tempo.

L’unica cosa è che nell’ambiente ostile in cui viviamo oggi la cosa si sta accelerando. Negare tutto ciò significa sopprimere l’ovvio e farlo ina maniera violenta. Possiamo e dobbiamo fare meglio e ciò significa agire, non semplicemente proferire parole e mostrare simpatia, poiché senza l’azione vedremo cose del genere che si ripeteranno di nuovo e ancora di nuovo. Non è una Teoria critica che stravolge ciò che ognuno dovrebbe essere in grado di vedere, al punto da non agire.

Si tratta di razzismo velenoso che percorre parti della nostra società e rende l’America sgradevole. Definire le cose con il loro nome significa rispettare le persone, la gente. Dobbiamo assolutamente fare meglio. Dire una cosa del genere è facile, fare qualcosa per questa situazione significherà per molti di noi essere chiari nelle nostre puntuali risposte affermando che tutto ciò è sbagliato e intollerabile.

 

Darrell L. Bock è Executive Director for Cultural Engagement, Howard G. Hendricks Center for Christian Leadership and Cultural Engagement e Senior Research Professor di New Testament Studies, presso il Dallas Theological Semminary.

 

Darrell L. Bock
è stato ospite nel 2017 del XII Convegno di Studi del GBU.
Qui trovi anche i link alle sue conferenze
Le Edizioni GBU hanno pubblicato il suo
Alla riscoperta del vero vangelo

 

 

Tre domande a Francesco Raspanti su Riforma e Medioevo

 1. Francesco la Riforma protestante è stata sintetizzata con il motto della città di Ginevra “Post tenebras lux”, lasciando a intendere che le epoche precedenti e in particolare il Medioevo siano state epoche appunto di “tenebra” dal punto di vista delle verità che la Riforma riscoprirà. Ritieni corretta questa analisi?

A mio modo di vedere dobbiamo, brevemente, considerare il contesto a cui questa domanda va posta. Credo sia opportuno ricordare che la riforma prende il via dal 1500 (oggi nel 2017 si ricordano i 500 anni delle tesi di Lutero) mentre il medioevo copre un tempo estremamente più vasto, diciamo di almeno mille anni dal 400 al 1500. Per un riformatore era difficile cogliere l’insieme del medioevo, della sua luce spirituale. Lutero, Calvino, avevano vicino il recupero dei classici romani e greci da parte degli umanisti e uno specchio di una chiesa romana corrotta e secolarizzata come mai prima. Per cui la riforma è certamente giustificabile con il motto “Post tenebras lux” ma tenendo presente che al riformatore del 1500 il medioevo era quello del passato prossimo, un medioevo fatto di vendita di indulgenze, inquisizione e crociate contro gli eretici. Quello che noi a distanza di mezzo millennio da Ginevra dobbiamo tenere presente è come il medioevo sia l’epoca storicamente più vasta per quanto riguarda il cristianesimo; definire “tenebra” la maggior parte della nostra storia, del vissuto dei cristiani che ci hanno preceduto, la ritengo una grave semplificazione, per altro capace di toglierci ricchezza spirituale oltre che visione storica.

2. Se anche durante il Medioevo abbiamo avuto luci che si sono accese e hanno fatto brillare la Parola di Dio, potresti indicarcene alcune? Quali sono stati invece, secondo te, i momenti più bui?

Nel corso del millennio cristiano chiamato medioevo esiste una quantità in sostanza inesauribile di testi cristiani e di luci spirituali. Pensiamoci, oggi noi facciamo fatica a tenere a mente alcune delle luci dei risvegli italiani, ed in effetti, dobbiamo “solamente” coprire un paio di secoli. Proviamo a dilatare il ricordo per mille anni e per tutta l’Europa, si capisce che abbiamo un tesoro immenso. Per inciso ritengo sia una lacuna prima di tutto culturale da parte del mondo evangelico lasciare il medioevo come periodo completamente “cattolico”. Dovremmo “riscoprire” quest’epoca, tenendo a mente che prima che essere patrimonio di una denominazione è un lascito spirituale per tutti i cristiani. Detto questo ho già avuto modo di toccare alcuni personaggi di rilievo (Paolino di Aquileia VIII secolo, Colombano di Bobbio VII, i riformatori patarini dell’XI, i movimenti pauperistici del XIII, gli scritti originali di Francesco di Assisi che ho avuto modo di leggere personalmente, le regole monastiche, l’esicasmo greco dal XIV secolo, Alcuino di York). In tutta sincerità è difficile segnalare una singola luce. Abbiamo un fiorire di piccole lanterne in tutto un mondo che essi stessi definiscono come patrimonio del Populus Christianus. In questo modo si percepiva il mondo, non vi erano né Italiani, né francesi, né tedeschi, semplicemente il popolo cristiano. Questo semplice fatto dovrebbe farci pensare, noi oggi, ora, mentre leggiamo davanti ad uno schermo queste parole, come ci consideriamo? Forse come cristiani, forse come credenti: facciamo fatica ad apprezzare la ricchezza dello stilema “populus christianus”. La chiesa è composta dal popolo di Dio, questo fatto era presente in modo pervasivo in tutti i testi medievali.

I momenti bui sono per assurdo più facilmente individuabili. La donazione di Costantino (che sto studiando da oltre diciassette anni), lo scisma del 1054 con la chiesa d’oriente (causato anche dal falso di cui sopra) al terribile “dictatus papae” di Gregorio VII (XI secolo, che ha al suo interno parti desunte dalla donazione di cui sopra) a Innocenzo III, la crociata contro gli albigesi e la conquista di Costantinopoli nel 1204 (di nuovo giustificata con il falso). Con Bonifacio VIII e le indulgenze si arriva ad un’altra pagina buia. Lo scisma di Avignone ha tra i suoi frutti la stagione del conciliarismo (sarebbe da studiare e apprezzare anche questa come cristiani del XXI nel pieno dell’ecumenismo). Si arriva poi al rinascimento con i papi che tutti conoscono. I Borgia, Leone X. Mi sia concesso affermare che nel mondo evangelico si considera Costantino (IV secolo) come una cesura netta: dalla chiesa dei Padri alla chiesa romana come la videro i riformatori. Ma poniamoci la domanda: quanta della chiesa romana di Leone X è frutto di un falso attribuito a Costantino? Per altro composto nell’VIII secolo. Quante voci durante il medioevo si sono levate contro il culto dei santi? Quante contro l’adorazione delle immagini? Quante contro le reliquie? Il culto a Maria era diffuso? Le risposte del medioevo potrebbero essere un’assoluta sorpresa, considerando anche che le luci spirituali sono tantissime e tutte da riscoprire e ristudiare. Di nuovo mi si permetta di puntualizzare come la storiografia riformata si sia scagliata contro l’approssimazione delle vite dei santi e i falsi che pullulano nel mondo medievale, tralasciando (con la lodevole eccezione della mistica tedesca) la spiritualità medievale.

 

3. Come dobbiamo affrontare, in quanto cristiani evangelici, lo studio e la comprensione di tutte le manifestazioni della spiritualità medievale?

A questa domanda rispondo con l’umiltà di un piccolo cristiano dell’XXI secolo. Le voci dal passato di questi nostri fratelli in fede, perduti e celati dietro una barriera di pregiudizio, sono – una volta liberate e tradotte (si tenga a mente che i testi e le testimonianze sono in pratica nella loro totalità in latino) – una ricchezza e una consolazione da tenere in grande conto. Secondariamente, ma è una questione metodologica pregiudiziale, si affronti lo studio e l’analisi dei testi pensando agli scrittori medievali come prima di tutto cristiani, capaci anche di una critica al potere papale che io sinceramente vedo raramente così ancorata alla scrittura negli scrittori contemporanei. Questo fatto deve camminare insieme alla consapevolezza che la storia cristiana del medioevo, un patrimonio di spiritualità nelle forme più varie e mutevoli, non è di appannaggio esclusivo ad alcuna denominazione cristiana, nemmeno alla chiesa romana cattolica. Come cristiani abbiamo il dovere di sentirci in comunione diretta (quindi senza questa dolorosa, autoimposta e non necessaria cesura di un millennio) con i padri della chiesa. La chiesa è molto più grande di una singola denominazione, la parola di Dio ha portato frutti in ogni periodo. Come possiamo pensare che un intero millennio di testimonianza cristiana sia esclusivamente una proprietà della tradizione cattolica? Del resto ricordiamo 1 Re 19: 18 “ma io lascerò in Israele un residuo di settemila uomini, tutti quelli il cui ginocchio non s’è piegato davanti a Baal, e la cui bocca non l’ha baciato”.

