Shoah, Giornata della Memoria, Corte Internazionale dell’Aja e qualche altro pensiero

Come molti sanno oggi, 27 gennaio, nell’Unione Europea si è deciso di ricordare l’arrivo dell’Armata Rossa ad Auschwitz e, con questo evento, quanto è accaduto al popolo ebraico durante l’occupazione nazista in Europa. L’antisemitismo che ha prodotto la Shoah ed il tentativo di sopprimere intenzionalmente un popolo ha radici antiche ed il cristianesimo (anche quello protestante) non è esente dall’avere delle colpe per quanto accaduto.

Ricordare, soprattutto con senso critico ed approfondendo le circostanze storiche, oltre che cercando di comprendere (in modo empatico) quanto è stato subito è un’operazione sicuramente educativa e fortemente evocativa che ci fa anche comprendere quale possa essere l’uso del sapere storico.

Come spesso accade in Italia questo evento quest’anno è stato costellato di diverse polemiche dovute all’attuale situazione in Medio Oriente. che coinvolge direttamente lo stato di Israele che ha occupato la striscia di Gaza con lo scopo di annientare Hamas dopo i tremendi avvenimenti del 7 ottobre scorso. La contestazione più clamorosa è stata quella di un docente del Liceo Bottoni che ha scritto alla comunità ebraica di Milano ed agli Istituti Storici che si occupano di preparare manifestazioni in quest’occasione il suo disagio rispetto a questa commemorazione (la lettera si può leggere al seguente link: https://www.liceobottoni.edu.it/pagine/non-potr-essere-un-giorno-della-memoria-come-gli-altri ) Gli Istituti storici (in particolare il Parri) hanno risposto alle osservazioni, ribadendo l’importanza del compito civile che tocca ad ognuno di noi nel ricordare quanto accaduto (https://www.reteparri.it/comunicati/il-coordinamento-lombardo-risponde-al-prof-mazzi-sul-giorno-della-memoria-10423/?fbclid=IwAR1w0XD2uf88DaGFpVMyt9910L_8WWE3zDFbK3TraSg0jXAf3OsF9-jIbjU ). 

A livello internazionale, invece, il 27 gennaio 2024 viene dopo che la Corte Internazionale dell’Aja ha emanato la sua sentenza dopo il ricorso del Sud Africa che, implicitamente, accusava di genocidio lo Stato di Israele per i fatti di Gaza e chiedeva, di fatto, che la Corte si pronunciasse a favore di un immediato cessate il fuoco ed ad un’implicita condanna di Israele per quanto stava accadendo. La Corte in una sentenza piuttosto lunga e complessa (il cui testo può essere letto in inglese qui: https://www.icj-cij.org/sites/default/files/case-related/192/192-20240126-ord-01-00-en.pdf?fbclid=IwAR3sKnUEmCbaVZpx6Jj-1SO8Zvb2AUe4uIMZDxOko8y_OtaJk5EgL89hnOQ) ha ribadito la sua preoccupazione per quanto sta accadendo, ma non ha ordinato un cessate il fuoco né ha espressamente condannato Israele, esortando però lo stesso Stato a tutelare i diritti dei Palestinesi e ad evitare di commettere crimini di guerra che possano pre-alludere ad un genocidio, avendo Israele stesso sottoscritto la Convenzione che prevede la prevenzione dei genocidi (sulla base proprio della memoria di quanto accaduto in Europa).

Accanto a questi fatti significativi i thread dei miei social sono anche pieni di post di chiaro accento antisemita che vanno da quelli che dipingono Primo Levi come un antisionista (implicitamente presumendo che Levi non fosse a favore di Israele, questione assolutamente falsa), a coloro che suggeriscono fantomatici saggi che vogliono mostare come il sionismo fosse connivente con il Nazismo (sulla falsa riga di una errata interpretazione della cosiddetta “zona grigia” cui si riferisce sia Levi sia Hannah Arendt ne La banalità del male), alle indecenti vignette di alcuni autori italiani.

Cosa dire rispetto a tutto quanto accaduto e cosa possono dire gli evangelici rispetto a quanto sta succedendo oggi? Possiamo arrivare ad una lettura diversa del passato, possiamo rinnegare quanto accaduto o sentirci a disagio a ricordare e riportare alla memoria (sempre con senso storico)?

Personalmente, come docente, ho sempre pensato fosse doveroso ricordare questo particolare evento e in più occasioni (anche con una certa fatica) ho accompagnato gruppi di ragazzi a visitare i luoghi dello sterminio per riflettere insieme. Ovviamente questo lo si fa per evidenziare le atrocità che l’uomo può commettere e nella speranza che la comprensione di un evento così tragico porti tutti a riflettere su come tutto questo possa essere avvenuto e si possa cercare di non farlo avvenire più.

Cosa dire rispetto a queste circostanze e rispetto alle riserve mosse o agli insorgenti antisemitismi insorgenti sia dall’estrema destra che dall’estrema sinistra (che sino agli anni 1970 in Europa aveva un atteggiamento diverso rispetto a certe problematiche). 

In primo luogo va ribadita un cosa: l’attuale Stato di Israele è sicuramente frutto del sionismo, ma il sionismo non è mai stato un movimento unitario ed ha avuto al suo interno diverse anime, da quella totalmente laica ricollegantesi alle idee di Nazione sorte nel XIX secolo a quelle più strettamente religiose (che spesso non si sono neanche riconosciute nel movimento sionista). La dialettica politica e religiosa dello Stato di Israele rispecchia tali dinamiche anche oggi. Il sionismo non ha avuto nulla a che fare con la Shoah che è stata subita da tutti gli Ebrei dell’Europa a prescindere dalle loro scelte politiche vittime di una paura atavica verso il diverso e di una malvagità che si collegava a teorie cospirazioniste che ancora oggi i media diffondono con disinvoltura. Sicuramente si può non essere filosionisti (esattamente come Primo Levi ed Hannah Arendt), ma l’antisionismo (che automaticamente mette in dubbio l’esistenza dell’attuale stato di Israele) va spesso a coincidere con l’antisemitismo che ha avuto come sua conseguenza profonda nella storia dell’umanità la Shoah. Questa cosa non va dimenticata quando si parla di quanto oggi sta accadendo in Medio Oriente.

Lo Stato di Israele oggi è uno stato laico (e molti evangelici dimenticano questo particolare quando ne parlano), una costruzione storica avvenuta nel 1948 e riconosciuta dagli organismi internazionali. Le politiche di questo Stato (che è uno Stato democratico con delle sue peculiarità) come quelle di ogni istituzione umana sono soggette a critica e possono essere assolutamente criticate quando i Governi di Israele fanno delle scelte sbagliate. Come ogni democrazia anche lo stato di  Israele è imperfetto, come lo è qualsiasi istituzione umana. Queste critiche non devono però dimenticare che parliamo ad una popolazione che ha già all’interno una sua dialettica e che è composta da diverse parti che hanno opinioni diverse e su cui si può far pressione. Allo stesso tempo non dobbiamo dimenticare il motivo per cui gli Ebrei hanno costituito questo Stato e il perché gli organismi internazionali lo hanno riconosciuto dandogli legittimità.

Mi rendo conto che gli evangelici mostrano chiare simpatie filo-israeliane ed hanno bene in mente come sia importante commemorare la giornata della Memoria ricordando quanto accaduto ormai più di 80 anni fa in Europa. Allo stesso tempo dobbiamo qui ricordare una serie di questioni:

  1. Lo Shalom (la pace) anche per Israele è una delle costanti della predicazione biblica. Un credente non può aprioristicamente appoggiare un conflitto (anche giusto) se questo provoca un cattivo uso del mezzo bellico, provocando dolore anche contro coloro che non dovrebbero essere coinvolti. Pregare per la pace in ogni circostanza non è sbagliato;
  2. Israele (il suo Governo) possono essere criticati come ogni governo umano. Se le scelte dell’attuale Primo ministro israeliano e del suo Governo sono e sono state sbagliate non c’è nulla di male nel dirlo, senza con questo dubitare della stessa esistenza dello Stato;
  3. Non bisogna dimenticare della presenza cristiana in Palestina. Come afferma un articolo di Christianity Today di qualche mese fa (https://www.christianitytoday.com/ct/2023/october-web-only/israel-hamas-war-palestine-evangelical-christian-zionism.html?fbclid=IwAR15ztDoKpEe1XCIC_iUAH3euHKAMXUpgyMRuel25lzBckvC6fS-I21jM4M) nel territorio israelo-palestinese, la maggior parte dei credenti sono di origine palestinese e non ebraica. Le ragioni possono essere molteplici, ma dobbiamo tenere in considerazione anche questo fatto, all’interno di una situazione di estrema complessità.

Tutto ciò e le critiche che possiamo muovere ad una situazione complessa e delicata non ci devono far dimenticare cosa è successo e non devono neanche farci dimenticare il ruolo importante che gli Ebrei hanno avuto (e hanno) nella storia della salvezza. Pertanto rimane sempre nostro dovere civico e di credenti ricordare cosa è successo non solo il 27 gennaio (che è un’occasione), ma costantemente nella nostra vita e nel nostro impegno.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Dio, l’Io e la Bibbia di Moby Dick

Il mondo di Moby Dick

“Il nemico nel suo sembiante è meno orribile di quando infuria nel petto dell’uomo”. Così in un passaggio di Young Goodman Brown, racconto breve di Nathaniel Hawthorne. In un certo senso, Moby Dick; or, the Whale (1851) è tutto qui. Il romanzo di Herman Melville (1819-1891) è il grande romanzo epico americano. Così Hawthorne: “Che libro ha scritto Melville! Mi dà un’idea di forza di gran lunga maggiore di quella espressa dai precedenti suoi”. Sesto romanzo di Melville, Moby Dick non è estraneo all’influenza dell’autore della Lettera Scarlatta cui dedica il romanzo, Melville sottolinea come la contemplazione della sua opera “continui ad affondare robuste radici del New England sempre più in profondità nel caldo terreno della mia anima del Sud”.  

Melville è indubbiamente lambito dal trascendentalismo emersoniano, da cui Hawthorne idealmente discende, ma prende le distanze dalla “self-reliance” (“fare affidamento su sé stessi”) e dall’ottimismo circa la natura umana e il mondo che lo connotano. È certamente possibile leggere l’opera di Hawthorne puramente in termini di critica al moralismo, all’identitarismo e all’ipocrisia della società puritana, una critica affine a quella che in Stevenson e Wilde investe la società vittoriana, Melville ravvisa nondimeno nel buio che la percorre qualcosa che informa la natura dell’uomo, Nell’alzare il velo di rispettabilità che cela i mali del mondo puritano, come di quello vittoriano, i tre autori mettono sì in luce il degrado e l’alienazione morale e spirituale di un intero ambiente, ma paiono nel contempo identificare all’interno dell’uomo la fonte del male.

