L’oro del negoziante

di Miroslav Volf

«Cammino per strade che sono morte», cantava Bob Dylan.
Quando ascoltavo il verso, mi sono ricordato della mia passeggiata nelle strade che erano morte. Un anno fa ho visitato Vukovar, una città croata che era stata di fatto distrutta nella guerra. Vedevo il vuoto che si estendeva attraverso le finestre rotte, e le porte delle case i cui tetti erano stati sfondati e le cui facciate mostravano le cicatrici causate dalle schegge. Ho ascoltato lo stridulo silenzio che avvolgeva le lunghe file di case separate da marciapiedi coperti di erbacce e disseminati di oggetti abbandonati. Strade morte. Monumenti di vita distrutta o espulsa.

Più recentemente ho passeggiato per le strade morte di Sandtown nel centro di Baltimora. Era come se stessi rivivendo Vukovar, solo che questa volta il distruttore non era stata la guerra ma le tensioni razziali, il crimine e la rovina economica. C’era un’altra importante differenza. Dodici isolati della città erano stati segnati dalla New Song Community (Leggi l’articolo correlato, Missione urbana) ed erano stati dichiarati come spazio della pace di Dio. Le strade morte erano di nuovo piene di vita.

Mark Gornik della New Song me lo spiegò un po’, mentre passeggiavamo. Mentre stava spiegando il degrado dei centri cittadini, suggeriva che la dottrina della giustificazione per grazia contenesse risorse non sfruttate per la guarigione. Lo sapevo, pensai dentro di me. Per circa dieci anni aveva vissuto e lavorato a Sandtown e avevo visto le trasformazioni che vi erano state, una casa alla volta.Tuttavia per molti teologi la giustificazione per grazia è una dottrina oziosa. Alcuni l’hanno abbandonata e l’hanno lasciata arrugginire sotto un mucchio di spazzatura teologica; la reputano generalmente inutile o quanto meno di scarso aiuto quando si giunge al voler guarire patologie anche inferiori rispetto ai cicli di povertà, alla violenza e alla disperazione. Altri perseguono una sorta di interesse antiquario per la dottrina; esaminano e lustrano un artefatto del sedicesimo secolo e lo mostrano orgogliosamente a chiunque voglia frequentare il loro piccolo museo. Arrugginita o lucidata, la dottrina della giustificazione per grazia giace lì, abbandonata, senza vita. Una dottrina morta. Poteva la speranza dei centri urbani essere parzialmente basata sul recupero della dottrina della giustificazione per grazia?

Come potevano le strade morte ricevere vita da una dottrina morta? Immaginate di non avere lavoro, di non possedere denaro, di vivere ai margini del resto della società in un mondo governato dalla povertà e dalla violenza, la vostra pelle è del colore “sbagliato”, e non avete alcuna speranza che tutto questo cambierà.
Attorno a noi vi è una società governata dalla legge d’acciaio del successo. Le sue merci dorate sono ostentate davanti ai nostri occhi sugli schermi della TV, e in migliaia di maniere la società ci dice ogni giorno che siamo senza valore perché non ci siamo realizzati. Si è un fallimento, e si sa che continuerà a essere un fallimento perché non c’è maniera di realizzare domani ciò che non si è riusciti a ottenere oggi. La dignità è frantumata e l’anima è avvolta nel buio della disperazione.

Ma il vangelo ci dice che non si è definiti dalle forze esterne. Ci dice che si può contare, ancora di più, sul fatto che si è amati incondizionatamente e infinitamente, senza nessun riguardo per ciò che si è raggiunto o per i fallimenti che si sono avuti, anzi si è amati un filino di più di coloro i cui sforzi sono stati coronati dal successo.

Immaginate ora questo vangelo che non viene semplicemente proclamato ma incorporato in una comunità che è venuta fuori non come un «frutto delle opere» ma come una comunità «creata in Cristo Gesù per le buone opere» (Ef 2:10). Giustificati dalla pura grazia, cerca di “giustificare” per grazia coloro che sono resi “ingiusti” dall’implacabile legge del successo della società. Si immagini inoltre questa comunità determinata a infondere ancor più questa cultura, insieme con le sue istituzioni economiche e politiche, con il messaggio che cerca di incorporare e proclamare. Questa è giustificazione per grazia, proclamata e praticata. Una dottrina morta? Difficile che lo sia.

Mentre stavo riflettendo sul significato sociale della giustificazione per grazia mi salì alla mente un passo di Così parlò Zarathustra di Nietzsche che avevo letto andando a Baltimora. «O miei fratelli, io vi dirigo e vi consacro verso una nuova nobiltà: diventerete portatori e coltivatori e seminatori del futuro – in verità, non una nobiltà che si potrebbe acquistare come un negoziante che commercia oro; poiché tutto ciò che ha un prezzo è di poco valore».

La giustificazione per grazia, pensavo, meditando sulla profonda osservazione di Nietzsche, è profondamente in contrasto con la nostra «cultura da negozianti». Togliere l’etichetta del prezzo dagli esseri umani non significa svalutarli, ma donargli la propria dignità, una dignità non basata su cosa hanno realizzato ma radicata sul semplice fatto che sono amati incondizionatamente da Dio. L’amore divino è quell’indispensabile nutrimento per l’anima umana di cui il profeta parla quando afferma: «O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Is. 55:1).

Articolo tratto dal volume
Contro la marea.
L’amore in un tempo di sogni meschini e continue inimicizie
,

Edizioni GBU, 2022.

 

Vedi l’intervista all’autore sul canale Youtube di Edizioni GBU

 

Contro la marea 1 (Dio e l’io)

Iniziamo oggi la pubblicazione – settimanale – di otto paragrafi del libro del teologo di orgine croata Miroslav Volf, che sarà in libreria a Maggio, dal titolo Contro la marea. L’amore in un tempo di sogni meschini e di continue inimicizie. Il libro è una raccolta di brevi scritti, alcuni dei quali hanno poi visto un loro ampliamento in libri tematici.

Si può essere buoni senza Dio?
Alcuni hanno suggerito che gli scandali nel mondo degli affari, della politica e della ricerca sono conseguenze pratiche di una visione del mondo che ha messo fuori Dio. La moralità ha bisogno di Dio, sostiene l’argomentazione, e senza Dio la società sarà lacerata dall’avidità incontrollata, dalla concupiscenza del potere e dalla lotta per la gloria.

Si può tuttavia avere chiaramente una buona dose di “immoralità” anche con Dio che occupa un posto centrale nella nostra visione del mondo. Gli scandali nelle comunità religiose sono la riprova di questo fatto, caso mai ci fosse bisogno di prove. Inoltre, le concezioni di Dio talvolta stanno esplicitamente dietro ad atti riprovevoli come l’avidità e la violenza, giustificate sulla base di motivazioni religiose. Cosa dovremo concludere dal fatto che coloro che credono in Dio fanno del male e legittimano le loro azioni con il credere in Dio? Unicamente che il credere in Dio è compatibile con una vita “immorale”, e non che la moralità non abbia bisogno di Dio.
Ma la moralità ha bisogno di Dio? Un libro bello e accessibile sull’argomento è Why Bother Being Good? The Place of God in the Moral Life di John Hare, professore di filosofia al Calvin College. È uno dei più importanti filosofi cristiani di etica che scrivono oggi (si vedano anche The Moral Gap e God’s Call). Egli sostiene in maniera forte che la moralità non ha bisogno di Dio. Il suo punto di vista non è quello di chi ritiene che una persona che non crede in Dio non possa essere buona; ci sono tante persone di tal genere e alcune di esse vivono vite paragonabili a quelle dei santi. Il moralmente rigoroso Immanuel Kant, filosofo del XVIII secolo, considerava il filosofo ebreo razionalista del XVII secolo, Baruch Spinoza, una persona di tal genere. Ma poiché gli atei santi hanno una vita migliore rispetto alla bontà delle loro credenze, sostiene Hare, essi mancano di alcune convinzioni che sostengono la vita che conducono. Non possono dare un senso alla loro propria vita morale.

Una maniera classica di sostenere che la moralità ha bisogno di Dio è mostrare che bisogna appellarsi a Dio se vogliamo dare una risposta adeguata alla domanda: «Perché dobbiamo essere buoni?». Nella seconda parte del suo libro Hare offre una propria versione di questa argomentazione, rigettando in primo luogo le alternative disponibili in quanto ritenute inadeguate. L’autorità della moralità non è solo ovvia, e neanche solo basata sulle esigenze della ragione. Ancor più, non può provenire dal dal fatto di dover essere vera sia per la nostra natura umana sia per la comunità a cui apparteniamo. Ci vorrebbe troppo spazio per spiegare le ragioni per cui Hare ritiene inadeguate queste maniere di costruire le ragioni, il perché dobbiamo essere buoni. Ma facendo ricorso al procedimento per eliminazione Hare può sostenere che l’autorità della moralità può provenire soltanto dalla volontà e dalla chiamata di Dio.