 

Francesco Raspanti si laureato a Bologna nel 2003 con una tesi sul pensiero politico medievale, e si è addottorato in Storia presso il Dipartimento di paleografia e medievistica nel 2007.

Ha collaborato con la cattedra di Storia del pensiero politico medievale della medesima università e ha fatto parte della redazione della Rivista Pensiero politico medievale. Ha al suo attivo diversi scritti scientifici e un volume dedicato alla storia politica del medioevo (Le piattaforme del potere, 2014); svolge ricerche sulla famosa donazione di Costantino. È membro di una chiesa evangelica (Assemblea dei Fratelli) di Bologna.

 

 

 

Che cosa celebriamo quando celebriamo la Riforma?

L’autore della Lettera agli Ebrei invitava i lettori a ricordare i loro conduttori in quanto questi, «vi hanno annunciato la parola di Dio; e considerando quale sia stata la fine della loro vita, imitate la loro fede» (Eb 13:7). Sebbene nella Bibbia abbondino gli inviti a considerare il passato, a custodire la memoria (dagli appelli popolo d’Israele, all’istituzione della Cena del Signore), mi pare che questo ammonimento sia molto vicino alle nostre sensibilità (non c’è il rischio dell’orgoglio etnico né quello di decidere quale sia lo status della Cena).

Il brano chiede allora tre cose:

  • Ricordare;
  • Considerare la fine dei conduttori;
  • Imitarne la fede

 

 

Appare evidente che due dei tre elementi hanno un sapore chiaramente “storico” mentre il terzo si presta a considerazioni di altro ordine (spirituale?).

Pensando ai due elementi storici, la riflessione da fare nella ricorrenza della Riforma è se questa sia stata presa e considerata come un evento realmente storico (non ci sarà un’altra porta di una cattedrale di Wittenberg con un elenco di tesi affisse); il rischio infatti è che si possa alludere a essa come a una sorta di età dell’oro considerata sub specie aeternitatis.

Giorgio Spini metteva in guardia sulla retta considerazione dei fenomeni storici:

«non si è storici se non si ha coscienza chiara che il passato è il passato e non l’avvenire, e che se si smarrisce questa coscienza si possono fare cento altri mestieri belli o brutti, da quello ammirabile dell’apostolo a quello assai meno ammirabile del padre inquisitore, ma non si farà giammai il mestiere dello storico» (Storia dell’età moderna, p. 22)

In sostanza facciamo giustizia alla Riforma allorquando la presentiamo in tutta la sua crudezza storica, senza nascondere niente: pluralità e dunque lotte intestine; conflitti teologici (dai sacramenti alla predestinazione) fino alle rivendicazioni contadine, etc..

 

Tenendo conto di questi due rilievi apostolici dal sapore storico viene da pensare all’enfatizzazione, ricorrente nei dibattiti e nelle conferenze, delle conseguenze positive della Riforma, conseguenze da registrare sul piano sociale, culturale, etc.. Benissimo! Personalmente penso che il piano su cui la Riforma abbia inciso più degli altri sia quello educativo. Si tratta, se vogliamo, di una lettura apologetica della Riforma. Una lettura che sembra sorgere da un bisogno quasi ossessivo di giustificare la Riforma oppure di renderla appetibile per via delle conseguenze. Ma dobbiamo ammettere che su questa strada, con operazioni di storia del pensiero abbastanza complesse, corriamo il rischio di imbatterci in operazioni di segno contrario, altrettanto valide, nelle quali ci vengono ricordate alcune conseguenze negative della Riforma.

In questa lettura apologetica non si corre dunque il rischio di mettere in ombra le riscoperte teologiche dei Riformatori dal momento che queste vengono inserite nel frullatore delle rivendicazioni o delle contestazioni confessionali?

 

Restando sul piano dei due elementi dell’ammonimento apostolico va segnalato anche lo strano fenomeno della Riforma ricordata e rappresentata al cospetto di interlocutori cattolici, quando non anche di appartenenti a Chiese protestanti storiche. Che significato ha questa operazione?

A parte il pio ma discutibile pensiero di usare questa ricorrenza per evangelizzare … essa pare manifestare l’attesa che la Chiesa di Roma si decida ad accogliere la Riforma. Ma qui si erge un grosso problema: prima di tutto, a che cosa richiamiamo i nostri interlocutori cattolici? Essendo e definendoci evangelici ciò a cui dovremmo richiamarli, sia loro sia noi stessi, sarebbe il vangelo e non una stagione della storia del cristianesimo. In secondo luogo viene da interrogarsi sulle modalità di lettura della Riforma che adoperiamo. Nella sua recente biografia su Lutero, Adriano Prosperi ha focalizzato l’attenzione sugli anni di fuoco dell’esperienza del Riformatore, quelli che vanno dal 1517 al 1520, gli anni della fede e della libertà, come li ha definiti (Mondadori, 2017); alla fine di questo periodo c’è la scomunica e la rottura, e dunque la necessità concreta di pensare a come interagire con una parte del corpo cristiano che rifiutava l’appello a riformarsi. Ma in tutti i modi, come hanno ricordato in molti, Lutero in quegli anni ambiva a riformare quella che riteneva essere la sua chiesa!

Cercando di cogliere la lezione da questa focalizzazione sembra che il primo impulso della Riforma si rivolgesse verso il contesto all’interno del quale era inserita l’esperienza di fede di chi lo aveva sperimentato. Se prendessimo in carico totalmente la movenza degli anni della fede e della libertà di Lutero, avremmo che ognuno di noi dovrebbe pensare alla Riforma avendo nella testa e sullo sfondo la condizione della propria chiesa di appartenenza, quale che sia. Di fatto tutto l’evangelismo dovrebbe avere questa coscienza. Se poi dovessimo pensare a cosa, della Riforma, dovremmo auspicare per le nostre chiese e per tutto l’evangelismo può essere utile considerare la sintetica presentazione di Paolo Ricca: in una conferenza tenuta a un convegno a Torino nel 2008 (La Riforma come fenomeno europeo, Claudiana, 2011) ha sostenuto infatti che l’aspirazione di Lutero era quella di riporre la sua chiesa (nel senso di chiesa a cui apparteneva) sul fondamento che le era proprio, quello di Gesù Cristo, attestato nella Scrittura e per mezzo del quale era imputata al peccatore la giustizia. Desideriamo una chiesa e delle chiese poste sull’unico fondamento che è Gesù Cristo? Il confessionalismo e gli esperimenti confessionali successivi alla Riforma ci hanno insegnato, come ha ben spiegato Alister McGrath nel suo La Riforma e le sue idee sovversive (Edizioni GBU 2017), la necessità che ogni cristiano definisse la sua identità sulla base di una confessione di fede, di un documento che lo collocasse in uno dei partiti usciti dalle epoche delle ortodossie che hanno la Riforma solo a uno dei suoi estremi!

Facciamo dunque un errore di prospettiva quando pensiamo alla Riforma avendo ancora sullo sfondo la condizione della Chiesa di Roma, e non le nostre proprie chiese.