Il giovane brav’uomo, il signor Brown, incarna tutto ciò. Di giorno è esemplificazione dell’ideale di integrità, innocenza e purezza puritano. Di notte percorre la foresta per prendere parte al Sabbat. Là si scopre in buona compagnia. Vi si trovano tutte le cariche puritane più importanti e insospettabili. Quel Sabbat è ciò che infuria dentro l’uomo, là dove con il favore delle tenebre rimane celato e taciuto. Due sono allora i signor Brown, così come non c’è Jekyll senza Hyde, né Dorian senza il suo ritratto e non c’è Ismaele senza Achab.   

Come Hawthorne e i trascendentalisti, John Milton, William Wordsworth e S. T. Coleridge esercitano a loro volta una profonda influenza su Melville. Un giovane Herman, insegnante di letteratura inglese presso la Sikes District School, li integra nel curriculum di studi. Un ruolo non meno importante è quello giocato dalla cultura classica. Ancora bambino, Melville ne intraprende lo studio a scuola e continua a coltivarla nel tempo. Il solco che essa lascia è profondo e pervasivo. Infine, il mare. Melville è, tra le altre cose, uomo di mare. Naviga. Partecipa a una spedizione a bordo di una baleniera (la Acushnet). Visita luoghi esotici e remoti, tra i quali la Polinesia.  

Pur nella loro eterogeneità, tutte queste fonti letterarie o esperienziali trovano un denominatore comune nella Bibbia (la Bibbia di re Giacomo, la King James o Versione Autorizzata, 1611). In Melville la Bibbia è grammatica e sintassi del pensiero. I riferimenti e le allusioni alla Bibbia nelle sue opere sono innumerevoli, ma è il tessuto implicito delle Scritture a costituire la sostanza stessa della prosa e del pensiero. Come una balena non sa di essere immersa nell’acqua, né può vivere senza di essa, così in Melville le Scritture sono l’elemento essenziale che informa pensiero, immagini, simbolismo, lessico e fraseologia, elemento in ordine al quale ogni altra fonte trova la propria collocazione e senza il quale Moby Dick non esisterebbe. Non c’è peraltro in Melville conflitto tra elemento classico e biblico. Al contrario, i due si completano e alimentano a vicenda andando a formare una sorta di sfondo unico sul quale proiettare i significati. Quello di Melville è ricorso a un metodo mitico ante litteram che ha nel Paradiso Perduto il proprio modello. La vita per mare, a sua volta, trova tali e tante rappresentazioni nelle Scritture – su tutte, quella del libro di Giona. In ultima analisi, è la Bibbia stessa a fornirci le chiavi ermeneutiche del testo.

Ma quale Bibbia legge Melville? Herman nasce nel 1819 da padre unitariano (movimento cristiano del tutto sovrapponibile al trascendentalismo – vd. S. T. Coleridge) e madre calvinista (la famiglia di lei appartiene alla Dutch Reformed Church). Con la morte del padre (1832), l’influenza del calvinismo materno si fa preponderante nella sua vita. È attraverso lenti calviniste che la lettura delle Scritture è filtrata e con essa un’intera visione del mondo e dell’uomo. Nondimeno, negli scritti di Melville si avverte da subito la tensione tra questa matrice e l’afflato trascendentalista, tensione che trova una sintesi compiuta in Moby Dick.

Traspare dall’opera di Melville un tentativo costante di decostruzione delle identità religiose, di riscoperta dell’essenza del messaggio evangelico al di là di quelle identità e delle loro proiezioni nefaste in termini di narrazioni e ideologie dominanti. In successione, Typee, Omoo e Mardi, sullo sfondo della cornice edenica della Polinesia e dei mari del Sud, accendono i riflettori sulla condotta della cosiddetta avanguardia della civilizzazione nella regione e in particolare sulla “glorious cause” della missione cristiana o, per dirla con Kipling, il fardello dell’uomo bianco. L’occupazione delle Sandwich Islands da parte di un gruppo di Metodisti presuntuosi e pieni di velleità induce Tommo a esclamare “Heaven help ‘the Isles of the Sea!’” (ndt “il Cielo aiuti le isole del Mare!” – Typee, Evanston, IL, 1968, 26:195 – le traduzioni dei testi sono di chi scrive). Facendo eco a Is 24:15, la supplica iscrive il contesto direttamente nel testo biblico. Nei due romanzi successivi, la preoccupazione di Melville verso gli sforzi missionari non sembra sfumare. In Omoo l’autore riflette sulla collusione tra religione e commercio, ma pare di scorgere in lui una lacerazione tra il riconoscimento del valore di far conoscere ai popoli insulari il messaggio cristiano e il rigetto totale verso lo smantellamento di strutture sociali e costrutti culturali nativi operato dagli stessi araldi di quel messaggio. “Undoubtedly”, scrive, “the missionaries were prompted by a sincere desire for good; but the effect has been lamentable (“Senza dubbio […] i missionari erano mossi da un desiderio sincero di bene; ma gli effetti si sono dimostrati nefasti” – Omoo, Evanston, IL, 1968, 47:183). E ancora, in Mardi, “the march of conquest through wild provinces may be the march of Mind; but not the march of Love” (“la marcia di conquista attraverso le province selvagge è forse la marcia della Mente, ma non è la marcia dell’Amore” – Mardi, Evanston, IL, 1970, 168:552). 

Quella di Melville non è rinuncia al messaggio evangelico in nome di una visione universalista, equanime e relativista mutuabile da date forme di trascendentalismo. Al contrario, è ricerca di quel messaggio così come si declina nell’amore nel mondo. In questo, la visione trascendentalista contribuisce a mettere a fuoco lo spirito del dettato biblico. Non distante dalle istanze di Melville è lo stesso Hawthorne, il quale nel 1850, un anno dopo la pubblicazione di Mardi, ritrae un mondo, quello de La Lettera scarlatta, in cui chi detiene la Parola ne fa strumento identitario e di potere, là dove la peccatrice Hester Prynne e, da ultimo, la figlia Pearl, sono vera rappresentazione della grazia di Dio nella misura in cui la lettera della legge (la “A” di adultera impressa su Hester) viene in loro trasformata in lettera di perdono e amore (“Amor”).

Intercorre un anno tra la pubblicazione de La Lettera Scarlatta e Moby Dick. La trama del secondo è piuttosto esile. C’è un narratore interno che fa da cornice al racconto e che si imbarca sul Pequod, baleniera il cui capitano è il famigerato e diabolico Achab. Achab ha una gamba sola. L’altra gli è stata tranciata da Moby Dick, un capodoglio bianco. Nella sua ossessione e follia vendicativa, Achab abbandona qualsiasi obiettivo razionale ancorché utilitarista – catturare il più alto numero di balene da cui estrarre olio – e trascina tutto l’equipaggio nella missione suicida di dare la caccia a quell’unica balena e ucciderla. Nell’assalto finale, Achab muore, insieme a tutto l’equipaggio. L’unico superstite è il narratore, che rimane in vita per raccontare la storia.   

 

Ismaele

Il grande tema dei primi tre romanzi di Melville viene recuperato qui da subito e si intreccia con il racconto di formazione e il tema del doppio. Ismaele è il giovane alla ricerca. Come i personaggi di Typee, Omoo e Mardi, anche Ismaele deve affrontare un mondo altro da ciò che vuole apparire. La maschera di innocenza e virtù che indossa è piuttosto caratterizzata da Ismaele come “ipocrisie civilizzate e insulsi inganni”. Ismaele, tuttavia, non si considera altro da tutto questo, ma riconosce in sé lo stesso principio, lo stesso buio. “With the rest me intertwined”, direbbe Whitman. Il suo senso di inadeguatezza, il suo vuoto interiore e la sua alienazione si traducono nella brama del mare come elemento purificatore e nel quale trovare significato. Il viaggio per mare è proprio questo, metafora della vita interiore e della sua elaborazione. Prima di imbarcarsi, Ismaele narra il suo ingresso nella Spouter-Inn a New Bedford. C’è un mendicante tremolante sul selciato, un povero “Lazzaro” (vd. il racconto del ricco e Lazzaro in Lu 16:19-31), così lo chiama, che non può proteggersi in alcun modo dal potente “Euroaquilone” (vd. la vicenda di Paolo di Tarso, la cui nave è sospinta alla deriva da questo vento impetuoso in At 27:14), forte vento freddo di tramontana. Il locandiere non nota altro che una splendida nottata. La miseria del mendicante è il diletto del locandiere. Questa dialettica risalta sullo sfondo biblico a suggerire come quella cui si trova davanti Ismaele è la condizione umana, ma a indicare nel contempo la distanza tra cielo e terra e come “in terra non sia fatto come in cielo”. Ismaele vive in questa tensione, nella lacerazione di chi vuole veder realizzata sulla terra la realtà celeste. È il mondo cristiano per primo a contraddirla e a nascondere la contraddizione sotto un velo di civilizzata ipocrisia. 

Melville fornisce, nondimeno, a ogni personaggio un doppio, o più di uno, che lo aiuti a elaborare la propria condizione e giungere a un superamento. Il doppio di Ismaele, il primo, è Queequeg, un pagano! La contrapposizione tra Ismaele e Queequeg non è soltanto contrapposizione tra civiltà e barbarie, ma tra cristianesimo e paganesimo. A New Bedford i due sono esposti alla religiosità l’uno dell’altro. In un primo momento entrambi assistono al culto nella Cappella del Baleniere, culto presieduto dal rev. Mapple, lui stesso un tempo baleniere. Il suo sermone verte su Giona. Il pulpito elevato e a forma di prua dà un senso di ostentazione e di giudizio che fa da contorno a un sermone in cui viene messo in risalto il rigore della legge di Dio, la sua intransigenza, la necessità di non peccare e di pentirsi. È un messaggio che non fa i conti con la complessità e la fragilità della condizione umana, un messaggio cui sotteso è il giudizio e, in definitiva, un messaggio in cui non trova posto il nucleo centrale del libro di Giona e ciò che Giona, e il rev. Mapple con lui, non è in grado di accettare – l’amore di Dio. 

Figlio del re pagano Kokovoko, Queequeg era attratto in giovane età dal cristianesimo. Vi vedeva la possibilità di emancipare il suo popolo dalle superstizioni pagane, trarlo fuori dal buio dell’ignoranza e condurlo a una maggiore luce e felicità. La sua esperienza a bordo di una baleniera l’aveva presto convinto che “even Christians could be both miserable and wicked; infinitely more so, than all his father’s heathens” (“i cristiani fossero a loro volta miseri e malvagi; e infinitamente di più dei pagani di suo padre”). Giunto infine a Nantucket, era ormai persuaso che il mondo fosse malvagio a ogni sua latitudine e che tanto valesse morire da pagano. Mentre prepara il suo idolo, Yojo, per le preghiere serali, Queequeg ricambia il favore ed estende a Ismaele l’invito ad assistere alla sua cerimonia. Ismaele esita, ma tra sé e sé pensa: “What is worship? – to do the will of God – that is worship. And what is the will of God? – to do to my fellow man what I would have my fellow man do to me – that is the will of God. Now, Queequeg is my fellow man” (“Che cos’è in fondo l’adorazione? – Fare la volontà di Dio – ecco cos’è l’adorazione. E qual è la volontà di Dio? – Fare al mio prossimo ciò che vorrei lui facesse a me [vd. Mt 7:12; Lu 6:31] – ecco qual è a volontà di Dio. Ora, è Queequeg il mio prossimo”). Una volta di più, il senso profondo del testo è calato nello stampo della Scrittura. Assistendo alla cerimonia pagana, Ismaele non partecipa all’adorazione dell’idolo di Queequeg, ma per la prima volta adora Dio. Lo adora nella misura in cui supera i confini identitari dell’io per stare con lui – ecco cos’è l’amore. 