Spesso coloro che sostengono che la moralità abbia bisogno di Dio si fermano subito dopo aver mostrato che Dio sia la sola, adeguata fonte dell’autorità morale. Hare non lo fa. Diò è importante non solo per il perché dobbiamo essere buoni, ma anche per il come possiamo essere buoni. Il problema infatti è la nostra capacità a essere buoni. Tutti noi abbiamo esperienza di un’esigenza morale che è avvertita come «troppo alta per noi, date le capacità naturali con cui siamo nati». Abbiamo provato diverse strategie per aiutarci, come quella del «gonfiare le nostre capacità» o quella del «ridurre le esigenze». Ma queste strategie sono chiaramente inutili, sostiene Hare, perché la nostra capacità naturale rimane senza speranza sia in ragione dei suoi limiti sia per l’altezza dell’esigenza morale.

Per poter essere morali ci occorre «la fede morale: …la fede nel fatto che per noi è possibile essere moralmente buoni nei nostri cuori e la fede che ci porta a credere che il mondo fuori di noi abbia un senso morale». Le persone morali devono credere sia che «le loro capacità siano state trasformate dal di dentro» sia che «il mondo là fuori sia il tipo di posto in cui la felicità è sicuramente legata a una vita moralmente buona».

Una maniera diversa di parlare di questa seconda condizione è dire semplicemente che «una persona morale ha bisogno di credere che non deve fare ciò che è moralmente sbagliato per essere felice». Il punto sembra ben centrato: se siamo persuasi che non possiamo soddisfare le esigenze morali e che siamo dei miserabili quando lo facciamo, non dovremo cercare di essere morali. Hare sostiene che la «fede morale» necessaria per condurre vite morali richiede la fede in Dio, colui che può trasformare i cuori e provvidenzialmente condurre il mondo in maniera tale che (alla fine) la virtù si unirà con la felicità.

Siamo così tornati all’assunto che non si può condurre una vita morale senza non credere in Dio? Non proprio. Perché sia che crediamo in Dio sia che non crediamo, Egli può essere al lavoro nel cuore delle persone nella provvidenziale conduzione del mondo. Ma se Hare ha ragione, allora la «moralità con cui siamo familiari richiede un retroterra teologico per avere un orizzonte di senso». Questo non prova che le dottrine teologiche siano vere. Dimostra solo che, «se vogliamo tenerci stretta la moralità e rigettare la teologia, allora dovremmo trovare un sostituto per fare il lavoro che la teologia di solito fa. Non sarà così facile trovare un tale sostituto».

Di fronte agli scandali che scuotono la fiducia delle persone negli affari, nel governo, nella ricerca e nelle comunità religiose, i leader delle chiese cristiane spesso vestono il mantello dei critici che si lamentano dello stato del “mondo” e, meno di frequente, prendono su di sé il mantello dei riformatori che offrono maniere per migliorarlo. Se Hare ha ragione, non dovremmo rinnegare il nostro compito primario che è quello di testimoniare del Dio di Gesù Cristo. Per questo dobbiamo appellarci a Dio per rispondere alle due domande centrali che sono al cuore di qualsiasi crisi morale: «Perché dovremmo essere moralmente buoni» e «Come possiamo essere moralmente buoni?».
(M. Volf)

Alle origini della storia americana.

di Valerio Bernardi

M. Rubboli
Alle origini della storia americana.
I padri Pellegrini tra storia e mito (1620-2020)
Unicopli, Milano, 2021

 

 

 

 

Massimo Rubboli è un esperto di storia del Nord America (materia che ha insegnato per molti anni negli atenei italiani) e soprattutto del suo collegamento con la storia religiosa. Lo scorso anno è ricorso il quattrocentesimo anniversario dello sbarco dei Padri Pellegrini che provenivano dall’Inghilterra a Cape Cod. Gli statunitensi ricordano questo particolare avvenimento come uno dei momenti fondativi del loro Paese e ad esso è dedicata una delle feste civili più importanti dello Stato: il Giorno del Ringraziamento.

Rubboli ha deciso di pubblicare nel 2020 due testi che si soffermano su questo particolare avvenimento: il saggio Alle origini della storia americana. I padri Pellegrini tra storia e mito (1620-2020) per i tipi della Unicopli di Milano e la cura in edizione italiana della Mourt’s Relation uno dei testi di auto-rappresentazione dei Padri Pellegrini che hanno contribuito alla ricostruzione dell’evento ed anche (perché no) a farlo diventare una leggenda fondativa degli Stati Uniti d’America.

Il saggio dedicato alla storia dei Pilgrim Fathers inizia con un interessante analisi dell’idea, legata ad attese di fine dei tempi, che la stessa chiesa inglese aveva di sé stessa dopo l’Atto di Supremazia di Enrico VIII e di come essa sia servita a formare la coscienza del popolo inglese come di una sorta di popolo eletto e come questa idea abbia continuato a propagarsi sotto Edoardo VI ed abbia trovato soprattutto nei Puritani (coloro che adottavano una teologia di stampo calvinista e chiedevano più rigore ma che non necessariamente volevano uscire dalla Chiesa d’Inghilterra) i maggiori sostenitori. L’escatologismo del protestantesimo europeo talvolta viene poco sottolineato dagli studi odierni, ma non dobbiamo dimenticare che era ampiamente presente anche nella cosiddetta Riforma magisteriale.

I Padri Pellegrini appartenevano a questo tipo di corrente, ma, come diversi altri Puritani, decisero di uscire dalla Chiesa d’Inghilterra, subendo pressioni religiose soprattutto quando salì al trono  Giacomo I, che, secondo i modelli assolutisti dell’epoca voleva il controllo della Chiesa che riteneva fortemente legato al potere della Corona.

Questo è il motivo per cui questa comunità (non molto numerosa) decise di rifugiarsi a Leida, una delle città più tolleranti delle Province Unite, dove poterono continuare a professare liberamente il proprio culto. Rubboli, pertanto, analizza il motivo per cui alla fine i Pellegrini decisero di partire per le coste americane e individua due apparenti ragioni: la prima era il sentirsi “estranei” all’ambiente olandese, sin troppo aperto per i loro gusti, l’altro la possibilità, soprattutto collocandosi a Nord della Virginia, di poter fondare una colonia quasi indipendente dalla Madre Patria e dove ci si potesse organizzare con molta autonomia e con l’aiuto della Provvidenza divina, continuare a vivere liberi e ossequiosi dei principi che ci si era dati.

Dopo la descrizione del viaggio (anch’essa interessante e dove si sottolinea come i Padri non viaggiarono soli), Rubboli si sofferma sulle difficoltà che i nuovi coloni ebbero di installarsi sul territorio, difficoltà dovute anche ad un arrivo già in stagione invernale ed alla mancanza di risorse e di come furono aiutati da alcune delle popolazioni locali in una difficile sopravvivenza. Al momento dell’insediamento fu stipulato il Mayflower Compact dove ci si impegnava a “costituire un corpo politico civile per il migliore ordinamento e la migliore conservazione della nostra comunità” sotto lo sguardo vigile di Dio e la giurisdizione di Giacomo I. Questo documento è stato poi visto come fondamentale per comprendere come i primi coloni si considerassero un corpo civile autonomo e che potesse arrivare poi ad un covenant (il patto) che potesse portare alla nascita di un nuovo Stato. L’A., infatti, sottolinea, come proprio questo documento sia stato uno dei motivi per cui i Padri Pellegrini sono stati annoverati tra i Padri Fondatori della nazione americana.

Il difficile arrivo, la difficile vita ed anche la visione di un chiaro intervento divino nella salvezza dalle difficoltà sono un’altra delle caratteristiche dei Padri Pellegrini che hanno anche contribuito alla propria autorappresentazione grazie ad un certo numero di scritti che subito hanno iniziato a raccontare la loro storia in maniera provvidenziale e con un forte senso identitario e di appartenenza (la Mourt’s Relation ne è un uno degli esempi più lucidi). Sebbene Bradford e Morton dipingeranno un’immagine positiva del loro piccolo popolo (non nascondendone le difficoltà) che ebbe anche il vantaggio di instaurare una relazione costante con i nativi americani del luogo, i vicini trovarono i Padri Pellegrini piuttosto inflessibili e poco propensi a mischiarsi con gli altri coloni che abitavano non molto lontano. La colonia di New Plimouth, quindi, per diverso tempo visse in maniera relativamente autonoma e anche un po’ isolata, non sviluppando, tra l’altro grandi risorse economiche.

