Sudditi di Dio in un regno diverso: si può?

Sudditi di Dio in un regno diverso: si può?

di Gianluca Nuti

Insegnante, ex GBU Bologna e prossimo relatore per la Festa GBU 2025

 

Che senso ha vivere per un regno ormai caduto?

Cosa penseremmo vedendo i nostri vicini ottemperare alle leggi e al diritto romano? O se i nostri figli, o i nostri genitori iniziassero a seguire gli usi e i costumi, persino la lingua, dei Longobardi? Tutto questo non solo per scopi ricreativi o di rievocazione storica, ma come vero e proprio modo di vivere, che raggiunge in modo capillare ogni aspetto della quotidianità e della visione del mondo.

Il nostro sguardo stralunato e anche divertito non è diverso da quello con cui i Babilonesi guardavano i loro vicini di casa Giudei al tempo dell’esilio (dal 605 a.C. in poi). Il trono di Davide era vuoto, il tempio o quel che rimaneva era abbandonato, la legge e la moneta di Israele erano ridotte a mere curiosità storiche, aneddoti pittoreschi tratti da una civiltà ormai decaduta; eppure, questi Giudei ancora si ostinano ad adottare la condotta morale e il sistema di credenze della loro religione. Ma che senso ha vivere per un regno ormai caduto?

 

Il vecchio e il nuovo regno

Il libro di Daniele si apre proprio così, la realtà storica dell’esilio affermata con un tono spaventosamente freddo e distaccato (1:1-2) e le sue declinazioni socio-culturali visibili nella vita, fra gli altri, di Daniele e i suoi tre amici (1:3-7). La lingua e la cultura caldea vengono imposti a forza sui giovani nobili Giudei, il loro nome cambiato a sottintendere una nuova identità, un nuovo senso di appartenenza. Il re Nabucodonosor sa come fare sentire i deportati a casa, come fare dimenticare loro Gerusalemme e il Dio di Israele, perché possano più presto possibile legarsi in lealtà e dipendenza a un nuovo regime.

Dopotutto, il vecchio regime, il vecchio regno, ormai non c’è più. Il Dio di Israele, che aveva così risolutamente e ingenuamente vincolato il proprio onore al mantenimento delle promesse territoriali ed economiche al proprio vassallo Israele, quel Dio è ora stato sconfitto sul suo stesso terreno: il tempio e la terra promessa hanno smesso funzionalmente di esistere, “regno di Giuda” o “popolo di Israele” non sono più termini di senso compiuto. E questo valeva anche nella direzione opposta. Ormai i Giudei non avevano più nulla che li distinguesse esteriormente dai pagani, niente che li “santificasse” in modo visibile: come potevano ancora pensare che il loro Dio tre volte santo li volesse ancora degnare di uno sguardo?

 

Il regno invisibile

Tutto questo non è troppo lontano dalla nostra esperienza di cristiani. La tensione fra i modi di vivere accettabili nella nostra cultura e il modo di vivere a cui ci chiama la Scrittura, la ricerca di equilibrio tra l’impegno civico e il rifiuto del compromesso, la più o meno ostentata convinzione del regno umano e “visibile” di essere l’opzione migliore disponibile, o perlomeno di essere un’opzione migliore del regno “invisibile” di Dio, fanno tutte parte della nostra vita su questa terra, in questa cultura, in questo tempo. Il nostro Re è morto su una croce, dopotutto. La morale cristiana (non le sue distorsioni né i suoi scimmiottamenti, a destra e a sinistra) scandalizza e divide. La Bibbia serve soprattutto a vendere qualche copia in più di libri controversi o faziosi.

Ecco perché ci serve leggere e rileggere il libro di Daniele: perché Dio regna ancora, anche se invisibile al momento, e vivere per il suo regno ha ancora senso. Non solo: Dio ci aiuta a vivere per il suo regno, e proprio il suo soccorso dimostra che il suo regno non è caduto. Lo impararono ben presto Daniele e i suoi amici (1:19-20), lo impariamo anche noi quando scegliamo coraggiosamente, pur mantenendo la nostra identità esteriore di cittadini del mondo, di vivere da sudditi di Dio. Rifiutarci di associare il nostro partito al nostro credo, mostrare un rigore accademico o professionale sopra la media, scegliere di amare i nostri nemici e perdonare chiunque, per qualunque peccato, tutte le volte che sarà necessario: non è questo forse vivere da sudditi visibili del regno invisibile?

Blind Milton

Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo saggio epistolare-narrativo composto da Filippo Falcone per scopi didattici, ma che ci dà uno spaccato (relativo) della ricchezza e della complessità dell’opera di John Milton, soprattutto in relazione al suo capolavoro Paradise Lost.

 

Vi scrivo, cara Elizabeth, con l’aiuto di Deborah. Se vorrete essere mia sposa, sarà bene che conosciate la mia storia… 

La mia prima moglie mi ha lasciato, se n’è andata dopo un mese, e io, quando è tornata, l’ho ripresa con me, lei e suo padre. Non potevo fare altrimenti. Mary, Mary Powell! Suo padre aveva un debito con il mio. Gli diede Mary per saldarlo. Mio padre era uno “scrivener” – prestava denaro a interesse. Non pensatelo persona da poco, interessata soltanto al vil denaro. A casa nostra si respirava musica – mio padre suonava e componeva, alla maniera di Händel – e a casa nostra si respirava letteratura – grazie alle fortune paterne, ho potuto dedicarmi agli ozi letterari. Che sorpresa veder tornare Mary e suo padre. Loro, reazionari, realisti, qui a cercare un tetto in una casa repubblicana! I muri di questa casa sono confini di libertà. Al diritto divino dei re, questi muri oppongono la legge, al re, il popolo inglese. Carlo I ha perduto ogni legittimità. Combatteva contro il suo stesso popolo. Del suo stesso popolo ha versato il sangue. L’autorità è data per il bene, non per uccidere! Libertà, sì. Eppure, l’amore mi ha costretto. Mary e suo padre hanno vissuto qui con me fino al 1652, fino alla nascita di Deborah. Mary è morta di parto. Io le ho voluto bene, nonostante tutto, ma per tutto il tempo sapevo dentro di me che non c’era tra noi quell’unione di spirito e di intenti, quella comunione profonda che si traduce nella capacità di dare e trovare significato l’uno nell’altra attraverso la parola. Ne ho parlato in 4 trattati sul divorzio. Ho recuperato quello che aveva scritto al riguardo il riformatore Martin Bucero. Lo ricordate Bucero? Era stato in Inghilterra con Edoardo VI e aveva contribuito a introdurre la Riforma qui da noi. Ho scritto 5 trattati sul divorzio, dicevo. Sì, perché lo scopo per cui il matrimonio è stato dato è che l’uomo e la donna non siano soli. A volte, però, si può essere presenti fisicamente, ma sentirsi profondamente soli. Con Mary è stato così. Poi ho conosciuto Katherine. Ci siamo sposati nel 1656. Quanto l’ho amata, la mia Kate, la mia “late espousèd saint”!    

E quante cose sono successe nel frattempo! Le due guerre civili, il regicidio! Ci ho scritto. Prima i trattati antiprelatizi. Cinque. Mi sono schierato con i presbiteriani, contro il sistema episcopale. Ogni chiesa locale dovrebbe avere le proprie guide, i propri presbiteri, senza che si formi una sovrastruttura e una gerarchia. È anche questa una questione di libertà. Sono sempre stato un anticlericale, sapete. Come voi, d’altronde. Credo di non sbagliare. Siete Battista Generale! Come voi, sono contro qualunque sistema di controllo degli uomini sugli uomini. Non mi sfugge, però, che “presbitero” non è che la forma estesa del vecchio “prete”. Anche il presbitero può comportarsi da tiranno e soggiogare le persone. Beh, poi ci fu la prima guerra civile. C’è la tirannia della chiesa e c’è la tirannia del re.   

Tra il 1649 e il 1652 ho scritto trattati politici. Cinque anche quelli. Io contro Salmasius, Saumaise, come lo chiamano i suoi connazionali francesi. Con i miei trattati ho dimostrato, superando le sue argomentazioni, che anche il re è soggetto alla legge e che un re votato alla distruzione del suo popolo è destituito di ogni autorità, di ogni delega nell’esercizio dell’autorità. Il regicidio era giustificato! Ho difeso prima i presbiteriani e il parlamento, poi gli indipendentisti e il New Model Army di Cromwell. Dopo il regicidio, Cromwell ha assunto la guida della Repubblica e mi ha chiesto di essere il suo Secretary for Foreign Tongues. Tutto questo mentre ero cieco! Dal 1652 sono completamente cieco. Non vedo più nulla. Sarà colpa delle tante ore passate a leggere, studiare e scrivere a lume di candela. Ma sono in buona compagnia. Con me ci sono tutti coloro che, come Omero e Tiresia, non vedendo, videro veramente. Mi dispiace solo per Deborah, che mi deve mungere come si munge una vacca ogni mattina, trascrivendo ogni mia parola sotto dettatura!

Katherine è stata un dono del cielo. Si è presa cura di me. Ah, se l’ha fatto! Quanta premura e quanta grazia in lei. Eppure, una sensazione di vuoto, di incompiutezza, mi ha accompagnato ogni momento. Non fraintendetemi. L’amore di Katherine è stato per me alimento prezioso. C’era tuttavia in me un senso profondo di scopo irrealizzato. Neppure l’agone pubblico lo poteva fugare – mi è stata data una voce, sì, e io non ho potuto rimanere in silenzio. Come gli antichi profeti, ho dovuto parlare al popolo e ho dovuto farlo nella lingua della gente, in inglese, in prosa. Sedici trattati in tutto. La prosa è la mia mano sinistra, sapete. La mia destra è la poesia. Mi viene naturale, la poesia. L’ho dovuta però accantonare per lasciare spazio alla sinistra. La contingenza lo richiedeva. Di qui il mio senso di lacerazione, di incompiutezza. Aveva bisogno di esprimersi la mia mano destra, una vocazione la mia, la chiamata di una vita rimasta frustrata così a lungo: scrivere il grande poema epico nazionale! Come La Commedia di Dante, come La Liberata di Tasso! Fino a ieri, l’unica valvola di sfogo sono stati una ventina di sonetti. Ora che le aspirazioni repubblicane sono sfumate e Cromwell non c’è più – ma badate bene che il nostro Lord protettore stava assomigliando sempre più a quel re da cui ci aveva liberati – ora che le aspirazioni repubblicane sono svanite, dicevo, non c’è più spazio per quella voce profetica. È il tempo che una voce universale parli della condizione dell’uomo e del disegno di Dio per la storia – e non soltanto la storia di questa nazione che credevamo eletta, bensì la storia dell’umanità. All’inizio avevo pensato a soggetti come re Artù, King Alfred… l’intento era celebrare la mia Inghilterra, il suo posto nel disegno provvidenziale di Dio, ma ora mi è chiaro che la libertà cui aspiravamo e che abbiamo cercato di afferrare attraverso le armi della politica e della legge deve nascere prima nel cuore dell’uomo. Ecco allora il mio soggetto, il soggetto del grande poema che sin dai tempi del mio viaggio in Italia e sin dai tempi di Cambridge sentivo di dover scrivere… 

Era il 1658, 5 anni or sono, quando finalmente iniziai a scrivere. Avevo atteso così a lungo. Lo dico nel mio Sonetto 19. L’avete letto? Era come se Dio stesse giocando con me. Mi aveva dato un talento, il talento della poesia, e mi chiedeva di non nasconderlo. Mi chiedeva di metterlo a disposizione di tutti, di metterlo a frutto, senza però accenderlo con la sua luce, senza concedermi l’opportunità di usarlo. Ma Dio può chiedere conto di come abbiamo usato i nostri talenti mentre ne toglie la sostanza che li alimenta? Mi sentivo come Dante, nel mezzo del cammin di mia vita, la mia luce doppiamente spenta in un mondo di tenebre. Ora so che Dio non stava giocando con me. Dovevo soltanto attendere e imparare la pazienza, imparare ad affidarmi e dismettere il giogo del mio io, della mia superbia, per prendere su di me un giogo leggero, un giogo di grazia. Ora so che può servirlo anche chi resta fermo e attende. 

Nel 1658, dicevo, l’attesa è finita, il tempo di mettere a frutto il mio talento è arrivato, eccome se è arrivato, nel momento in cui ero più debole, in cui ogni fiducia e visione pareva svanita. Proprio allora, nel buio interiore, iniziò a farsi spazio una luce.               

Quella luce ha preso un corpo, fatto di segni, di parole. I versi che condivido con voi sono ciò che ho di più caro. Del manoscritto del mio poema vi faccio dono e vogliate ora accompagnarmi in questo cammino. Parla di me e parla di voi. 

 

Paradiso Perduto I.1-26      

 

Della prima disobbedienza dell’uomo, e del frutto

dell’albero proibito, il cui gusto fatale condusse

la morte nel mondo, e con ogni dolore la perdita

dell’Eden, fin quando non giunga più grande

un Uomo a risanarci riconquistando il seggio benedetto,

canta, Musa Celeste, che sopra la vetta segreta

dell’Oreb o del Sinai donasti ispirazione a quel pastore

che per primo insegnò alla stirpe eletta 

come in principio sorsero i cieli e la terra dal Caos;

o se il colle di Sion maggiormente ti aggrada,

e il ruscello di Siloe che scorreva rapido

presso l’oracolo di Dio, da questi luoghi

offri, ti prego, aiuto al canto avventuroso

che in alto volo aspira a sollevarsi

sopr’il Monte Aonio, e si propone cose

mai tentate in passato in prosa o in rima.

E soprattutto, o Spirito, che sempre preferisci

più d’ogni tempio un cuore retto e puro,

poiché tu sai, istruiscimi; tu che fin dall’inizio

fosti presente e con ali possenti spalancate 

come colomba covasti quell’abisso immane

e lo rendesti pregno: ciò che in me è oscuro illumina,

e ciò che è basso innalzalo e sostienilo;

che dalle vette di questo grande argomento

io possa confermare la Provvidenza Eterna,

e la giustezza delle vie di Dio rivelare agli uomini.