Solo ora e insieme a questo compagno Ismaele può affrontare il mondo, rappresentato dal Pequod. Gli armatori del Pequod sono i capitani Peleg e Bildad, due Quaccheri. Lungi dal coltivare luce interiore e pacifismo, i due sono paradossalmente caratterizzati come uomini bellicosi e materialisti. Il capitano Bildad ostenta pietà trascorrendo gran parte del suo tempo piegato sulla sua Bibbia, ma poi non disdegna di piegare la propria regola di assumere soltanto nativi convertiti ai propri interessi quando si accorge dell’abilità di Queequeg con l’arpione. Per gran parte del corpo centrale del romanzo la figura di Ismaele quasi scompare. Fa capolino di tanto in tanto, per poi riprendere tutta la scena alla fine. Quando riaffiora nei capitoli centrali, vediamo come il mondo non sia cambiato. Rimane quel luogo oscuro dal quale era profondamente alienato. Sta cambiando lui. Sta imparando a vivere nel mondo, non in ordine alla possibilità di farlo proprio o di essere ad esso assimilato, ma in ordine alla capacità di amarlo. L’amore diventa così lo spazio dell’universalità, dell’equanimità e della verità.

Se la figura di Ismaele quasi scompare per la gran parte del corpo centrale del romanzo, è perché deve cedere il passo ad Achab. Achab incarna il buio e il vuoto di Ismaele. Il pieno superamento della propria condizione può avvenire unicamente in ordine a una liberazione dalle tenebre dell’io. Achab deve morire. Nell’ultimo assalto a Moby Dick, Ismaele attraversa una sorta di morte, simile a quella di Giona trascinato negli abissi dentro un grande pesce. Con Ismaele muore Achab. Come Giona, Ismaele riaffiora, senza Achab, lui solo, in una specie di rinascita, su di un asse di legno. È un resto cruciforme della bara di Queequeg. La morte di Queequeg è la sua vita. Per tre giorni e tre notti, dice il racconto di Giona, il profeta rimane nel pesce. Il riferimento temporale prefigura, nelle parole evangeliche, la morte di Cristo. Tutto nella scena ha la funzione di comporre l’identificazione tra la morte e la resurrezione di Cristo e Ismaele. In forza di tale assimilazione, il narratore viene redento dall’io e da tutte le sue proiezioni (Achab) per nascere di nuovo come persona libera di narrare. Come l’antico marinaio di Coleridge, anche Ismaele è chiamato a dare conto di quanto accaduto, non già come esercizio di espiazione perpetua, ma di amore. L’amore segna il passaggio alla maturità, una maturità capace di abbracciare la meraviglia del mondo così come tutte le sue ingloriose imperfezioni, una maturità fatta a un tempo di intelletto ed emozione, conoscenza e grazia. Ora il narratore Ismaele, libero da Achab, la via dell’io, può istruire altri nella via di Dio.

 

Achab

Achab è il personaggio centrale di Moby Dick. Ne abbiamo considerato alcuni aspetti in funzione di Ismaele, ma più di qualunque altra figura il suo personaggio ha una costruzione indipendente in relazione al simbolo dominante nel romanzo, Moby Dick. Achab è personaggio prometeico, incarnazione di hybris e ossessione monomaniacale, egocentrismo e vendetta. Tutto questo però altro non è che ciò con cui Achab riempie il baratro interiore che tutte le acque dell’oceano non sono in grado di colmare. La sua figura assurge al piano del mito sullo sfondo metafisico e mitologico del mondo della cetologia e dello sfruttamento dei capidogli, che tanta parte del corpo centrale del libro occupa. Ciò che inizialmente appare una vendetta personale del capitano contro la creatura che l’ha menomato assume presto i contorni dell’odio puro e, da ultimo, di sfida cosmica. Il cielo e il suo sole diventano suo nemico. Come Satana nel Paradiso Perduto odia i raggi del sole, perché gli ricordano il bene che egli ha deciso di sfidare, così Achab, nell’atto di fare a pezzi il quadrante con cui dovrebbe orientare la navigazione, maledice gli occhi che si alzano “to that heaven, whose live vividness but scorches him, as these old eyes are even now scorched with thy light, O sun!” (“a quel cielo, la cui lucente vividezza non fa che bruciarlo, come questi vecchi occhi continuano a essere bruciati dalla tua luce, O sole!”). La sfida di Achab è lanciata contro tutto ciò che costituisce un limite al suo io e in definitiva contro il limite ultimo, incarnato nella balena bianca. “I now know that thy right worship is defiance” (“ora so che la tua vera adorazione è la ribellione”). Là dove Ismaele comprende che la vera adorazione di Dio risiede nell’amore, Achab la identifica nella ribellione all’Altro in quanto limite al proprio io. Ciò che Ismaele abbraccia è ciò che Achab sfida. Sarà il dio Apollo, il Pequod il suo carro che trascina il sole dove vuole. Sarà Poseidone, colui che controlla i mari. La bussola che con arti demoniache Achab fabbrica, a sostituire il quadrante, funziona alla perfezione. “Ahab can mend all” (“Achab può aggiustare qualunque cosa”), dice di sé il capitano, in preda a delirio di onnipotenza. “In his fiery eyes of scorn and triumph, you then saw Ahab in all his fatal pride” (“Nei suoi occhi ardenti di disprezzo e trionfo, si vedeva Achab in tuo il suo fatale orgoglio”). La sua assimilazione al Satana di Milton è qui completa. Satana è re d’inferno e Achab dio dei mari, ma come Satana è schiavo della sua mente, dell’inferno che porta dentro ovunque vada, così Achab non può liberarsi di Moby Dick, mostro marino megafono cosmico della sua hybris. La libertà vista come assenza di limiti è allora schiavitù del proprio io, sul cui altare Achab deve sacrificare sé stesso, il Pequod e tutto il suo equipaggio. 

Se Moby Dick può essere considerato una sorta di doppio di Achab, quale proiezione della sua volontà di potenza, un altro doppio ne compone la figura, là dove altri tre vengono in sequenza respinti. Il primo è Fedallah, una sorta di subconscio demoniaco del capitano. Achab introduce lui e la sua diabolica ciurma sul Pequod di soppiatto. Parte oscura dell’animo umano, come Hyde, Fedallah deve rimanere nascosto fino al primo inseguimento, quando il corso fatale del capitano è ormai sancito e può dunque venire alla luce. La presenza malvagia di Fedallah è particolarmente evidente quando Achab, sprezzante, sfida la sapienza di Dio. La sua realtà corporea è messa sempre più in dubbio dall’equipaggio. Come il secondo sé del capitano di Conrad nel Compagno segreto emerge dagli abissi dell’inconscio sul ponte in quello che viene descritto come il sembiante di un’entità spirituale, così Fedallah appare come una sorta di ombra oscura del capitano. Quando questi profetizza eventi straordinari che debbono accadere prima che Achab muoia e Achab inizia a percepirsi immortale, sentiamo la eco di Macbeth e scorgiamo in lui qualcosa dell’illusione che Satana accarezza nel Paradiso Perduto. “What […] hidden lord and master, and cruel, remorseless emperor commands me?” (“Quale oscuro signore e padrone, e imperatore crudele e spietato mi comanda?”). Il male e l’io si sono impossessati di lui. Come un dr. Jekyll ante litteram, al termine della storia Achab diventa Fedallah. Come Satana, Achab dà la colpa al fato. Come Macbeth, colui che ha un ruolo di comando viene soggiogato e comandato da un padrone interiore.

Nel Canto di Natale (1843), Dickens manda al signor Scrooge tre fantasmi perché gli mostrino dove conduce il suo corso fatto di avidità, egoismo e assenza di amore. Melville fa lo stesso con Achab. Gli manda tre marinai, altrettanti doppi, che rappresentano il bene o l’innocenza e che potrebbero modificare o per lo meno mitigare il suo destino. 

Per primo compare Bulkington, simbolo di onestà e franchezza, di coraggio, di quell’equanimità di fronte alle molte e varie onde dell’esperienza umana e del disegno cosmico che Achab non farà mai propria. Bulkington viene sepolto nel capitolo 6 per permettere all’ossessione di Achab di fare il suo corso, ma rimane nell’immaginazione del lettore e lì ricompare quale contraltare della follia monomaniacale del capitano. 

A lui succede Starbuck. Questi rivolge le proprie energie alla conversione del capitano, ma è dominato da una paura che procede dalla gnosi. In lui spirito e corpo, cielo e terra, non possono incontrarsi. Egli antepone l’innocenza personale al bene altrui. Dinanzi alla possibilità di salvare l’equipaggio, togliendo la vita ad Achab, Starbuck preferisce preservare la propria anima da colpe. Il movimento che lo contraddistingue è diametralmente opposto a quello di Ismaele, che per amore di Queequeg accantona il proprio interesse. Starbuck è personificazione di una virtù autoreferenziale e inefficace. 

Come Giona e Ismaele, Pip, l’ultimo dei tre marinai deputati a distogliere Achab dai suoi sordidi propositi, sperimenta una sorta di morte e rinascita, trascinato com’è negli abissi dove viene “drowned the infinite of his soul” (“annegato l’infinito della sua anima”), ma “kept his finite body” (“preservato il suo corpo finito”). Pip vede negli abissi l’onnipresenza di Dio, il suo piede sul pedale del telaio, e ne parla. Il resto dell’equipaggio lo ritiene folle. Il suo battesimo annega la sua identità umana e gli restituisce un’identità altra. Svestito dell’umana ragione, Pip è rivestito della sapienza celeste. Paolo di Tarso parla della follia della croce, che fa da contraltare a chi cerca da un lato forza, dall’altro sapienza umana. “So man’s insanity is heaven’s sense; and wandering from all mortal reason, man comes at last to that celestial thought, which, to reason, is absurd” (“Così la pazzia dell’uomo è la sapienza del cielo; e allontanandosi da ogni umana ragione, l’uomo giunge alla fine a quel celeste pensiero, che, per la ragione, è insensato”). Pip sfida Achab ad abbandonare la propria follia umana per abbracciare la pazzia di Dio. Più di chiunque altro, Pip scuote le fondamenta interiori di Achab. Il capitano lo avverte parte di sé, intessuto intimamente alle corde del suo cuore. Nel suo amare l’austero e malvagio capitano incondizionatamente, Pip incarna la sapienza e la grazia di Cristo. Come il sole, Achab finisce per respingere anche lui.