Se Rubboli ricostruisce (con un oculato ed esemplare uso ed interpretazione delle fonti primarie) la “storia” dell’arrivo e dei primi anni di vita della colonia di New Plimouth, la seconda parte del volume è dedicata alla nascita del mito, in quanto l’istituzione della Festa del Ringraziamento consacrata poi come festa nazionale, ha fatto sì che questi coloni puritani fossero annoverati tra i fondatori del moderno stato americano.

Il mito dei Padri Pellegrini parte dagli inizi del XIX secolo, non appena la Nazione si è costituita nasce in un ambiente whig, dove i coloni sono visti come gli antesignani del governo rappresentativo e della nascente nazione. La consacrazione arriverà quando Abraham Lincoln renderà la Festa del Ringraziamento festa nazionale.

Il saggio si conclude discutendo delle trasformazioni che si sono avute del Thanksgiving Day nel corso del tempo e parlando dell’importanza che per una Nazione hanno le commemorazioni. Quelle americane, ovviamente, sono servite e servono a costruire quella che è la cosiddetta religione civile.

Il testo di Rubboli si legge con facilità ed è un attento contributo alla storia del Nord America ma anche del cristianesimo americano: si cerca di smontare il provvidenzialismo che vede la nazione statunitense come una nazione eletta, ma, allo stesso tempo si ammette che il cristianesimo ne è parte integrante. I miti di fondazione, benché devono essere sempre destrutturati e contestualizzati, sono importanti e quello dei Padri Pellegrini è un caso esemplare da studiare, anche per la sua trasformazione da una commemorazione marginale a festa nazionale che ha ancora delle connotazioni religiose. Il testo va letto per comprendere meglio le dinamiche di una nazione, cui il mondo evangelico è molto vicino e che ha sicuramente una politica che è legata a valori religiosi che però non devono essere assolutizzati, come ben mostra l’A. del testo.

(V. Bernardi, DiRS–GBU)

Habermas per chi non ha tempo

La casa editrice Morcelliana (come anche altre case editrici italiane) ha inaugurato da non molto tempo una collana intitolata “Piccoli fuochi”, dove vengono proposti in forma di libriccino, dei saggi importanti di autori che hanno scritto testi significativi per il pensiero e la cultura occidentale. Tra gli ultimi testi pubblicati vi è il saggio Rinascita delle religione e secolarismo, scritto da J. Habermas, uno dei maggiori filosofi viventi, circa nove anni fa e che riassume il pensiero del francofortese a riguardo del rapporto tra società e religione nel XXI secolo, riprendendo alcune delle questioni affrontate in maniera più ampia da Scienza e fede e Verbalizzare il sacro, editi in Italia entrambi da Laterza e di quanto da lui affermato precedentemente nei confronti con l’allora cardinale Ratzinger e Böckenförde, filosofo del diritto tedesco di origine cattolica.

Il saggio pubblicato dalla casa editrice bresciana ha una nota prefattiva di Leonardo Ceppa che espone e colloca il testo all’interno della produzione dell’ultimo Habermas e della revisione che egli ha fatto del suo pensiero sicuramente in senso più moderato, ma anche molto più aperto al fatto religioso. Ceppa cita come antesignano di questo interesse uno dei maestri di Habermas: M. Horkheimer. Anche Horkheimer nel suo periodo finale aveva parlato di una Nostalgia del totalmente altro, anche se la sua visione era più disperante di quella habermasiana e meno propositiva della stessa. Per Ceppa infatti Habermas ha un atteggiamento maggiormente positivo nei confronti della religione, grazie anche al confronto con i pensatori del mondo anglosassone, che hanno rivisto il concetto di secolarizzazione della società.

Il saggio di Habermas inizia con una riflessione sulla secolarizzazione, ammettendo che le interpretazioni sociologiche classiche che hanno visto nel XIX e XX secolo la fine della religione ed avevano preconizzato la sparizione della stessa erano sbagliate, non solo hanno sbagliato nelle loro previsioni ma hanno sopravvalutato le loro osservazioni, sottovalutando l’importanza del fatto religioso. Allo stesso tempo l’A. Ritiene che il processo di secolarizzazione della società che non significa l’aumento di un professante ateismo, quanto l’applicazione nel campo politico e sociale di una legislazione diversa da quella propugnata dai valori religiosi.

Il filsofo tedesco ritiene anche che la maggiore “visibilità” della religione avutasi negli ultimi decenni non derivi semplicemente dall’aver visto con più attenzione al mondo emergente (i continenti diversi da quello europeo), ma dall’affermarsi dei fondamentalismi in tutte le religioni che hanno fatto parlare più di prima del fatto religioso e dalla differente interpretazione che è arrivata all’idea che esso divenisse il motivo principale dei conflitti, come ha sostenuto da Huntington parlando di conflitti di civiltà. Pur non essendo d’accordo con le idee di Huntington, l’A. ammette che il fondamentalismo ha visto le religioni intervenire di più nel campo politico volendo portare avanti i propri programmi e le proprie idee in maniera più risoluta di quanto lo fosse stato fatto nell’immediato secondo dopoguerra.

Per questo motivo non è possibile pensare che lo Stato metta tra parentesi i credi religiosi nella sua opera politica e amministrativa. Benché la comunità sociale sia oggi pluralista e tenda, soprattutto nelle democrazie di stampo occidentale, a voler ignorare il religioso nelle sue decisioni, ogni esponente politico porta le sue idee e credenze quando agisce e non si può ignorare che, anche in Occidente, ci siano politici che hanno le loro idee religiose. Tali idee non vanno scartate, ma possono essere anche un arricchimento in un mondo dove esistono una pluralità di prospettive.

Proprio per questo Habermas, al termine del saggio, propone che lo Stato debba adottare una sorta di agnosticismo dei valori, in cui sospendere il giudizio sulle religioni, ammettendole nel dibattito politico e dandole il giusto spazio, senza per questo dare pieno appoggio ad esse. Si tratta di una notevole concessione da parte di un filosofo laico.

Il breve testo non è sempre di facile lettura, perché la prosa di Habermas è piuttosto complessa anche se il lettore viene ben guidato dalla nota di prefazione. E’ chiaro che chi conosce l’idea di Habermas sulla visione di un mondo moderno che è post-metafisico comprende meglio il suo ragionamento, ma il testo ha valore di per sé e può essere inizio per comprendere il rapporto che, negli ultimi anni, il filosofo ha sviluppato con la religione. Si tratta di un saggio di poche pagine che dà un’idea precisa del suo pensiero a riguardo.

Per il lettore evangelico la lettura di Habermas è interessante perché si tratta di un pensatore laico che non ha avuto paura di confrontarsi con il tema religioso e che ritiene che una “fede pubblica” non sia vietata e che abbia anzi la sua importanza. Nella lettura dei suoi testi rimane però il dubbio su quanto tutto ciò debba contare e su quale sia il modello che si proponga per le religione nel loro intervento politico che è poco delineato nel suo pensiero.
(Valerio Bernardi – DIRS GBU)

Esodo

Lunedì letterario del 23 luglio 2018

Quirico Domenico, Esodo. Storia del nuovo millennio. Neri Pozza 2016

Non può sfuggire al lettore della Bibbia un titolo come quello che Domenico Quirico dà al suo libro sulle migrazioni, che riprende quello del secondo libro del Pentateuco. Quello dei migranti del terzo millennio è effettivamente un «esodo», per certi versi simile a quello degli ebrei fuggiti dall’Egitto, per altri ben diverso. Non è tuttavia sul significato del termine che si attarda l’autore. Giornalista ed esperto di questioni africane e medio-orientali, Quirico ha ripercorso personalmente gli itinerari dell’attuale fenomeno migratorio, esplorandone i luoghi, le rotte e gli attori. Nel primo capitolo parte da quella che è spesso l’ultima tappa del viaggio e racconta la sua esperienza vissuta come giornalista, ma secondo le modalità di un migrante, a bordo di un barcone della morte partito dalla Tunisia e naufragato presso Lampedusa. Procedendo a ritroso va ad esplorare la città di Kayes in Mali, centro di raccolta di chi è partito dall’Africa Occidentale, per proseguire nel deserto dal Niger alla Libia. Racconta ancora del califfato, della Siria e della Turchia, con la città di Mersin da cui partono navi per l’Europa, della rotta balcanica con al città di Horgos tra Serbia e Ungheria, per arrivare fino a Calais, sul canale della manica. Il capitolo conclusivo racconta invece della città di Melilla, enclave spagnola in Marocco, che rappresenta una sorta di Europa in Africa, meta ambita da molti migranti africani. La descrizione delle rotte dell’immigrazione è intercalata da capitoli che raccontano fallimenti, viaggi non riusciti e rientri forzati,  episodi di naufragi di vite umane di cui è difficile tenere memoria, o luoghi in Italia come Mineo e Roma dove l’organizzazione dell’accoglienza suscita problemi e proteste.