Alcuni teologi evangelici del nordamerica, forse pensando a cosa la Riforma possa dire a tutto l’evangelismo, in questa correzione della prospettiva, hanno posto l’attenzione sul tema della cattolicità di tutto ciò che è venuto fuori dalla Riforma (A Reforming Catholic Confession). È vero, i protestanti e gli evangelici sono più cattolici dei cattolici “romani”. E tuttavia, l’operazione di porre la Riforma avendo sullo sfondo la propria condizione e non quella altrui li ha portati a fare un’amara considerazione:

«Dobbiamo riconoscere che i Protestanti non hanno gestito le differenze dottrinali e di interpretazione in uno spirito di carità e di umiltà, ma nel fare una comune confessione sfidiamo l’idea che ogni differenza o distinzione denominazionale porti necessariamente alla divisione» (Explanation, n. 10; https://reformingcatholicconfession.com/)

Quando poniamo mente a tutto ciò abbiamo ancora voglia di andare a celebrare la Riforma al cospetto dei nostri amici cattolici, avendo forse il retropensiero che è la Chiesa di Roma a doversi riformare? Sicuramente la testimonianza di Lutero, e per suo mezzo il richiamo del vangelo, restano per Roma ancora oggi un appello con cui essi devono confrontarsi; grazie a Dio non più a suon di spade! Ma nel segno della fede e della libertà forse sarebbe meglio per noi iniziare a mettere mano a una riforma di noi stessi, delle nostre prassi segnate dalla ricerca del potere, della visibilità mediatica e di tanti altri idoli che affiorano via via nel nostro vissuto di fede evangelico.

Conclusione: non ci resta che la terza ingiunzione di Ebrei, imitate la fede! Su questo elemento, a differenza dei due storici, possiamo liberamente effondere tutte le nostre energie nella celebrazione. Imitare la fede di qualcuno non è un’operazione di “copia e incolla”, non è uno scimmiottamento di questo e quel riformatore, ma piuttosto un’impresa ermeneutica nella quale la fede da imitare viene ripulita da tutto ciò che è storicamente e culturalmente superato. Si tratta di un’operazione possibile, che i Riformatori stessi, e in particolare Lutero, ci hanno indicato proprio nel crogiuolo degli anni della fede e della libertà: è possibile prendere in carico il passato nella misura in cui ci si ancora saldamente all’insegnamento della sola Scrittura per rispondere alle sfide che man mano ci troviamo davanti.

 

Giacomo Carlo Di Gaetano è Dottore di Ricerca in Filosofia della religione (Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara), e Direttore editoriale di Edizioni GBU, nonché coordinatore del DiRS.

 

 

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Tre domande a Valerio Bernardi sulle tradizioni popolari

  1. Le tradizioni popolari fanno parte di quel grande campo di studi che è l’antropologia culturale; che cosa offrono quanto a ricostruzione delle peculiarità dell’essere umano gli studi sui riti e le credenze che rappresentano la sostanza delle tradizioni popolari?

Va subito precisata una cosa. La demologia (così si chiama lo studio delle tradizioni popolari) in Italia ha preceduto lo studio dell’antropologia culturale che è arrivato nel nostro Paese a pieno titolo solamente nella seconda metà del Novecento. Cosa offre oggi la demologia? La possibilità di studiare le usanze, i costumi di quelle che erano chiamate le classi subordinate all’interno della propria società (A.M. Cirese parlava di dislivelli interni di cultura), del cosiddetto popolo che adotta proprie usanze e riti diversi da quelli che appartengono alla cultura ufficiale. Appare chiaro che tale studio ha attraversato diverse fasi e periodi. Nel nostro Paese, gli studi demologici, almeno sino agli anni Novanta del secolo scorso (ma anche oltre) hanno studiato soprattutto le “tradizioni” delle popolazioni contadine, scarsamente alfabetizzate sino agli anni Cinquanta e con una serie di riti e credenze che potevano risalire anche a tempi molto antichi ma che erano state rielaborate sicuramente a partire dalla fine del Cinquecento, sotto il rigoroso controllo della Chiesa Cattolica.

Oggi la demoantropologia si occupa della cultura popolare all’interno delle nostre società complesse e può anche studiare, dal punto di vista qualitativo, fenomeni che hanno a che fare con il popolare odierno. Lo spettro delle inchieste è pertanto più ampio e ci si occupa anche di argomenti come i social, il consumo, le abitudini alimentari non solo delle classi subalterne, ma della società in generale, leggendole come i nuovi riti sociali. Sicuramente la demologia della società contemporanea è profondamente diversa nell’oggetto dello studio da quella precedente. Il lascito della storia delle tradizioni popolari in Italia rimane, però, lo studio della cultura delle classi contadine disagiate, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia.

 

  1. In Italia le tradizioni popolari sono nella stragrande maggioranza dei casi legate al cattolicesimo; molte di esse hanno addirittura una radice controriformistica. Come spieghi questo nesso tra tradizioni popolari e religione cristiana?

Il cristianesimo è stato per molto tempo un fenomeno cittadino che, almeno in zone come l’Italia, non aveva coinvolto in maniera diretta e sentita le masse popolari, rappresentate dai contadini che abitavano nelle campagne. Non è un caso che il termine pagano, derivi proprio da pagus, il contado. Per diverso tempo il Cattolicesimo dei contadini in Italia (ma anche in buona parte in Europa) era legato a credenze che provenivano da culti di tipo naturale ed animistico che erano diffusi sin da tempi remoti.

Dopo il XVI secolo la Chiesa Cattolica, che doveva per la prima volta in Europa Occidentale fronteggiare un reale nemico, il Protestantesimo, cercò di “conquistare” al cattolicesimo queste masse. L’operazione effettuata fu quella, dopo il Concilio di Trento, di legare al culto dei Santi e in particolare di Maria la devozione e la credenza delle classi subordinate. Se si legge un’opera come l’Altra Europa dello storico Galasso, si scoprirà che il culto di Maria si diffonderà moltissimo nell’Italia Meridionale dopo la metà del XVI secolo.

Tutto ciò fu fatto attraverso la spettacolarizzazione di processioni, la rivalutazione di forme di pellegrinaggio anche locale verso santuari dove si supponeva fossero avvenute visioni di santi, la rassicurazione della popolazione che viveva una vita incerta ed insicura attraverso l’affidarsi a riti e personaggi questa volta controllati dalla Chiesa. Anche le pratiche di bassa magia o i culti animistici furono messi sotto controllo e calendarizzati secondo l’anno liturgico.

La connessione tra cristianesimo (cattolico) ed usanze deriva da un tentativo di contestualizzazione nell’ambito culturale. Si cercava di adattarsi alla cultura delle popolazioni che non avevano accesso ai dibattiti teologici e che non era in grado di seguirli nella stessa maniera del ceto borghese che via via si autonomizzava dalla Chiesa. L’operazione controriformistica fu sicuramente un successo. Ovviamente da un punto di vista evangelico non si può non dire che tutto questo andava a spese di un autentico cristianesimo evangelico che veniva offuscato da diffusi atteggiamenti paganeggianti che erano assecondati senza una reale opera di evangelizzazione. Contemporaneamente bisogna anche ammettere, però, che l’operazione portata avanti dal cattolicesimo controriformistico rispondeva ad esigenze reali di alcuni territori e di alcuni ceti sociali.

 

  1. Oggi per ragioni di ordine sociale, ma anche turistico e ambientali, si tende a far rivivere, dai piccoli comuni alle grandi città, il clima e gli scenari delle tradizioni popolari ritenendole come un deposito di valori positivi. Quale deve essere l’approccio di un cristiano evangelico a questo mondo? E’ sufficiente la condanna degli elementi idolatrici presenti nelle tradizioni popolari? Possono le tradizioni popolari rappresentare un campo in cui tentare di entrare in dialogo con i sentimenti e i bisogni religiosi, e umani che le animano?

Negli ultimi anni, soprattutto all’interno della rivisitazione di itinerari turistici alternativi diverse di queste tradizioni hanno avuto, dopo un periodo di crisi dovuta all’avanzare della secolarizzazione in ogni parte d’Europa, un recupero ed una ripresa.. La rivalutazione è dovuta più che a motivazioni di tipo religioso a quelle tipo economico. Il folklore porta sempre “colore” e cattura pubblico disposto a passare una giornata per vedere una manifestazione che può destare curiosità. Proprio per questo motivo il ritorno alla tradizioni popolari è visto come una risorsa e come un guardare al passato valorizzando la memoria delle comunità locali. Cosa dire da evangelico? Sicuramente rimane la perplessità della confusione tra l’annuncio del Vangelo e pratiche di tipo pagano che rimane; da studioso, invece, la perplessità deriva dalla ripresa con approcci ancor più consumistici di pratiche che il territorio aveva abbandonato. Oggi lo studioso di antropologia è consapevole che non esiste l’episodio “autentico” e che andrebbero accettati anche i cambiamenti, ma, allo stesso tempo, guarda con una certa criticità alla ripresa di usanze ormai desuete che rischiano anche di dare un’immagine sin troppo localistica del mondo.