Moby Dick

Moby Dick è il limite, è Dio, e Moby Dick è proiezione dell’io di Achab. Come il Dio di Blake, agnello e tigre, Moby Dick è sfuggente forza indomita e indomabile, energia e libertà, terrore e furia, candore e innocenza. Ha un suo giaciglio nel buio degli abissi, ma affiora in tutto il suo nitore. Moby Dick è entità cosmica e simbolo, essere mitico e trascendente, corporeo e metafisico. Alla fine del cap. 41 viene identificato come “Job’s whale” (“balena di Giobbe”), il leviatano di Giobbe, spaventosa creatura marina che sfugge al controllo umano. Dio ne parla nel contesto dell’elencazione delle opere imponderabili della sua creazione al fine di mostrare a Giobbe, che lo interroga e mette in dubbio il suo disegno, l’infinita e inaccessibile sapienza di Dio, a un tempo fuoco consumante e inesauribile grazia. Anche il leviatano ubbidisce alla sua voce. Giobbe dichiara la resa e s’immerge insieme alla creatura ancestrale in Dio. Non così Achab, per il quale le acque rimangono quell’elemento interiore in cui Moby Dick può essere solamente l’oppressore. 

Moby Dick è anche la balena di Giona. Il sermone del rev. Mapple prefigura la vicenda di Achab e del Pequod. Giona non vuole ubbidire a Dio, che gli ordina di andare a Ninive, grande città assira, e rivolgerle il suo messaggio. Si imbarca per contro alla volta di Tarsis, agli antipodi di Ninive. Il suo intento è quello di allontanarsi dalla presenza di Dio. Ma Dio manda una grande tempesta. Giona sa di esserne il responsabile e si fa gettare fuori bordo dai marinai. Al che, Dio manda un grande pesce, che inghiottisce Giona. La creatura marina incarna a un tempo giudizio e salvezza. Trascina Giona nelle profondità del mare, ma poi lo restituisce alla vita. Dio vuole insegnare a Giona la sua infinita misericordia, là dove Giona conosce di lui soltanto il giudizio. Giona è governato da una giustizia vendicativa verso l’oppressore assiro. La sua è la hybris di chi cerca di salvare la propria identità personale e nazionale e, avendola vista violata, invoca una giustizia retributiva. 

Il disegno di Dio è teso a redimere Ninive. Achab la vuole annientare. Moby Dick è la sua Ninive. La sua è una giustizia umana che si contrappone alla giustizia di Dio. La giustizia umana salva l’io a spese dell’altro. La giustizia di Dio salva l’altro a spese di Dio. La reazione di Giona alla conversione e al perdono di Ninive è esemplare. Risentimento, atteggiamento di sfida aperta, ribellione, superbia. Giona è fino in fondo Achab. Dio nella sua grazia continua a cercare di ricondurre Giona alla sua presenza. Gli manda un ricino come riparo dal sole e ulteriore tentativo di insegnargli la sua compassione, così come Melville manda ad Achab tre diverse figure perché si produca in lui μετάνοια (metànoia, conversione). È un amore quello di Dio il quale investe l’alterità di uomini, donne e bambini che non fanno parte di Israele, ma è un amore che investe altresì ogni altra creatura. Il libro di Giona si chiude con le parole: “Tu hai pietà del ricino […] e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame”. L’antico marinaio dell’eponima ballata di Coleridge afferma la sua hybris e alienazione dall’altro uccidendo un albatros. L’identificazione con la sua colpa, che in definitiva è identificazione con la morte di Cristo (la ciurma appende l’albatros cruciforme al collo del marinaio) lo porterà a benedire un groviglio di serpenti acquatici. Al termine della vicenda, l’antico marinaio ha imparato ad amare ciò che non è amabile, ogni creatura di Dio, dalla più piccola alla più grande. 

La visione trascendentalista e biblica si fondono qui e interrogano il lettore. Chi può amare Moby Dick? Chi può amare il mondo, il Creatore e ogni creatura? Il colore bianco di Moby Dick “is at once the most meaningful symbol of spiritual things, nay, the very veil of the Christian’s Deity; and yet is the intensifying agent in things most appalling to mankind” (“è a un tempo il simbolo più significativo delle cose spirituali, anzi, il velo stesso della Deità che il cristiano adora; eppure, esso è anche l’agente intensificante nelle cose per l’umanità più terribili”). Abbiamo visto come Moby Dick sia l’una o l’altra cosa per i nostri personaggi, giudizio o assoluzione, oppressione o redenzione.  Nelle parole di Ismaele: “The mystical cosmetic which produces every one of her hues, the great principle of light, for ever remains white [..] and […] would touch all objects” (“la cosmesi mistica che produce ognuno dei suoi colori, il grande principio della luce, rimane perennemente bianco […] e […] lambiva ogni oggetto”). Il colore bianco pervade ogni cosa, è il principio stesso della luce. Tale cosmesi, il Logos dell’universo, pertiene alla realtà fisica, ma è nel contempo realtà “mistica”. Moby Dick è prisma che rifrange le tonalità dell’animo umano. È il bianco, la luce, che consente alle sfumature di manifestarsi. È il principio in cui sussistono tutte le cose e contro cui si infrange l’idolatria dell’io. Come può esserne proiezione? Soltanto nella misura in cui Moby Dick assorbe in sé il male, l’orgoglio, l’egocentrismo e la ribellione dell’uomo; soltanto là dove se ne fa carico, diventando il luogo in cui buio e luce, giudizio e giustificazione si incontrano. 

Moby Dick parla dell’uomo, della società degli uomini, del creato e di Dio. Li contrappone, li interroga, li trascina in mezzo al mare, fino agli abissi, per poi farli riemergere. Moby Dick sonda le profondità marine dell’animo umano e gli spazi metafisici, la terra fisica e il cielo. Contesta ipocrisia e identitarismo, nazionalismo e colonialismo culturale. Contesta l’io e le sue maschere, l’io e la sua hybris, l’egocentrismo, il potere, lo sfruttamento e la sopraffazione. A tutto questo contrappone Cristo, la balena bianca, fine dell’io e inizio dell’amore.       

                                                                                                                                                                         Filippo Falcone

 

       

                                          

Il rifiuto della trascendenza. Alcuni pensieri sparsi su Toni Negri.

Abbiamo appreso proprio ieri della morte di uno dei maggiori e più controversi intellettuali italiani della seconda metà del XX secolo: Antonio Negri. Negri era un pensatore assolutamente originale di cui, tra l’altro, abbiamo parlato nell’ultimo libro pubblicato dalle edizioni GBU, I discepoli furono chiamati cristiani.

Riflettendo sulla sua dipartita terrena ed a pochi giorni dal termine del nostro Convegno di studi dedicato all’ateismo vogliamo tracciare un breve ritratto e fare alcune riflessioni su questo pensatore. 

Antonio Negri è stato un filosofo protagonista tra fine anni 1960 e inizi 1970 dei movimenti di protesta giovanile di stampo marxista ed extraparlamentare in Italia. Mentre diventa uno dei dirigenti di Potere Operaio, scriveva alcuni dei saggi che lo hanno reso famoso, uno dedicato al filosofo Spinoza (L’anomalia selvaggia) e l’altro al pensiero di Cartesio (Descartes politico). E’ stato un raffinato analista del pensiero di Marx e lo ha cercato di reinterpretare il suo pensiero in chiave più contemporanea con alcune venature influenzate dallo strutturalismo e dal post-strutturalismo francese. Coinvolto anche attivamente nei cosiddetti anni di piombo nel terrorismo rosso, sino ad essere accusato di essere capo della Brigate Rosse (accusa rivelatasi infondata) sarà comunque condannato per altri reati e, dopo essere scappato in Francia, ritornerà in Italia a scontare la sua pensa. Agli inizi del XXI secolo tornerà alla ribalta (all’inizio non in Italia)  con la pubblicazione di Impero con Michael Hardt, testo che avrà un grande successo globale e che riporterà il pensatore italiano alla ribalta del panorama culturale mondiale. 

Negri si è sempre professato ateo ed i due suoi autori classici preferiti, Spinoza e Marx lo sono di fatto stati, anche se consideriamo Spinoza un panteista moderno che ha cercato, da ebreo, di racchiudere la realtà del mondo e del divino in un’unica sostanza. Che interesse potrebbe avere pertanto per il mondo evangelico?

Ci sono diverse piste che si possono percorrere e qui ne proporremo alcune. Negri ha sempre mostrato interesse per i movimenti religiosi. Partendo dall’analisi di alcuni passi di Marx ha sempre pensato che i movimenti religiosi, soprattutto quelli che partono dal basso e che sono poco istituzionali, possono essere la premessa di una liberazione effettiva dell’uomo. Lettore avido dal marxista Ernst Bloch che aveva analizzato qualche decennio prima il pensiero di T. Müntzer, visto come un proto-rivoluzionario, ha guardato con attenzione ai movimenti della teologia della liberazione che, a suo parere, sono espressione di quella Moltitudine che potrebbe rovesciare lo stesso Impero o capovolgerne le sorti. Ovviamente per il pensatore padovano il movimento religioso può essere visto come un inizio e non come il coronamento di un traguardo raggiunto che può essere solo supportato da un movimento politico. 

Nel 2008 una serie di evangelici americani sono entrati in dialogo con Negri e Hardt per analizzare la nozione di impero. Per Wolterstorff ed altri pensatori evangelici Negri aveva colto nel suo testo il fatto che, ormai, l’Impero non potesse più identificarsi con una particolare nazione (nonostante la supremazia statunitense) e che questo avrebbe potuto dare l’occasione soprattutto ai movimenti evangelici che stavano avendo successo nel Sud del mondo di creare spazi di apertura verso il Regno di Dio e verso una società più giusta e versata alla pace nel mondo. Il libro, che si intitola Christian Alternatives to the Political Status Quo (Alternative cristiane allo status quo politico) si conclude con una replica di Negri che, insieme ad Hardt, ringrazia dell’interesse per i suoi studi ma, allo stesso tempo, ribadisce anche che la sua idea di speranza di pace è qui sulla terra e che rifiuta qualsiasi possibilità che ci sia una trascendenza (un Dio) che possa essere risolutrice per ciò che accade nel mondo. Quindi una grande attenzione per i movimenti religiosi informali che possono far parte di quella Moltitudine (altro titolo di un saggio di Negri) che può far cambiare l’Impero ma che, alla fine, non possono essere risolutivi per il costante richiamo che fanno al Divino.