 

Cantare agli uomini della provvidenza di Dio e giustificare le sue vie. Una chiamata troppo alta per me, per l’uomo, tanto alta quanto la distanza tra l’uomo e Dio. Ma a questo fui chiamato, proprio io, avvolto da un duplice buio, buio fisico, il buio della mia cecità, e buio spirituale. Fui chiamato a cose mai tentate prima, in prosa o in rima, per parafrasare Ariosto, cose incommensurabilmente alte, io così basso. Occorreva librarsi oltre il monte Aonio, o Elicona, se preferite, il monte delle muse. Non bastava Calliope, musa della poesia, né poteva soddisfare la fonte di Aganippe presso cui le nove (muse) trovano sollazzo. Era necessaria una luce più alta, un’ispirazione che provenisse da un monte altro, il monte Sion, e da altra fonte, che da quel monte scaturisce, la fonte di Siloe. Ci voleva la musa di Tasso, Urania, musa celeste, colei che ispirò Mosè, il pastore d’Oreb, a narrare la creazione. Lei c’era, lei che, come una colomba, aveva covato la massa informe tratta dal caos, lei che in forma di colomba sarebbe discesa sul Figlio. Proprio il Figlio è quel monte, quella luce, quell’acqua che la musa celeste comunica. Avrete capito che sto parlando dello Spirito di Dio. Soltanto lo Spirito poteva fugare le mie tenebre interiori con la luce del Figlio. Soltanto lo Spirito poteva trarmi dai bassifondi del mio cuore ed elevarmi fino al cielo di Dio. 

Prima, però, mi trascinò fin negli abissi dell’inferno per rendere visibili ai miei occhi velati le mie tenebre interiori. Volli qui dare voce a Satana, come non era mai stato fatto prima in letteratura. Lo volli fare perché volevo incarnare nel mio poema la verità che avevo illustrato nell’Areopagitica, il mio trattato sulla tolleranza e contro la censura. La libertà non è tale finché non è libertà di scegliere tra molteplici alternative. La libertà di scegliere soltanto il bene non è affatto libertà, ma necessità. Là dove, di contro, sia il bene sia il male fossero presentati all’uomo e al lettore, ecco che la scelta si sarebbe dimostrata realmente autentica, realmente libera. Satana, dunque, non soltanto poteva parlare, ma doveva parlare, qualora volessimo restituire all’uomo libertà, e doveva farlo estesamente e in modo persuasivo. 

 

“È questa la regione, è questo il suolo e il clima”,

disse allora l’Arcangelo perduto, “è questa sede che

abbiamo guadagnato contro il cielo, questo dolente buio

contro la luce celeste? Ebbene, sia pure così

se ora colui che è sovrano può dire e decidere

che cosa sia il giusto; e più lontani siamo

da lui e meglio è, da lui che ci uguagliava per ragione

e che la forza ha ormai reso supremo

sopra i suoi uguali. Addio, campi felici,

dove la gioia regna eternamente! E a voi salute, orrori,

mondo infernale; e tu, profondissimo inferno, ricevi 

il nuovo possidente: uno che tempi o luoghi

mai potranno mutare la sua mente. La mente è il proprio luogo,

e può in sé fare un cielo dell’inferno, un inferno del cielo.

Che cosa importa dove, se rimango me stesso; e che altro 

Dovrei essere allora se non tutto, e inferiore soltanto

a lui che il tuono ha reso il più potente? Qui almeno

saremo liberi; poiché l’Altissimo non ha edificato 

questo luogo per poi dovercelo anche invidiare,

non ne saremo cacciati: vi regneremo sicuri, e a mio giudizio

regnare è una degna ambizione, anche sopra l’inferno:

meglio regnare all’inferno che servire in cielo. 

 

Dalla luce al buio. Fin nel buio dell’inferno lo seguii. Poiché Dio era la luce, Satana avrebbe accolto il buio. Il buio sarebbe stato il suo spazio, spazio esterno e interiore a un tempo. Dio non era più grande di lui per intelletto; soltanto per forza. Con la forza li aveva scacciati. Li aveva repressi dopo averli oppressi perché non sottomessi alla sua legge! Un tiranno! Ecco cos’era Dio. Un tiranno! Ora Satana all’inferno poteva essere finalmente libero, lungi da colui che ne limitava la libertà. Poco importava il luogo. La mente era infatti il proprio luogo, indipendentemente da qualsivoglia luogo fisico. Ricordo di averlo scritto sul libro degli ospiti di un esule protestante napoletano a Ginevra. Camillo Cardoini era il suo nome. Scrissi che, lasciando l’Inghilterra per recarmi in Italia, avevo cambiato luogo, ma non la mente. Era il 1639. La persona può essere libera quand’anche in prigione, se è libera nella mente. La persona può essere prigioniera quand’anche in cielo, se è prigioniera nella mente. La mente è una fortezza che le condizioni esterne non possono espugnare, un paesaggio che le circostanze esterne non possono trasmutare. Al contrario, se la mente è cielo, può rendere cielo l’inferno. Se la mente è inferno, può rendere inferno il cielo tutt’attorno. Satana salutò con favore gli orrori del mondo infernale. Là, infatti, sarebbe stato libero da Dio. Là avrebbe potuto fare ciò che voleva. Là non avrebbe conosciuto restrizioni esterne. Là sarebbe stato al di sopra di tutto, al di sopra di tutti, il re. Ed era cosa di gran lunga migliore regnare all’inferno che servire in cielo! Era forse questa la vera libertà? La risposta la iscrissi nelle sue stesse parole. Il luogo e l’assenza di limiti esterni non cambiano la condizione interiore. Il re era schiavo, schiavo di sé stesso, prigioniero nella fortezza della sua mente, prigioniero del suo io. “Ovunque voli è l’inferno. Io stesso sono l’inferno” (libro IV), lo sentii dire. Tutti adoriamo qualcuno o qualcosa. Chi adora Dio è libero. Chi adora ciò che è altro da Dio adora una proiezione di sé stesso ed è schiavo di sé stesso. Proprio l’io era il dio sul cui altare Satana aveva ed avrebbe sacrificato tutto e tutti. La tirannia di Dio altro non era che il limite posto al suo io. Quel limite poteva essere imposto per legge o scelto per amore. Regnare all’inferno era allora elevarsi al di sopra delle altre creature. Significava alimentare la creatura mostruosa e famelica dell’io. Servire in cielo era di contro dimorare nell’amore, amare e conoscere nell’amore il limite alla propria libertà individuale. Satana aveva scelto la prima strada, la via dell’egocentrismo, della tirannide e, in definitiva, della solitudine.         

Vidi Satana convocare una grande assemblea. Tutti i demoni convennero nel “pandemonium” – ho coniato apposta la parola. Dà l’idea vero? Pan – tutti – demonium – i demoni. Mi piace giocare con le parole. Il poema è pieno di giochi etimologici. Anche nel sonetto 19 ce n’era uno. L’avete riconosciuto? When I consider how my light is spent / ere half my days in this dark world and wide. Il mio tempo è trascorso e la mia luce è spenta! Il mio paesaggio interiore non era dissimile dalle tenebre del pandemonium. Satana vi aveva convocato una grande assemblea, dicevo. Immaginatevi un vortice di angeli caduti osannanti il loro nuovo padrone. Satana li informò di un nuovo mondo abitato da creature perfette e meravigliose, come lo erano stati loro. Era la loro occasione: cercare di frustrare il nuovo disegno di Dio! Il loro campione, Satana, avrebbe fatto il lungo viaggio fino al nuovo mondo e avrebbe indotto le nuove creature di Dio a ribellarsi al despota celeste. 

La mia penna lo seguì oltre le porte d’inferno, custodite da due mostruose allegorie, peccato e morte. Là fuori, fuori dalle porte d’inferno, vidi Satana attraversare in volo il caos. Io con lui nel buio dell’inferno, io con lui nel caos: il mio inferno, il mio caos. Fino alle porte del cielo volò. Oltre quelle porte solo luce, una luce che irradiava tutt’attorno. Satana non poteva sopportarla, anzi, la odiava, perché insieme a quella luce tornava il ricordo di ciò che un tempo era stato, della gioia che aveva conosciuto, dell’amore che aveva rifiutato per volgere il suo sguardo a sé stesso. Il dolore che quella luce portava con sé per il bene e l’amore perduto poteva essere esorcizzato soltanto da un odio maggiore, unicamente scendendo sempre più in profondità nella spirale dell’io. “Maledetto” non il limite e il divieto, “ma maledetto il suo amore”, esclamò Satana.

Conosciuto il buio e il caos, quella luce celeste salutai, luce sempiterna, inattingibile, in cui Dio dimora, effluvio della sua essenza. Il libro III del poema apre una finestra sull’eternità e sul Figlio che sceglie di donarsi per la nuova creazione. Decisi di non introdurre la nuova creazione fino al libro IV. Dopo aver percorso in lungo e in largo gli spazi, Satana giunse alle soglie della terra e si posò su un albero con il sembiante di un cormorano. È attraverso i suoi occhi che vedrete per la prima volta Adamo ed Eva, i nostri progenitori. Attraverso gli occhi della caduta ne conosciamo la perfezione e la bellezza. Sì, ancora una volta Satana si trovò colto nello scarto tra il suo buio e la luce di Dio, ora evidente nell’abisso che separava l’immagine di Dio impressa nella creatura umana e quell’immagine in lui deturpata. Che apparizione sublime quelle creature! Imponderabile. Ineffabile. Inedita. I boccoli dell’uomo dorati cadevano fino alle spalle. Mossi come le onde del mare i di lei fulgenti capelli e rossi scendevano incontrollati lungo la sua schiena. Formidabile in virtù e intelletto, lui. Magnificente in pensiero e grazia, lei. Liberi entrambi, sommamente liberi, l’uomo e la donna, uniti in un chiasmo, in Dio. I confini della loro libertà erano i confini del giardino, confini tracciati da un singolo divieto di non mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male. Tale divieto non ne limitava la libertà, ma la generava, rappresentando la possibilità di scegliere finanche contro Dio. 

La sopraffazione presto si tramutò in Satana in invidia e odio profondo, invidia e odio inclini a distruggere ciò che Satana non avrebbe mai più potuto avere. 

Forse avrete già letto il Masque presso il Ludlow Castle che vi ho mandato di recente. Come Comus, il mostro del Masque, faceva con la casta Lady, custodita dalla luce interiore nell’inaccessibile libertà della sua virtù, così Satana spiò i nostri progenitori mentre, mano nella mano, passeggiavano in Eden e poi ancora mentre, su un manto verdeggiante e tra alberi che facevano da riparo e chiostro sponsale, si unirono, riflettendo di Dio l’immagine e la somiglianza, l’unità nella pluralità. Dio inviò Raffaele per mettere in guardia Adamo ed Eva. I due, conoscendo soltanto amore, non potevano presagire che il male li spiasse alla porta e che potesse materializzarsi nel giardino. 

Nel libro VI gettai uno sguardo analettico alla battaglia in cielo tra gli angeli di Dio e gli angeli caduti, poi sconfitti e gettati all’inferno. Avrete sentito parlare del nuovo cannone a polvere da sparo. Vi alludo descrivendo la battaglia celeste. Una grande innovazione tecnologica, si intende, ma letteralmente una diavoleria! 

Nel libro VII, su richiesta di Adamo, Raffaele venne a riferire come e perché il mondo e le creature che vi avrebbero preso dimora furono da principio creati a seguito dell’espulsione di Satana e dei suoi angeli dal cielo.

Il libro VIII costituisce un passaggio esistenziale. Adamo parlò con Raffaele. Un tentativo il suo di elaborare il proprio essere nel mondo. Diversamente da qualunque altra creatura umana dopo di lui, fu formato già adulto, dotato di coscienza di sé. Ricordò allora quei primi attimi di vita. Rifletté sul significato dell’esistenza, sull’identità, sul mondo attorno a sé e il suo posto in quel mondo. Già Eva, nel libro IV, aveva iniziato a prendere coscienza di sé riconoscendosi in quello che chiamai “liquid plain”, un lago. Riflessa nell’acqua vide per la prima volta la propria immagine. Subito balzò indietro e lo stesso fece quella. Poi tornò a specchiarsi e così l’immagine. Feci fare alle parole quello che fecero Eva e la sua immagine attraverso un chiasmo: “It started back; but pleased I soon returned, Pleased it returned as soon”. In questo movimento volli riflettere in senso prolettico il movimento dello sguardo di Eva, uno sguardo che già rivolto a Dio e alla sua immagine impressa nell’uomo si sarebbe rivolto a sé stessa.  

Nel libro IX si consuma la rovina dei nostri progenitori, come la chiamai in Of Education, il mio trattato sull’istruzione. Una separazione prelude alla caduta. Eva rivendicò la sua indipendenza da Adamo. Forte della sua perfezione, della sua libertà e della sua virtù, insistette con lui che si separassero per ottimizzare il lavoro nel giardino, per risultare più efficienti. Adamo, consapevole della minaccia che si stava stringendo attorno a loro, cercò di mettere in guardia Eva. Pose l’accento sul valore del sostegno reciproco. Come la Lady del Masque, anche Eva era custodita dalla recta ratio, ragione illuminata dalla luce interiore. Nulla poteva violarla. Tuttavia, cosa sarebbe successo se la ragione fosse stata mal informata? Adamo non dubitava di lei. Piuttosto, non voleva sottostimare la sordida arte di un nemico sconosciuto da cui era stato messo in guardia dal messaggero celeste. La loro separazione fisica avrebbe fatto da sfondo a una separazione morale e spirituale. La minaccia non tardò a fare capolino. Stanca per il lavoro, Eva si assopì. Satana le si avvicinò e le sussurrò all’orecchio parole, suscitando immagini oniriche. Al suo risveglio, un serpente le si fece incontro in posizione eretta e dotato di parola. Sapiente. Eminentemente sapiente. Si rivolse a Eva, ora sola, informando la suggestione del sogno con una cascata di allusioni sensoriali. Facendo appello ai sensi, volle fiaccare ed eludere le resistenze della ragione. Il serpente stesso aveva mangiato del frutto dell’albero proibito e non era morto. “Sapience”, a un tempo sapore e conoscenza. Mangiando, Eva avrebbe acquisito sapienza! L’evidenza era lì, davanti a lei, il serpente. Forse le parole di Dio andavano intese diversamente. Certo quel frutto era desiderabile. Dio certo non voleva negare alla creatura maggiore conoscenza. Qualora ci fosse qualche scarto tra lei e Adamo, certo tale gnosi l’avrebbe colmato. Tese la mano, colse il frutto, ne mangiò. 