Allo stesso tempo non penso che le “tradizioni popolari” appartengano ad un campo che sia assolutamente da evitare. Le manifestazioni culturali vanno comprese e vi sono anche delle occasioni in cui la spiegazione di alcuni fenomeni può aiutarci a comprendere come entrare nel contesto specifico della società in cui bene o male viviamo.

Qualche decennio fa Ernesto De Martino, il più noto etnologo italiano, spiegava alcuni di questi fenomeni (tarantismo, pianto rituale, pratiche di bassa magia) con la categoria della “crisi della presenza”, mutuata dalla psicologia fenomenologica. La crisi della presenza avviene nel soggetto umano quando, di fronte ad un mondo in cui la vita è incerta, o vi sono manifestazioni di disagio (il soggetto in preda a convulsione dovuta al morso della “taranta”) o ci si affida a dei taumaturghi esterni che ognuno cerca di propiziarci. Sono convinto che la crisi della presenza sia un’immagine interessante di quello che avviene in certi fenomeni connessi alle tradizioni popolari.

Io penso che gli evangelici, pur condannando alcune delle tradizioni popolari (non bisogna fare di tutt’erba un fascio, non trovo nulla di male nei vari palii o sagre o nei canti popolari non a sfondo religioso) debbano anche comprendere quanto spazio di manovra di annuncio del Vangelo ci sia nel bisogno espresso dalle masse popolari nell’esigenza di ricercare un rifugio dalle asperità della vita. Pertanto uno studio adeguato delle tradizioni popolari potrebbe portare anche alla ricerca di una maniera originale di annunciare il Vangelo. Il discorso di Paolo in Atti 17 rimane attuale anche in questo campo di studi.

Valerio Bernardi è docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Quinto Orazio Flacco di Bari e presso l’UNiversità degli Studi della Basilicata. E’ membro del Comitato Editoriale di Edizioni GBU e del DiRS-GBU

Ma il vangelo non è solo una transazione

Dal cuore al tutto del vangelo: non solo morire per il peccato

 

Per il movimento iniziato da Gesù poche cose sono preziose come il vangelo. La parola vangelo significa «buona notizia». È il sermone del movimento di Gesù. Il suo messaggio centrale è la buona notizia dell’amore e dell’iniziativa di Dio non solo per salvarci dall’inferno ma anche per farci entrare in una cor­retta relazione con lui. La tesi di questo libro è che il vangelo è una buona notizia e ha al centro una ritrovata relazione con Dio. È da quando sono diventato cristiano in collegio, all’u­niversità del Texas, che presento questo messaggio. È stato al centro del mio primo impegno ministeriale quale responsabi­le di Young Life presso la Scuola superiore di Austin. È al cen­tro della missione della chiesa nel mondo. Se chiediamo che messaggio ha portato Gesù, la risposta breve è semplicemen­te questa: ha portato la buona notizia dell’arrivo dell’atteso governo di liberazione di Dio. Sperimentare il regno predica­to da Gesù equivale a sperimentare la presenza di Dio. Gesù è morto perché la sua opera potesse spianare la strada a una nuova azione della grazia di Dio (Tt 2:11–14)1. Davvero una buona notizia!

Quando però ascolto alcuni che oggi predicano il vangelo, non sono sicuro di ascoltare una buona notizia. A volte ascol­to un invito terapeutico (Dio ci farà sentire o stare meglio). Altre volte sento parlare così tanto del prezzo per il peccato pagato da Gesù, che il vangelo sembra limitato a una transa­zione commerciale, all’eliminazione di un debito. O magari ne sento parlare come di una sorta di cura canalare spirituale. Altre volte ancora la presentazione che ascolto dà l’impressio­ne che il vangelo riguardi il modo per scampare a qualche cosa proveniente da Dio e non qualche cosa da vivere con lui. Altre presentazioni mi danno l’idea di un Gesù venuto a cambia­re la politica di questo mondo. Presentazioni politiche di que­sto tipo m’inducono a chiedermi perché Dio non abbia man­dato Gesù a Roma piuttosto che a Gerusalemme. Nessuno di questi è il vangelo che vedo nella Scrittura, anche se alcuni vi si avvicinano più di altri.

Questo libro è scritto nella convinzione che la chiesa abbia perso chiarezza sull’obiettivo del vangelo. Sono qui a proporre una teologia biblica del vangelo, un’operazione che non penso sia stata fatta, con queste modalità. Ripercorrerò i temi chia­ve che si accompagnano alla narrazione evangelica, nell’inten­to di presentare i testi chiave e di esaminarli per rispondere alla domanda: che cosa dice la Bibbia sul vangelo? L’obiettivo è quello di riscoprire il vangelo come buona notizia, un punto che la chiesa di oggi rischia di perdere di vista.

Se la chiesa è nebulosa sul vangelo allora corre il rischio se­rissimo di perdere la sua ragion d’essere. Un messaggio evan­gelico fuorviante priva la chiesa del suo prezioso impatto sul mondo. Nulla porta più velocemente al suo collasso un’istitu­zione del dimenticare la ragione per cui esiste. Una chiesa che porta un’infinità di messaggi rischia di tradursi in una chiesa che non ha nessun messaggio da portare. In buona sostanza in molti ambienti il vangelo è andato perduto e ovunque questo avvenga la chiesa soffre, il popolo di Dio ne rimane disorien­tato e al mondo viene a mancare ciò di cui ha così disperata­mente bisogno: fare esperienza della presenza di Dio. Peggio ancora, quanti vengono in chiesa perdono di vista la vera ra­gione per cui sono lì e cos’è che dovrebbero fare per Dio. Ave­re un vangelo poco chiaro equivale al cercare di dirigersi ver­so qualche meta sconosciuta senza avere una mappa; ci sono buone possibilità che non arriviate dove si suppone che stia­te andando.

Mi riprometto di osservare da vicino il vangelo così come lo presenta il Nuovo Testamento. Ne ricercheremo i tratti es­senziali, delineando, lungo il percorso, le caratteristiche chiave che gli sono proprie. Presteremo anche attenzione al tono che accompagna il messaggio e ci chiederemo se il modo con cui presentiamo il vangelo è importante come quello che diciamo a suo riguardo. Fra gli obiettivi di questo libro c’è anche quello di riscoprire, riaffermare un messaggio che ha tanto da offrire ai singoli individui e a un mondo bisognoso. Una chiesa con­sapevole di che cosa è la buona novella che presenta e di qua­le sia il modo adeguato di presentarla, ha l’opportunità di esse­re essa stessa una buona notizia per un mondo spiritualmente bisognoso che spesso cerca Dio a tastoni ma fatica a trovarlo.

 

La croce: il punto di partenza, non l’intero messaggio

Premessa fondamentale del nostro studio è che, pur essendo la croce il centro del vangelo, la morte di Gesù per il peccato non è il vangelo nella sua interezza. Di fatto limitarsi a parla­re della morte di Gesù per il peccato o perfino a parlare del­la morte di Gesù per il peccato e della sua risurrezione, signi­fica presentare solo la metà, circa, del messaggio del vange­lo. Noi predichiamo la croce perché è al centro del vangelo e rende estremamente semplice parlarne e presentarlo. Così fa­cendo facciamo eco a Paolo che nell’Epistola ai Corinzi ricor­se all’immagine della croce per riassumere e descrivere la sua prospettiva del messaggio del vangelo.