Negri è anche stato un attento lettore del testo biblico. Ho sentito anche diverse sue interviste dove dimostrava la sua capacità di fare esegesi di un testo che trovava assolutamente interessante ma su cui voleva andare oltre. Questo suo interesse, oltre che da una originaria formazione cattolica (comune a molti teorici della sinistra extraparlamentare degli anni 1960/70) derivava anche dalla sua attenzione per il pensiero dell’ebreo Spinoza che, pur essendo stato uno degli iniziatori del cosiddetto metodo storico-critico, da buon ebreo dava grande spazio all’esegesi delle Scritture (si veda i numerosi riferimenti ed anche i tentativi di una esegesi “umana” che sono presenti nel Trattato Teologico-politico). Negri negli anni Novanta, proprio durante gli anni della prigionia, ha elaborato un testo di difficile lettura dedicato al libro di Giobbe ed intitolato il Lavoro di Giobbe. Ciò che affascinava il pensatore padovano era la figura del personaggio biblico che deve faticare per farsi ascoltare da Dio. Non si tratta del rapporto con il trascendente, quanto del continuo dissidio e lotta che passa anche attraverso il proprio corpo e la sua presenza. Una lettura interessante, ma anche questa priva di una trascendenza (l’entrata di Dio sembra una messa in scena) e che se ci dà pagine assolutamente interessanti nella descrizione del personaggio, allo stesso tempo ci fa capire come si possa leggere un testo biblico in parte non capendone totalmente il senso o dandone uno alternativo a quella di molta esegesi.

Negri non è assolutamente facile da leggere ed i testi citati da me sono di difficile lettura (fa eccezione proprio Impero in cui Hardt ha funzionato a mio parere da facilitatore, anche perché il testo è stato pubblicato originariamente in inglese, una lingua che non sempre riesce a tenere conto delle ardite capriole linguistiche dei filosofi continentali), ma allo stesso tempo rimane una figura paradigmatica del panorama culturale italiano. Sicuramente gli evangelici farebbero bene a tenerne conto non per la sua “ateologia” (in cui è rimasto coerente), quanto per le sue riflessioni sul potere, sulla crisi degli Stati e sull’interpretazione del tempo presente, tenendo conto che, come ogni marxista occidentale (pur appellandosi a Lenin talvolta, ma, a nostro parere essendo distante) cerca di costruire un’utopia ed una speranza che può trovare proprio nel testo biblico una risposta ed è una figura che ci permette di confrontarci con quell’ateismo dialogante differente dai modelli scientisti che oggi vanno più di moda.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

L’oro del negoziante

di Miroslav Volf

«Cammino per strade che sono morte», cantava Bob Dylan.
Quando ascoltavo il verso, mi sono ricordato della mia passeggiata nelle strade che erano morte. Un anno fa ho visitato Vukovar, una città croata che era stata di fatto distrutta nella guerra. Vedevo il vuoto che si estendeva attraverso le finestre rotte, e le porte delle case i cui tetti erano stati sfondati e le cui facciate mostravano le cicatrici causate dalle schegge. Ho ascoltato lo stridulo silenzio che avvolgeva le lunghe file di case separate da marciapiedi coperti di erbacce e disseminati di oggetti abbandonati. Strade morte. Monumenti di vita distrutta o espulsa.

Più recentemente ho passeggiato per le strade morte di Sandtown nel centro di Baltimora. Era come se stessi rivivendo Vukovar, solo che questa volta il distruttore non era stata la guerra ma le tensioni razziali, il crimine e la rovina economica. C’era un’altra importante differenza. Dodici isolati della città erano stati segnati dalla New Song Community (Leggi l’articolo correlato, Missione urbana) ed erano stati dichiarati come spazio della pace di Dio. Le strade morte erano di nuovo piene di vita.

Mark Gornik della New Song me lo spiegò un po’, mentre passeggiavamo. Mentre stava spiegando il degrado dei centri cittadini, suggeriva che la dottrina della giustificazione per grazia contenesse risorse non sfruttate per la guarigione. Lo sapevo, pensai dentro di me. Per circa dieci anni aveva vissuto e lavorato a Sandtown e avevo visto le trasformazioni che vi erano state, una casa alla volta.Tuttavia per molti teologi la giustificazione per grazia è una dottrina oziosa. Alcuni l’hanno abbandonata e l’hanno lasciata arrugginire sotto un mucchio di spazzatura teologica; la reputano generalmente inutile o quanto meno di scarso aiuto quando si giunge al voler guarire patologie anche inferiori rispetto ai cicli di povertà, alla violenza e alla disperazione. Altri perseguono una sorta di interesse antiquario per la dottrina; esaminano e lustrano un artefatto del sedicesimo secolo e lo mostrano orgogliosamente a chiunque voglia frequentare il loro piccolo museo. Arrugginita o lucidata, la dottrina della giustificazione per grazia giace lì, abbandonata, senza vita. Una dottrina morta. Poteva la speranza dei centri urbani essere parzialmente basata sul recupero della dottrina della giustificazione per grazia?

Come potevano le strade morte ricevere vita da una dottrina morta? Immaginate di non avere lavoro, di non possedere denaro, di vivere ai margini del resto della società in un mondo governato dalla povertà e dalla violenza, la vostra pelle è del colore “sbagliato”, e non avete alcuna speranza che tutto questo cambierà.
Attorno a noi vi è una società governata dalla legge d’acciaio del successo. Le sue merci dorate sono ostentate davanti ai nostri occhi sugli schermi della TV, e in migliaia di maniere la società ci dice ogni giorno che siamo senza valore perché non ci siamo realizzati. Si è un fallimento, e si sa che continuerà a essere un fallimento perché non c’è maniera di realizzare domani ciò che non si è riusciti a ottenere oggi. La dignità è frantumata e l’anima è avvolta nel buio della disperazione.

Ma il vangelo ci dice che non si è definiti dalle forze esterne. Ci dice che si può contare, ancora di più, sul fatto che si è amati incondizionatamente e infinitamente, senza nessun riguardo per ciò che si è raggiunto o per i fallimenti che si sono avuti, anzi si è amati un filino di più di coloro i cui sforzi sono stati coronati dal successo.

Immaginate ora questo vangelo che non viene semplicemente proclamato ma incorporato in una comunità che è venuta fuori non come un «frutto delle opere» ma come una comunità «creata in Cristo Gesù per le buone opere» (Ef 2:10). Giustificati dalla pura grazia, cerca di “giustificare” per grazia coloro che sono resi “ingiusti” dall’implacabile legge del successo della società. Si immagini inoltre questa comunità determinata a infondere ancor più questa cultura, insieme con le sue istituzioni economiche e politiche, con il messaggio che cerca di incorporare e proclamare. Questa è giustificazione per grazia, proclamata e praticata. Una dottrina morta? Difficile che lo sia.

Mentre stavo riflettendo sul significato sociale della giustificazione per grazia mi salì alla mente un passo di Così parlò Zarathustra di Nietzsche che avevo letto andando a Baltimora. «O miei fratelli, io vi dirigo e vi consacro verso una nuova nobiltà: diventerete portatori e coltivatori e seminatori del futuro – in verità, non una nobiltà che si potrebbe acquistare come un negoziante che commercia oro; poiché tutto ciò che ha un prezzo è di poco valore».

La giustificazione per grazia, pensavo, meditando sulla profonda osservazione di Nietzsche, è profondamente in contrasto con la nostra «cultura da negozianti». Togliere l’etichetta del prezzo dagli esseri umani non significa svalutarli, ma donargli la propria dignità, una dignità non basata su cosa hanno realizzato ma radicata sul semplice fatto che sono amati incondizionatamente da Dio. L’amore divino è quell’indispensabile nutrimento per l’anima umana di cui il profeta parla quando afferma: «O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Is. 55:1).

Articolo tratto dal volume
Contro la marea.
L’amore in un tempo di sogni meschini e continue inimicizie
,

Edizioni GBU, 2022.

 

Vedi l’intervista all’autore sul canale Youtube di Edizioni GBU

 

Capire la Bibbia cambia tutto

Nuova Traduzione Vivente: capire la Bibbia cambia tutto

di Filippo Falcone

 

Il giorno 20 maggio 2023 è stato presentato presso il Salone del Libro di Torino – sala Madrid – il Nuovo Testamento versione Nuova Traduzione Vivente in lingua italiana (NTVi), edito per i tipi della Società Biblica di Ginevra e frutto di un lavoro che per sette anni ha visto coinvolta un’équipe di 6 teologi, biblisti, letterati e linguisti italiani.

La NTVi è una traduzione della Bibbia moderna e affidabile, che abbina la più aggiornata ricerca biblica a uno stile di scrittura chiaro e dinamico. Questa versione della Bibbia trasmette l’annuncio evangelico in modo espressivo e preciso, e comunica con accuratezza il significato, il contenuto e il portato linguistico-culturale delle forme del testo biblico originale, servendosi di un linguaggio contemporaneo e di facile comprensione.

Muovendo dall’impianto della New Living Translation (Tyndale House), terza traduzione della Bibbia in lingua inglese, alla quale hanno lavorato oltre 90 biblisti del mondo anglofono, la NTVi adotta un approccio traduttologico funzionale o a equivalenze dinamiche. Tale approccio predilige la chiarezza dei significati e l’immediatezza dell’effetto all’aderenza lessicale e morfosintattica al testo di origine. Pertanto, là dove una traduzione parola per parola non fosse in grado di restituire un testo piano al lettore italiano contemporaneo, il comitato di traduzione NTVi ha optato per una traduzione concetto per concetto.

Sorge qui subito un’obiezione in relazione al valore del segno e della singola parola. Dopo tutto, Gesù stesso afferma: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”. La NTVi non intende sminuire o relativizzare il valore del singolo segno o della singola parola all’interno del testo. Al contrario, si fa carico di valorizzarla nel contesto dei suoi rapporti con le altre parole e con un intero contesto. La parola in questo senso prende vita e assume valore in ordine ai rapporti di significato di cui è parte e che genera.

Con la NTVi la Società Biblica di Ginevra colma un vuoto lasciato dalle principali traduzioni protestanti e cattoliche – fatta eccezione per l’Interconfessionale, che ha tuttavia la tendenza a cedere alla tentazione della parafrasi – le quali antepongono sistematicamente l’aderenza formale al testo d’origine all’immediatezza dei significati e all’espressività del testo di partenza. Il mito di una traduzione più fedele e accurata quanto più aderente alla lettera dell’originale condiziona ancora i giudizi. Nell’approntare una traduzione, occorre considerare come qualcosa del testo di origine vada inevitabilmente perso. Il traduttore dovrà allora stabilire che cosa intende guadagnare e cosa è disposto a perdere. Tutto ciò che le altre traduzioni perdono, la NTVi lo recupera. In questo senso, la NTVi diventa un complemento fondamentale alle traduzioni già esistenti, sia in funzione di una lettura devozionale sia dello studio.

Una traduzione formale pura – nessuna traduzione “formale” può dirsi pura; l’adesione assoluta alle forme originali comporterebbe infatti, tra le altre cose, il completo snaturamento dei significati nella lingua d’arrivo – presupporrebbe idealmente l’esistenza di un deposito linguistico statico e indipendente da un contesto storico-culturale, sociale, letterario e personale proprio dell’autore e del lettore originario. Un testo simile non esiste e certamente i testi che compongono il NT, scritti o redatti, nel caso di una trasmissione orale precedente la stesura, non sono quel testo. Sono piuttosto ciò che in linguistica definiremmo “atti” o “fenomeni linguistici” afferenti a un contesto dinamico.