 

Il testo non si configura come un’analisi scientifica del fenomeno migratorio fatta di dati ed argomenti volti a sostenere una tesi. Lo sguardo è chiaramente quello di un testimone che riporta storie, descrizioni di luoghi, di volti, di angosce e paure che hanno tutta la forza e l’incontestabilità della testimonianza, per l’appunto. Tuttavia attraverso i capitoli del libro possiamo recuperare diversi elementi che portano avanti una tesi piuttosto chiara, a favore di un’accoglienza dei migranti, in primis per un necessario ed umano ascolto del grido che proviene da loro, ed in secundis perché secondo Quirico il fenomeno è inarrestabile e contrastarlo con la chiusura è impossibile, oltre che ingiusto. Proviamo quindi a mettere in luce alcuni degli elementi che ci sembra di poter evidenziare.

Innanzi tutto c’è una riflessione sulle cause: perché si parte? L’autore rifugge una spiegazione univoca, e se da un lato descrive luoghi di guerra, e situazioni di disperazione dovute a povertà, sul cui retroscena la responsabilità storica dell’Occidente è palese, dall’altro presenta una serie di vite mosse dalla semplice speranza di un futuro migliore, non necessariamente per sfuggire alla morte: «Ho fatto il viaggio per l’arrogante volontà di capire perché un popolo di ragazzi rischia la vita  per sbarcare da noi, per afferrare l’Europa. Non dovremmo usare più per loro la parola clandestini: inganna, svia, dovremmo restaurare l’antica cara nostra parola di migranti. Perché non è soltanto e soprattutto la miseria che li muove. Certo l’hanno mangiata da sempre, ma in Tunisia non c’è la fame. È altro che li spinge, una forza che da sempre ha smosso i giovani a muoversi, a cambiare a sognare, cercano un’altra vita e basta, vogliono cambiare e provare. Sanno che l’Europa sarà altro, fatica, disperazione, umiliazione e povertà (…) ma partono lo stesso, perché siamo noi lo spazio vuoto che vogliono attraversare». (p. 30)

D’altra parte la riflessione sulle cause del viaggio si accompagna a quella sull’inevitabilità del viaggio. Secondo l’autore il vero dramma del terzo millennio (da cui il sottotitolo) non è tanto il problema su cui si attarda l’Occidente dell’accoglienza (o tristemente il rifiuto) del migrante, ma piuttosto quello della desolazione lasciata da chi parte: ampie parti del mondo assistono ad una desertificazione umana che ingenera un circolo vizioso per cui lo svuotamento produce ulteriore fuga. Di questa Grande Migrazione l’autore sollecita una presa di coscienza, perché è questa che determina il cambiamento del mondo. «C’è da far posto a un popolo nuovo, milioni di persone; non hanno bandiera e passaporto, lo hanno distrutto quando sono partiti». (p.44) Il disastro provocato da dittature, fanatismi e guerre produce un popolo enorme che fugge e che non si fermerà davanti a niente, pertanto il respingimento fatto nell’immediato non è praticabile a lungo termine, come la soluzione dei campi profughi che può essere solo temporanea. La stessa identità dei componenti di questo popolo è stata ridefinita dal Viaggio a cui hanno sopravvissuto, per cui non si può parlare più di cittadini riconducibili a un determinato stato, ma sono persone «nuove» ed è impossibile pensare di bloccarle.

Un terzo elemento, riguarda la riflessione sul Mediterraneo. «Il Mediterraneo è molto più grande delle sue coste. Aggrega tutto ciò che sta intorno, lo aggrega a questo gigantesco continente unitario che lega Europa, Asia e Africa». (p. 53) L’autore osserva come nel corso della storia il Mediterraneo sia stato talora mezzo di comunicazione, talora barriera, con un alternarsi di guerre, dominazioni e scontri che in qualche modo tornano a ripetersi. La vicenda del califfato di Daesh (a cui l’autore ha dedicato un libro), viene letta alla luce di una rivendicazione sunnita di un ritorno alla dominazione degli Abbasidi di sette secoli fa, e come una eco di conflitti tra Islam ed Occidente che tende a ripetersi. Da un lato torna l’idea di un’inevitabilità del viaggio, dall’altro l’autore sembra suggerire che non si è voluto imparare molto dalla storia.

Lo sguardo di Quirico, trascritto da una scrittura particolarmente gradevole, non è quello freddo e distaccato dell’analista o del ricercatore oggettivo che fornisce dati ed analisi ed accumula prove ed argomenti in favore di una tesi; è quello piuttosto del testimone, partecipe e coinvolto, che mischia citazioni di frasi di giovani migranti su un barcone, di bambine in mezzo ad una strada, di padri che hanno perso figli in mare, o di passeurs (scafisti) a riflessioni sul fenomeno migratorio, e descrizioni di luoghi o volti, quasi romanzate. Certo una tesi emerge, ed è quella di un invito ad  ascoltare il grido che proviene dai protagonisti primi del Viaggio verso l’Occidente, ma questa consiste più nel lanciare una serie di riflessioni provocatorie con denunce, con fatti che hanno tutta la forza espressiva di una testimonianza, che non con l’imposizione di un’argomentazione rigorosa fondata su analisi e dati. Un contributo importante alla riflessione sull’immigrazione che, tanto per l’accoglienza quanto per l’elaborazione di una politica migratoria seria, deve riguardare chi si professa cristiano.

(Stefano Molino, DiRS–GBU)

 

L’immagine di Dio negli “altri”

Come dovremmo trattare gli esseri umani, queste straordinarie immagini di Dio?

Voglio proporre quattro risposte.

 

Meraviglia
La prima reazione di fronte a un altro essere umano dovrebbe essere di meraviglia per quel miracolo della creazione che rappresenta. Di tutte le meraviglie della creazione è proprio quella dell’essere umano che dovrebbe destare l’ammirazione più grande. Per quanto possa apparire difficile in determinate circostanze, non dovremmo mai perdere lo stupore di trovarci al cospetto del mistero della vita di un altro essere umano. Si tratta dello stesso stupore che prova un genitore al momento della nascita del proprio bambino. Prima c’erano solamente due persone nella stanza, ora, invece, ce ne sono tre. Com’è potuto accadere?

Temo purtroppo che la perdita di questo senso di meraviglia sia abbastanza diffuso … Siamo divenuti supponenti e cinici; per noi queste sono diventate tutte cose già viste; stiamo facendo solo il nostro lavoro, il solito tran–tran quotidiano. Il pensiero cristiano però ci richiama a non perdere il senso di meraviglia di fronte al mistero di ogni essere umano.

 

Rispetto
Il senso di meraviglia si accompagna a quello di rispetto. Rispetto per la misteriosa, immutabile, dignità dell’immagine di Dio. Sono sempre più convinto che il rispetto per gli altri sia uno degli elementi distintivi di un’autentica compassione cristiana. Siamo chiamati a trattarci reciprocamente con lo stesso rispetto e la stessa dignità con cui Dio stesso ci tratta. Assistiamo a una tendenza dei filosofi contemporanei a guardare i deboli, i minorati mentali, i disabili, con un certo grado di disprezzo: sono delle non–persone, non sono autosufficienti, non contano nulla, le loro funzioni biologiche sono al di sotto degli standard richiesti, la loro corteccia cerebrale non funziona bene. Invece, il marchio distintivo del vero amore cristiano nei riguardi dei disabili, dei malati e di coloro che sono prossimi alla morte, non è una forma di pietà ma di rispetto. «L’amore che rispetta», come soleva chiamarlo Teresa di Calcutta.