In 1 Corinzi 1:23 Paolo sostiene di predicare «Cristo cro­cifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia». Per alcuni questo testo e molti altri simili che si trovano ne­gli scritti paolini mostrano che la croce è il vangelo. Per esem­pio in 1 Corinzi 15:3–5, Paolo riassume il vangelo nel fat­to che Cristo «morì per i nostri peccati, secondo le Scrittu­re; che fu seppellito; che è stato risuscitato il terzo giorno, se­condo le Scritture; che apparve a Cefa». Di nuovo: la croce è al centro del messaggio del vangelo. Come possiamo ipotiz­zare che la croce non sia tutto quello che c’è da dire sul van­gelo, dal momento che Paolo se ne serve evidentemente qua­le suo compendio?

Quando in questa prima parte della prima Epistola ai Co­rinzi Paolo si riferisce alla croce, il termine croce fa da elemen­to centrale e da sineddoche per tutto quello che l’opera di Gesù comporta. Una sineddoche è una parte che rappresenta il tutto. Si menziona un singolo elemento centrale per descri­verne la totalità. Se, per esempio, parlo della legge e dei pro­feti, sto parlando dell’Antico Testamento nella sua totalità. Se parlo di cinquanta capi di bestiame sto parlando di cinquan­ta mucche complete di capi, zoccoli, corpi e talloni, non solo di cinquanta teste. Allo stesso modo quando qui Paolo parla della croce sta usando questa parola come una sineddoche per indicare la totalità del vangelo. La morte di Gesù, però, non è la totalità del vangelo più di quanto la testa di una mucca non ne costituisca la totalità. Certo è di vitale importanza. Il van­gelo non potrebbe esistere senza la croce più di quanto una mucca potrebbe vivere senza testa. Rimane comunque il fat­to che gli eventi del primo fine settimana di Pasqua non sono tutta la storia.

1 Corinzi 1:30 è molto eloquente quando spiega che esse­re in Gesù Cristo (l’effetto che si produce quando si beneficia del vangelo) fa tutt’uno con l’accesso alla sapienza, alla giusti­zia alla santificazione e alla redenzione di Dio2. In 2:2 cono­scere Gesù, colui che è stato crocifisso, vuol dire conoscerlo a tutti questi livelli.

Perché questo distinguo è così importante? Questo è per l’appunto il tema di questo libro. La maggior parte delle pre­sentazioni del vangelo da me ascoltate si concentrano spes­so esclusivamente sulla croce. Il vangelo è prospettato princi­palmente, se non esclusivamente, come una transazione com­merciale da sperimentarsi in un preciso momento di tempo. Credere, o esercitare fede, significa avviare quella transazio­ne e realizzare il vangelo. Ora a rendere complesse le cose è il fatto che c’è una transazione; fa parte del vangelo e ci permet­te di sperimentare la buona notizia di Dio; su questo vange­lo, però, come si evince dai testi paolini relativi alla croce, c’è da dire di più.

Il pericolo, nel considerare o nel predicare il vangelo solo come una transazione, è che una volta fatto l’“accordo”, il cre­dente possa sentirsi come se avesse controllato e avesse fatto i compiti: il vangelo ha garantito la salvezza e scongiurato l’in­ferno. Come però spero di dimostrare nei capitoli che seguo­no, questo costituisce in realtà solo il punto di partenza della buona notizia di Dio.

C’è modo allora di proclamare nella morte di Gesù per il peccato un elemento chiave del vangelo, senza però perdere la prospettiva globale di tutto ciò che il vangelo è? È mia speran­za che possiamo recuperare, soffermandoci sulle componen­ti di ciò che è associato al vangelo, quello che spesso si perde come buona notizia, non soltanto nella predicazione del van­gelo ma anche nella risposta che ne scaturisce. Punto di par­tenza del vangelo è una promessa: una relazione nello Spirito. È raffigurato come un pasto e un lavaggio: la tavola del Signo­re e il battesimo. Affonda le sue radici in un atto unico che ri­sponde a un bisogno unico: la croce. È inaugurato come un dono che è il segno dell’arrivo della nuova era: la Pentecoste. È affermato nell’agire divino e nella Scrittura: Dio che opera in modo unico e indiviso per mezzo di Gesù. È abbracciato in una conversione che sfocia nella fede: l’invocazione del nome di Gesù. Comporta un diverso tipo di potenza ed è pensato per tradursi in un modo di vivere: la riconciliazione e la po­tenza di Dio per la salvezza. La mia preghiera è che riflettere su questi temi possa dare adito a una rinnovata comprensio­ne di come funziona il vangelo del regno, promuovendo quel tipo di fede e di cammino che Dio desidera da quanti sono suoi. Nel momento in cui apprezziamo tutto quello che Dio ha fatto per noi nel vangelo, ci troviamo nella posizione ide­ale per amare e servire Dio e il suo vangelo con maggiore fe­deltà. Partiamo dunque dalla promessa che si pone all’inizio della nostra indagine, vale a dire, dal modo con cui Giovanni Battista ci ha preparato il terreno quando ha presentato Gesù e le ragioni per cui è venuto.

 

Darrell L. Bock, Alla riscoperta del vero vangelo perduto, Edizioni GBU, 2017 (chiedi a info@edizionigbu.it)

Vedi le news a proposito della presenza di Darrell Bock al XII Convegno Nazionale del GBU

Tre domande a Giancarlo Rinaldi: la Riforma protestante e i Padri della chiesa

  1. Prof. Rinaldi, quest’anno ricorre il 500° anniversario della Riforma protestante; dal suo punto di vista di studioso del cristianesimo antico, ci può dire quale è stato il rapporto della Riforma, e dei Riformatori, con la patristica?

 

Per rendersi conto della presenza presso i riformatori dell’eredità della patristica basterebbe pensare alle radici agostiniane della riscoperta della grazia da parte di Lutero; si valutino pure le numerose citazioni di testi della letteratura cristiana antica nelle opere dei riformatori. Quante volte, nel corso della controversia con i cattolici, oltre a pagine della Bibbia veniva invocato l’argumentum patristicum cioè il parere esegetico di quegli antichi cristiani atto a dirimere la vertenza. Anche un riformatore di generazioni successive come John Wesley era innamorato della letteratura patristica nella quale ravvisava una rielaborazione rispettosa della tradizione neotestamentaria. Tutto ciò fino all’età di Costantino nel corso della quale, a motivo di un mutato rapporto tra le comunità e il potere, si avviò un processo di secolarizzazione che segnò, nella realtà dei fatti, un voltare alle spalle non solo all’insegnamento evangelico, ma anche a quello dei maestri cristiani dei primi tre secoli.

 

2. Ritiene che ci sia ancora spazio per la lezione che proviene dallo studio dei Padri della chiesa, nel mondo di oggi, sia per i cristiani, sia per chi cristiano non si professa?

Decisamente sì. Quanto ai cristiani che basano la propria fede sulle Scritture va ricordato che queste ci sono pervenute grazie all’opera di studio, trascrizione, conservazione di scrittori di età patristica. Senza questi anelli intermedi non avremmo tra le nostre mani la Bibbia così come oggi possiamo apprezzarla. Si pensi anche alla maniera d’intendere le Scritture. L’esegesi biblica è l’anima dell’antica letteratura cristiana. Il nostro modo d’intendere la Bibbia, letteralista allegorista tipologico che sia, deriva, con le opportune modificazioni, dal lavoro degli antichi. Possiamo dire che senza memoria del passato non avremmo piena consapevolezza del presente e neanche una chiara prospettiva per quanto riguarda il futuro.

Un pensiero sull’ecumenismo: direi che la forma più corretta di ecumenismo per un cristiano evangelico sia il ritorno alle radici ‘patristiche’, cioè lo studio e la valorizzazione dei testi degli antichi cristiani. Nella marcia in questa direzione può trovarsi il profumo dell’unità, piuttosto che in celebrazioni verticistiche e ingessate.