Giunse allora Adamo. Lo spazio fisico che coprì per raggiungerla si era trasformato in un baratro interiore incommensurabile. Più cercava di avvicinarsi a lei con la parola, più aumentava la distanza, l’abisso incolmabile, tra loro. Un muro li separava, un muro fatto di egocentrismo, egoismo, volontà di potenza, nudità, vergogna. Tra Dio ed Eva, Adamo scelse Eva. Scelse di condividere il suo destino, di non abbandonarla. Mangiò a sua volta il frutto dell’albero. Credeva di ritrovarla, ma la perse doppiamente. Le mani che si erano intrecciate nel giardino si chiusero a formare pugni. Dio parlò loro, chiedendo dove fossero. Una frattura impossibile da comporre li divideva ora da Dio e l’uno dall’altra. Bramarono fuggire, salvare sé stessi a spese dell’altro, ma nulla poteva salvarli dalla voragine interiore. L’odio, il buio, l’oppressione, l’avidità, la gelosia, l’invidia, la stanchezza, il tormento, l’io avevano preso il posto dell’amore, della pace, della gioia, del riposo, del dono di sé, di Dio. Le passioni avevano rovesciato la ragione, viceré di Dio, assumendo il controllo della mente. Si scoprirono per la prima volta nudi, la loro nudità fisica correlativo di una nudità non percepita attraverso i sensi. Anche il giardino cominciò a mutare a immagine dell’inferno interiore. Tutto era perduto.  

Fu allora che videro avanzare verso di loro nel giardino una figura divina e di figlio d’uomo a un tempo. Vedendoli nudi, la figura assunse forma di servo. Con pelli di animali li coprì. Ma, molto più che la nudità esteriore, rivestì quella interiore con la propria giustizia. L’Eden interiore perduto tornò a fiorire, ravvivato dal perdono e dall’amore di chi li aveva raggiunti nello spazio interiore in cui si erano smarriti, dalla grazia di chi aveva assorbito in sé la loro ingiustizia e la loro vergogna. Ne scaturì il perdono. Le mani tornarono a ricongiungersi. I nostri progenitori dovettero lasciare l’Eden, sì, ma portavano ora con sé un paradiso interiore di gran lunga migliore di quel giardino. I confini d’Eden che avevano contenuto la loro perfezione erano ora superati dall’esperienza, esperienza di perdita del paradiso, ora riscattata dalla grazia. Nell’amore ora desiderio e dovere si strinsero in un abbraccio. Nell’amore l’uomo e la donna conobbero la vera libertà, la libertà interiore, e si scoprirono liberi di amare. La distanza che li separava l’uno dall’altra era stata pienamente colmata. Adamo sarebbe stato la casa di Eva, Eva di Adamo, in Dio. Davanti a loro si spalancava il mondo intero e con esso la possibilità di fare dell’inferno un paradiso. Fu così che, mano nella mano, l’uomo e la donna si incamminarono verso l’orizzonte. 

 

Questa, cara Elizabeth, in questa epoca buia di Restaurazione, è la mia storia e, se lo vorrete, la vostra.                                 

 

Vostro,

John Milton

Filippo Falcone

Bibbia a scuola? Parliamone

Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città.

Deut, 6: 6-9

 

Tra le notizie più diffuse nel nostro Paese negli ultimi giorni, circolano le “anticipazioni” delle Nuove indicazioni Nazionali per le scuole (primaria e secondaria) che, elaborate da un’apposita commissione presieduta dalla pedagogista Loredana Perla, dovrebbero “riscrivere” quelli che saranno i programmi della scuola italiana. Le “novità” ci sarebbero e riguardano soprattutto la “re-introduzione” del latino nella scuola media, la divisione tra storia e geografia, un rafforzamento della storia nazionale e l’introduzione della lettura della Bibbia a scuola.

Dobbiamo subito dire che sino a che non viene pubblicato il testo ufficiale delle Indicazioni non ci possono essere commenti e bilanci definitivi, perché solo quel testo ci permetterà di fare le opportune valutazioni. Però, visto che sia il Ministro Valditara che la prof.ssa Perla (che presiede la Commissione che ha rivisto le Indicazioni Nazionali), anche nei loro social, hanno convalidato queste anticipazioni, ci sentiamo di fare alcune considerazioni.

Lasciando da parte le polemiche che riguardano latino e divisione tra storia e geografia, volevo fare alcune considerazioni sull’introduzione della lettura del testo biblico a scuola, cosa che per noi evangelici dovrebbe suscitare sicuramente interesse, riservandomi di tornare anche sulla questione della storia nazionale in un altro intervento.

Noi evangelici che viviamo in Italia sappiamo che il nostro Paese, dove la Bibbia (almeno una volta) a partire dagli anni 1960 era quasi sempre presente nelle case degli italiani, era anche un libro scarsamente letto e questo era dovuto a diversi fattori. In primo luogo, siamo stati un paese dove il tasso generale di alfabetizzazione era  piuttosto basso fino a settant’anni fa e dove la cultura cattolica popolare e colta non favoriva la lettura del testo biblico, tenendo conto che, sino agli anni 1950 sarebbe stata consentita solo attraverso la mediazione del testo latino e quella del Magistero.

Tutto ciò ha sicuramente portato ad un “analfabetismo” biblico che è molto presente nella nostra società e di cui, in realtà, solo negli ultimi anni ci si è resi forse conto anche da parte dell’opinione pubblica (si veda per esempio il successo, proprio in questi giorni, di un libro come Il Dio dei nostri padri di Aldo Cazzullo). Basta provare a fare una lezione di filosofia e di storia in cui dovete fare dei riferimenti biblici per comprendere come anche i vostri alunni più brillanti siano totalmente a digiuno della minima conoscenza del testo biblico.

Il dibattito sulla lettura della Bibbia a scuola non è nuovo. Da ormai qualche decennio in Italia vi è un’associazione chiamata Biblia che proponeva l’introduzione dello studio del testo biblico a scuola che è stato sostenuta anche da intellettuali di punta del nostro orizzonte culturale come Umberto Eco ed altri. 

La questione ovviamente si è sempre scontrata con un dato da cui non si può prescindere quando si parla di fatto religioso in Italia: in tutte le scuole, infatti, è presente l’insegnamento della religione cattolica che scaturisce dal Concordato (rinnovato nel 1984) con la Chiesa Cattolica che di fatto rende presente questo insegnamento in ogni ordine e grado scolastico. La prima domanda quindi è proprio questa: vi sarebbe una relazione tra lettura della Bibbia e insegnamento della religione cattolica? Se, infatti, lo Stato spende già risorse finanziarie per quest’ora non si dovrebbero cambiare le Indicazioni Nazionali per questi docenti, obbligandoli a soffermarsi di più sul testo biblico? E’ chiaro che la domanda rimane aperta sino a quando non avremo il testo completo dei nuovi programmi proposti. Allo stesso tempo abbiamo una certezza: l’insegnamento della religione cattolica non sparirà per ora dalle scuole, sostituito da un insegnamento di tipo aconfessionale, visto che il Ministero ha appena bandito un concorso per regolarizzare i precari in questa disciplina.

Da quanto si comprende, però, sembra che la lettura di brani biblici nella scuola primaria sarà collegata allo studio dell’epica, quella disciplina in cui anni fa (e ancora oggi) si studiano i poemi omerici, l’Eneide di Virgilio e (così ha affermato il Ministro) le saghe nordiche. In questo contesto ci sembra che siano privilegiati i racconti biblici che diventano delle saghe o che somigliano ai racconti epici (i racconti dei patriarchi, dei re e dei profeti?). 

Sicuramente l’idea che vi è dietro ha una sua importanza: si tratta di concetti che qualche decennio furono portati avanti dal critico letterario americano Northorp Frye nel suo celebre libro Il grande codice. In questo testo si sosteneva che il testo biblico è uno dei testi base della letteratura occidentale e in tale senso va studiato da tutti. Queste considerazioni, assolutamente laiche, sono importanti da un punto di vista culturale e se il motivo per introdurre la lettura (io spero che sia questo e non semplice narrazione) dei testi biblici rientra in una operazione di incremento della literacy, sulla falsariga di qualche idea proveniente dagli USA dove la lettura di questi testi dovrebbe portare ad un miglioramento delle capacità di lettura di tutti. 

Nelle affermazioni sinora fatte non è chiaro se quest’approccio continuerà nella scuola secondaria, dove, soprattutto negli indirizzi a matrice umanistica (come è il liceo classico) potrebbe anche giocare un ruolo. Questo è quanto abbiamo compreso dell’introduzione della Bibbia a scuola: può darsi che ci sbagliamo perché le notizie rimangono parziali.

Da evangelico le questioni che sorgono sono tante. Pur potendo essere contenti che il testo biblico sia riconosciuto come importante da un punto di vista culturale, ci poniamo una serie di questioni. 

In primo luogo una domanda tecnica: chi insegnerà la Bibbia? Leggere la Bibbia come un “grande codice” o come un “testo mondo” (altra definizione data in questi giorni) richiede una serie di competenze che se forse hanno gli insegnanti di religione cattolica che si sono formati, difficilmente hanno gli altri insegnanti. Come si formeranno i futuri insegnanti di Bibbia? Non basta probabilmente neanche chi ha una formazione classica perché l’Antico Testamento non segue le strutture di quella letteratura ed ha una sua tipicità che può essere spiegata solo conoscendo bene l’ambiente del Vicino Oriente antico e di alcune strutture base delle letterature semitiche.

Se possiamo concordare che la Bibbia è un importante libro (o libri) della cultura occidentale e che merita di avere attenzione nei curricoli scolastici, non dobbiamo dimenticarci che è anche un testo sacro e confessionale, la cui diffusione e divulgazione è stata affidata alle Chiese. Esiste un modo di leggere la Bibbia che sia aconfessionale e che possa così essere introdotto a scuola? Anche su questo possono sorgere dei leciti dubbi. Se è vero che gli esegeti biblici usano tutte le tecniche più avanzate dell’analisi letteraria, solitamente lo fanno per capire il senso del messaggio per i credenti. I due aspetti non sono facilmente scindibili.

Siamo convinti che il libero esame delle Sacre Scritture (prerogativa del mondo evangelico e non di quello cattolico) è stato fondamentale per la diffusione della lettura e della scrittura nel mondo occidentale, ma rimaniamo perplessi che questo principio (quasi del tutto estraneo alla cultura del nostro Paese) possa essere ora assunto in maniera tale da poter così risolvere i problemi di literacy che sembra avere il nostro Paese (dico sembra perché non è chiaro che siano i nostri giovani a non comprendere un semplice testo scritto o la popolazione in genere che è stata già scolarizzata anche in maniera tradizionale e non innovativa). 

Pertanto, in maniera del tutto provvisoria, pur potendo comprendere alcune delle ragioni che porterebbero all’introduzione della lettura di brani biblici a scuola, rimaniamo perplessi dal come tutto questo debba essere fatto e su come non debba diventare un processo identitario, ma meramente culturale. 

La Bibbia, per noi evangelici (ma questo sentimento è anche condiviso dai cattolici) è un libro mondo nel senso che ha come suo indirizzo tutto il mondo e non ha la peculiarità di essere un testo occidentale (pur fondandone la cultura), ma di un testo formatosi nel Medio Oriente che ha sempre avuto pretese universalistiche anche nei passi più identitari per il popolo ebraico. 

Rimane un’altra questione che per noi è fondamentale: quanto l’educazione biblica possa essere svolta in un luogo di Stato e quanto invece debba essere di pertinenza delle Chiese e delle famiglie. 

Sorvoliamo ovviamente su altre problematiche e ricordiamo due episodi, uno biblico e l’altro storico. Il primo concerne il passo messo come inizio di questo articolo: nel libro di Deuteronomio dopo che Mosé ripete i comandamenti ricorda che la Legge va ricordata e che il compito di ricordarla alle future generazioni spetta alla comunità (quella religiosa ebraica) e alle famiglie. E’ chiaro che stiamo prima dell’esistenza di uno Stato e di scuole formali, ma è un episodio su cui riflettere. La seconda riguarda l’attenzione che all’educazione biblica è sempre stata data dalle Chiese che provengono dalla Riforma. Lutero, non appena iniziò la sua opera di diffusione del Vangelo, comprese subito quanto fosse importante l’istruzione biblica per i bambini: creò il Catechismo e la scuola domenicale per questo all’interno delle attività ecclesiastiche. Riteniamo che proprio per questo il testo biblico e la storia della Riforma ci diano delle indicazioni che vanno forse in direzione forse diversa da quella che è la proposta, di cui pur apprezziamo le intenzioni e su cui ci riserviamo di dare un giudizio finale solo a testo pubblicato.

                                                                                                                                                       Valerio Bernardi – DIRS GBU

Tornando da Seul. Prime riflessioni

E’ passata una settimana da quando sono ritornato in Italia dopo aver partecipato al quarto congresso di Losanna a Seul-Incheon, probabilmente quello numericamente più significativo dei quattro (più di 5000 rappresentanti provenienti da tutto il mondo) e che si è concluso con una cerimonia di chiusura che ha portato alla firma (per chi voleva) di un patto di collaborazione nelle azioni per la missione cristiana nel mondo. 

