Tre domande a Jonathan Lamb sulla Brexit

Jonathan Lamb

Nel mentre sto scrivendo molti dei miei amici e famigliari, di fatto tutti i miei connazionali inglesi, hanno celebrato oppure hanno fatto cordoglio per la nostra recente separazione dall’Europa. Durante la mia vita niente è stato così divisivo e polarizzante nella società britannica come questa questione. Essa ha fatto venir fuori differenze sostanziali in ordine a identità, cultura e tradizioni ed è stata caratterizzata da una retorica divisiva, segnata dalla perdita del garbo nel dibattito pubblico, e aizzata da posizioni stridenti sui social media. L’intero dibattito è stato amplificato dalle tribù cibernetiche che sembravano incapaci di espressioni sfumate o di legittimare posizioni di compromesso o finanche incapaci della cortesia dell’ascolto. Tutto ciò che è accaduto provoca degli interrogativi di fondo.

Chi ha ragione?

Dobbiamo sicuaramente ammettere che, come in tutti i dibattiti nazionali, ci sono motivazioni e importanti argomentazioni da entrambe le parti. Per coloro che desideravano separarsi (to leave) le preoccupazioni includevano la necessità di una gestione sapiente dell’immigrazione, il problema della sovranità nazionale (espresso dal ritornello «riprendiamoci il controllo» “take back control”), e la libertà di sviluppare nuove opportunità commerciali. Queste preoccupazioni evidenziano l’importanza della libertà, della democrazia, della trasparenza e della responsabilità.

Per coloro entusiasti di continuare a far parte dell’Europa (to remain) i temi erano costituiti dalla vitale importanza di una forte partnership economica con i nostri vicini, una posizione proiettata verso l’esterno rappresentato dalle diverse culture e i diversi popoli del mondo e un convinto sostegno a una significativa alleanza che ha garantito la pace in Europa per 70 anni. Queste preoccupazioni rivelano l’importanza dell’interdipendenza, dell’aperture, della diversità e della generosità.

Il fatto è che entrambe le parti del dibattito contengono delle verità che devono essere riconosciute e portate avanti e da solo questo fatto spiega perché un semplice referendumo binario “si/no” sia stato un meccanismo veramente povero per prendere una simile, significativa decisione. Inoltre, la scelta binaria ha portato a una polarizzazione a partire dalla quale non è più possibile giustificare l’altra parte o riconoscere la forza dell’argomentazione dell’altra persona, in pratica si è trattato di una ricetta adatta per ulteriori divisioni.

Che cos’è che è importante?

È evidente che al momento ciò che serve maggiormente nella società britannica è una narrazione unficante e resta il dubbio se esista una leadership politica capace di creare una cosa del genere nonché una opinione pubblica vogliosa di abbracciare una simile narrazione.

Così come la cosa è stata presentata sembrava una semplice scelta, ma le ragioni che soggiacciono alla polarizzazione sono molteplici. C’è un bisogno urgente di una maggiore eguaglianza sociale ed economica, molta più empatia nel dibattito sociale, una grande volontà di forgiare coalizioni piuttosto che apprfondire le linee di divisione e un’atmosfera aperta in cui possiamo ascoltarci attentamente gli uni gli altri piuttosto che alzare la voce a partire dalle nostre posizioni. 

E mentre riflettiamo sull’Europa, molti di noi provano una notevole tristezza per il fatto che, ai nostri numerosi cittadini e residenti all’interno dell’UE e oltre, siamo apparsi ostili – altro tema questo che necessita di essere risolto positivamente affinché l’integrazione sociale sia incentivata e la nazione benefici della ricca diversità della sua popolazione. Non c’è spazio per i crimini di odio, gli atteggiamenti razzisti o quelli rabbiosamente polarizzati. Quale che sia la nostra idea della Brexit, per una popolazione isolana come quella britannica fa bene ricordare la nstra dipendenza dagli altri. “Nessun uomo è un’isola” dichiarò John Donne 400 anni fa aggiungendo che “ogni uomo è un pezzo di un continente”. In un tempo più vicino al nostro, Martin Luther Kijng Jr. epresse l’importanza dell’interdipendenza quando disse: “prima che finiate la vostra colazione di questa mattina, avete sperimentato la dipendenza da più della metà del mondo”.

Nel giorno della seprazione dall’Europa, il Primo Ministro inglese ha sostenuto che un bisogno urgente per l’Inghilterra è quello “che inizi la guarigione”. Come può accadere tutto ciò?

Qual è il prossimo passo?