Anche per chi prescinde completamente da una scelta di fede lo studio del mondo degli antichi cristiani e della loro produzione letteraria è indispensabile affinché una Cultura possa pienamente definirsi tale. La storia romana non è altro, nella sua fase d’età imperiale, che la vicenda della conversione della cultura antica dalla paideia classica a quella cristiana. Ci piaccia o meno, è un dato di fatto che la storia dell’esegesi del libro di Daniele è alla basa della riflessione su fede e potere politico (poi diremo: su chiesa e impero) dall’età dei Maccabei (II sec. aC) fino all’alto medioevo.

Non è neanche il caso di parlare di arti figurative. Queste, per lunghissimo tratto, dall’età severiana al Rinascimento si nutrono di motivi tratti non solo dal Nuovo Testamento ma anche dalla letteratura agiografica e dalla memoria storiografica degli antichi cristiani. La teologia degli antichi cristiani è affidata al simbolismo dell’arte, tanto pittorica quanto nelle sculture del sarcofago antico.

Noi protestanti italiani abbiamo una congenita diffidenza nei riguardi della patristica che facciamo coincidere, sbagliando e di molto, con l’insegnamento tradizionale della Chiesa Cattolico Romana. Così, per reazione al cattolicesimo, ci manteniamo lontani dallo studio di quella meravigliosa primavera cristiana e dai suoi frutti succosi. Nei primi decenni dell’evangelizzazione dell’Italia dopo l’Unità vi furono numerosi convertiti dalle fila del cattolicesimo, ex sacerdoti o ex monaci, che avevano una profonda conoscenza della letteratura patristica e della storia del cristianesimo antico. La utilizzavano, con dovizia di citazioni testuali, proprio per dimostrare la fondatezza della loro esperienza e delle loro scelte esegetiche. Tutto ciò poi gradualmente si perse e, tranne rarissime eccezioni, si sviluppò la persuasione del tutto errata di potersi collegare direttamente alla Bibbia ignorando quei secoli che da questa ci separano: la luciferina tentazione dell’uomo di chiamarsi fuori dalla propria storia e di credersi un assoluto giudicante. Oggi in Italia nella formazione del corpo pastorale (tanto in chiese ‘storiche’ quanto ‘evangeliche’), la riflessione sui secoli che si frappongono tra la stesura del Nuovo Testamento e la Riforma è assente oppure affidata alla buona volontà di chi vuol provvedervi da solo. Eppure la nostra esegesi moderna non nasce dal niente ma, naturalmente, s’innesta in quella del passato, anche quando non ne siamo consapevoli; e lo stesso dicasi delle grandi questioni teologiche.

Altra osservazione: spesso nelle comunità crediamo di dover affrontare problemi peculiari solo dei nostri giorni. Sbagliato! La quasi totalità delle controversie, dei problemi, delle situazioni che dobbiamo affrontare sono solo la riproposizione di situazioni e dottrine antiche. Una conoscenza della storia del cristianesimo dei primi secoli ci aiuterebbe a inquadrare più serenamente questi elementi di turbamento e di far tesoro della lezione offertaci dagli antichi che dovettero porre rimedi.

 

  1. Come riassumerebbe, da storico e da credente, la stagione della patristica?

Bisognerebbe distinguere stagioni diverse nella produzione letteraria degli antichi cristiani. In ogni caso la ‘patristica’ (che comunque è vocabolo che ha un sapore piuttosto confessionale) viene solitamente a comprendere tutto quanto scritto nei primi otto secoli.

Noi oggi preferiamo parlare di letteratura cristiana antica piuttosto che di patristica poiché quest’ultimo termine sembra implicare una scelta di tipo confessionale che ha distinto alcuni testi in autorevoli in quanto ortodossi e altri deprecabili in quanto eretici. Ora nella storia delle chiese antiche il processo di separazione dell’eresia dall’ortodossia fu il frutto di una riflessione lunga, elaborata e sofferta. Si pensi a importantissimi autori che non sono entrato nel novero di quelli che noi potremmo definire “padri” della chiesa. Autori di altissimo profilo come Origene, tra i greci, e Tertulliano, tra i latini.

Sarebbe possibile anche introdurre una distinzione diacronica, cioè attenta allo sviluppo attraverso gli anni tanto del pensiero cristiano quanto della vita concreta delle comunità. Così scopriamo che la letteratura cristiana precostantiniana (i primi tre secoli) ha un suo carattere, prevalentemente apologetico e di chiarificazione di alcuni temi dottrinali, mentre quella postcostantiniana è prevalentemente interessata alla riflessione sui grandi temi teologici dibattuti ai concili (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia, etc.). Molto diverso, inoltre, è l’atteggiamento verso il potere: lealista ma eroico nella prima età, cortigiano e intollerante nella seconda. Nella letteratura cristiana antica della chiesa secolarizzata postcostantiniana è l’esperienza monastica che richiama alla purezza dei costumi e orienta verso la perfezione cristiana.

Farei osservare che nella letteratura cristiana dei primi secoli non troviamo manuali di teologia sistematica bensì un’infinità di testi di esegesi biblica, come commentari continuativi, omelie, domande e risposte, e così via. Proprio così: per gli antichi cristiani la teologia coincideva con l’esegesi biblica! E questo è un primo grande insegnamento che dovremmo fare proprio.

Mi consentirete un ricordo personale. Nei primi tempi dopo la mia conversione alla fede cristiana evangelica, quando mi trovavo ad affrontare questioni esegetiche che il solo ricorso alla Scrittura non sembrava dirimere adeguatamente, ricorrevo spesso alla consultazione dei testi patristici e, con mia meraviglia, rilevavo come le posizioni di quegli antichi cristiani convalidassero non gli insegnamenti della Chiesa di Roma bensì quelli che avevo fatto propri a sèguito della mia conversione.

 

Giancarlo Rinaldi ha insegnato Storia del Cristianesimo presso l’Università degli Studi di Napoli
L’Orientale. Si è interessato in particolare al rapporto tra cristianesimo e paganesimo con particolare
attenzione alla percezione del secondo nei confronti della diffusione della fede cristiana.

Giancarlo Rinaldi su FBBlog personale

 

Tre domande a Massimo Rubboli: Riforma protestante e Riforma radicale

1. Il 500° anniversario della Riforma protestante sta per essere archiviato. Se tu dovessi fare un bilancio di tutto ciò che hai visto o di cui hai sentito parlare, cosa penseresti del modo in cui la Riforma è stata ricordata, soprattutto in Italia?

Ora che il tempo delle celebrazioni si avvicina alla fine, penso che sia lecito avventurarsi in un primo tentativo di bilancio, al quale necessariamente dovrà seguire una riflessione più approfondita su questa stagione nella quale alla rievocazione celebrativa si sono affiancatati anche seri tentativi di revisione storica dei vari aspetti della Riforma, come quello – oggetto di un lungo ma sempre vivo dibattito storiografico – sul contributo di Lutero e del luteranesimo successivo alla formazione dello Stato moderno.

Il compito di ricordare al mondo quali fossero il significato e l’eredità della Riforma era stato assunto con largo anticipo dalla Federazione mondiale luterana tramite il Comitato nazionale della Chiesa luterana tedesca o EKD (Evangelische Kirche in Deutschland) che, avvalendosi di cospicue risorse messe a disposizione dal Ministero per la cultura del governo federale (Bundesregierung für Kultur und Medien) e da alcuni Länder, ha finanziato numerosi progetti culturali e il restauro di siti importanti al tempo della Riforma, in particolare a Wittenberg e a Eisenach.

La potente macchina organizzativa ha dato impulso anche a operazioni commerciali secondo le più moderne tecniche di marketing e merchandising. Queste tecniche esigono che tutto ruoti intorno ad un elemento centrale che, in questo caso, non poteva essere che l’ex monaco agostiniano. Si è così assistito ad un proliferare di prodotti enogastronomici e gadgets di ogni tipo (peluche, cioccolatini, giochi, t-shirts, ecc.), tra i quali ha riscosso enorme successo il “Luther Playmobil”, un pupazzetto alto sette centimetri che rappresenta il riformatore con una Bibbia aperta in mano, come nell’austero monumento (una statua di bronzo alta 3 metri e mezzo su una base di granito) collocato a fianco della Marienkirche di Berlino nel 1983, in occasione del V centenario della nascita di Lutero.