Che sensazioni rimangono in mente di quanto avvenuto? Cercherò di riassumerle partendo da quello che personalmente ho fatto. Mi sono ritrovato al Congresso (come era anche successo a Città del Capo) nella doppia veste di partecipante e di membro della stampa che poteva, per questo, accedere all’ufficio stampa ed alle conferenze stampa giornaliere che erano tenute nel primo pomeriggio. Allo stesso tempo, come partecipante, ho potuto essere un Table Leader, ovvero ho condotto le discussioni nel mio tavolo che era composto da sei partecipanti che provenivano da continenti e nazioni diverse. Il lavoro è stato faticoso ma mi ha permesso, penso, di avere uno sguardo più approfondito su quanto avvenisse ed ho avuto la possibilità di un maggiore scambio di opinioni con diversi fratelli provenienti da tutto il mondo.

La prima riflessione parte proprio da qui: il Congresso di Losanna è sicuramente la fotografia del cristianesimo globale e dei suoi cambiamenti. Se è vero che i numeri mostrano che esiste ancora una prevalenza del mondo anglosassone (la rappresentanza nordamericana era del 25%, un quarto dei partecipanti), la presentazione che si è data del mondo cristiano ed i relatori provenienti da tutti i continenti hanno dato una bella idea di un’opera che agisce in modo globale. Lo stesso mio tavolo (composto di 6 persone) nel suo piccolo rappresentava tre continenti ed almeno quattro realtà diverse del mondo evangelico. 

Il secondo punto è quello del livello collaborativo. La proposta che viene fuori da Seul è quella di cercare di fare “rete”. Chris Wright (che era stato l’estensore dell’Impegno di Città del Capo e che è comunque parte attiva nel processo di Losanna) durante una delle conferenze stampa ha più volte usato la parola network ed ha anche ribadito che Losanna è un movimento che vuole essere di ausilio alle chiese ed alle missioni per proclamare il Vangelo senza sovrapporsi ad esse, ma aiutandole in un’opera che mostra oggi tutta la sua complessità, dovendo affrontare una situazione del mondo che appare, complessa, policentrica e pluralistica.

La terza osservazione ha a che fare con due questioni che sono apparse fondamentali: lo sguardo verso il futuro e le nuove generazioni e l’idea che il Vangelo non può essere solo annunciato dai “professionisti” (le persone che si dedicano a tempo pieno al lavoro di predicazione), ma deve essere soprattutto annunciato da coloro che sono impegnati anche in una vocazione che è diversa da quella dell’annuncio. Avendo negli ultimi decenni avuto a che fare con il mondo GBU, conoscendo molto bene il mondo degli adolescenti e dei giovani adulti, comprendo che oggi probabilmente la sfida maggiore è proprio, almeno in Occidente (ma guardando anche all’Asia Orientale non solo), quello di un annuncio che trova più forti resistenze nelle giovani generazioni che trovano il messaggio evangelico forse poco accattivante. L’obiettivo non raggiunto di avere una rappresentanza del 40% di leader evangelici sotto i 40 anni, rimane un segno su cui bisognerebbe discutere e riflettere. Il richiamo poi ad uno dei principi del mondo protestante che si è fatto in una delle giornate, quello che si riferisce al sacerdozio universale dei credenti che impegna tutti nell’annuncio del Vangelo, penso sia uno dei richiami più interessanti per il mondo italiano, dove coloro che operano per il Vangelo quanto meno in modo bivocazionale sono tantissimi. Ricordare, partendo da una lettura di Atti degli Apostoli che anche uno dei più importanti annunciatori del Vangelo come Paolo avesse un lavoro secolare (all’occorrenza) non è affatto secondario in un mondo dove, talvolta, la professionalizzazione per il Vangelo, prendendo il sopravvento fa dimenticare come i luoghi di lavoro siano fondamentali per quello che facciamo e per gli incontri che possiamo fare. La testimonianza all’esterno delle comunità quindi è stata vista come un atto fondamentale.

La quarta osservazione riguarda i documenti che sono stati prodotti per questo Congresso. Il Report e lo Statement sono dei punti riflessione importanti. Il primo è un vero e proprio lavoro di ricerca che sonda lo Stato di salute del cristianesimo, dividendo i problemi anche per aree geografiche, individua 25 punti critici (di uno in particolare parleremo nei prossimi articoli), e fa delle proposte per far sì che, nel giro di una generazione queste criticità vengano superate. Lo Statement, invece, attraverso una lettura del presente, una rilettura dell’Impegno di Città del Capo, individua sette emergenze del mondo odierno che richiedono ancora maggiore attenzione e che mostrano come il mondo evangelico di oggi comprenda perfettamente il momento critico in cui ci troviamo e cerca, anche attraverso un’attenta analisi teologica, di comprendere cosa si può realmente fare. Se il Report potrebbe essere considerata l’analisi socio-antropologica (sempre con una solida base biblica), lo Statement è il cuore teologico, che, come abbiamo già affermato in un precedente articolo, mi sembra si orienti verso un evangelismo “progressivo”, nel senso che, partendo dal dato scritturale, guarda in avanti alle prospettive che possono rendere più efficiente la missione in un momento critico che il mondo sta attraversando. I due documenti meritano di essere ampiamente letti e di divenire oggetto di riflessione esattamente come lo sono stati quelli precedenti e ad essi si collegano.

La quinta osservazione riguarda le criticità. Il mondo evangelico è sempre più policentrico (in questo congresso la presenza pentecostale era sicuramente aumentata) e, proprio per questo motivo (di questo siamo anche convinti) non esistono in esso discorsi autoritari o punti umani di riferimento se non per la loro autorevolezza. Mi pare che la discussione che è iniziata sui due documenti, le critiche che sono sorte a seguito di alcune affermazioni di alcuni relatori facciano parte sicuramente dello spirito del mondo evangelico e siano parte integrante del cosiddetto Spirito di Losanna, che deve sempre rispettare la pluralità di voci e che deve sempre avere (come dal primo Losanna che si richiamava idealmente al Congresso di Edimburgo del 1910) come suo scopo precipuo il ritrovo di un’unità che abbia come priorità l’annuncio del Vangelo.

Se, infatti, qualcosa rimarrà del Congresso di Seul è proprio questo: l’impegno che ognuno dei partecipanti ha preso e di ogni credente a continuare a proclamare il Vangelo sapendo che si tratta di un’operazione complessa, fatta in un mondo molteplice con diversi problemi ed in cui lo Spirito di Dio agirà attraverso di noi.

                                                                                                                                                             Valerio Bernardi – DIRS GBU

Successi, crisi e prospettive della chiesa coreana

Il quarto congresso di Losanna si tiene nel centro congressi di Incheon, la città che ha l’aeroporto di Seul. Se uno passeggia per la città si trova proiettato nel futuro. Non si troveranno monumenti storici, ma palazzi ultramoderni (io stesso ho dormito in un B&B al 28° piano), vialoni adatti per far scorrere un traffico sostenuto, molti parchi ed una grande pulizia ed ordine. La Corea del Sud e, in particolare, la zona attorno a Seul, è un paese ricco. Ma il motivo per cui il Congresso è stato fatto in questo luogo ce lo spiega Alister McGrath nell’ultimo capitolo in La Riforma protestante e le sue idee sovversive in cui, parlando del protestantesimo del XX secolo spiega che il caso coreano rappresenta uno tra quelli in più rapida crescita con influenze determinanti anche per la società in cui si vive.

Per raccontare questo progresso, le chiese coreane l’altra sera (giovedì) hanno presentato uno spettacolo teatrale (con musiche, parte recitate e uso della multimedialità) intitolato Twelve Stones (dodici pietre). Le 12 pietre rappresentano i momenti più importanti dell’evangelismo coreano. 

Si è spiegato come, a fine XIX secolo, dopo vari tentativi e dopo aver gà tradotto il testo biblico in precedenza nella lingua coreana, il cristianesimo fosse arrivato grazie soprattutto alla presenza di missionari presbiteriani e metodisti che, oltre a fondare chiese, avevano anche iniziato a costruire scuole, aprendo, ad esempio, la prima istituzione educativa femminile ad inizio XX secolo. Il movimento cristiano era presente, tollerato ed anche in crescita. Risulta interessante dire che la maggiore crescita si ebbe proprio a Pyongyang, tanto che si parla proprio di risveglio riferito all’attuale capitale della Corea del Nord. 

Nonostante la rapida crescita, l’invasione giapponese (che iniziò negli anni venti) creò una crisi all’interno del protestantesimo coreano che ricorda alcune situazioni che si crearono nell’impero romano nel cristianesimo. I Giapponesi che ancora allora vedevano con una certa ostilità il cristianesimo, continuarono a permettere il culto evangelico, permisero ad alcune scuole di rimanere aperte, ma obbligarono i pastori ed i credenti a fare un giuramento scintoista. La maggior parte di essi obbedirono, ma alcuni resistettero essendo poi di fatto perseguitati.

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, nonostante la conflittualità tra coloro che avevano giurato e quelli rimasti fedeli, il cristianesimo riprese a crescere, questa volta nella parte Sud. Il Paese fu poi ferito dal conflitto in Corea tra il 1950 ed il 1953. Mentre il regime paternalista/comunista vietò il cristianesimo nella Corea del Nord, a partire dal 1953 ci fu un vero e proprio risveglio con una crescita costante del cristianesimo che portò i credenti, negli anni 1990 ad essere il primo gruppo religioso, superando i Confuciani (retaggio del vecchio regno coreano) e Buddisti (insediati da più tempo sul territorio). La crescita del cristianesimo nella Corea del Sud ha aiutato anche il processo di democratizzazione e di sviluppo economico che ha reso questo paese uno dei più ricchi dell’Est asiatico, partendo da una situazione di povertà dopo la guerra.

Le ferite rimangono aperte e proprio negli anni 1990, dopo un’apparente indifferenza, tornano ad esserci rapporti con la Corea del Nord, colpita duramente dalla siccità ed in cui la carestia stava facendo morire la gente di fame. La Corea del Nord pertanto fu costretta ad accettare gli aiuti dei Paesi più ricchi. Dal punto di vista della Chiesa questo significa l’apertura di un vulnus, ma anche la constatazione che a Nord c’erano dei credenti perseguitati che, ancora oggi, si riuniscono segretamente e costituiscono la cosiddetta “chiesa sotterranea”.

Lo spettacolo (fatto anche di ottimo materiale documentario) non ha nascosto la crisi della chiesa coreana che è iniziata già agli inizi del XXI secolo per alcuni scandali legati a vicende di pastori e, infine, dall’epidemia di covid che, dopo la chiusura dei locali, ha visto drasticamente ridurre la frequenze dei locali di culto del 30%. Proprio per questa è ora di raccogliere nuove sfide per il tempo presente ed alcune di queste sfide che ha raccolto la chiesa coreana (come quella dell’evangelizzazione attraverso digitale) sono diventate anche quelle del Movimento di Losanna.

Si è trattato, quindi di un viaggio nella storia fatto con uno spettacolo di alta qualità che ha avuto anche la virtù di non nascondere quelli che sono stati i problemi che ha affrontato la chiesa coreana e non si sono neanche occultati quelli che sono gli attuali problemi che somigliano molto a quelli di qualsiasi realtà secolarizzata paragonabile a quelle del mondo occidentale. 

La chiesa coreana, quindi, può essere vista come un esempio di ciò che accade agli esseri umani quando annunciano il Vangelo con i loro limiti. Una storia esemplare, pertanto, sia per quelli che sono stati i suoi successi, sia per quelli che sono stati i suoi fallimenti. 

L’insegnamento che se ne può trarre è quello che la nostra storia va vista sempre con attenzione, non cercando solo di essere elogiativi, ma mostrando le nostre debolezze per guardare realmente avanti ed accettare le sfide del presente, rimettendo al centro della predicazione l’intero Vangelo.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Le tre emergenze della missione globale: cura del creato, giustizia e identità di genere. Verso un evangelismo progressivo?

Il quarto congresso di Losanna, nelle sue prime due giornate, è già entrato nel vivo della discussione sulla direzione in cui deve andare la missione nel XXI secolo, a cinquant’anni dalla prima conferenza voluta da John Stott e Billy Graham. 

Oltre al Global Mission Report è stato pubblicato il primo giorno del congresso lo Statement of Seoul, il testo teologico guida per  i prossimi anni. Sulla base di una continuazione di una tradizione, lo Statement è di fatto un aggiornamento dell’impegno di Città del Capo, che approfondisce sette diverse tematiche ritenute emergenti oggi dalla commissione teologica che lo ha preparato. Di questi documenti parleremo nelle prossime settimane su questo sito. Chi vuole consultare questo nuovo documento lo può fare a questo link: https://lausanne.org/statement/the-seoul-statement?utm_source=Lausanne+Movement+List&utm_campaign=4cd8ed59e2-EMAIL_CAMPAIGN_2023_10_13_07_05&utm_medium=email&utm_term=0_602c1cb67d-4cd8ed59e2-%5BLIST_EMAIL_ID%5D.

Nel pomeriggio di ieri, che possiamo senza dubbio dire sia stato il momento centrale della giornata, tre relatori hanno parlato di tre delle emergenze esposte nel nuovo documento: la cura del creato, la giustizia e la question della sessualità e dell’identità di genere. Dopo una presentazione generale delle problematiche fatta da Chris Wright, la prima ad esporre il come ci si deve impegnare è stata la scienziata americana Katherine Hayhoe che, partendo dal dato biblico della creazione, ha sottolineato due questioni importanti: la prima che la Natura come creazione di Dio non avrebbe bisogno degli uomini, mentre noi abbiamo bisogno di essa per vivere. Pertanto se la Natura è in sofferenza anche gli umani lo sono perché senza il mondo che funziona anche l’umanità è in pericolo. La scienziata americana ha anche affermato che il problema del cambiamento è reale e che i credenti devono impegnarsi (anche in maniera individuale) a migliorare la nostra vita sulla terra. La scelta è stata quella di usare weird climate anziché climate change, per sottolineare la malvagità del cambiamento ed i danni irreparabili che sta portando al mondo oiderno. 