Abusare, raggirare o maltrattare un altro essere umano equivale a mostrare disprezzo nei confronti di Dio. Riprendendo le parole dei proverbi biblici: «Chi opprime il povero offende colui che l’ha fatto, ma chi ha pietà del bisognoso, lo onora» (Pr 14:31). Abusare o raggirare un altro essere umano è, di fatto, una forma di blasfemia verso Dio, come sputare in faccia al creatore o trattare con disprezzo la sua immagine. Questo è il motivo per cui l’etica biblica non fa distinzioni tra il comportamento religioso (ciò che facciamo in chiesa) e quello secolare (ciò che facciamo quando siamo al supermercato oppure, tanto per dire, dentro un ospedale). L’ordine morale stabilito da Dio, l’ordine di creazione, deve permeare l’intera vita.

 

Empatia
Avere empatia significa immedesimarsi nell’esperienza dell’altro, condividere il suo dolore e la sua gioia. Dato che siamo tutti uguali nella materia grezza di cui siamo fatti, possiamo entrare in sintonia con l’esperienza dell’altro. È interessante notare che quei circuiti neurali e quelle capacità di elaborazione che ci permettono di entrare in empatia con gli altri, di immaginare come ci si possa sentire essendo l’altra persona, sono molto più sviluppati nel cervello umano che in quello di altri mammiferi.

Sembra quasi che possediamo la capacità unica di vedere il mondo con gli occhi di un’altra persona. Tutto ciò è parte della nostra natura umana creata. Siamo progettati per funzionare non come esseri isolati e autonomi, imprigionati nei nostri universi separati, ma come esseri in grado di condividere con gli altri le nostre gioie e i nostri dolori.
I filosofi contemporanei tendono ad enfatizzare l’abisso che separa i sani, coloro che possiedono funzioni normali, da coloro che hanno gravi disabilità o sono severamente malati: io sono una persona, tu invece, sei una non–persona; … La fede cristiana, al contrario, dice: «Siamo tutti e due degli esseri umani, tu e io. Condividiamo la stessa realtà e condivideremo lo stesso dolore».

 

Protezione
Infine, poiché ogni essere umano porta in sé l’immagine di Dio, ogni vita è sacra. Nel nono capitolo della Genesi troviamo la legge del taglione, una delle più antiche formule legali della letteratura mondiale, che prescrive la pena capitale per chiunque si renda colpevole dello spargimento di sangue di un altro uomo:

«Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo, perché Dio ha fatto l’uomo a sua immagine» (Gen 9:6).

Questo brano esprime l’idea secondo cui, a causa della straordinaria dignità della vita umana, e paradossalmente, solo la pena capitale costituisce una retribuzione sufficiente per colui che ha commesso un omicidio. Distruggere una vita umana innocente è eccezionalmente scandaloso, perché equivale a dissacrare l’immagine di Dio, il suo capolavoro. Secondo il modello di società proposto da John Harris, le persone più forti possono usare le non–persone, quelle col cervello malfunzionante, per i propri scopi. Ad esempio si possono prelevare gli organi da coloro che si trovano in stato vegetativo persistente oppure dai bambini malformati, per trapiantarli a qualcuno che vale più di loro. Il forte può usare il debole. Il pensiero cristiano è invece diametralmente opposto. Sono i deboli coloro che sono degni di una tutela speciale, proprio perché sono vulnerabili, mentre i forti hanno il dovere di proteggere i deboli dal raggiro e dall’abuso.

Meraviglia, rispetto, empatia e protezione: queste sono le risposte che siamo in dovere di dare gli uni agli altri, proprio per il modo in cui siamo fatti. Siamo portatori dell’immagine di Dio, ciascuno di noi è un riflesso misterioso della Deità.

John Wyatt, Questioni di vita e di morte. Dilemmi moderni alla luce della fede cristiana, Edizioni GBU, Chieti, 2018, pp. 517, 24,00 € (www.edizionigbu.it)

Il libro di tutte le cose

Lunedì Letterario del 25 giugno 2018

Kuijer G., Il libro di tutte le cose, Salani, Varese, 2016 (6° ed.)

Colui che tenga sotto scacco di una qualche forma di violenza (ad esempio quella domestica) altri individui (ad esempio familiari, moglie, marito, figli) non ha alibi. Sebbene se ne dia, in modo più o meno sistematico, le più valide giustificazioni (le irriducibili colpe dell’altro, gli imperativi di una più alta morale) sa del tutto chiaramente che dentro quelle violenze rituali si nasconde un suo personale bisogno, una valvola di sfogo, un gesto catartico, qualcosa che tocca le corde del piacere (salvo poi abbandonarsi a passeggeri momenti di riprovazione del proprio operato, del tutto superficiali e senza alcun effetto concreto, a parte la funzione anestetica e lenitiva per la coscienza a brandelli).

Quando si dice che Dio è persona si intende che Egli provi dei sentimenti, cioè che Egli abbia una propria interpretazione emotiva di ciò che accade qui e ora. Quello che è difficile da capire è che Egli non abbia i nostri stessi sentimenti. In fondo è questa la radice di molto dell’ateismo più radicale, l’impossibilità di riconoscere che l’ingiustizia, il sopruso, la sofferenza, la morte, non possano suscitare in Dio lo stesso tipo di rabbia, di frustrazione, di indignazione, che suscitano in noi stessi. Quali sentimenti prova Gesù davanti a un marito che picchia la propria moglie? Con quali occhi guarda a quello che noi definiamo il carnefice? E a quella che definiamo vittima? Il Suo dolore e la Sua compassione possono esprimersi attraverso gli stessi canali e le stesse modalità che riconosciamo in noi?

Guus Kuijer in Europa ha vinto tutto. Autore di letteratura per bambini e ragazzi ha ottenuto tutti i più prestigiosi riconoscimenti di questo settore, tra i quali il premio Astrid Lingren che è il massimo riconoscimento internazionale nel campo della letteratura per l’infanzia. Nato nel 1942 ad Amsterdam, è cresciuto in una famiglia di fervente religiosità, membri della Catholic Apostolic Church. In seguito dichiarò di non ricordare mai un momento in cui egli abbia creduto in Dio. Il tema della fede è spesso presente nelle sue opere, di frequente con intento critico rispetto agli estremismi e alle espressioni di fanatismo. Non c’è però una critica tout court della fede né intenti o toni denigratori bensì sempre sereno, magari distaccato, rispetto.

Il protagonista de Il libro di tutte le cose è Thomas, una sorta di coetaneo dell’A., decenne negli anni Cinquanta, in cui si svolgono gli eventi narrati. E’ Thomas l’autore del Libro di tutte le cose, che è il diario nel quale annota tutto ciò che accade nel suo mondo di paese. Thomas ha due cose proprio da bambini: a chi gli chieda cosa voglia fare da grande risponde: “essere felice”; e poi vede e parla con Gesù, dialoga con lui di quanto accade in casa e Gesù gli risponde. Il Gesù di Thomas è empatico ma non lacrimevole e poi non ha i superpoteri, non manda fulmini dal cielo per incenerire i malvagi, anche quando se lo meritassero. Le donne del mondo di Thomas sono tenere, coraggiose e sagge. Il problema, nella casa di Thomas, è il padre, fedele e severo, anzi, diciamo le cose come stanno, violento, con la moglie e i figli. Il suo Dio è un giudice rigido ed egli si sente addosso la responsabilità di essere suo sacerdote in casa propria, per vigilare e correggere, per educare e insegnare la retta via, con ogni mezzo. “Quando le botte cessarono [Thomas]… seppe con certezza che a forza di cucchiaiate il Padre Onnipotente era stato estirpato da lui per sempre” (17).

Gli occhi dei bambini guardano al mondo sempre con attenzione e curiosità, con sguardo acuto e implacabile, con una lucidità che disturba gli adulti i quali hanno da tempo abbassato lo sguardo e si sono rifugiati ciascuno nella propria zona di confort dalla quale odiano essere spostati. E nessuno come un bambino è in grado di fare questo con maggiore e più acuminata efficacia. Ciò che rende diverso lo sguardo sul mondo dei bambini non è nella povertà della comprensione, né nella propensione alla fantasticheria bensì nel fatto che, davanti alla realtà più cruda e dolorosa, quello sguardo non cede (finché riesca a restare bambino, ché a volte il male può arrivare a spegnere quella luce) alla cupa e cinica disperazione, tipica degli adulti.

Come redime il mondo Gesù? Come si esprime la Sua azione salvifica sulla realtà inquinata dal male se Egli non ha un volto iroso e violento? Che genere di risorse e di intelligenza sviluppa un modo di agire “debole” e nonviolento?

Queste e altre suggestioni suscita questo piccolo e potente romanzo, che si legge in poche ore tutto d’un fiato. Utilissimo per adulti credenti.