Questi atti rivendicano a un tempo natura di rivelazione. Non si tratta, tuttavia, di una rivelazione altra dalla storia dell’uomo bensì, direbbe Corsani, di una rivelazione calata proprio in quella storia. La parola, per così dire, si incarna, si carica delle forme umane, elegge le cose che non sono, autori e lettori, e le riscatta. Viene riflesso così il movimento del Dio che si rivela in questa parola. Il Dio del vangelo non pretende che l’uomo lo raggiunga dove è lui (“Chi è mail salito in cielo?”), ma raggiunge l’uomo là dove si trova con la sua grazia. Potremmo dire allora che l’annuncio corrisponde alla forma in cui l’annuncio è trasmesso. Gli atti linguistici del NT hanno in un senso molto reale una qualità performativa. Essi fanno ciò che dicono.

La lingua del NT non a caso non è un greco elevato o letterario, ma il greco della Koinè, il greco del mercato, la lingua del popolo. Questa lingua ha la capacità di raggiungere i lettori là dove si trovano, ponendo gli autori in relazione immediata con loro e con il loro contesto. È una lingua costitutivamente democratica ed essa stessa conforme all’annuncio del Dio che è nel contempo l’assolutamente Altro e l’Emmanuele.

La NTVi intende riprodurre questo movimento, cercando di fare per la nostra generazione ciò che le traduzioni di Wycliffe e Lutero hanno fatto per le loro. In un certo senso, la NTVi decostruisce la lingua d’origine, intesa nella sua staticità, e con essa il contesto storico-culturale e sociale che l’informa per restituirne il portato al lettore italiano di oggi. Non solo, la NTVi decostruisce altresì le sovrastrutture delle molteplici traduzioni con cui entra in conversazione – Nuova Riveduta, CEI, (Nuova) Diodati, BIR ecc. – per riscoprire un testo che parli al lettore di oggi in Italia come parlava al lettore originario.

In definitiva, la NTVi pone in relazione il testo greco con il lettore italiano oggi, rappresentando una sorta di intertesto compiuto e dinamico, il terreno di un incontro tra il lettore e l’annuncio evangelico e, da ultimo, come vorrebbe Barth, lo spazio dell’incontro fra il lettore e Cristo.

Crediamo che la verità viva in questa parola; ma crediamo anche che questa verità non sia statica, fatta di enunciati che l’uomo possa controllare e custodire come un feticcio. La verità non può essere proprietà di una forma esterna, neppure di una forma che annunci quella verità. La sua natura è dinamica e relazionale e la persona che la informa non la si può cercare tra i morti.

La NTVi nasce come testo adatto a una lettura ad alta voce, un testo pensato per i giovani, per chi è digiuno delle Scritture, ma anche per coloro che hanno grande familiarità con le Scritture. La NTVi ha la capacità di decostruire i presupposti con cui ci avviciniamo al testo, rimuovere, per così dire, le lenti, i costrutti, attraverso cui lo leggiamo, consentendoci di riscoprirlo.

Lo sforzo editoriale compiuto dalla Società Biblica di Ginevra è altresì un invito nuovo rivolto alle donne e agli uomini italiani di questa generazione affinché possano scoprire che questa parola è per loro e affinché, scoprendola, conoscano la verità che vive in lei.

Veramente, capire la Bibbia cambia tutto!

L’infinita saggezza di Dio. Un omaggio a Tim Keller

E’ un infinito conforto avere un Dio che è molto più saggio e

che mostra molto più  amore di quanto possa fare io.

Ci sono miriadi di ragioni per ogni cosa che fa e

permette e che non posso conoscere,

ma in lui è la mia speranza e la mia forza.

Tim Keller

 

Tim Keller, una delle più importanti figure del mondo evangelico americano, è andato con il Signore, dopo aver combattuto tre anni con un cancro al pancreas. Le parole che riportiamo come epitaffio sono quelle del Twitter dove egli annunciò la sua malattia e che ci sembrano sintetizzare efficacemente il suo messaggio.

Keller è stato un personaggio molto influente negli ultimi decenni nel mondo evangelico. Formatosi in alcuni dei seminari più rinomati, dopo aver lavorato con IFES (dove aveva vissuto anche la sua conversione) è stato per qualche anno professore al Westminster Theological Seminary, dove aveva anche preso il suo dottorato.

Come molti affermano in queste ore sarebbe potuto rimanere lì per il resto della sua vita, probabilmente i suoi libri avrebbero comunque avuto un certo successo. Ma la vera sfida per lui evangelico conservatore era quello di andare in una delle città più secolarizzate del mondo e riuscire ad avere successo nella missione del Vangelo. Per questo motivo nel 1989 è andato a New York dove è riuscito, nel cuore di Manhattan, a vivificare una Chiesa Presbiteriana ortodossa nella sua fede che, grazie a lui, è stata frequentata da centinaia di persone. 

Pertanto nel mondo evangelico Keller sarà soprattutto ricordato come predicatore di successo nell’era, come afferma Leslie Newbigin, del post-cristianesimo occidentale. La sua capacità è stata quella, pur rimanendo nella tradizione, di sapersi far ascoltare da un pubblico cui bisognava annunciare il Vangelo a partire da zero e cercando di comprendere il suo linguaggio. Per questo motivo ha cercato in autori come C.S. Lewis e J. Stott dei modelli da cui partire per imparare a parlare al mondo. E’ stato anche un fervido lettore non solo della letteratura evangelica, ma anche di quella secolare, con lo scopo di comprendere lo spazio in cui si muoveva.

Quando nel 2010 ho potuto ascoltare Keller a Città del Capo ho apprezzato soprattutto la sua analisi sociologica del mondo in cui viviamo e l’importanza di evangelizzare le città, luogo dove vivono la maggior parte delle persone della terra oggi, un po’ come i primi cristiani hanno evangelizzato in primis le città dell’Impero. 

Le sue posizioni “tradizionali” non gli hanno impedito di farsi sentire nel mondo secolarizzato e di acquistare un notevole rispetto che lo ha portato anche a contribuire ad alcune delle più importanti testate del panorama culturale newyorchese, che ha sempre avuto idee liberal. Ha scritto, oltre che per le case editrici evangeliche, anche per giornali come il New York Times (che lo ha avuto come suo host editor diverse volte da dopo l’attentato alle Torri Gemelle) a riviste come The Atlantic dove ha scritto proprio uno dei suoi più toccanti articoli dopo aver saputo della sua malattia. Questo ha dimostrato la sua capacità di saper parlare al mondo che, pur essendo in disaccordo, lo ha sempre ascoltato.

Fondatore con Don Carson di Gospel Coalition è stato uno degli esponenti del cosiddetto new calvinism negli Stati Uniti, ma ha sempre dato priorità ad una predicazione di Grazia ed Amore piuttosto che ad una basata sull’enfasi delle caratteristiche più peculiari del mondo Riformato. La sua scelta è stata dovuta soprattutto alla sua formazione ed anche a voler trovare quella che poteva essere una base teologica solida e ben strutturata.

Non sono mancate nella sua vita i momenti in cui sono stati evidenti alcuni contrasti come nel 2017 quando il Princeton Theological Seminary (oggi di tendenza liberale mainstream) voleva dargli (giustamente) il premio Abraham Kuyper (che viene conferito a predicatori e teologi riformati che si sono distinti nella conciliazione tra Vangelo e società) e poi ha ritirato il premio perché gruppi di studenti hanno dissentito a causa delle sue idee sul ministerio femminile (come tutti gli esponenti di Gospel Coalition Keller è rimasto complementarista e contrario al ministerio pastorale femminile, pur dando spazio alle donne nel diaconato) e per la condanna dell’omosessualità. Nonostante questo Keller comunque ha tenuto le conferenze Kuyper delineando i sette passi che si devono fare per evangelizzare il mondo occidentale, il più difficile oggi cui far ascoltare il Vangelo. La proposta era quello di ritornare ad un’apologetica simile a quella agostiniana della Città di Dio, a cercare una via di mezzo tra l’impegno per il sociale (voluto soprattutto dai protestanti storici) e l’annuncio del Vangelo, ad avere una critica della secolarizzazione partendo dall’interno del mondo cristiano piuttosto che dall’esterno, a sviluppare la doppia vocazione per coloro che sono impegnati nel mondo evangelico e nel mondo del lavoro, a guardare al mondo evangelico in modo globale e a non guardare solo al contesto americano (uno sicuramente dei limiti oggi di questo mondo), ad evidenziare la grazia che sola salva l’umanità ed a distinguere il Vangelo da comportamenti religiosi standard.

Se il discorso del 2017 a Princeton può essere visto come la sua sintesi teologico-pastorale, non va dimenticato che, in un periodo difficile per il mondo evangelico americano, Keller ha saputo tenere le distanze dall’agone politico (non mostrando indifferenza verso di esso, ma profondo interesse), ribadendo che il cristianesimo non ha un suo partito di preferenza e che, benché i credenti si debbano impegnare per il sociale, non possono sposare agende di particolari partiti o leader politici.

La testimonianza degli ultimi anni è stata sicuramente toccante, perché, pur mostrando le sue debolezze umane, Keller, nella malattia, ha mantenuto la fede nel Dio sovrano. Il suo lascito sarà importante soprattutto per la capacità che ha avuto di parlare al mondo in cui viviamo ed in questo va sicuramente imitato e preso come modello.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Rammentatevi che sono morto nella fede di Dio, per la libertà. Breve profilo di un partigiano evangelico.

La Resistenza per la minoranza evangelica è stato un periodo significativo, soprattutto per coloro che hanno partecipato alle lotte partigiane, una minoranza nella “minoranza” che, però, pensava di associare la propria fede alla causa della libertà per la Nazione. Diversi sono i profili di partigiani evangelici, sicuramente in una percentuale più alta di quella che era la “densità” religiosa protestante in Italia. 

Una figura particolare di questo movimento è stata quella di Jacopo Lombardini che, come hanno ricordato recentemente NEV e Riforma, in occasione del posizionamento di una pietra d’inciampo a lui dedicata presso il Collegio Valdese di Torre Pellice, ha ricevuto per il suo operato una medaglia d’argento alla memoria dalla Repubblica italiana.

Chi era Lombardini? Al contrario di quello che si possa pensare non proveniva dalle Valli Valdese ma dalla provincia di Carrara, dove, sin da piccolo, grazie anche al nonno ed al padre, aveva avuto simpatie repubblicane e mazziniane (il nonno era stato un garibaldino che aveva partecipato al tentativo della conquista di Trento). Grazie a queste convinzioni, dopo aver terminato gli studi magistrali ed essersi dedicato anche alla poesia (scriverà nella sua vita anche dei romanzi), si era avvicinato all’irredentismo di sinistra pre-prima guerra mondiale e fu interventista democratico, tanto che si arruolò come volontario durante la Grande Guerra.

Tornato a casa, proprio anche grazie al suo mazzinianesimo ed al suo anticlericalismo che difficili da conciliare nella Chiesa Cattolica, si avvicinò dopo il conflitto alla Chiesa Evangelica e si convertì al metodismo diventando, dopo un paio di anni di studi a Roma, il predicatore della Chiesa di Carrara che fiorì durante la sua predicazione. 