Il secondo argomento della serata è stato affrontato da Ruth Padilla ed è stato quello della giustizia. La giustizia, la sua ricerca, a prescindere dalla posizione politica che uno ha, deve essere prioritaria per la chiesa che può annunciare la Parola in una missione integrale e olistica come quella del Movimento di Losanna solo se ascolta le grida dell’umanità sulle innumerevoli ingiustizie sociali presenti nella società. Gli esempi citati dalla Padilla sono stati tanti e sono passati attraverso la visione critica della povertà, i conflitti (Ucraina e conflitto israelo/palestinese), questione femminile, sfruttamento. Tutti questi aspetti sono alla disperata ricerca di giustizia che deve essere contemperata ed accompagnare ogni sforzo missionario. In un approccio missionale (il termine che è stato coniato dopo Città del Capo) non è possibile che la missione della/e Chiesa/e non sia accompagnata da una ricerca della giustizia come, tra l’altro, viene trasmessa soprattutto dalla letteratura profetica dell’Antico Testamento e dagli stessi insegnamenti di Gesù.

Ha chiuso gli interventi della serata Robert Vaughn, già ospite del Convegno GBU qualche anno fa, pastore di una comunità ad Oxford che ha parlato della sessualità. Vaughn ha spiegato come il testo biblico sia uno spazio in cui è chiaro cosa sia il genere, è chiaro che la sessualità sia fatta per il matrimonio ed è chiaro che i rapporti con persone dello stesso sesso siano proibiti. Questo non significa affatto che l’uomo nella sua fragilità non possa provare attrazione per persone dello stesso sesso. La Chiesa deve accogliere con l’Amore queste persone e dare un corretto insegnamento alle loro scelte. Lo stesso Vaughn ha tendenze omosessuali e la sua scelta è stata quella dell’astensione dal sesso, scelta possibile alla luce degli insegnamenti bibici.

Il profilo che è venuto fuori da questa prima serata è quello di un evangelismo piuttosto aperto alle problematiche attuali che si confronta con il mondo contemporaneo senza aver paura di quelli che sono le richieste attuali dell’umanità. Il Movimento di Losanna ha dimostrato, come già accaduto a Città del Capo, di avere una notevole capacità di lettura del mondo contemporaneo e avere anche la capacità di strutturare un pensiero su temi caldi, basandosi sulle Scritture, appoggiandosi su di esse e comprendendo che la proclamazione del Vangelo passa anche attraverso l’incontro/confronto con le domande dell’umanità.

Qualcuno ha rimproverato, durante la conferenza stampa di oggi, il Congresso di prendere delle posizioni “politiche”. I responsabili hanno ribadito che Losanna non prende posizioni politiche nel senso che non si schiera con nessuna particolare fazione. L’atteggiamento, a nostro parere, è quello giusto: quello di un annuncio della Parola che tenga conto delle “grida di dolore” che vengono dalla società e che cerchi di rispondere ad esse, senza per questo schierarsi con una particolare fazione. Si tratta di politica nel senso alto del termine, di interesse per la società in cui si vive e dei bisogni di essa. Bisogna dire che dalla serata ci è parso di scorgere un evangelismo che svolge la sua funzione missionaria e profetica e che sia progressivo, ovvero che tenga conto del mondo in cui si vive, senza per questo guardare indietro ad una “tradizione” che non ha nulla a che fare con le esigenze del dettato biblico. Non si tratta infatti di guardare indietro come l’Angelus Novus di Kandinsky, ma di guardare avanti per il progresso dell’annuncio della parola salvifica di Cristo. I documenti sino ad ora prodotti ed i discorsi presentati, pur presentando un cristianesimo che attraversa un periodo critico, cercano di trovare delle soluzioni e di affrontare i problemi nella maniera più corretta da un punto di vista biblico-teologico.

                                                                                                                        Valerio Bernardi – DIRS GBU

Aspettando Losanna IV. Alcune riflessioni preliminari prima di partire per la Corea

Mancano ormai solo 14 giorni dall’inizio del IV incontro mondiale del Movimento di Losanna, fondato con lo scopo di riflettere sulla missione dell’annuncio del Vangelo di Cristo al mondo 50 anni fa, su ispirazione di due dei maggiori esponenti dell’evangelismo mondiale dell’epoca: John Stott e Billy Graham. 

In questi 50 anni il mondo in cui viviamo è profondamente cambiato ed anche la situazione del mondo evangelico. Sebbene, nelle sue varie componenti, il mondo cristiano rimanga la prima religione professata, è anche vero che ci sono delle zone di crisi paradossalmente proprio nel mondo occidentale. Se quando, nel 2010, alcuni di noi parteciparono al terzo incontro che si tenne a Città del Capo, il cristianesimo evangelico occidentale sembrava in crisi in Europa, ma non negli Stati Uniti, oggi anche la più importante nazione evangelica del mondo sta vivendo il suo momento di ripensamenti soprattutto se si guardano ai numeri di coloro che assiduamente frequentano una comunità o si definiscono cristiani. Rispetto a 14 anni fa molti sono anche i cambiamenti sociali: siamo nel mezzo di una rivoluzione digitale che, se era minimamente presente a Città del Capo, diviene di fondamentale importanza per quanto sta accadendo oggi.

Per prepararsi a questo incontro che si terrà nella Corea del Sud a Seul-Incheon, come sempre sarà inteso a riflettere su queste differenti situazioni e a cui parteciperanno circa 5000 delegati in presenza con diverse persone che invece potranno seguire i lavori online (questa già una prima grande differenza), il Movimento ha pubblicato un corposo documento che si intitola State of the Great Commission Report (Rapporto sulla situazione del Grande Mandato). Questo testo serve essenzialmente come lavoro preparatorio, ma anche come base per quello che deve essere fatto. E’ un documento di più di 500 pagine, scritto da molti autori (l’elenco è piuttosto lungo), montato con una grafica accattivante e con diverse info-grafiche in cui si ribadiscono alcune delle emergenze del Grande Mandato di Gesù di fare discepoli. Su questo testo e su alcuni dei suoi aspetti torneremo negli articoli che dedicheremo a questo evento.

L’introduzione analizza, da un punto di vista teologico, il significato della missione cristiana e, come già accaduto nei precedenti congressi, si sottolinea come ormai il cristianesimo sia sempre più globale ed coinvolga, con successo, continenti che sino a qualche decennio erano marginali (Sud America, Africa Subsahariana, una parte del continente asiatico). La proposta globale appare essere quella da una parte di mostrare come la missione sia un qualcosa di complesso che implica diversi aspetti della vita umana oltre quello meramente spirituale, dall’altra quella di cercare una lettura adeguata del mondo contemporaneo che appare sempre più complesso e stratificato, nonostante la globalizzazione che avrebbe dovuto avere come sua conseguenza una maggiore omogeneizzazione. Proprio per questo il documento presenta sia capitoli tematici che cercano di leggere il mondo nella sua complessità, sia capitolo divisi per aree geografiche, dove si individuano i maggiori problemi per la missione in una determinata regione del mondo. Vi è quindi attenzione sia alle tematiche globali che ai problemi che possono essere diversi a seconda del luogo in cui si vive e si agisce per la missione.

Il Congresso durerà un’intera settimana, dal 22 al 28 settembre; come per Città del Capo anche in questo caso, per sottolineare la centralità del testo biblico, ci saranno meditazioni e studi sul libro degli Atti che saranno fatti quotidianamente. L’organizzazione appare complessa ed ognuno dei delegati ha dovuto scegliere degli affinity groups in cui si affronteranno le tematiche ed i problemi che riguardano il mondo contemporaneo e dei gruppi di interesse dove si cerca di affrontare varie tecniche per “modernizzare” il discorso missionario (molto spazio è dato al mondo digitale ed alla cura del creato, due argomenti piuttosto caldi ed in cui il mondo evangelico non ha ancora saputo affrontare in modo adeguato). 

Due nuovi target interessanti sono poi i giovani e gli anziani. Il Movimento si rende conto che, negli ultimi anni, il processo di secolarizzazione ha colpito sempre più le fasce giovanili che soprattutto in Occidente vanno sempre meno in chiesa e si identificano sempre meno con il cristianesimo, coinvolgendo in questo tutte le sue varie componenti (cattolico, anglicano, evangelico, protestante storico). Gli anziani o il diventare tali (cosa che coinvolge in parte ormai anche il sottoscritto) è una nuova chiave della vita in Occidente (ma non solo, si pensi anche ad alcuni paesi dell’Estremo Oriente) e bisogna rapportarsi ad essa proprio se la missione, oltre che fermarsi al mero annuncio del Vangelo deve anche tenere conto dell’ambiente sociale in cui si sviluppa.

Come sempre la Delegazione italiana sarà relativamente piccola, composta, a quanto pare da 27 persone, abbastanza rappresentativa del variegato mondo evangelico, ma mai abbastanza. Sebbene ci siano dei criteri di selezione (40% per cento di donne, 40% di persone non a tempo pieno, una forte presenza di giovani leader sotto i 40 anni) non sempre è chiaro come siamo stati scelti. C’è chi ha fatto domanda autonomamente, chi è stato invitato, chi è stato recuperato all’ultimo momento. Sta di fatto che sarà una delegazione variegata, che non si conosce ancora del tutto tra di sé e che speriamo possa avere un congresso proficuo che possa dare dei frutti in seguito a beneficio di tutto il mondo evangelico italiano. Una novità, rispetto alle altre volte, è che saranno presenti anche dei volontari oltre che dei delegati, che coadiuveranno alla buona riuscita dell’evento.

Il problema della missione e di come si debba portare avanti, di quali siano le sfide del presente e del futuro sono un argomento importante soprattutto in un mondo come quello di oggi che è alle soglie del secondo quarto del XXI secolo che appare travagliato ed in cui il messaggio di “tutto il Vangelo” (per usare un’espressione cara al Movimento di Losanna) dovrebbe portare ristoro non solo agli individui ma all’intera società, cercando di portare un messaggio positivo e propositivo per il vivere bene in questo mondo nella speranza del ritorno di Cristo. Speriamo che Losanna IV, che celebrerà i 50 anni di questo movimento possa mostrare come una realtà variegata e molteplice come l’evangelismo mondiale possa diventare unitario nella testimonianza e nella fedeltà, tenendo conto anche delle diverse prospettive presenti e centrando l’attenzione sul messaggio del Vangelo e del bisogno che c’è per questo periodo. Ritorneremo durante il viaggio e dopo a parlare di questo evento mondiale che ci vede sicuramente protagonisti come credenti, ma anche forse marginali come Nazione, cosa che ci dovrebbe anche far riflettere.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

L’uomo che sapeva parlare di Dio. Ricordo personale di Paolo Ricca.

Questa mattina si è diffusa piuttosto rapidamente la notizia che è venuto a mancare la notte scorsa il teologo valdese Paolo Ricca, figura di grande spessore culturale, credente profondamente partecipe del messaggio cristiano e tra i maggiori studiosi italiani del pensiero della Riforma. Si tratta di una perdita per il mondo del protestantesimo storico italiano e per tutto il mondo evangelico.

In questo mio ricordo non entrerò sempre nella discussione sul suo pensiero, ma soprattutto sul rapporto che ho avuto con questo studioso e che ho avuto il piacere di incontrare in diverse circostanze ed in diverse epoche della mia vita.

Penso che la prima volta che ho sentito una conferenza di Paolo Ricca fosse quando avevo appena iniziato l’università ad inizi anni 1980 e si stava celebrando il cinquecentenario della nascita di Lutero. Ricca, che era già docente di storia della Chiesa alla Facoltà Teologica Valdese, venne a presentare a Bari un testo di Lutero e, devo ammettere, che la sua chiara presentazione ha sicuramente invogliato me, giovane studente di filosofia appassionato del messaggio evangelico, ad approfondire il pensiero della Riforma e dei principali riformatori. 

Qualche anno dopo mi sono iscritto alla Facoltà Teologica Valdese ed ho studiato e fatto l’esame di storia della Chiesa con lui. Si è trattato di un affascinante colloquio (durato più di due ore) che è stato di grande interesse e di valore. Ricordo ancora le domande (non sempre facili) cui ho dovuto rispondere, ma mi rimane l’idea di un grande insegnante che aveva cura della formazione dei suoi studenti.

Una terza circostanza che ricordo è quella sempre di un incontro barese, in occasione del Cinquecentenario della Riforma, nel 2017. Invitato dal Consiglio Pastorale delle Chiese di Bari, Ricca, nel giro di pochi giorni, nonostante l’età, fece ben quattro discorsi ad un pubblico di tipo diverso. Di questi quello che mi ha impressionato di più è stato il dialogo con i ragazzi del mio liceo. Originariamente non era un evento programmato, ma proprio durante un incontro di aggiornamento con docenti di storia di scuola superiore, venne a lui in mente di voler parlare in una scuola. La sua passione per la Riforma e per il messaggio di ritorno alla Parola di Dio e ad una nuova libertà, appassionò diversi studenti del mio liceo e anche in questo caso devo ammettere l’efficacia del suo messaggio a giovani adolescenti che difficilmente (pur studiosi come possono essere quelli che frequentano un liceo classico) si appassionano a questioni riguardanti il cristianesimo.

Le ultime due volte in cui incontrato Ricca sono piuttosto recenti e hanno a che fare con due avvenimenti di quest’anno. Il primo è quello del Convegno GBU dedicato all’ateismo. In quel caso si decise di intervistare Ricca su una delle sue ultime pubblicazioni, il libro Dio. Apologia, uno dei testi più interessanti pubblicato da un teologo evangelico in Italia e dedicato proprio ad una dettagliata analisi dell’ateismo contemporaneo (soprattutto nella prima parte del testo). Io e Giacomo Carlo di Gaetano pensavamo di poter finire l’intervista in circa 30 minuti: il fiume di parole di Ricca ci ha portato a fare una trasmissione di più di un’ora, dove si può vedere tutta la passione dell’anziano teologo e che ancora oggi può essere rivista da ognuno di noi.