(Daniele Mangiola – DiRS–GBU)

Ripensare i cinque Sola

Riflessioni sulla Riforma. Ripensare i cinque Sola

K. Vanhoozer, Biblical Authority after Babel. Retrieving the Solas in the Spirit of Mere Protestant Christianity, Brazos Press, 2016.

Tra i testi che abbiamo esaminato sulla Riforma, abbiamo dato conto soprattutto di quello che è stato pubblicato in italiano. Se vogliamo però esaminare un testo, di stampo evangelico, che abbia una disamina teologica di quanto ci rimane dei principi del protestantesimo, dobbiamo, per forza di cose, guardare al mondo anglosassone. Tra i numerosi testi pubblicati la nostra attenzione è caduta su quello di Kevin Vanhoozer intitolato L’autorità biblica dopo Babele. Recuperare i Sola nello spirito del semplice cristianesimo protestante.

Il teologo statunitense nel suo saggio, mette insieme riferimenti al testo biblico, alla teologia riformata (soprattutto quella magisteriale) e l’analisi della situazione teologica contemporanea. Ogni capitolo (dopo l’introduzione, ce ne sono cinque, ognuno dedicato ad uno dei sola con una conclusione), mantiene una struttura analoga. Dopo una breve introduzione, ci si chiede cosa significasse il particolare Sola per i Riformatori del XVI secolo, lo si analizza da un punto di vista biblico-teologico e si conclude con delle tesi che vanno a contribuire alla conclusione globale del testo.

L’A., sin dalla prefazione, afferma di voler mantenere sia la cattolicità del protestantesimo, inteso come universalità del concetto di Chiesa e del messaggio di salvezza e le basi del suo credo che sono essenzialmente trinitarie. Al centro della discussione sul Sola Gratia,  non vi è soltanto la spiegazione del significato del dono della Grazia all’interno del Protestantesimo, ma anche (non bisogna dimenticare che Vanhoozer è diventato famoso per i suoi studi sull’ermeneutica e sull’autorità della Bibbia) del rapporto che esiste tra la dottrina della Grazia e l’interpretazione biblica. Essere all’interno della Grazia di Dio significa accettare il testo biblico come ci è pervenuto e non cercare di forzarne il significato, ma farci assistere per interpretarlo dalla Grazia di Dio.

Il secondo capitolo è dedicato al sola fide. Al centro del discorso del teologo vi è proprio il concetto di autorità divina, di cui bisogna fidarsi. Anche nell’ermeneutica biblica e nelle varie applicazioni che di essa facciamo dobbiamo tenere conto dell’orizzonte trinitario in cui ci muoviamo, di come questa tradizione sia stata rispettata dai vari tipi di esegesi proposte nel corso dei secoli. La conclusione è quella di trovare un giusto equilibrio tra la certezza assoluta (che l’interprete non può mai avere e che dovrebbe validare in una comunità di fede) e lo scetticismo relativistico che rischia di non rendere più affidabile il messaggio biblico: per l’A., quindi, un approccio critico è indispensabile senza che però divenga prevalente nella lettura del testo.

Il centro del saggio, proprio per la particolare enfasi data alla questione dell’interpretazione del testo biblico, è il capitolo dedicato al sola Scriptura. Vanhoozer riprende il modello interpretativo di McGrath che ritiene che il libero esame della Scrittura sia uno dei punti cardine che accomuna tutto il protestantesimo, ma ammette anche le difficoltà che ci sono state nell’applicazione del principio, non essendo concordi sui metodi esegetici ed ermeneutici che si devono costruire. Nel capitolo, tenendo conto che per ogni evangelico la Scrittura rimane il principale criterio di autorità, si esamina il rapporto con la cattolicità, quello con la tradizione e quello con le autorità ecclesiastiche. La conclusione dell’A. è che, tenendo conto di questi fattori, bisogna avere nei confronti del testo biblico un approccio critico e, allo stesso tempo, che tenga conto anche dell’universalità dell’interpretazione.

Cristo al centro è stato uno dei leitmotiv di buona parte del pensiero teologico protestante, soprattutto quello contemporaneo. Nel capitolo dedicato al Solus Christus è collegato soprattutto all’autorità biblica che passa attraverso quella della chiesa. Riprendendo alcune suggestioni del pensiero di Hauerwas (che, in parte reinterpreta alcuni passi di Yoder e della revisione delle ecclesiologia anabattista), si ritiene che Cristo è colui che convalida la testimonianza comunitaria della Chiesa che supporta l’interpretazione biblica che, in questa maniera, può avere una sua oggettività e non sfociare nell’irrazionalismo e nella scelta meramente individuale. Si propone un sano denominazionalismo che sia consapevole delle proprie radici e che, proprio per questo motivo, può diventare promotore di interpretazioni che possono essere diverse. Allo stesso tempo, il solus Christus, permette alla Chiesa di poter cercare forme di unità e collaborazione pur nella pluralità. Questo aspetto della comunione diretta con Cristo della comunità locale che è propria del protestantesimo più radicale, permette anche il tentativo di avere forma di collaborazione e di interpretazione comune del dato biblico.

L’ultimo capitolo è dedicato al soli Deo gloria. Per Vanhoozer è proprio il mettersi al servizio di Dio che permette alla Chiesa la possibilità di potersi riconciliare e trovare soluzioni all’interno di un pluralismo che è tipico del protestantesimo. La conclusione è che il protestantesimo, soprattutto nella sua ala evangelica, deve ricordare quanto deve alla tradizione e come deve attenersi alla economia del Vangelo, facendo affermare una lettura chiara della Bibbia. Dopo l’apparente Babele dovuta al libero esame, bisogna passare ad una Pentecoste, guidata dallo Spirito, che possa dare certezza delle proprie interpretazioni bibliche all’interno della comunità confessante.

Il saggio ha un’impostazione originale e merita di essere letto per una proposta mediana all’interno del protestantesimo evangelico che cerca di mantenere insieme diverse delle opzioni che sono maturate e riconosce che l’interpretazione del testo biblico è al centro della vita degli evangelici.

(Valerio Bernardi – DIRS GBU)

I batteri della felicità (Lunedì Letterario)

Collen A., I batteri della felicità. Perché i microbi del nostro corpo sono la chiave per la salute e il benessere, Hoepli, Milano, 2017, tr. ing., 10% Human. How Your Bod’s Microbes Hold the Key to Health and Happiness, London, HarperColins, 2016)

 

Alle soglie del 2000 l’umanità giungeva ad un traguardo fondamentale: la mappatura del Genoma Umano. L’evento fu salutato con toni trionfali e la sua notizia percorse la terra. Il presidente Clinton diceva: “Oggi conosciamo il linguaggio con cui Dio ha creato la vita… l’umanità è sul punto di conquistare un immenso potere di guarigione”.

Mano a mano che gli anni sono trascorsi si è andato attenuando quel primo entusiasmo, ci si è resi sempre più conto che conoscere tutto dei singoli mattoncini di cui era fatto l’uomo, il suo progetto, non era così determinante, sapere della presenza di un determinato gene, della predisposizione per quella determinata cosa (una certa malattia, ad esempio) non diceva molto sulla reale insorgenza di quella specifica condizione, forniva tutt’al più qualche dato probabilistico, ma poco altro.

L’individuo umano, ancora una volta, non era semplicemente quella sofisticata macchina di cui si possedevano finalmente le chiavi del quadro di comandi generale.

Nel 2012 sic completava un altro progetto, perseguito con molti minori finanziamenti e senza nessun clamore, senza il saluto ufficiale di nessun presidente della terra: la mappatura del Microbioma Umano.

Anche sotto il punto di vista dei numeri il genoma umano aveva un poco deluso le aspettative: possediamo soltanto 21000 geni, meno di un topo di laboratorio, che ne possiede 23000, meno di una pianta, che ne possiede 26000. Dove risiede la complessità di tutta questa strabiliante macchina?

Ci si avvide che i geni presenti nel corpo umano sono circa 4,4 milioni, dunque la stragrande maggioranza di questi geni non è “nostra”.

Il fatto è che il nostro corpo è umano soltanto per il 10%, per ogni cellula “nostra” ce ne sono altre 9 estranee, che ci abitano e convivono con noi. Soltanto nell’intestino vivono stabilmente 100 000 000 000 000 ospiti stranieri. E non soltanto lì. Per avere un’idea dobbiamo pensare al pianeta Terra. Una miriade di esseri viventi lo abitano, in superficie e in profondità, adattati ai diversi ambienti. Così è per il corpo umano (ma anche per qualsiasi altro essere, dall’insetto al mammifero): batteri e funghi specifici si sono organizzati una vita in simbiosi con i diversi ambienti, ampie superfici o spazi angusti, con o senza aria, caldi e umidi o esposti alle intemperie, lussureggianti e ospitali o ostili e aridi, luoghi di conflitti e pericoli o zone di quiete, ogni centimetro del nostro corpo è un habitat popolato da organismi.