L’avvento del Fascismo negli anni 1920 e il suo voler vivere in un territorio che riteneva più “libero” per gli evangelici lo portò, dopo diverse frequentazioni estive, a trasferirsi nelle Valli Valdesi, dove, dopo qualche anno, divenne insegnante presso il Collegio Valdese di Torre Pellice. La sua attività di educatore e la sua volontà di voler istruire i giovani è attestata da diverse sue affermazioni. Lombardini fu un esempio di quello che spesso è avvenuto nel mondo evangelico italiano: uomini dalla “doppia vocazione” che insieme alla predicazione cercano di conciliare il proprio lavoro secolare, in questo caso quello di educatore.

La sua adesione all’antifascismo è da farsi risalire immediatamente dopo l’avvento al potere di Mussolini. Aderì, proprio per le sue idee repubblicane e mazziniane, sin da subito al gruppo fondato dai fratelli Rosselli di Giustizia e libertà (gruppo di cui molti evangelici fecero parte) che poi confluì nel Partito d’Azione, sempre di ispirazione repubblicana e mazziniana.

Nel 1942 viene sospeso dall’insegnamento su segnalazione di un genitore che si lamentava dei valori non propriamente fascisti insegnati dal docente carrarino. 

Qualche mese dopo Lombardini aderirà alla lotta partigiana proprio nei gruppi affiliati al Partito d’Azione e farà parte della V divisione Alpina di Giustizia e Libertà, dove avrà anche il ruolo di cappellano laico della divisione (dove non militavano solo evangelici). Sarà così che nel marzo del 1944, dopo un duro rastrellamento da parte delle forze naziste, Lombardini sarà arrestato e tradotto prima a Torino, poi a Fossoli, poi a Mathausen, dove pur vivendo giorni terribili non perderà né la fede, né la speranza. Qui continuerà a scrivere e ad occuparsi degli altri prigionieri. E’ di questo periodo la seguente poesia, scritta in occasione della morte del ventunenne partigiano Sergio Toja, cui sarà intitolata la stessa divisione di cui era membro Lombardini.

 

Sergio, fratello, ti ho visto

sul marmo di sala mortuaria

piccola e nuda e solitaria 

e in alto una forma di Cristo. 

Come Lui, nudo e forato, di nulla coperto che un panno 

nel vestibolo dedicato 

– a quei che risusciteranno -.

Tu così hai fatto partenza:

forse anch’io, ora, ho più fretta;

che vuoi: si vive, si aspetta

con indisciplinata impazienza

 

Prima della morte avvenuta nella camera a gas proprio il 25 aprile 1945, scriverà questa commovente alla propria sorella, testimone della fede mantenuta anche in circostanze tragiche come quella che aveva vissuto.

 

Cara Maria, 

Se ti arriverà questa mia lettera che affido ad un mio amico vorrà dire che mi è successo qualche disgrazia e che ho finito di soffrire. Ti scrivo dai monti, dove mi sono rifugiato per non sottostare alla dominazione tedesca e per fare un po’ di bene. Sono infatti un po’ il cappellano dei Valdesi che sono nelle Bande partigiane. Pur essendo del tutto disarmato è logico che io corra gli stessi pericoli dei miei compagni che hanno deciso di salvare con le armi l’Italia e di dare al popolo d’Italia un regime giusto e libero. Ho accettato di fare questo come un dovere, perché non ho mai cessato di amare la libertà. Ti prego di perdonarmi di questo dolore che ti do. Ti prego di perdonarmi i dolori che ti ho dato nella vita. Ma ti ho sempre voluto bene, ed ho voluto bene a tutti i miei nipoti. Salutameli ad uno ad uno. Salutami Filiberto e tutti i parenti. Salutami i fratelli che sono rimasti del gruppo evangelico. Mi dispiace di non aver potuto far nulla di quanto avevo in mente per esso. Mi raccomando a tutti che non lasciate spegnere quella piccola luce di fede e di speranza che è stata accesa nel nostro paese. Io morirò, con l’aiuto di Dio, nella fede Evangelica alla quale sono stato chiamato per grazia di Dio. Siate fedeli anche voi. In questi giorni di pericolo di morte, io provo quale tesoro sia la fede: essa infatti mi permette di essere tranquillo. A Dio, mia cara sorella, a Dio, miei cari parenti ed amici tutti. Rammentatevi che sono morto nella fede di Dio, per la liberta. Siate fedeli a Dio ed amate la libertà per la quale tanti sono morti. 

Jacopo Lombardini

 

La sua esortazione di rimanere fedeli a Dio, ad amare la libertà, a rimanere fermi nella fede evangelica sono alcune delle caratteristiche del piccolo mondo evangelico italiano che non vanno dimenticate e che vedono proprio in Lombardini, come affermava anche Spini, il punto di unione tra la fede, l’aspirazione ad una Nazione libera, il Vangelo, il Risorgimento e la Restistenza. Per il suo esempio e la sua morte Lombardini fu insignito della medaglia d’argento alla memoria. La motivazione del conferimento dice:

 

Lombardini Jacopo fu Francesco e fu Musetti Assunta da Gragnana (Apuania) classe 1892, partigiano combattente. Uomo di cultura e patriota di sicura fede fu, subito dopo l’armistizio. animatore infaticabile della lotta di liberazione nelle Valli del Pellice e della Germanasca; conosciuto ed amato dai giovani che andava ammaestrando nella fede alla Libertà e alla Patria. Caduto in mano ai tedeschi nel corso di un duro rastrellamento e crudelmente seviziato, manteneva sempre contegno elevato ed esemplare, affrontando con cristiana serenità il duro calvario dei campi di concentramento. Barbaramente suppliziato chiudeva l’esistenza nel servizio dei più nobili ideali.

 

Fede,  libertà e amore per il proprio servizio sono valori che ancora oggi noi dobbiamo continuare a trasmettere, anche ricordando la commemorazione civile del 25 aprile.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Il santuario di Debre Libanos nel 1934

Riconoscere le proprie colpe come Nazione e come credenti

Quando in una Nazione si cambia Governo dopo diversi anni, quest’ultimo deve riprendere e intrecciare rapporti diplomatici con le altre Nazioni cercando di essere attento a quanto si dice, oltre che a quanto si fa. L’Italia, in questo momento è alle prese con diverse crisi internazionali, da quella del conflitto russo-ucraino a quelle rinvenienti dal continente africano, anche dei Paesi che, nella prima metà del XX secolo erano nostre colonie. 

E’ giusto che il Governo allacci e riallacci rapporti con questi Paesi ed è quello che ha cercato di fare l’attuale Premier con la sua visita in alcuni Paesi africani qualche giorno fa. Quando si va in questi Paesi non bisogna mai dimenticarsi di quello che è accaduto e di come, come tutte le altre nazioni, e forse anche più di esse, l’esercito coloniale italiano e i governi precedenti la Seconda Guerra Mondiale siano stati protagonisti di grandi atrocità e la nostra Nazione dovrebbe provare vergogna e chiedere scusa per tutto quello che è successo. 

Ad una domanda fatta al premier se fosse il caso di chiedere scusa per le atrocità commesse, la risposta è stata piccata e si è quasi voluto ricordare che un tale atteggiamento appartiene più ad un colore politico che ad un’intera Nazione. Va detto che, precedentemente due nostri Presidenti della Repubblica, Scalfaro e Mattarella, avevano riconosciuto che quanto successo nel passato va assolutamente condannato e che l’unico atteggiamento che uno Stato dovrebbe avere è quello di chiedere scusa.

Chiaramente per comprendere gli avvenimenti passati è giusto guardare alla storia ed anche a certe narrazioni di essa che sono passate nel nostro Paese. Dopo la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, l’Italia perse tutte le sue colonie e, dato anche il breve tempo in cui aveva avuto questi territori al di fuori del nostro confine, per diversi decenni non si è riflettuto in maniera critica su quanto accaduto, su come i nostri connazionali si siano macchiati di crimini atroci, dovuti anche al fatto che si ritenevano i territori conquistati abitati da persone culturalmente e razzialmente inferiori. 

E’ passato, per diverso tempo, la “leggenda” che gli italiani, nei loro possedimenti coloniali, si fossero comportati bene, anzi che avessero portato la civiltà, costruendo “le strade” e comportandosi in maniera bonaria, perché gli italiani erano dipinti come “brava gente”, rispetto alla durezza imposta nei loro territorio dai britannici e dai francesi

Questa falsa narrazione (ancora presente oggi) è stata messa in discussione solo a partire dagli anni 1990, grazie anche ad un’attenta ricerca documentaria che ha fatto scoprire a diversi storici cosa fosse accaduto durante il periodo di occupazione coloniale da parte degli italiani. 

Uno dei primi ad occuparsi della dominazione coloniale italiana è stato Angelo del Boca. Del Boca, attraverso i suoi attenti studi delle fonti dell’epoca, ha dimostrato che la brutalità era presente già con i governi liberali che avevano iniziato la conquista dei territori a partire dalla fine del XIX secolo ed aveva raggiunto il suo apice nella campagna per la conquista dell’Etiopia, fortemente voluta da Mussolini. In quella cruenta campagna contro uno Stato che aveva mantenuto la sua indipendenza sin dall’antichità e che era per giunto abitato da una popolazione di antica fede cristiana, l’esercito italiano, supportato dalle camicie nere, non si fece scrupoli di usare le armi chimiche (proibite dalla Società delle Nazioni dopo il primo conflitto mondiale) e di approvare leggi razziali che precedevano quelle del 1938 contro gli Ebrei. La sintesi dei suoi studi si trova oggi nel testo Italiana brava gente, dove lo storico torinese dimostra come anche gli italiani furono malvagi e cruenti come tutte le popolazioni occidentali. 

Se qualcuno pensa che la missione italiana sia stata quella di importare la civiltà e la religione cristiana, dovrebbe informarsi e iniziare a sapere che la prima grande strage di credenti cristiani (di religione copta) fu fatta proprio dagli Italiani. In un clima come quello voluto dal Governo Fascista, che non aveva simpatie per le minoranze religiose e che era sceso a compromesso con la Chiesa Cattolica per cercare di evitare opposizione da essa,  i cristiani copti dell’Etiopia che continuavano a parteggiare per il Negus in esilio, erano di ostacolo ai propri piani e mostravano una resistenza che non si poteva sopportare. Per questo motivo Graziani nel maggio 1937 ordinò quello che è stato il più grande massacro di cristiani della storia del XX secolo.

Il governatore di Etiopia decise di far uccidere quasi tutti i monaci ed i pellegrini che si recavano a Debre Libanos, uno dei principali santuari della religione copta etiope. Ci furono più di 2000 vittime che non stavano opponendo resistenza e non erano in battaglia. La vicenda, “riscoperta” da pochi anni, è stata magistralmente ricostruita da Paolo Borruso nel suo libro Debre Libanos 1937. 

