Mend my ryme

di Filippo Falcone

 

“Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei [la Parola]”
“E la Parola è stata fatta carne e ha abitato per un tempo tra noi”
(Vangelo di Giovanni 1)

 

Se la Parola crea e se prende un corpo umano, significa che conta la realtà fisica, e non soltanto quella spirituale o noetica. Se la Parola crea e si incarna, la dimensione spirituale, la fede, non può mai essere disincarnata. Se la Parola dona il suo corpo per redimere una creazione e una realtà fisica e spirituale caduta, e lo riprende poi, significa che egli intende riscattare la realtà fisica unitamente a quella spirituale.

Il vangelo non è fuga dal mondo in attesa del cielo, ma cielo che entra nel mondo in un corpo per riscattarlo nella sua interezza e restituirgli il suo autentico significato. In Cristo cielo e terra si incontrano. L’incontro di cielo e terra è tuttavia da subito altresì scontro. Il corpo che Cristo assume deve essere donato per riscattare uomini e donne aggiogati al corpo dell’io.

La poesia metafisica inglese intende rappresentare e realizzare segnatamente l’incontro tra cielo e terra, ma nel farlo mette in luce la profonda dissonanza, il contrappunto, la distanza tra cielo e terra attraverso quelli che Samuel Johnson chiama “elementi eterogenei aggiogati insieme con violenza” (Lives of the Poets, 25).

È proprio questo scarto lo spazio che la Parola colma donando il proprio corpo ed è questo lo scarto che la parola poetica vuole colmare facendosi corpo attraverso l’immagine sensibile e il suono. Il poeta metafisico ravvisa nell’incarnazione la possibilità di trovare il cielo nelle cose della terra, vale a dire nella realtà fisica riscattata dal cielo. Ecco allora che in George Herbert, come in Donne, mani, piedi, occhi, cuore, cibo, orologio, puleggia, liuto e il verso stesso sono molto più che un correlativo oggettivo di ciò che è invisibile. Sono sacramento, segno visibile e udibile della fede, del rapporto con Dio e spazio della sua presenza. La materia inerte, inanimata, impotente, lo strumento scordato, disarmonico, il bocciolo colto nella morsa del gelo, il verso frammentato sono il terreno della grazia, che dà vita, armonia, linfa e sana il verso. Nella lirica metafisica il corpo si fa così verso e il verso corpo.

 

Deniall[1]

 

When my devotions could not pierce

Thy silent eares;[2]

Then was my heart broken, as was my verse:[3]

My breast was full of fears

5                                             And disorder:[4]

 

My bent thoughts, like a brittle bow,

Did flie asunder:[5]

Each took his way; some would to pleasures go,

Some to the warres and thunder

10                                           Of alarms.[6]

 

As good go any where, they say,

As to benumme

Both knees and heart, in crying night and day,

Come, come, my God, O come,[7]

15                                           But no hearing.[8]

 

O that thou shouldst give dust a tongue

To crie to thee,

And then not heare it crying![9] All day long

My heart was in my knee,[10]

20                                           But no hearing.

 

Therefore my soul lay out of sight,

Untun’d, unstrung:[11]

My feeble spirit, unable to look right,

Like a nipt blossome, hung

25                                           Discontented.[12]

 

O cheer and tune my heartlesse breast,

Deferre no time;

That so thy favours granting my request,

They and my minde may chime,

30                                           And mend my ryme.[13]

 

 

Diniego

 

Quando le mie preghiere non potean penetrare

I tuoi orecchi silenti;

Il mio cuore andò in frantumi e così il mio verso:

Il mio petto era colmo di paure

5                                             E disordine:

 

I miei pensieri ricurvi, come un fragile arco,

Volavano in ogni direzione,

Ciascuno per la sua strada; alcuni verso i piaceri,

Altri verso guerre e rumori

10                                           Di guerre.

 

Vagare in ogni direzione, dicono, non è diverso

Dall’intorpidire

Ginocchia e cuore, gridando notte e giorno,

Vieni, vieni, mio Dio, deh vieni,

15                                           Ma tu non ascoltavi.

 

Ah, perché mai dare alla polvere una lingua

Per chiamarti,

E poi non dare ascolto al suo grido? Per tutto il giorno

Il mio cuore era in ginocchio,

20                                           Ma tu non ascoltavi.

 

Così l’anima mia scomparve alla vista,

Stonata, scordata:

Il mio debole spirito, incapace di guardar ove si conviene,

Bocciolo morso dal gelo, pendeva ricurvo

25                                           Infelice.

 

O ravviva e intona questo petto privo di un cuore,

Non perder tempo;

Così che, allorché il favore tuo esaudirà la mia preghiera,

Quello e la mente suonino all’unisono,

E mendino il mio verso.

 

 

Testi poetici e note tratti da F. Falcone, Il cielo nell’ordinario, Chieti, GBU Edizioni, 2020, pp. 67-70.