L’insieme di tutte queste popolazioni è il Microbioma.

La mappatura del microbioma umano, di tutta questa strabiliante diversità, pressoché ignorata dai media, praticamente sconosciuta al grande pubblico, ha aperto prospettive impreviste riguardo la comprensione medico-scientifica della vita umana. Rimettendo innanzitutto in discussione quell’idea positivista della complessa macchina della quale, una volta posseduti le chiavi e il progetto (genoma) sarebbe stato possibile determinare e manipolare ogni cosa. E’ molto più adeguata l’immagine di un organismo inserito in una rete di relazioni complesse non tutte e non tanto direttamente determinabili.

Perché tutta questa brulicante e attivissima vita che ospitiamo non se ne sta semplicemente lì a vivere, letteralmente, sulla nostra pelle, a nostre spese, in quanto con essa si è stabilita una infinita rete di processi simbiotici attraverso i quali i nostri ospiti ci “ripagano” dell’accoglienza. Processi vitali indispensabili. Dalla vita, dalla qualità della vita del nostro bioma dipende la nostra vita, la qualità della nostra vita.

Di questa straordinaria avventura ci racconta 10% Human. How your Body’s Microbes Hold the Key to Health and Happiness di Alanna Collen, biologa e ricercatrice, giornalista e divulgatrice scientifica per la BBC.

Hoepli ha pubblicato lo scorso anno l’edizione italiana dal titolo “italianizzato” in I batteri della felicità. Perché i microbi del nostro corpo sono la chiave per la salute e il benessere. Le scelte editoriali sulla traduzione del titolo rivelano le strategie di marketing e qui la sostituzione del titolo in grassetto, la traduzione di hold (detenere, avere in mano) con sono e la presenza della parola benessere indicano quale sia il target a cui si cerca di indirizzare il libro.

In effetti la scrittura dell’A. è piacevole e avvincente e l’opera, peraltro discretamente corposa (300 e più pagine fitte fitte ma arricchite da 16 interessanti pagine fotografiche) mantiene desto l’interesse del lettore con uno stile da reportage, ricco di eventi, date, personaggi, aneddoti che hanno segnato le tappe importanti del cammino di graduale scoperta che ci ha rivelato, soprattutto nell’ultimo secolo, l’avvincente micromondo dei batteri.

In seguito alla quarta delle grandi rivoluzioni mediche che hanno trasformato nell’ultimo secolo e mezzo la qualità della nostra vita e della nostra salute, la scoperta e la diffusione degli antibiotici, a partire dalla penicillina di Fleming, siamo stati educati a pensare i batteri essenzialmente come dei nemici, intrusi occasionali da eliminare prontamente. Soltanto negli ultimi anni si sta diffondendo l’idea dell’esistenza di batteri buoni e amici e si moltiplicano alimenti e prodotti farmaceutici a base di fermenti lattici i quali, peraltro, non sono i più essenziali e neanche i più numerosi tra gli ospiti buoni del nostro corpo, ma soltanto quelli più facilmente coltivabili (e dunque commerciabili) in quanto tra i pochissimi che sopportano un ambiente con presenza di ossigeno.

Il punto di partenza del percorso esplorazione proposto dall’A. è l’osservazione del nostro stato di salute contemporaneo. In seguito alle grandi rivoluzioni mediche del XX secolo la qualità della vita è decisamente migliorata, si vive più a lungo, si soffre di meno, molte delle terribili piaghe che hanno decimato l’umanità sono state debellate.

Ma a ben guardare, il nostro stato di salute non è così buono come ce lo raccontiamo. Alcuni tipi di patologie vanno crescendo in maniera esponenziale ovunque nel globo e in particolare alcune di queste le “teniamo a bada” in un modo che potrebbe portarci all’illusorio pensiero che siano normali.

Come le allergie che diventano sempre più diffuse e riguardano sostanze un tempo insospettabili, del tutto innocue, dal polline fino al glutine.

Oppure l’obesità, diffusasi, ad osservare i dati, con le modalità tipiche di una qualsiasi epidemia, in continua crescita, nonostante i dati riguardanti le abitudini alimentari generali sembrino da tempo registrare inversioni di tendenza rispetto all’ingozzarsi sfrenato di qualche decennio scorso. Come mai i dati medi sembrano riportare una mancanza di connessione tra abitudini alimentari e diffusione dell’obesità? cos’altro c’è dietro?

Oppure tante patologie autoimmuni, dove il sistema immunitario sembra rivolgere le proprie armi contro lo stesso organismo che dovrebbe difendere. Perché questo avviene e perché avviene in un numero di casi esponenzialmente sempre più alto?

Anche il diffondersi di tutta una serie di patologie e disturbi psichici, tra i quali, ad esempio, l’autismo. La coincidenza tra disturbi psichici e patologie croniche all’intestino è soltanto casuale? Gli esperimenti dimostrano moltissimi esempi, sia negli animali che nell’uomo, in cui i batteri influenzano processi psichici, attivando geni, producendo ormoni specifici. Ci sono relazioni tra il diffondersi del “mal sottile”, la depressione e la cronica sindrome del colon irritabile?

E in tutto questo processo ha un qualche ruolo la modalità in cui ciascuno viene al mondo, il parto? Parto vaginale, cesareo, allattamento al seno o latte artificiale, particolari coincidenze nei dati suggeriscono connessioni tra chi siamo, come stiamo nel mondo, quali patologie sviluppiamo e il modo in cui nasciamo e riceviamo le cure primali, connessioni che hanno a che fare con i batteri che colonizzano il corpo del nascituro al momento della nascita e durante i mesi successivi.

Ciascuno degli otto avvincenti capitoli svolge un’indagine su ognuno di questi aspetti della nostra salute fisica e psichica e rivela come e quanto la salute e l’equilibrio dei batteri che ci abitano sia fondamentale per la nostra stessa sussistenza.

Perché quello che è indubitabile è che le cose di cui abbiamo preso l’abitudine di nutrirci (cibi spazzatura, cibi industriali adulterati da sostanze chimiche, drastica riduzione dell’apporto di vegetali e di fibre) e l’abuso di farmaci antibiotici (ma anche detergenti vari) hanno danneggiato gravemente le popolazioni di batteri amici che da millenni ci abitavano.

Il campo di tutte queste ricerche è ancora troppo giovane per poter dare risposte e soluzioni. Il fatto di cominciare a intravedere alcune cause non significa che sia già pronto per offrire anche cure. Si intuiscono le potenzialità immense di questo nuovo sapere, in campo medico. Ad un certo punto l’A. si lancia a delineare un entusiastico quadro di possibili sviluppi (coltivazioni di specifiche famiglie di batteri in forma di farmaci da assumere per ristabilire equilibri biomici sconvolti, batteri specifici per il buonumore ma anche soltanto per prendere la vita più “easy”, banche dati dei donatori per trapianti fecali e via dicendo). Una nuova miniera da esplorare per una più evoluta e futuristica ingegneria medica e farmacologica.

Una serie di riflessioni filosofiche e teologiche, anche importanti, scaturiscono da queste nuove e inattese scoperte.

Che ne è, ad esempio, del concetto di “io”, di “individuo”, adesso che abbiamo preso coscienza di non essere più soli nel nostro stesso corpo, di essere abitati da così tante specie diverse le quali hanno un ruolo importante nel nostro stile di vita e negli accadimenti della nostra psiche?

Che ne è della tanto preziosa libertà quando dei batteri, producendo sostanze e attivando o disattivando geni determinano i nostri stessi pensieri oltre che controllare pesantemente molti dei nostri comportamenti?

Questioni cruciali.

Che per un verso appaiono legittimare una concezione sempre più materialistica della realtà, liquidando ogni residuo di spirituale e razionale ridotto a processi e meccanismi di cui si conoscono finalmente le dinamiche.

L’A. ricorda la pubblicazione di un articolo tra le pagine di Scientific American nel lontanissimo 1896 il quale suggeriva, a seguito di un piccolo esperimento, che la follia potesse essere causata da un batterio (Is Insanitiy Due to a Microbe?); poi però la proposta di Freud che la causa delle patologie della psiche fosse di tipo emozionale prese il sopravvento e tutto quel promettente campo di ricerca fu abbandonato.

Che ironia se tutto l’impianto della psicologia, con le sue migliaia di correnti e teorie, con tutte le sue innumerevoli pagine scritte in questo secolo, sia stata soltanto un’immensa perdita di tempo?