In Italia, nel novembre 2016 è stato istituito con decreto ministeriale, su proposta della Fondazione per le Scienze Religiose “Giovanni XXIII” di Bologna, il Comitato Nazionale per la ricorrenza del quinto centenario della Riforma Protestante (1517-2017), presieduto dal prof. Marcello Verga e sotto la responsabilità scientifica del prof. Massimo Firpo, “con il compito istituzionale di promuovere, preparare e attuare le manifestazioni atte a celebrare la ricorrenza” tramite «pubblicazioni, incontri pubblici in Italia e all’estero, giornate di studio ed una rassegna cinematografica», allo scopo «di offrire un contributo scientifico e pluridisciplinare finalizzato a raccontare al mondo contemporaneo la personalità e la figura di Lutero, la sua riforma, il suo percorso nella storia, nella dottrina, nelle istituzioni, nella politica, nell’arte e nella società» (Direzione Generale Biblioteche e Istituti Culturali, MiBACT, http://www.librari.beniculturali.it/opencms/opencms/it/comitati/comitati/comitato_0009.html).

Il Comitato ha erogato finanziamenti per convegni e mostre, come quelle su “La biblioteca di Piero Guicciardini e la Riforma protestante” (3 maggio – 30 giugno 2017), organizzata dalla Biblioteca nazionale centrale di Firenze, e su “Lutero, la Riforma, l’Italia” (31 ottobre – 30 novembre 2017), allestita presso la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino.

Per quanto riguarda il protestantesimo storico italiano, la chiesa valdese ha seguito l’orientamento della chiesa luterana, concentrando l’attenzione su Lutero e sulla Riforma magisteriale.

2. Il tuo contributo alle celebrazioni è stato, tra l’altro, l’allestimento di una mostra dedicata alla Riforma radicale. Cosa puoi dirci in merito, sia di questa espressione della Riforma e del suo impatto sulla storia del protestantesimo e del mondo moderno e sia nei termini della considerazione che essa gode?

Il V centenario dell’affissione delle tesi (un evento quasi certamente mai avvenuto) mi è sembrata un’occasione per ripensare la storia e il contributo della Riforma radicale dalla quale, nonostante la violenta opposizione dei riformatori ‘ufficiali’ e della chiesa cattolica, sono derivati forti impulsi all’affermazione delle più rilevanti conquiste della civiltà europea: la tolleranza, la libertà religiosa e di coscienza, la laicità delle istituzioni pubbliche, i diritti dell’uomo.

Purtroppo, nonostante l’opera di Ugo Gastaldi (Storia dell’anabattismo, 2 voll., 1972 – 1981 Torino) è ancora prevalente un’immagine distorta della Riforma radicale, derivata da due correnti storiografiche.

La prima ha origine negli scritti polemici contro gli anabattisti dei principali riformatori. La rappresentazione che influì maggiormente sulla diffusione di un’immagine negativa degli anabattisti nel mondo protestante si trova negli scritti di Heinrich Bullinger (1504 – 1575), successore di Zwingli alla guida della Riforma a Zurigo e ”architetto” della chiesa riformata; Bullinger faceva appello alle autorità secolari affinché liberassero la Confederazione da questa eresia usando ogni mezzo, anche le esecuzioni pubbliche. Bullinger raccolse i suoi scritti precedenti contro gli anabattisti nel volume L’origine, crescita e sette degli anabattisti (Der Wiedertäufferen Ursprung, Fürgang, Sekten, Zurigo 1560), nel quale collegò la “piaga anabattista” al tradimento e alla sedizione, tracciando una linea di derivazione diretta dell’anabattismo dalla guerra dei contadini e dal “regno anabattista” di Münster. Gli scritti dei riformatori e dei polemisti cattolici hanno esercitato per secoli un’enorme influenza sul giudizio negativo nei confronti della Riforma radicale e, in particolare, degli anabattisti che ha iniziato ad essere seriamente riesaminato soltanto dalle ricerche su fonti archivistiche di fine Ottocento

La seconda risale a uno dei teorici del comunismo, Friedrich Engels (1820-95), che nel suo famoso libro sulla guerra dei contadini in Germania del 1524-25, scritto dopo il fallimento delle rivoluzioni europee del 1848, esaltò la “magnifica figura di Thomas Müntzer” (1489-1525), primo “martire della rivoluzione comunista”, contrapponendolo a Lutero, che “aveva tradito il movimento popolare” diventando un “servo dei principi” (Fürstenknecht) e un “macellaio dei contadini” (Bauernschlächter). L’interpretazione di Engels era stata fortemente influenzata dallo storico hegeliano Wilhelm Zimmermann, che per primo presentò Müntzer come una figura rivoluzionaria in uno studio approfondito della guerra dei contadini (Der grosse deutsche Bauernkrieg, Stuttgart 1841-43). Quest’immagine di Müntzer fu ripresa da studiosi marxisti come August Bebel (1840-1913), Franz Mehring (1846-1919) e Karl Kautsky (1854-1918) che riabilitarono la figura di Müntzer come eroico oppositore dei poteri feudali a difesa dei contadini. Il filosofo marxista Ernst Bloch (1885-77) dedicò a Müntzer un’opera importante (Thomas Müntzer als Theologe der Revolution, Kurt Wolff, München 1921, tr. it. Thomas Münzer teologo della rivoluzione, Milano 1980), nella quale sosteneva che la sua teologia congiungeva nella ‟volontà spirituale di rivoluzione” il piano dell’azione politica al rovesciamento di quei valori terreni che puntavano al consolidamento della religione di Lutero con il nuovo ordine dello stato dei prìncipi. Müntzer diventava così espressione di una figura simbolica essenziale della storia: la ribellione dell’uomo all’autorità. Questa linea storiografica, fortemente ideologica, arrivò anche in Italia con la pubblicazione di una raccolta di scritti politici di Müntzer, a cura di Emidio Campi (Torino 1972), che fu oggetto di studio in un campo estivo del centro ecumenico di Agape.

3. Secondo te, come storico e come credente, che cosa è stata la Riforma?

Come storico, vedo nella Riforma protestante un evento di carattere principalmente religioso, il cui successo imprevisto è da ricondurre anche a fattori politici, economici e culturali. La Riforma, nel lungo periodo, provocò la frammentazione della cristianità europea e innescò un processo di nazionalizzazione della religione che portò alla formazione di chiese nazionali protestanti, che svolsero una funzione importante nella costruzione delle identità nazionali di paesi come l’Inghilterra, la Scozia, i Paesi Bassi e la Svezia, perché l’appartenenza a una comunità religiosa nazionale rafforzò il senso di appartenenza a una comunità politica. La grande importanza attribuita alla lettura personale della Scrittura portò non solo alla pubblicazione di edizioni critiche nelle lingue originali, che sostituirono la Vulgata per le traduzioni nelle lingue nazionali (mentre la diffusione della Bibbia in volgare fu proibita con la costituzione Dominici gregis custodiae del 24 marzo 1564), ma fu anche di stimolo alla diffusione dell’istruzione primaria. Infatti, il livello di analfabetismo diminuì sensibilmente laddove prevalse la Riforma e rimase alto nei paesi che restarono cattolici, come l’Italia e la Spagna. La Riforma non solo modificò profondamente il modo di intendere e vivere l’esperienza religiosa, ma contribuì in modo determinante alla trasformazione della vita sociale, politica ed economica. Desacralizzando l’istituzione ecclesiastica e il ruolo del clero e valorizzando l’impegno nel mondo secolare, la Riforma portò ad una ridefinizione sia dei rapporti tra la sfera spirituale e quella temporale sia del ruolo delle chiese nella società. I cambiamenti nell’ambito religioso favorirono anche il processo di desacralizzazione del potere politico nel mondo protestante

Come credente, mi sembrano importanti – oltre all’affermazione dei capisaldi dottrinali (Sola Gratia, Sola Fide, Solus Christus, Sola Scriptura) – l’accentuazione della centralità della Scrittura, considerata l’unica autorità dottrinale normativa al di sopra di ogni autorità terrena, e l’affermazione del sacerdozio universale dei credenti, che privarono l’istituzione ecclesiastica di gran parte del suo potere e responsabilizzarono l’individuo ponendolo di fronte a Dio senza la mediazione del clero.