Per chi voglia una sintesi di quanto accaduto nella dominazione coloniale il testo da leggere è quello di Francesco Filippi Noi gli abbiamo fatto le strade, pubblicato un paio di anni fa.

L’A. smonta questa idea ricordando che l’imperialismo italiano è stato simile, in tutto e per tutto, a quello delle altre nazioni. con la differenza che, al contrario di quanto è avvenuto in Francia ed in Gran Bretagna, non abbiamo riflettuto in maniera critica sul nostro passato e, ancora oggi, non riusciamo a comprendere la portata di quanto accaduto durante il nostro periodo coloniale.

Interessante la ricostruzione di come sia iniziato l’imperialismo italiano e di che immagine abbia voluto dare di sé. Basterebbe ricordare l’idea di Pascoli sulla grande proletaria che si muove per comprenderlo: i governi italiani hanno sempre presentato l’occupazione coloniale come un’impresa fatta a beneficio delle classi meno abbienti che avrebbero potuto ricevere “nuove terre” dove formare e proprie fortune. L’idea di formare colonie di popolamento si è sempre infranta con la realtà dei fatti: le prime colonie italiane (Eritrea, Somalia e Libia) erano territori difficili, dove l’insediamento è stato o puramente commerciale o militare, ma dove gli “italiani” non hanno realmente trovato quello che gli era stato promesso.

Anche le motivazioni ulteriori delle occupazioni da parte dell’esercito italiano risultano essere pretestuose: si vanno ad occupare terre che sono “vuote” (come se gli abitanti del territorio fossero “non umani”), si por

ta la modernità in posti dove vigono ancora usanze medievali. Queste idee, secondo Filippi, continuano ancora oggi a dominare la mentalità comune quando si parla di questa parte della nostra storia, cosa che viene fatta sempre in maniera piuttosto superficiale.

Il riguardo per le popolazioni conquistate sono date dalle immagini da cui prende il titolo uno dei paragrafi del libro che narra dei tratti bestiali che venivano dati agli indigeni: selvaggi con l’“anello al naso” e con “la sveglia sul collo”. Manca del tutto, quindi, un qualsiasi sguardo antropologico, neanche quello di un’antropologia evoluzionista che cerchi di fare una distinzione tra le popolazioni. .

Il volume si conclude con un capitolo dedicato a come è stata percepita dagli italiani il possesso di colonie dopo averle perse. L’A. si sofferma sul fatto che l’Italia non è stata capace di una reale ricostruzione della memoria coloniale ed ha continuato a cercare di creare una sorta di diversità rispetto agli altri Paesi o a dimenticare cosa fosse realmente successo. Le stragi, il razzismo (che va ricordato fu prima applicato in Italia alle popolazioni coloniali) sono scarsamente ricordati dalla nostra storia e anche dalla nostra antropologia. 

Rispetto a questo quadro, confermato da diversi storici oggi e documentato dalle accurate ricerche fatte (non va dimenticato anche Nicola Labanca che ha dedicato importanti saggi alla storia delle colonie italiane), che atteggiamento dovremmo chiedere come evangelici rispetto a quanto accaduto nel passato?

Non dimentichiamoci che Cristo è venuto per tutti ed il nostro compito è quello di annunciare il Vangelo a tutto il mondo, perché per Dio non vi è alcuna distinzione tra gli uomini. Proprio per questo motivo volevo concludere con alcune parole dell’Impegno di Città del Capo, voluto dal Movimento di Losanna e che, in una prospettiva missiologica che guarda alla storia afferma: “Riconosciamo con dolore e con vergogna la complicità dei cristiani in alcuni dei più devastanti scenari di violenza e di oppressione etniche e il deplorevole silenzio di un’ampia parte della Chiesa quando si sviluppano tali conflitti. Questi scenari includono la storia e l’eredità del razzismo e della schiavitù della gente di colore, l’Olocausto contro gli ebrei, l’apartheid, la «pulizia etnica», la violenza settaria fra cristiani, la decimazione delle popolazioni indigene, la violenza interreligiosa, etnica e politica, la sofferenza dei palestinesi, l’oppressione di casta e il genocidio tribale. I cristiani, che con la loro azione o con la loro passività contribuiscono alla frammentazione del mondo, minano seriamente la nostra testimonianza al vangelo della pace”.  

Anche il nostro Paese ha partecipato a tutto questo e come Chiesa non possiamo tacere e dobbiamo provare vergogna e dolore. 

                                                                                                                                                    Valerio Bernardi – DIRS GBU

 

Non ottimista

Prosegue la pubblicazione – settimanale – di otto paragrafi (qui il secondo) del libro del teologo di orgine croata Miroslav Volf, che sarà in libreria a Maggio, dal titolo Contro la marea. L’amore in un tempo di sogni meschini e di continue inimicizie. Il libro è una raccolta di brevi scritti, alcuni dei quali hanno poi visto un loro ampliamento in libri tematici.

 

Fatevi un regalo, e mettete la Teologia della speranza di Jürgen Moltmann sotto il vostro albero di Natale (Cfr. tr. it. J. Moltmann. Teologia della speranza. Ricerca sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, Queriniana, Brescia, 1970). Moltmann ha pubblicato il libro in tedesco più di cinquant’anni fa. È stato tradotto in inglese tre anni dopo (1967), è diventato immediatamente una celebrità teologica negli Stati Uniti. Il libro è anche andato sulla prima pagina del New York Times1. Uno dei principali temi della Teologia della speranza è l’Avvento, e sarebbe bene che ci ricordassimo di questo libro straordinariamente importante.
L’immensa, originale popolarità del libro deve molto al fatto che quando fu pubblicato, la “speranza” era nell’aria. Era l’“era Kennedy” negli Stati Uniti e il periodo del movimento dei diritti civili portato avanti da Martin Luther King jr. Il mondo occidentale stava per esperire il potere dei movimenti studenteschi radicali. La “Primavera di Praga” sarebbe arrivata presto in Cecoslovacchia, frutto di una crescente democratizzazione delle società socialiste dell’allora defunto Secondo Mondo. E nel Terzo Mondo dei tardi anni ‘60, la decolonizzazione era in pieno movimento e gli intellettuali giocavano con le idee di Marx. La Teologia della speranza cavalcava un’ondata globale di speranza sociale. Come Moltmann ha detto, il libro aveva il suo proprio kairos, o il momento opportuno.
Ma kairos è una benedizione ambivalente per un libro. Dal lato positivo, spinge il libro davanti all’attenzione pubblica. Dal lato negativo, schiaccia la sua interpretazione in un modello determinato. Chiunque parla del libro, ma praticamente nessuno lo apprezza e lo comprende in maniera appropriata.
Con qualche importante eccezione (per esempio quella del movimento dei diritti civili) ciò che era nell’aria, quando apparve Teologia della speranza, non era speranza, ma ottimismo. Le due cose sono facilmente confondibili. Sia l’ottimismo sia la speranza includono aspettative positive riguardo al futuro. Ma, come Moltmann ha sostenuto in maniera persuasiva, sono prese di posizione radicalmente diverse verso la realtà.
L’ottimismo è basato sulla causa «estrapolativa e il pensiero effettivo». Traiamo conclusioni sul futuro sulla base dell’esperienza del passato e del presente, guidati dalla convinzione che gli eventi possano essere spiegati come effetti di cause precedenti. Dal momento che “questo” è accaduto, concludiamo che “quello” dovrebbe accadere. Se un’estrapolazione è corretta, l’ottimismo è ben fondato. Sin da quando mio figlio Nathanael poteva prendere Il piccolo orso e leggerlo quando era all’asilo, potevo legittimamente essere ottimista che sarebbe andato ragionevolmente bene in prima elementare. Se l’estrapolazione non è corretta, l’ottimismo non ha buone basi, è illusorio. Aaron, che ha due anni, è molto bravo nel lanciare una palla. Ma sarebbe sciocco da parte mia scommettere che otterrà un contratto multimilionario con una squadra di calcio e avrà cura di me dopo il pensionamento.
Le nostre aspettative sul futuro sono basate per la maggior parte su tale pensiero estrapolativo. Vediamo lo splendore arancio all’orizzonte e ci aspettiamo che la mattina sarà immersa nel sole. Un tale ottimismo informato e ben fondato è importante per la nostra vita privata e professionale, per il funzionamento delle famiglie, per l’economia e per la politica. Ma l’ottimismo non è speranza.
Uno dei più durevoli contributi della Teologia della speranza di Moltmann è stato quello di insistere che la speranza, al contrario dell’ottimismo, è indipendente dalle circostanze in cui le persone vivono. La speranza non è basata sulle possibilità della situazione e sulla corretta estrapolazione per il futuro. La speranza è basata sulla fedeltà di Dio e perciò sull’efficacia della promessa di Dio. E questo mi riporta al tema dell’Avvento.
Moltmann distingueva tra due maniere in cui il futuro si rapporta a noi. La parola latina futurum ne esprime una. «Il futuro nel senso di futurum si sviluppa a partire dal passato e dal presente, in quanto passato e presente hanno dentro essi stessi la potenzialità di divenire e sono “pregni di futuro”». La parola latina adventus esprime l’altra maniera in cui il futuro è relazionato con noi. Il futuro nel senso di adventus è il futuro che viene non dal campo di ciò che è o di ciò che era, ma dal campo di ciò che non è ancora, «dal di fuori», da Dio.
L’ottimismo è basato sulle possibilità delle cose come dovranno essere; la speranza è basata sulle possibilità di Dio senza tener conto di come sono le cose. La speranza può sorgere anche nella valle dell’ombra della morte; infatti è proprio lì che si manifesta realmente. La figura della speranza nel Nuovo Testamento è Abramo, che ha sperato contro ogni speranza perché credeva nel Dio «che fa rivivere i morti, e chiama all’esistenza le cose che non sono» (Rom 4:17–18). La speranza prospera anche in situazioni in cui, per il pensiero estrapolativo di causa–effetto, si dovrebbe concludere soltanto con una totale disperazione. Perché? Perché la speranza è basata sul Dio che viene nelle tenebre per scacciarle con la luce divina.
Ogni anno nella stagione dell’Avvento leggiamo il profeta Isaia: «Il popolo che camminava nelle tenebre, vede una gran luce; su quelli che abitavano il paese dell’ombra della morte, la luce risplende» (Is 9:1). In ciò è racchiuso tutto il significato del Natale, qualcosa di radicalmente nuovo che non può essere generato dalle condizioni di questo mondo. Viene. Non lo possiamo estrapolare. Dio lo ha promesso.
Se le tenebre sono discese sopra di noi e sopra il nostro mondo non ci occorre tentare di sostenere che le cose non sono così male come sembrano o cercare di essere disperatamente ottimisti. Ricordiamoci invece di un semplice fatto: la luce di Chi era all’inizio con Dio brilla nelle tenebre e le tenebre non prevarranno. Se ci occorre una lunga e plausibile spiegazione per supportare questo invito, scartate quel libro di Moltmann che è sotto l’albero di Natale, prendete qualcosa di caldo da bere e entrate nel mondo dell’Avvento, della promessa, della speranza.