L’ultima volta che ho visto Ricca è stato qualche mese fa, il 25 maggio per l’esattezza, quando, di nuovo a Bari, era venuto per l’inaugurazione della Libreria Bonhoeffer, unica libreria evangelica presente sul territorio dove abito. Anche in questa circostanza la sua conferenza dedicata al teologo tedesco fu di grande spessore.

Una serie di incontri che mi hanno insegnato diverse cose sulla persona, oltre che sul teologo. In primo luogo, la profondità della sua fede. Si poteva non essere d’accordo con lui teologicamente, ma non si poteva non ammettere che fosse un uomo di grande fede che metteva la predicazione e l’annuncio del Vangelo al primo posto.

In secondo luogo, la capacità comunicativa. Ricca (e l’ho vissuto personalmente) era capace un pomeriggio di parlare agli studiosi, la mattina di parlare a degli studenti di Liceo, la sera alla cittadinanza e la domenica predicare al popolo di Dio. Tutto questo riuscendo sempre a trovare il tono e le parole giuste ed a riuscire a trovare un contatto con il pubblico con cui parlava.

In terzo luogo, il pensiero. Ricca nella sua fase pastorale e di insegnamento alla Facoltà, ha voluto essere soprattutto un insegnante, scrivendo realmente poco, ma curando la conoscenza del pensiero riformato in Italia (sua è la cura delle opere scelte di Lutero, che ha permesso a diversi italiani di conoscere meglio il fondatore della Riforma Protestante); una volta “ritiratosi” ha iniziato a scrivere degli argomenti che maggiormente lo appassionavano e, per questo, il lettore italiano può trovare pubblicate, prevalentemente da Claudiana, diversi suoi scritti che vanno da quelli più propriamente storici, a quelli di spessore teologico, a quelli esegetici (il suo ultimo libro pubblicato è dedicato al Vangelo di Marco) alle predicazioni, attività a cui non ha mai rinunciato e che mostra come, ancora oggi, dopo più di cinquecento anni, la predicazione della Parola, rivesta un ruolo fondamentale nel mondo evangelico.

Fondamentalmente barthiano nella sua impostazione teologica, Ricca è stato anche un campione del dialogo all’interno del cristianesimo. Essendo stato osservatore al Concilio Vaticano II, è entrato in un interessante dialogo con il mondo cattolico che lo ha rispettato e lo ha anche ascoltato in molte circostanze. E’ stato anche campione del dialogo con il mondo pentecostale, l’ala evangelica conservatrice più numerosa in Italia, con cui è riuscito a tenere un ottimo rapporto nonostante le divergenze teologiche.

La sua opera andrà valutata col tempo, come alcuni sostengono, ma sicuramente va detto che si tratta di uno dei pochi teologi evangelici italiani che hanno dato un contributo originale al pensiero teologico degli ultimi anni. Le sue opere andranno lette con attenzione e tutti noi nel mondo evangelico siamo a lui debitori di qualcosa e non dobbiamo dimenticare la sua capacità di saper parlare di Dio al nostro secolo, compito non sempre facile per noi e che Ricca ha saputo fare egregiamente.

 

                                                                                                                                                       Valerio Bernardi – DIRS GBU

Shoah, Giornata della Memoria, Corte Internazionale dell’Aja e qualche altro pensiero

Come molti sanno oggi, 27 gennaio, nell’Unione Europea si è deciso di ricordare l’arrivo dell’Armata Rossa ad Auschwitz e, con questo evento, quanto è accaduto al popolo ebraico durante l’occupazione nazista in Europa. L’antisemitismo che ha prodotto la Shoah ed il tentativo di sopprimere intenzionalmente un popolo ha radici antiche ed il cristianesimo (anche quello protestante) non è esente dall’avere delle colpe per quanto accaduto.

Ricordare, soprattutto con senso critico ed approfondendo le circostanze storiche, oltre che cercando di comprendere (in modo empatico) quanto è stato subito è un’operazione sicuramente educativa e fortemente evocativa che ci fa anche comprendere quale possa essere l’uso del sapere storico.

Come spesso accade in Italia questo evento quest’anno è stato costellato di diverse polemiche dovute all’attuale situazione in Medio Oriente. che coinvolge direttamente lo stato di Israele che ha occupato la striscia di Gaza con lo scopo di annientare Hamas dopo i tremendi avvenimenti del 7 ottobre scorso. La contestazione più clamorosa è stata quella di un docente del Liceo Bottoni che ha scritto alla comunità ebraica di Milano ed agli Istituti Storici che si occupano di preparare manifestazioni in quest’occasione il suo disagio rispetto a questa commemorazione (la lettera si può leggere al seguente link: https://www.liceobottoni.edu.it/pagine/non-potr-essere-un-giorno-della-memoria-come-gli-altri ) Gli Istituti storici (in particolare il Parri) hanno risposto alle osservazioni, ribadendo l’importanza del compito civile che tocca ad ognuno di noi nel ricordare quanto accaduto (https://www.reteparri.it/comunicati/il-coordinamento-lombardo-risponde-al-prof-mazzi-sul-giorno-della-memoria-10423/?fbclid=IwAR1w0XD2uf88DaGFpVMyt9910L_8WWE3zDFbK3TraSg0jXAf3OsF9-jIbjU ). 

A livello internazionale, invece, il 27 gennaio 2024 viene dopo che la Corte Internazionale dell’Aja ha emanato la sua sentenza dopo il ricorso del Sud Africa che, implicitamente, accusava di genocidio lo Stato di Israele per i fatti di Gaza e chiedeva, di fatto, che la Corte si pronunciasse a favore di un immediato cessate il fuoco ed ad un’implicita condanna di Israele per quanto stava accadendo. La Corte in una sentenza piuttosto lunga e complessa (il cui testo può essere letto in inglese qui: https://www.icj-cij.org/sites/default/files/case-related/192/192-20240126-ord-01-00-en.pdf?fbclid=IwAR3sKnUEmCbaVZpx6Jj-1SO8Zvb2AUe4uIMZDxOko8y_OtaJk5EgL89hnOQ) ha ribadito la sua preoccupazione per quanto sta accadendo, ma non ha ordinato un cessate il fuoco né ha espressamente condannato Israele, esortando però lo stesso Stato a tutelare i diritti dei Palestinesi e ad evitare di commettere crimini di guerra che possano pre-alludere ad un genocidio, avendo Israele stesso sottoscritto la Convenzione che prevede la prevenzione dei genocidi (sulla base proprio della memoria di quanto accaduto in Europa).

Accanto a questi fatti significativi i thread dei miei social sono anche pieni di post di chiaro accento antisemita che vanno da quelli che dipingono Primo Levi come un antisionista (implicitamente presumendo che Levi non fosse a favore di Israele, questione assolutamente falsa), a coloro che suggeriscono fantomatici saggi che vogliono mostare come il sionismo fosse connivente con il Nazismo (sulla falsa riga di una errata interpretazione della cosiddetta “zona grigia” cui si riferisce sia Levi sia Hannah Arendt ne La banalità del male), alle indecenti vignette di alcuni autori italiani.

Cosa dire rispetto a tutto quanto accaduto e cosa possono dire gli evangelici rispetto a quanto sta succedendo oggi? Possiamo arrivare ad una lettura diversa del passato, possiamo rinnegare quanto accaduto o sentirci a disagio a ricordare e riportare alla memoria (sempre con senso storico)?

Personalmente, come docente, ho sempre pensato fosse doveroso ricordare questo particolare evento e in più occasioni (anche con una certa fatica) ho accompagnato gruppi di ragazzi a visitare i luoghi dello sterminio per riflettere insieme. Ovviamente questo lo si fa per evidenziare le atrocità che l’uomo può commettere e nella speranza che la comprensione di un evento così tragico porti tutti a riflettere su come tutto questo possa essere avvenuto e si possa cercare di non farlo avvenire più.

Cosa dire rispetto a queste circostanze e rispetto alle riserve mosse o agli insorgenti antisemitismi insorgenti sia dall’estrema destra che dall’estrema sinistra (che sino agli anni 1970 in Europa aveva un atteggiamento diverso rispetto a certe problematiche). 

In primo luogo va ribadita un cosa: l’attuale Stato di Israele è sicuramente frutto del sionismo, ma il sionismo non è mai stato un movimento unitario ed ha avuto al suo interno diverse anime, da quella totalmente laica ricollegantesi alle idee di Nazione sorte nel XIX secolo a quelle più strettamente religiose (che spesso non si sono neanche riconosciute nel movimento sionista). La dialettica politica e religiosa dello Stato di Israele rispecchia tali dinamiche anche oggi. Il sionismo non ha avuto nulla a che fare con la Shoah che è stata subita da tutti gli Ebrei dell’Europa a prescindere dalle loro scelte politiche vittime di una paura atavica verso il diverso e di una malvagità che si collegava a teorie cospirazioniste che ancora oggi i media diffondono con disinvoltura. Sicuramente si può non essere filosionisti (esattamente come Primo Levi ed Hannah Arendt), ma l’antisionismo (che automaticamente mette in dubbio l’esistenza dell’attuale stato di Israele) va spesso a coincidere con l’antisemitismo che ha avuto come sua conseguenza profonda nella storia dell’umanità la Shoah. Questa cosa non va dimenticata quando si parla di quanto oggi sta accadendo in Medio Oriente.

Lo Stato di Israele oggi è uno stato laico (e molti evangelici dimenticano questo particolare quando ne parlano), una costruzione storica avvenuta nel 1948 e riconosciuta dagli organismi internazionali. Le politiche di questo Stato (che è uno Stato democratico con delle sue peculiarità) come quelle di ogni istituzione umana sono soggette a critica e possono essere assolutamente criticate quando i Governi di Israele fanno delle scelte sbagliate. Come ogni democrazia anche lo stato di  Israele è imperfetto, come lo è qualsiasi istituzione umana. Queste critiche non devono però dimenticare che parliamo ad una popolazione che ha già all’interno una sua dialettica e che è composta da diverse parti che hanno opinioni diverse e su cui si può far pressione. Allo stesso tempo non dobbiamo dimenticare il motivo per cui gli Ebrei hanno costituito questo Stato e il perché gli organismi internazionali lo hanno riconosciuto dandogli legittimità.

Mi rendo conto che gli evangelici mostrano chiare simpatie filo-israeliane ed hanno bene in mente come sia importante commemorare la giornata della Memoria ricordando quanto accaduto ormai più di 80 anni fa in Europa. Allo stesso tempo dobbiamo qui ricordare una serie di questioni:

  1. Lo Shalom (la pace) anche per Israele è una delle costanti della predicazione biblica. Un credente non può aprioristicamente appoggiare un conflitto (anche giusto) se questo provoca un cattivo uso del mezzo bellico, provocando dolore anche contro coloro che non dovrebbero essere coinvolti. Pregare per la pace in ogni circostanza non è sbagliato;
  2. Israele (il suo Governo) possono essere criticati come ogni governo umano. Se le scelte dell’attuale Primo ministro israeliano e del suo Governo sono e sono state sbagliate non c’è nulla di male nel dirlo, senza con questo dubitare della stessa esistenza dello Stato;
  3. Non bisogna dimenticare della presenza cristiana in Palestina. Come afferma un articolo di Christianity Today di qualche mese fa (https://www.christianitytoday.com/ct/2023/october-web-only/israel-hamas-war-palestine-evangelical-christian-zionism.html?fbclid=IwAR15ztDoKpEe1XCIC_iUAH3euHKAMXUpgyMRuel25lzBckvC6fS-I21jM4M) nel territorio israelo-palestinese, la maggior parte dei credenti sono di origine palestinese e non ebraica. Le ragioni possono essere molteplici, ma dobbiamo tenere in considerazione anche questo fatto, all’interno di una situazione di estrema complessità.

Tutto ciò e le critiche che possiamo muovere ad una situazione complessa e delicata non ci devono far dimenticare cosa è successo e non devono neanche farci dimenticare il ruolo importante che gli Ebrei hanno avuto (e hanno) nella storia della salvezza. Pertanto rimane sempre nostro dovere civico e di credenti ricordare cosa è successo non solo il 27 gennaio (che è un’occasione), ma costantemente nella nostra vita e nel nostro impegno.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Dio, l’Io e la Bibbia di Moby Dick

Il mondo di Moby Dick

“Il nemico nel suo sembiante è meno orribile di quando infuria nel petto dell’uomo”. Così in un passaggio di Young Goodman Brown, racconto breve di Nathaniel Hawthorne. In un certo senso, Moby Dick; or, the Whale (1851) è tutto qui. Il romanzo di Herman Melville (1819-1891) è il grande romanzo epico americano. Così Hawthorne: “Che libro ha scritto Melville! Mi dà un’idea di forza di gran lunga maggiore di quella espressa dai precedenti suoi”. Sesto romanzo di Melville, Moby Dick non è estraneo all’influenza dell’autore della Lettera Scarlatta cui dedica il romanzo, Melville sottolinea come la contemplazione della sua opera “continui ad affondare robuste radici del New England sempre più in profondità nel caldo terreno della mia anima del Sud”.  

Melville è indubbiamente lambito dal trascendentalismo emersoniano, da cui Hawthorne idealmente discende, ma prende le distanze dalla “self-reliance” (“fare affidamento su sé stessi”) e dall’ottimismo circa la natura umana e il mondo che lo connotano. È certamente possibile leggere l’opera di Hawthorne puramente in termini di critica al moralismo, all’identitarismo e all’ipocrisia della società puritana, una critica affine a quella che in Stevenson e Wilde investe la società vittoriana, Melville ravvisa nondimeno nel buio che la percorre qualcosa che informa la natura dell’uomo, Nell’alzare il velo di rispettabilità che cela i mali del mondo puritano, come di quello vittoriano, i tre autori mettono sì in luce il degrado e l’alienazione morale e spirituale di un intero ambiente, ma paiono nel contempo identificare all’interno dell’uomo la fonte del male.