Il prof. Massino Rubboli ha insegnato per molti anni Storia dell’America del Nord presso le Università di Firenze e Genova, oltre a tenere corsi di Storia del Cristianesimo e delle chiese cristiane.

Nel XII Convegno Nazionale GBU (7-10 dicembre  2017) terrà una conferenza dal titolo La Riforma radicale, nell’ambito del percorso di approfondimento “Tutto è iniziato in una università – Wittenberg 1517 / Montesilvano 2017″

Per Edizioni GBU dirige la collana Orizzonti del pensiero cristiano, nella quale è imminente la pubblicazione del famoso libro di Roger Williams (1603-1683) dedicato alla persecuzione: La sanguinaria dottrina della persecuzione per causa di coscienza (1644)

Il “tono” del vangelo

Abbiamo una chiamata a essere ambasciatori di Dio nel mondo. Ora siamo stranieri e rappresentiamo un regno e un sistema di valori differenti. Abbiamo anche un messaggio: questo mondo non ha l’ultima parola sulla vita. In un certo senso il nostro messaggio è soprattutto una supplica e la supplica è: «Siate riconciliati con Dio». Egli si cura di voi; separati da lui non state traendo il massimo dalla vostra vita. Quanto potreste avere e sperimentare di più! Quello che si ha qui è per lo più il tono di un invito a riflettere. Paolo inchioda spesso i propri interlocutori alla loro responsabilità, ma nel farlo mantiene sempre il tono dell’appello a essere riconciliati con Dio.

È il tono che osserviamo anche nel toccante passo di Atti 17:16–32. Paolo si trova ad Atene. Il testo ci dice che è adirato per tutti gli idoli che vi osserva. Se vogliamo avere un’idea di come si sentisse Paolo per questo tipo di rifiuto di Dio ci basta leggere i versetti d’apertura di Romani 1:18–231. Tuttavia quando si rivolse agli Ateniesi lo fece in modo rispettoso, pur sfidandoli a cambiare il loro modo di concepire Dio. Li invitò a riflettere sulla loro responsabilità davanti a Dio. Non fu lui a porre fine al discorso poiché quando arrivò alla risurrezione la discussione si spense. Nondimeno il passo mostra Paolo che predica come un ambasciatore, latore di un richiamo a un modo nuovo di pensare a Dio. Chiama al ravvedimento anche mentre cerca la fede:

«Mentre Paolo li aspettava ad Atene, ….. lo spirito gli s’inacerbiva dentro nel vedere la città piena di idoli. Frattanto discorreva nella sinagoga con i Giudei e con le persone pie; e sulla piazza, ogni giorno, con quelli che vi si trovavano. E anche alcuni filosofi epicurei e stoici conversavano con lui. Alcuni dicevano: “Che cosa dice questo ciarlatano?” E altri: “Egli sembra essere un predicatore di divinità straniere”, perché annunciava Gesù e la risurrezione. Presolo con sé, lo condussero su nell’Areòpago, dicendo: “Potremmo sapere quale sia questa nuova dottrina che tu proponi? Poiché tu ci fai sentire cose strane. Noi vorremmo dunque sapere che cosa vogliono dire queste cose”. Or tutti gli Ateniesi e i residenti stranieri non passavano il loro tempo in altro modo che a dire o ad ascoltare novità. E Paolo, stando in piedi in mezzo all’Areòpago, disse: “Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al dio sconosciuto.

“Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che
sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito
dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione, affinché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di noi. Difatti, in lui viviamo, ci moviamo, e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: ‘Poiché siamo anche sua discendenza’. Essendo dunque discendenza di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall’arte e dall’immaginazione umana. Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo ch’egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti”.
Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni se ne beffavano; e altri dicevano: “Su questo ti ascolteremo un’altra volta”».

Vedete il rispetto accordato da Paolo a una ricerca spirituale male indirizzata? La riconobbe e cercò d’impegnare coloro che vi si dedicavano ponendosi al livello del loro desiderio di conoscere e di cercare Dio. Anche se questo cammino era al momento male indirizzato, Paolo corresse la rotta, orientandoli verso quello che Dio stava facendo in Gesù. Li supplicò di essere riconciliati con il Dio vivente, incominciando nel frattempo a mettere in chiaro che erano responsabili verso di lui.

In parte Paolo potè farlo perché nel mondo antico c’era rispetto per il divino. Nessuno metteva in discussione che ci fosse qualche divinità al mondo, cosa questa che oggi non è sempre così scontata. Ci sono alcuni che pensano di poter scendere a patti con Dio e con quello che egli deve loro. Oppure hanno un’idea di Dio che lo considera più come un nonno facilmente manipolabile che come il Signore sovrano. Nondimeno il punto è che dobbiamo presentare il vangelo con un tono invitante, anche quando sfidiamo le persone a rimettere in discussione il loro modo di concepire Dio. Non dobbiamo fare un accordo con i nostri interlocutori o fare pressione su di essi; il nostro compito è quello di presentare il messaggio di speranza. I risultati sono nelle mani di coloro che ci ascoltano e del Dio che può operare per cambiare i cuori delle persone.

Questo tema del tono è davvero importante. Spesso è qui che la chiesa viene meno. O edulcora tanto il vangelo da far dimenticare il bisogno (e la risultante gratitudine derivante dal soddisfacimento di quel bisogno) oppure punta il dito contro le persone, cercando di farle entrare nel regno in preda alla vergogna. Nessuno di questi due approcci è quello qui mostrato da Paolo. Rispettate quanti sono spiritualmente alla ricerca. Invitateli a essere riconciliati con Dio e a percepire il bisogno che hanno di ciò che egli ha fatto. Poi lasciate serenamente gli effetti di quella conversazione nelle mani di coloro che sono invitati e del Dio che per vostro tramite fa l’invito. Ricordate: al vangelo si accompagna la potenza che in quanto parola di Dio gli è propria. La sua speranza può penetrare nel cuore in modi che a noi non sarebbero mai accessibili, in quanto lo Spirito di Dio continua a operare nel seme che attecchisce tramite la condivisione di quel positivo messaggio.

(Darrell L. Bock, Alla riscoperta del vero vangelo perduto, Edizioni GBU, 2017)

 

Darrell Bock sarà il relatore del XII Convegno Nazionale GBU (7-10 dicembre 2017)

Il messaggio di Gesù Cristo in una cultura complessa

Darrell Bock su Riforma e società contemporanea

 

Prof. Bock,

il titolo del ciclo di conferenze che terrà al prossimo XII Convegno Nazionale GBU è: “Il messaggio di Gesù Cristo in una cultura complessa“;

quest’anno ricorre anche il 500° anniversario della Riforma protestante. Vede qualche parallelismo tra la complessità che caratterizzava la società del XVI secolo e la complessità che caratterizza il tempo presente?

 

No, c’è una differenza importante tra le due società, quale che possa essere l’idea che abbiamo di “complessità”. Si tratta di questo: la rete di convinzioni ebraico–cristiane che avvolgeva l’Europa della Riforma ora non c’è più. Questo ha implicazioni profonde per la chiesa e per quello che questa deve fare quando deve comunicare il suo messaggio.

La testimonianza che rendiamo a Gesù Cristo può beneficiare di una rilettura importante della Riforma, oppure i cambiamenti sociali e culturali ci suggeriscono di andare oltre la Riforma?

Decisamente la seconda ipotesi. C’è sicuramente un certo beneficio nel confrontarsi con tutto ciò che è venuto dalla Riforma ma il modo in cui spieghiamo il contenuto cambia completamente. Invece di argomentare sostenendo che ciò che è vero lo è in quanto è contenuto nella Scrittura, dobbiamo oggi argomentare sostenendo che la verità si trova nella Bibbia proprio perché è vera; si tratta di un orientamento e un compito completamente diverso.

(D. Bock)

Chi è Darrell L. Bock?

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