Come membro della famiglia cristiana britannica ed europea condivido la convinzione di molti milioni sparsi nel continente e secondo la quale il vangelo parla direttamente alla nostra situazione e offre la speranza per un nuovo futuro. A livello personale come comunitario o nazionale la risposta alle sfide non è “l’egoismo”. I problemi all’interno delle nostre società europee che inquietano di più e che si sono affacciati nella mia nazione riflettono atteggiamenti e comportamenti profondamente radicati e che spesso emergono quando rigettiamo i valori della fede cristiana nella nostra vita personale e pubblica. Ciò risulta non solo nella frammentazione e nella divisione ma spiega anche gli atteggiamenti egoistici, collerici e pieni di odio e di orgoglio che sono stati in evidenza nel dibattito pubblico e nei social.

In un periodo di turbolenza, intorno alla metà del ventesimo secolo, il Ministro degli Esteri francese Robert Schuman sostenne che la ricostruzione era possibile unicamente “in un’Europa profondamente radicata nei valori cristiani” e in questo fu accompagnato da altri leader europei per la costruzione di un progetto che doveva portare a una nuova e salutare partnership nel continente. La stessa cosa è vera oggi: i valori contano. Il vangelo ha tanto da dire a proposito della dignità e del valore di tutte le persone, quale che sia la loro cultura, nazionalità, classe o genere. L’apostolo Paolo si accorse che avendo conosciuto Gesù Cristo la sua visione delle altre persone ne er stata trasformata: “da ora in poi, noi non conosciamo più nessuno da un punto di vista umano” spiegò ai Corinti (2 Cor 5:16). Non giudichiamo la gente a partire dallo standard del successo terreno ma vediamo ognuno fatto all’immagine divina e come qualcuno per il quale Cristo è morto. In una società divisa la comunità cristiana è chiamata a modellare la guarigione, la riconciliazione e l’interdipendenza, cose alle quali il Primo Ministro inglese oggi si appella. In realtà, è possibile vivere tutto ciò solo quando noi stessi ci siamo riconciliati con il Dio che ci ha fatti.

Questo concetto è espresso più chiaramente da Gesù stesso. Non solo invitò i suoi discepoli ad amare il prossimo come se stessi ma andò anche oltre: “Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano … e infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? (Mt 5:43-47). È questa la ragione per la quale l’insegnamento e l’esempio di Gesù sono così controculturali e hanno avuto un impatto così profondo sugli individui e sulle società intorno al globo. Essi scalzano l’arroganza autocentrata e l’indipendenza e richiamano all’umile dipendenza da Dio, la fonte di ogni saggezza e verità, e il cui scopo in Cristo è quello di stabilire un “nuovo uomo” (Ef 2:15). 

Questa è la profonda visione che dovrebbe modellare le nostre speranze per il nostro futuro personale, nazionale e continentale.

Jonathan Lamb è autore e insegnante biblico. Molti dei suoi libri sono stati pubblicati da Edizioni GBU

Tre domande a Emanuele Negri sui Coronavirus

  1. Cosa sono i Coronavirus?

I Coronavirus sono una famiglia di virus ampiamente diffusa nella popolazione umana e sono in genere considerati insignificanti per quanto riguarda la loro pericolosità. Possono causare sintomi come il comune raffreddore arrivando ad essere responsabili del 10-30% delle malattie respiratorie acute. Sono però presenti anche in altre specie animali. Solitamente non c’è passaggio da una specie all’altra, ma a volte succede e questo può causare l’insorgenza di un “nuovo” virus con caratteristiche diverse per scambio di materiale genetico. Il nuovo virus diventa quindi potenzialmente importante a seconda della capacità di essere trasmesso tra uomini, del nuovo “aspetto” che lo rende sconosciuto al nostro sistema immunitario, della sua virulenza cioè della capacità di causare una malattia più o meno grave.

Con i Coronarovirus tutto questo è già successo in altre due occasioni: nel 2002 con il virus responsabile della SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) e nel 2012 con quello responsabile della MERS (Middle East Respiratory Syndrome). Per la SARS le persone coinvolte (intese come infette accertate cioè con isolamento del virus) furono circa 8000 con un 10% di morti ed un 20-30% di ricoveri in terapia intensiva. La MERS ha coinvolto in forma più episodica circa  2500 con una mortalità del 30% ed un 50-80% di ricoveri in terapia intensiva.

  1. Quali sono i rischi di questo nuovo virus?

Pur essendo, per quanto sappiamo fino ad oggi, molto meno pericoloso a livello individuale del SARS-CoV e del MERS-CoV, questo 2019-nCoV (questo il nome tecnico) lo è di più come potenzialità di interessamento di una popolazione molto più numerosa.