Il giovane brav’uomo, il signor Brown, incarna tutto ciò. Di giorno è esemplificazione dell’ideale di integrità, innocenza e purezza puritano. Di notte percorre la foresta per prendere parte al Sabbat. Là si scopre in buona compagnia. Vi si trovano tutte le cariche puritane più importanti e insospettabili. Quel Sabbat è ciò che infuria dentro l’uomo, là dove con il favore delle tenebre rimane celato e taciuto. Due sono allora i signor Brown, così come non c’è Jekyll senza Hyde, né Dorian senza il suo ritratto e non c’è Ismaele senza Achab.   

Come Hawthorne e i trascendentalisti, John Milton, William Wordsworth e S. T. Coleridge esercitano a loro volta una profonda influenza su Melville. Un giovane Herman, insegnante di letteratura inglese presso la Sikes District School, li integra nel curriculum di studi. Un ruolo non meno importante è quello giocato dalla cultura classica. Ancora bambino, Melville ne intraprende lo studio a scuola e continua a coltivarla nel tempo. Il solco che essa lascia è profondo e pervasivo. Infine, il mare. Melville è, tra le altre cose, uomo di mare. Naviga. Partecipa a una spedizione a bordo di una baleniera (la Acushnet). Visita luoghi esotici e remoti, tra i quali la Polinesia.  

Pur nella loro eterogeneità, tutte queste fonti letterarie o esperienziali trovano un denominatore comune nella Bibbia (la Bibbia di re Giacomo, la King James o Versione Autorizzata, 1611). In Melville la Bibbia è grammatica e sintassi del pensiero. I riferimenti e le allusioni alla Bibbia nelle sue opere sono innumerevoli, ma è il tessuto implicito delle Scritture a costituire la sostanza stessa della prosa e del pensiero. Come una balena non sa di essere immersa nell’acqua, né può vivere senza di essa, così in Melville le Scritture sono l’elemento essenziale che informa pensiero, immagini, simbolismo, lessico e fraseologia, elemento in ordine al quale ogni altra fonte trova la propria collocazione e senza il quale Moby Dick non esisterebbe. Non c’è peraltro in Melville conflitto tra elemento classico e biblico. Al contrario, i due si completano e alimentano a vicenda andando a formare una sorta di sfondo unico sul quale proiettare i significati. Quello di Melville è ricorso a un metodo mitico ante litteram che ha nel Paradiso Perduto il proprio modello. La vita per mare, a sua volta, trova tali e tante rappresentazioni nelle Scritture – su tutte, quella del libro di Giona. In ultima analisi, è la Bibbia stessa a fornirci le chiavi ermeneutiche del testo.

Ma quale Bibbia legge Melville? Herman nasce nel 1819 da padre unitariano (movimento cristiano del tutto sovrapponibile al trascendentalismo – vd. S. T. Coleridge) e madre calvinista (la famiglia di lei appartiene alla Dutch Reformed Church). Con la morte del padre (1832), l’influenza del calvinismo materno si fa preponderante nella sua vita. È attraverso lenti calviniste che la lettura delle Scritture è filtrata e con essa un’intera visione del mondo e dell’uomo. Nondimeno, negli scritti di Melville si avverte da subito la tensione tra questa matrice e l’afflato trascendentalista, tensione che trova una sintesi compiuta in Moby Dick.

Traspare dall’opera di Melville un tentativo costante di decostruzione delle identità religiose, di riscoperta dell’essenza del messaggio evangelico al di là di quelle identità e delle loro proiezioni nefaste in termini di narrazioni e ideologie dominanti. In successione, Typee, Omoo e Mardi, sullo sfondo della cornice edenica della Polinesia e dei mari del Sud, accendono i riflettori sulla condotta della cosiddetta avanguardia della civilizzazione nella regione e in particolare sulla “glorious cause” della missione cristiana o, per dirla con Kipling, il fardello dell’uomo bianco. L’occupazione delle Sandwich Islands da parte di un gruppo di Metodisti presuntuosi e pieni di velleità induce Tommo a esclamare “Heaven help ‘the Isles of the Sea!’” (ndt “il Cielo aiuti le isole del Mare!” – Typee, Evanston, IL, 1968, 26:195 – le traduzioni dei testi sono di chi scrive). Facendo eco a Is 24:15, la supplica iscrive il contesto direttamente nel testo biblico. Nei due romanzi successivi, la preoccupazione di Melville verso gli sforzi missionari non sembra sfumare. In Omoo l’autore riflette sulla collusione tra religione e commercio, ma pare di scorgere in lui una lacerazione tra il riconoscimento del valore di far conoscere ai popoli insulari il messaggio cristiano e il rigetto totale verso lo smantellamento di strutture sociali e costrutti culturali nativi operato dagli stessi araldi di quel messaggio. “Undoubtedly”, scrive, “the missionaries were prompted by a sincere desire for good; but the effect has been lamentable (“Senza dubbio […] i missionari erano mossi da un desiderio sincero di bene; ma gli effetti si sono dimostrati nefasti” – Omoo, Evanston, IL, 1968, 47:183). E ancora, in Mardi, “the march of conquest through wild provinces may be the march of Mind; but not the march of Love” (“la marcia di conquista attraverso le province selvagge è forse la marcia della Mente, ma non è la marcia dell’Amore” – Mardi, Evanston, IL, 1970, 168:552). 

Quella di Melville non è rinuncia al messaggio evangelico in nome di una visione universalista, equanime e relativista mutuabile da date forme di trascendentalismo. Al contrario, è ricerca di quel messaggio così come si declina nell’amore nel mondo. In questo, la visione trascendentalista contribuisce a mettere a fuoco lo spirito del dettato biblico. Non distante dalle istanze di Melville è lo stesso Hawthorne, il quale nel 1850, un anno dopo la pubblicazione di Mardi, ritrae un mondo, quello de La Lettera scarlatta, in cui chi detiene la Parola ne fa strumento identitario e di potere, là dove la peccatrice Hester Prynne e, da ultimo, la figlia Pearl, sono vera rappresentazione della grazia di Dio nella misura in cui la lettera della legge (la “A” di adultera impressa su Hester) viene in loro trasformata in lettera di perdono e amore (“Amor”).

Intercorre un anno tra la pubblicazione de La Lettera Scarlatta e Moby Dick. La trama del secondo è piuttosto esile. C’è un narratore interno che fa da cornice al racconto e che si imbarca sul Pequod, baleniera il cui capitano è il famigerato e diabolico Achab. Achab ha una gamba sola. L’altra gli è stata tranciata da Moby Dick, un capodoglio bianco. Nella sua ossessione e follia vendicativa, Achab abbandona qualsiasi obiettivo razionale ancorché utilitarista – catturare il più alto numero di balene da cui estrarre olio – e trascina tutto l’equipaggio nella missione suicida di dare la caccia a quell’unica balena e ucciderla. Nell’assalto finale, Achab muore, insieme a tutto l’equipaggio. L’unico superstite è il narratore, che rimane in vita per raccontare la storia.   

 

Ismaele

Il grande tema dei primi tre romanzi di Melville viene recuperato qui da subito e si intreccia con il racconto di formazione e il tema del doppio. Ismaele è il giovane alla ricerca. Come i personaggi di Typee, Omoo e Mardi, anche Ismaele deve affrontare un mondo altro da ciò che vuole apparire. La maschera di innocenza e virtù che indossa è piuttosto caratterizzata da Ismaele come “ipocrisie civilizzate e insulsi inganni”. Ismaele, tuttavia, non si considera altro da tutto questo, ma riconosce in sé lo stesso principio, lo stesso buio. “With the rest me intertwined”, direbbe Whitman. Il suo senso di inadeguatezza, il suo vuoto interiore e la sua alienazione si traducono nella brama del mare come elemento purificatore e nel quale trovare significato. Il viaggio per mare è proprio questo, metafora della vita interiore e della sua elaborazione. Prima di imbarcarsi, Ismaele narra il suo ingresso nella Spouter-Inn a New Bedford. C’è un mendicante tremolante sul selciato, un povero “Lazzaro” (vd. il racconto del ricco e Lazzaro in Lu 16:19-31), così lo chiama, che non può proteggersi in alcun modo dal potente “Euroaquilone” (vd. la vicenda di Paolo di Tarso, la cui nave è sospinta alla deriva da questo vento impetuoso in At 27:14), forte vento freddo di tramontana. Il locandiere non nota altro che una splendida nottata. La miseria del mendicante è il diletto del locandiere. Questa dialettica risalta sullo sfondo biblico a suggerire come quella cui si trova davanti Ismaele è la condizione umana, ma a indicare nel contempo la distanza tra cielo e terra e come “in terra non sia fatto come in cielo”. Ismaele vive in questa tensione, nella lacerazione di chi vuole veder realizzata sulla terra la realtà celeste. È il mondo cristiano per primo a contraddirla e a nascondere la contraddizione sotto un velo di civilizzata ipocrisia. 

Melville fornisce, nondimeno, a ogni personaggio un doppio, o più di uno, che lo aiuti a elaborare la propria condizione e giungere a un superamento. Il doppio di Ismaele, il primo, è Queequeg, un pagano! La contrapposizione tra Ismaele e Queequeg non è soltanto contrapposizione tra civiltà e barbarie, ma tra cristianesimo e paganesimo. A New Bedford i due sono esposti alla religiosità l’uno dell’altro. In un primo momento entrambi assistono al culto nella Cappella del Baleniere, culto presieduto dal rev. Mapple, lui stesso un tempo baleniere. Il suo sermone verte su Giona. Il pulpito elevato e a forma di prua dà un senso di ostentazione e di giudizio che fa da contorno a un sermone in cui viene messo in risalto il rigore della legge di Dio, la sua intransigenza, la necessità di non peccare e di pentirsi. È un messaggio che non fa i conti con la complessità e la fragilità della condizione umana, un messaggio cui sotteso è il giudizio e, in definitiva, un messaggio in cui non trova posto il nucleo centrale del libro di Giona e ciò che Giona, e il rev. Mapple con lui, non è in grado di accettare – l’amore di Dio. 

Figlio del re pagano Kokovoko, Queequeg era attratto in giovane età dal cristianesimo. Vi vedeva la possibilità di emancipare il suo popolo dalle superstizioni pagane, trarlo fuori dal buio dell’ignoranza e condurlo a una maggiore luce e felicità. La sua esperienza a bordo di una baleniera l’aveva presto convinto che “even Christians could be both miserable and wicked; infinitely more so, than all his father’s heathens” (“i cristiani fossero a loro volta miseri e malvagi; e infinitamente di più dei pagani di suo padre”). Giunto infine a Nantucket, era ormai persuaso che il mondo fosse malvagio a ogni sua latitudine e che tanto valesse morire da pagano. Mentre prepara il suo idolo, Yojo, per le preghiere serali, Queequeg ricambia il favore ed estende a Ismaele l’invito ad assistere alla sua cerimonia. Ismaele esita, ma tra sé e sé pensa: “What is worship? – to do the will of God – that is worship. And what is the will of God? – to do to my fellow man what I would have my fellow man do to me – that is the will of God. Now, Queequeg is my fellow man” (“Che cos’è in fondo l’adorazione? – Fare la volontà di Dio – ecco cos’è l’adorazione. E qual è la volontà di Dio? – Fare al mio prossimo ciò che vorrei lui facesse a me [vd. Mt 7:12; Lu 6:31] – ecco qual è a volontà di Dio. Ora, è Queequeg il mio prossimo”). Una volta di più, il senso profondo del testo è calato nello stampo della Scrittura. Assistendo alla cerimonia pagana, Ismaele non partecipa all’adorazione dell’idolo di Queequeg, ma per la prima volta adora Dio. Lo adora nella misura in cui supera i confini identitari dell’io per stare con lui – ecco cos’è l’amore. 

Solo ora e insieme a questo compagno Ismaele può affrontare il mondo, rappresentato dal Pequod. Gli armatori del Pequod sono i capitani Peleg e Bildad, due Quaccheri. Lungi dal coltivare luce interiore e pacifismo, i due sono paradossalmente caratterizzati come uomini bellicosi e materialisti. Il capitano Bildad ostenta pietà trascorrendo gran parte del suo tempo piegato sulla sua Bibbia, ma poi non disdegna di piegare la propria regola di assumere soltanto nativi convertiti ai propri interessi quando si accorge dell’abilità di Queequeg con l’arpione. Per gran parte del corpo centrale del romanzo la figura di Ismaele quasi scompare. Fa capolino di tanto in tanto, per poi riprendere tutta la scena alla fine. Quando riaffiora nei capitoli centrali, vediamo come il mondo non sia cambiato. Rimane quel luogo oscuro dal quale era profondamente alienato. Sta cambiando lui. Sta imparando a vivere nel mondo, non in ordine alla possibilità di farlo proprio o di essere ad esso assimilato, ma in ordine alla capacità di amarlo. L’amore diventa così lo spazio dell’universalità, dell’equanimità e della verità.

Se la figura di Ismaele quasi scompare per la gran parte del corpo centrale del romanzo, è perché deve cedere il passo ad Achab. Achab incarna il buio e il vuoto di Ismaele. Il pieno superamento della propria condizione può avvenire unicamente in ordine a una liberazione dalle tenebre dell’io. Achab deve morire. Nell’ultimo assalto a Moby Dick, Ismaele attraversa una sorta di morte, simile a quella di Giona trascinato negli abissi dentro un grande pesce. Con Ismaele muore Achab. Come Giona, Ismaele riaffiora, senza Achab, lui solo, in una specie di rinascita, su di un asse di legno. È un resto cruciforme della bara di Queequeg. La morte di Queequeg è la sua vita. Per tre giorni e tre notti, dice il racconto di Giona, il profeta rimane nel pesce. Il riferimento temporale prefigura, nelle parole evangeliche, la morte di Cristo. Tutto nella scena ha la funzione di comporre l’identificazione tra la morte e la resurrezione di Cristo e Ismaele. In forza di tale assimilazione, il narratore viene redento dall’io e da tutte le sue proiezioni (Achab) per nascere di nuovo come persona libera di narrare. Come l’antico marinaio di Coleridge, anche Ismaele è chiamato a dare conto di quanto accaduto, non già come esercizio di espiazione perpetua, ma di amore. L’amore segna il passaggio alla maturità, una maturità capace di abbracciare la meraviglia del mondo così come tutte le sue ingloriose imperfezioni, una maturità fatta a un tempo di intelletto ed emozione, conoscenza e grazia. Ora il narratore Ismaele, libero da Achab, la via dell’io, può istruire altri nella via di Dio.