[1] Deniall. Il componimento si inscrive nella tradizione dei Salmi di lamentazione (vd. Ryken, Le forme letterarie, pp. 176-7), dove il salmista piange l’assenza di Dio. Cfr. Sal. 102,2, «Non nascondermi il tuo volto nel giorno della mia sventura; porgi il tuo orecchio verso di me». I riferimenti metonimici a parti del corpo alludono all’intera persona e sono a loro volta riconducibili alla tradizione dei Salmi (e.g. Sal. 109,23). Il grido dell’io lirico al v. 14 fa eco ad Apoc. 22,20, «Vieni, Signore Gesù!» e alla preghiera per la quarta domenica dell’avvento (Book of Common Prayer, p. 81). Collocata immediatamente prima di “Christmas”, “Deniall” è una riflessione poetica sul bisogno dell’avvento di Cristo. La critica si è concentrata in modo particolare sulla coincidenza fra la disarmonia (controllata) del verso (versi di lunghezza diversa all’interno della stanza e verso finale di ogni stanza sciolto, seppure parallelo al secondo) e la disarmonia spirituale dell’io lirico (sottolineata da svariate immagini e dall’effetto di accumulo prodotto dall’ultimo verso di ogni stanza fino alla penultima: “disorder”, “alarms”, «no hearing», «no hearing», “discontented”). Questa è composta solo nell’ultimo verso dove, unitamente al favore di Dio («thy favours»), torna la rima. Se posta in relazione con il v. 14, la ricomposizione della rima e dell’armonia spirituale del poeta può essere intesa come un esempio di escatologia realizzata. Vendler sottolinea come l’infelicità del poeta e del salmista sia condizione a tal punto innaturale da poter essere rappresentata unicamente attraverso immagini e versi che riflettono frammentazione e disintegrazione (The Poetry of George Herbert, p. 259).

[2] Vv. 1-2. La metafora della violenza fisica (“pierce”) fa eco a “Prayer” (vd. in particolare v. 6) e “The Storm”. Là dove, tuttavia, in questi componimenti violenza chiama grazia, l’immagine è qui assorbita dalla sinestesia («silent eares»).

[3] V. 3. Avviene qui l’identificazione di verso e cuore. Come il cuore è spiritualmente in frantumi, così il verso.

[4] Vv. 4-5. Le paure e il disordine del cuore sono riflesse nel disordine del verso.

[5] Vv. 6-7. Cfr. l’emblema di “Anima”, dove le preghiere sono dardi «directed to the disembodied divine eye and ears in the heavens» (Lewalski, Protestant Poetics, p. 198; «diretti all’occhio e alle orecchie incorporee di Dio nei cieli»).

[6] Vv. 8-10. La ragione, schiava di un cuore in cui regna il disordine e la paura, produce pensieri incontrollati, che assecondano i sensi («to pleasures go») o inducono discordia («warres and thunder / Of alarms»). È qui sottesa la teoria rinascimentale delle passioni. Cfr. Donne: «Reason, your viceroy in me, me should defend, / But is captive, and proves weak or untrue» (“Batter my Heart”, vv. 7-8; «la ragione tuo viceré in me, me dovrebbe difendere, / Ma è prigioniera e si dimostra debole o falsa»). La recta ratio è ristabilita là dove il cuore è sanato dalla grazia (vd. Falcone, Milton’s Inward Liberty, cap. 2). Cfr. “H. Scripture I”, nt. ai vv. 6-11.

[7] Vv. 11-14. L’invocazione chiude un climax in cui l’io lirico supplica Dio in preghiera (“knees”) e con il cuore. Il grido incessante («night and day») indica come ciò di cui l’io lirico ha bisogno sia la presenza stessa di Dio (“Come”). Il riferimento sovrappone qui prima e seconda venuta di Cristo alla possibilità presente dell’io lirico di sperimentare Dio.

[8] V. 15. Al climax ascendente e culminante nel grido incessante, Dio risponde con il silenzio.

    [9] Vv. 16-18. L’io lirico raffigura se stesso come polvere, elemento inerte e inanimato, simbolo di umiliazione e impotenza, cui Dio dà una lingua per gridare a lui, ma cui non presta ascolto. Cfr. Milton, Sonetto 19, vv. 3-7: «that one Talent which is death to hide / Lodged with me useless, though my Soul more bent / To serve therewith my Maker, and present / My true account, lest he returning chide; / “Doth God exact day-labour, light denied?”» («quel talento nascondere il quale significa morte / Riposto in me inutilmente, benché la mia Anima sia incline / A servire per esso il mio Creatore e presentare / Il mio vero rendiconto, affinché egli tornando non abbia a rimproverarmi; / “Dio esige forse il lavoro quotidiano pur avendo negata la luce?”».

[10] Vv. 18-19. Se nella stanza precedente, l’io lirico distingueva fra «knees and heart», ora «heart is in my knee», a indicare che la preghiera è espressione umile e totalizzante del cuore.

[11] Vv. 20-22. L’anima si ritira e, come il verso, è strumento stonato o, come un liuto, scordato.

[12] Vv. 23-25. Da un’immagine musicale si passa a un’immagine naturale. L’enjambement «hung / Discontented» lascia il bocciolo sospeso, “hung” appunto, per poi personificarlo tramite l’attribuzione di un sentimento umano (“Discontented”).

[13] Vv. 26-30. Il cuore ormai non è più nel petto («in my knee») e nulla può in sé se non rivolgersi al di fuori di sé. L’intonazione dello strumento spirituale («my soul», «my feeble spirit»), e quindi del verso, è interamente demandata all’intervento esterno di Dio che con la sua grazia (“favours”) può ripristinare l’armonia della ragione (“minde”) e quindi ristabilire l’ordine e l’armonia del verso.