Chi vivrà vedrà.

Però, intanto, per un altro verso, un’altra idea di medicina si va facendo strada, la quale si avvede di come attraverso queste nuove scoperte non stiamo facendo altro che vedere con gli occhi cose che erano note e formavano il sapere di altre culture antiche (pensiamo soltanto a quanto dell’uomo spirituale ed emozionale dicesse il termine anticotestamentario di viscere), saperi che percepivano il materiale e lo spirituale non come contrapposti bensì come facce della stessa medaglia, compenetrandosi senza soluzione di continuità reciproca.

Saperi che consideravano puerile una lettura meccanicistica della realtà e della vita.

E in fin dei conti, passata l’iniziale vertigine per una possibile perdita di concetti così fondamentali come io e libertà, si può anche fare la riflessione che in fondo, se tali concetti hanno determinato in modo così forte il corso del pensiero di questa cultura che chiamiamo Occidente è probabilmente soprattutto ad opera della predominante matrice greco-ellenistica.

Che è poi quella che ha fatto da nutrice alla scienza post-galileiana.

Magari, forse, è semplicemente quel monopolio assoluto  che va disgregandosi.

Stay tuned.

 

Daniele Mangiola (DiRS-GBU)

Entropia genetica (Lunedì Letterario)

Lunedì 23 Aprile 2018

 

J.C. Sanford, Entropia Genetica, AISO, 2017, tit. or. Genetic Entropy, FMS, USA, 2014, 4th edition

Provando a digitare su un motore di ricerca J C Sanford, uno dei risultati è la pagina di un forum: Why is someone so smart like John C Sanford who invented the Gene Gun a creationist? A quanto pare essere svegli, furbi e anche creazionisti non si può.

Sanford è uno scienziato creazionista scomodo. Intanto è uno scienziato con credenziali decisamente alte e un lungo e ricco profilo scientifico: professore alla Cornell University per oltre 25 anni, tra i maggiori esperti mondiali di ingegneria genetica, inventore della tecnica e del dispositivo della biolistica, noto come Gene Gun, grazie al quale è diventato possibile inserire Dna estraneo dentro una cellula, e co-inventore della tecnica della resistenza derivata da patogeni e del processo di immunizzazione genetica. In pratica tutta l’ingegneria genetica deve a lui buona parte delle proprie enormi conquiste tecnologiche degli ultimi 30 anni.

John Sanford è uno scienziato scomodo anche perché nella prima parte della sua carriera è stato ateo ed evoluzionista.

Ma poi, egli afferma, approfondendo gli studi sui processi genetici, si è trovato di fronte alla sfida di mettere in discussione gli assiomi fondamentali del darwinismo per cui, lungo un percorso di svariati anni, si è trovato a passare da ateo a teista evoluzionista e poi a cristiano convinto dalle proprie ricerche che le basi delle teorie derivate da Darwin siano fondate sul nulla dal punto di vista sperimentale.

Perché, egli dice, abbiamo davanti due cose, quando parliamo di scienza, la scienza sperimentale e la scienza storica. Facciamo scienza sperimentale quando eseguiamo un esperimento che poi sia ripetibile in altri laboratori e il risultato sia confutabile, verificabile, falsificabile.

Quando invece, a partire da un fatto, da una realtà presente e sotto i nostri occhi, procediamo per inferenze e ipotesi, ricostruendo il passato, descrivendo eventi e processi che non possiamo riprodurre né più osservare, allora facciamo scienza storica. E facendo quella, se siamo troppo concentrati sulle nostre ipotesi e credenze, a forza di procedere per deduzioni, il rischio che dalla historical science finiamo nella science fiction è alto.

Ad esempio, per tornare a quella pagina del forum che ha deciso che non si possa essere creazionisti e anche intelligenti, tra le diverse critiche dei vari utenti esperti, si trova quella di chi inveisce contro la cecità dei creazionisti, perché l’evoluzione è sotto i nostri occhi: li vedi un chihuahua e un alano? quella è evoluzione.

Come se mai ci sia stato da qualche parte un creazionista che abbia negato il fatto evidente che tutte le diverse razze di canidi siano il risultato di processi di adattamento a condizioni e ambienti diversi di quello che è stato un antenato canide comune. Ma poi, procedere ancora indietro, dal canide al roditore, al rettile, all’animale acquatico, al vegetale, al protozoo, all’organismo unicellulare è tutt’altro percorso e ben diversamente evidente.

Genetic Entropy, pubblicato per la prima volta nel 2005, è il risultato di lunghi anni di ricerche nel campo della genetica e della bioinformatica. La tesi fondamentale, che Sanford espone per tutta l’opera attraverso grafici, statistiche, argomentazioni teoriche, esempi pratici è che il corredo genetico di un organismo, con il passare del tempo e delle generazioni, è soggetto ad un processo di graduale e inesorabile degenerazione dovuta all’accumularsi continuo di mutazioni le quali sono tutte negative, al massimo neutrali o quasi-neutrali. La percentuale di mutazioni che abbiano effetti positivi è talmente bassa da essere trascurabile.

La legge dell’entropia, dell’inesorabile tendenza al caos e al disfacimento, agisce sul genoma, questo dimostra ogni tipo di ricerche ed esperimenti. E dunque, a livello sperimentale, su base genetica, non si trova traccia alcuna dell’assioma primario dell’evoluzionismo, che, cioè, mutazioni casuali e selezione naturale producano aumento di informazioni genetiche e dunque aumento della complessità della vita.

Ogni tipo di esperimenti, al contrario, mostra ampiamente una costante e inarrestabile perdita di informazioni genetiche. Non c’è alcuna evidenza di qualcosa che possa lontanamente dirsi creativo nel processo di selezione naturale. Quello che al più si osserva è il meccanismo di conservazione di cui la vita appare dotato, che permette la neutralizzazione delle mutazioni più dannose e dunque tutto quello che si può dire è che la vita, a livello genetico, risulta strutturata per conservarsi e rallentare il più possibile il processo degenerativo.

Attraverso i diversi capitoli l’A. affronta e demolisce gli assunti fondamentali del dogma evoluzionista e neodarwiniano. Nelle 6 appendici poste dopo i capitoli si confronta direttamente con molte delle possibili obiezioni alle sue ricerche e in fondo esprime chiaramente il fondamento cristiano del suo lavoro.

Nell’ultima appendice affronta la questione della risposta del mondo accademico a questo suo lavoro. Nonostante la richiesta di revisione critica da parte di altri scienziati, l’A. lamenta un sostanziale silenzio.

Ed è certo una cosa notevole, considerando il calibro dell’autore, con più di 70 pubblicazioni scientifiche e diversi brevetti, di certo avrebbe meritato perlomeno una puntuale ed argomentata confutazione, magari anche una stroncatura.

Genetic Entropy è edito da FMS, una organizzazione fondata dallo stesso Sanford e soltanto adesso, nel 2017, ad opera di AISO, Associazione Italiana Studi sulle Origini, abbiamo un’edizione italiana con immutata veste grafica rispetto all’edizione originale.

Praticamente impossibile trovare commenti critici equilibrati: da un lato gli evoluzionisti attaccano duramente il suo lavoro mettendo in dubbio la sua stessa etica e la buona fede, delegittimando e deridendone le tesi (anzi, per la verità, praticamente tutto ciò che si trova di critico è di questo tenore, sono pochissime le puntuali e argomentate confutazioni); dall’altro versante coloro che hanno convinzioni creazioniste, salutano Genetic Entropy come una tra le più potenti e lampanti demolizioni del dogma neodarwinista, l’opera più illuminante.

Così ci troviamo in questo nostro tempo, le argomentazioni di coloro che si dichiarano sostenitori di un punto di vista scientifico, razionale, sono della stessa natura di quelle di seguaci, estremisti, fedeli, cariche, cioè, di personalismi, di emotività, di espressioni ricorrenti e stereotipate, degne di una qualsiasi corrente religiosa.

Per di più gli ambiti di indagine di tanta scienza sperimentale sono diventati talmente distanti dalla possibile percezione del sentire comune (ad esempio la genetica e il suo mondo di dimensioni infinitesimali) da essere di fatto accessibili ad una cerchia ristrettissima di persone, come sacerdoti o profeti in contatto con il trascendente, le quali affermazioni, contrariamente a quello che dovrebbe essere la scienza, possono soltanto essere accolte o rigettate con un gesto, che non può essere chiamato altrimenti che fede.

Daniele Mangiola | 23.04.2018

Dirs Gbu