 

Achab

Achab è il personaggio centrale di Moby Dick. Ne abbiamo considerato alcuni aspetti in funzione di Ismaele, ma più di qualunque altra figura il suo personaggio ha una costruzione indipendente in relazione al simbolo dominante nel romanzo, Moby Dick. Achab è personaggio prometeico, incarnazione di hybris e ossessione monomaniacale, egocentrismo e vendetta. Tutto questo però altro non è che ciò con cui Achab riempie il baratro interiore che tutte le acque dell’oceano non sono in grado di colmare. La sua figura assurge al piano del mito sullo sfondo metafisico e mitologico del mondo della cetologia e dello sfruttamento dei capidogli, che tanta parte del corpo centrale del libro occupa. Ciò che inizialmente appare una vendetta personale del capitano contro la creatura che l’ha menomato assume presto i contorni dell’odio puro e, da ultimo, di sfida cosmica. Il cielo e il suo sole diventano suo nemico. Come Satana nel Paradiso Perduto odia i raggi del sole, perché gli ricordano il bene che egli ha deciso di sfidare, così Achab, nell’atto di fare a pezzi il quadrante con cui dovrebbe orientare la navigazione, maledice gli occhi che si alzano “to that heaven, whose live vividness but scorches him, as these old eyes are even now scorched with thy light, O sun!” (“a quel cielo, la cui lucente vividezza non fa che bruciarlo, come questi vecchi occhi continuano a essere bruciati dalla tua luce, O sole!”). La sfida di Achab è lanciata contro tutto ciò che costituisce un limite al suo io e in definitiva contro il limite ultimo, incarnato nella balena bianca. “I now know that thy right worship is defiance” (“ora so che la tua vera adorazione è la ribellione”). Là dove Ismaele comprende che la vera adorazione di Dio risiede nell’amore, Achab la identifica nella ribellione all’Altro in quanto limite al proprio io. Ciò che Ismaele abbraccia è ciò che Achab sfida. Sarà il dio Apollo, il Pequod il suo carro che trascina il sole dove vuole. Sarà Poseidone, colui che controlla i mari. La bussola che con arti demoniache Achab fabbrica, a sostituire il quadrante, funziona alla perfezione. “Ahab can mend all” (“Achab può aggiustare qualunque cosa”), dice di sé il capitano, in preda a delirio di onnipotenza. “In his fiery eyes of scorn and triumph, you then saw Ahab in all his fatal pride” (“Nei suoi occhi ardenti di disprezzo e trionfo, si vedeva Achab in tuo il suo fatale orgoglio”). La sua assimilazione al Satana di Milton è qui completa. Satana è re d’inferno e Achab dio dei mari, ma come Satana è schiavo della sua mente, dell’inferno che porta dentro ovunque vada, così Achab non può liberarsi di Moby Dick, mostro marino megafono cosmico della sua hybris. La libertà vista come assenza di limiti è allora schiavitù del proprio io, sul cui altare Achab deve sacrificare sé stesso, il Pequod e tutto il suo equipaggio. 

Se Moby Dick può essere considerato una sorta di doppio di Achab, quale proiezione della sua volontà di potenza, un altro doppio ne compone la figura, là dove altri tre vengono in sequenza respinti. Il primo è Fedallah, una sorta di subconscio demoniaco del capitano. Achab introduce lui e la sua diabolica ciurma sul Pequod di soppiatto. Parte oscura dell’animo umano, come Hyde, Fedallah deve rimanere nascosto fino al primo inseguimento, quando il corso fatale del capitano è ormai sancito e può dunque venire alla luce. La presenza malvagia di Fedallah è particolarmente evidente quando Achab, sprezzante, sfida la sapienza di Dio. La sua realtà corporea è messa sempre più in dubbio dall’equipaggio. Come il secondo sé del capitano di Conrad nel Compagno segreto emerge dagli abissi dell’inconscio sul ponte in quello che viene descritto come il sembiante di un’entità spirituale, così Fedallah appare come una sorta di ombra oscura del capitano. Quando questi profetizza eventi straordinari che debbono accadere prima che Achab muoia e Achab inizia a percepirsi immortale, sentiamo la eco di Macbeth e scorgiamo in lui qualcosa dell’illusione che Satana accarezza nel Paradiso Perduto. “What […] hidden lord and master, and cruel, remorseless emperor commands me?” (“Quale oscuro signore e padrone, e imperatore crudele e spietato mi comanda?”). Il male e l’io si sono impossessati di lui. Come un dr. Jekyll ante litteram, al termine della storia Achab diventa Fedallah. Come Satana, Achab dà la colpa al fato. Come Macbeth, colui che ha un ruolo di comando viene soggiogato e comandato da un padrone interiore.

Nel Canto di Natale (1843), Dickens manda al signor Scrooge tre fantasmi perché gli mostrino dove conduce il suo corso fatto di avidità, egoismo e assenza di amore. Melville fa lo stesso con Achab. Gli manda tre marinai, altrettanti doppi, che rappresentano il bene o l’innocenza e che potrebbero modificare o per lo meno mitigare il suo destino. 

Per primo compare Bulkington, simbolo di onestà e franchezza, di coraggio, di quell’equanimità di fronte alle molte e varie onde dell’esperienza umana e del disegno cosmico che Achab non farà mai propria. Bulkington viene sepolto nel capitolo 6 per permettere all’ossessione di Achab di fare il suo corso, ma rimane nell’immaginazione del lettore e lì ricompare quale contraltare della follia monomaniacale del capitano. 

A lui succede Starbuck. Questi rivolge le proprie energie alla conversione del capitano, ma è dominato da una paura che procede dalla gnosi. In lui spirito e corpo, cielo e terra, non possono incontrarsi. Egli antepone l’innocenza personale al bene altrui. Dinanzi alla possibilità di salvare l’equipaggio, togliendo la vita ad Achab, Starbuck preferisce preservare la propria anima da colpe. Il movimento che lo contraddistingue è diametralmente opposto a quello di Ismaele, che per amore di Queequeg accantona il proprio interesse. Starbuck è personificazione di una virtù autoreferenziale e inefficace. 

Come Giona e Ismaele, Pip, l’ultimo dei tre marinai deputati a distogliere Achab dai suoi sordidi propositi, sperimenta una sorta di morte e rinascita, trascinato com’è negli abissi dove viene “drowned the infinite of his soul” (“annegato l’infinito della sua anima”), ma “kept his finite body” (“preservato il suo corpo finito”). Pip vede negli abissi l’onnipresenza di Dio, il suo piede sul pedale del telaio, e ne parla. Il resto dell’equipaggio lo ritiene folle. Il suo battesimo annega la sua identità umana e gli restituisce un’identità altra. Svestito dell’umana ragione, Pip è rivestito della sapienza celeste. Paolo di Tarso parla della follia della croce, che fa da contraltare a chi cerca da un lato forza, dall’altro sapienza umana. “So man’s insanity is heaven’s sense; and wandering from all mortal reason, man comes at last to that celestial thought, which, to reason, is absurd” (“Così la pazzia dell’uomo è la sapienza del cielo; e allontanandosi da ogni umana ragione, l’uomo giunge alla fine a quel celeste pensiero, che, per la ragione, è insensato”). Pip sfida Achab ad abbandonare la propria follia umana per abbracciare la pazzia di Dio. Più di chiunque altro, Pip scuote le fondamenta interiori di Achab. Il capitano lo avverte parte di sé, intessuto intimamente alle corde del suo cuore. Nel suo amare l’austero e malvagio capitano incondizionatamente, Pip incarna la sapienza e la grazia di Cristo. Come il sole, Achab finisce per respingere anche lui.

Moby Dick

Moby Dick è il limite, è Dio, e Moby Dick è proiezione dell’io di Achab. Come il Dio di Blake, agnello e tigre, Moby Dick è sfuggente forza indomita e indomabile, energia e libertà, terrore e furia, candore e innocenza. Ha un suo giaciglio nel buio degli abissi, ma affiora in tutto il suo nitore. Moby Dick è entità cosmica e simbolo, essere mitico e trascendente, corporeo e metafisico. Alla fine del cap. 41 viene identificato come “Job’s whale” (“balena di Giobbe”), il leviatano di Giobbe, spaventosa creatura marina che sfugge al controllo umano. Dio ne parla nel contesto dell’elencazione delle opere imponderabili della sua creazione al fine di mostrare a Giobbe, che lo interroga e mette in dubbio il suo disegno, l’infinita e inaccessibile sapienza di Dio, a un tempo fuoco consumante e inesauribile grazia. Anche il leviatano ubbidisce alla sua voce. Giobbe dichiara la resa e s’immerge insieme alla creatura ancestrale in Dio. Non così Achab, per il quale le acque rimangono quell’elemento interiore in cui Moby Dick può essere solamente l’oppressore. 

Moby Dick è anche la balena di Giona. Il sermone del rev. Mapple prefigura la vicenda di Achab e del Pequod. Giona non vuole ubbidire a Dio, che gli ordina di andare a Ninive, grande città assira, e rivolgerle il suo messaggio. Si imbarca per contro alla volta di Tarsis, agli antipodi di Ninive. Il suo intento è quello di allontanarsi dalla presenza di Dio. Ma Dio manda una grande tempesta. Giona sa di esserne il responsabile e si fa gettare fuori bordo dai marinai. Al che, Dio manda un grande pesce, che inghiottisce Giona. La creatura marina incarna a un tempo giudizio e salvezza. Trascina Giona nelle profondità del mare, ma poi lo restituisce alla vita. Dio vuole insegnare a Giona la sua infinita misericordia, là dove Giona conosce di lui soltanto il giudizio. Giona è governato da una giustizia vendicativa verso l’oppressore assiro. La sua è la hybris di chi cerca di salvare la propria identità personale e nazionale e, avendola vista violata, invoca una giustizia retributiva. 

Il disegno di Dio è teso a redimere Ninive. Achab la vuole annientare. Moby Dick è la sua Ninive. La sua è una giustizia umana che si contrappone alla giustizia di Dio. La giustizia umana salva l’io a spese dell’altro. La giustizia di Dio salva l’altro a spese di Dio. La reazione di Giona alla conversione e al perdono di Ninive è esemplare. Risentimento, atteggiamento di sfida aperta, ribellione, superbia. Giona è fino in fondo Achab. Dio nella sua grazia continua a cercare di ricondurre Giona alla sua presenza. Gli manda un ricino come riparo dal sole e ulteriore tentativo di insegnargli la sua compassione, così come Melville manda ad Achab tre diverse figure perché si produca in lui μετάνοια (metànoia, conversione). È un amore quello di Dio il quale investe l’alterità di uomini, donne e bambini che non fanno parte di Israele, ma è un amore che investe altresì ogni altra creatura. Il libro di Giona si chiude con le parole: “Tu hai pietà del ricino […] e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame”. L’antico marinaio dell’eponima ballata di Coleridge afferma la sua hybris e alienazione dall’altro uccidendo un albatros. L’identificazione con la sua colpa, che in definitiva è identificazione con la morte di Cristo (la ciurma appende l’albatros cruciforme al collo del marinaio) lo porterà a benedire un groviglio di serpenti acquatici. Al termine della vicenda, l’antico marinaio ha imparato ad amare ciò che non è amabile, ogni creatura di Dio, dalla più piccola alla più grande. 

La visione trascendentalista e biblica si fondono qui e interrogano il lettore. Chi può amare Moby Dick? Chi può amare il mondo, il Creatore e ogni creatura? Il colore bianco di Moby Dick “is at once the most meaningful symbol of spiritual things, nay, the very veil of the Christian’s Deity; and yet is the intensifying agent in things most appalling to mankind” (“è a un tempo il simbolo più significativo delle cose spirituali, anzi, il velo stesso della Deità che il cristiano adora; eppure, esso è anche l’agente intensificante nelle cose per l’umanità più terribili”). Abbiamo visto come Moby Dick sia l’una o l’altra cosa per i nostri personaggi, giudizio o assoluzione, oppressione o redenzione.  Nelle parole di Ismaele: “The mystical cosmetic which produces every one of her hues, the great principle of light, for ever remains white [..] and […] would touch all objects” (“la cosmesi mistica che produce ognuno dei suoi colori, il grande principio della luce, rimane perennemente bianco […] e […] lambiva ogni oggetto”). Il colore bianco pervade ogni cosa, è il principio stesso della luce. Tale cosmesi, il Logos dell’universo, pertiene alla realtà fisica, ma è nel contempo realtà “mistica”. Moby Dick è prisma che rifrange le tonalità dell’animo umano. È il bianco, la luce, che consente alle sfumature di manifestarsi. È il principio in cui sussistono tutte le cose e contro cui si infrange l’idolatria dell’io. Come può esserne proiezione? Soltanto nella misura in cui Moby Dick assorbe in sé il male, l’orgoglio, l’egocentrismo e la ribellione dell’uomo; soltanto là dove se ne fa carico, diventando il luogo in cui buio e luce, giudizio e giustificazione si incontrano. 

Moby Dick parla dell’uomo, della società degli uomini, del creato e di Dio. Li contrappone, li interroga, li trascina in mezzo al mare, fino agli abissi, per poi farli riemergere. Moby Dick sonda le profondità marine dell’animo umano e gli spazi metafisici, la terra fisica e il cielo. Contesta ipocrisia e identitarismo, nazionalismo e colonialismo culturale. Contesta l’io e le sue maschere, l’io e la sua hybris, l’egocentrismo, il potere, lo sfruttamento e la sopraffazione. A tutto questo contrappone Cristo, la balena bianca, fine dell’io e inizio dell’amore.       

                                                                                                                                                                         Filippo Falcone