Secondo i dati a disposizione la mortalità da infezione da 2019-nCoV è del 2-3%. Paradossalmente è però più difficile contenere una epidemia da parte di un virus che causa delle forme di malattia lievi e che sono simili ad altre infezioni virali “banali” delle vie aeree. Così si possono avere più persone contagiate prima di riconoscere il propagarsi dell’infezione. Da qui la preoccupazione delle autorità sanitarie. L’impatto di un’infezione non dipende solo dalla pericolosità della singola infezione ma soprattutto dal numero di persone che ne verranno coinvolte. Anche se la mortalità relativa a questo infezione non è così alta, può diventare comunque alto in termini assoluti il numero di malati gravi e la mortalità complessiva. Essendo un virus sconosciuto al nostro sistema immunitario siamo tutti potenzialmente a rischio se ne veniamo a contatto. Attualmente siamo di fronte ad un epidemia ma non ad una pandemia (il 98% dei casi sono confinati ad una sola nazione) ma è ragionevole mettere in atto le misure possibile per evitarne la propagazione. Per il SARS-CoV le misure hanno funzionato. Per questo nuovo virus non possiamo ancora dire quale sarà l’efficacia delle misure preventive ma ad ogni modo anche solo il rallentamento della propagazione è molto utile perché dà tempo per preparare un eventuale vaccino e provare dei trattamenti antivirali.

  1. Quanto devo essere preoccupato e cosa devo fare?

Spesso abbiamo atteggiamenti irrazionali pendolando tra fatalismo (ad esempio verso il virus influenzale per il quale c’è la possibilità di vaccinarsi ma pochi lo fanno) e allarmismo (“evitiamo contatti con i cinesi”). Per quanto riguarda l’Italia, in termini assoluti, il virus che fa più danno è sempre quello influenzale mentre fino ad oggi non c’è nessuna evidenza che questo 2019-nCoV circoli nella popolazione italiana, quindi l’allarmismo è ingiustificato [ARTICOLO PUBBLICATO L’8 FEBBRAIO 2019, ndr]. E’ giusto che le autorità sanitarie siano prudenti ma io come singola persona devo comportarmi normalmente.

  1. Cosa suggerisce questo evento da un punto di vista cristiano?

Osservare quello che sta accadendo in Cina dove l’epidemia è un fatto reale, tangibile, ci ricorda  che nonostante tutto il nostro sapere e tutta la tecnologia a nostra disposizione, siamo fragili. Basta poco per bloccare tutto ciò che diamo per scontato. Crediamo di essere forti ma in realtà siamo disarmati. Dio ci avverte di questa nostra fragilità e per questo invita l’uomo a rivolgersi a lui oggi e non domani, perchè è solo lui che ci può dare pace e sicurezza.

Detto questo non credo che sia utile usare questo messaggio per “spaventare” le persone e annunziare l’evangelo, ma dobbiamo piuttosto mostrare sobrietà e saggezza e dimostrando testimoniando così che la pace e la sicurezza che dona il Signore sono concreti.

Emanuele Negri è medico internista e responsabile di terapia semi-intensiva presso l’High Care, il Dipartimento di Medicina Interna dell’IRCCS Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia Specialista in Cardiologia e Geriatria è anche responsabile di una locale chiesa evangelica a Parma.

Tre domande a Nicola Berretta su virus, pandemie e complottismo

Insomma, questa minaccia del coronavirus che proviene dalla Cina deve metterci in allarme, oppure no?

In queste cose occorre sempre bilanciare il dovere di adottare misure tese ad soffocare sul nascere il possibile sviluppo di gravi pandemie, col pericolo di creare e diffondere allarmismi ingiustificati. Se si rimane ai dati diffusi dagli organismi internazionali, direi che le misure che si stanno adottando anche nel nostro Paese siano adeguate ad affrontare l’emergenza, e tali da rendere improbabile che questo ceppo virale si diffonda nel nostro continente. Detto questo, la nostra comprensione di questa epidemia è ancora parziale, per cui comprendo la necessità di lanciare messaggi rassicuranti senza però negare un pericolo potenziale non ancora scongiurato. In questo delicato equilibrio, purtroppo il clima politico e i social media giocano un ruolo del tutto deleterio, da una parte con l’adottare misure precauzionali magari eccessive, laddove ci si vuole solo mettere al riparo da ogni possibile accusa di inadempienza, e dall’altra col proliferare di notizie frutto di quella cultura complottistica che purtroppo pervade oggi la rete. Già si sente parlare di cospirazioni alla base della diffusione di questo ed altri virus, ma si può stare certi che, anche a emergenza finita, si dirà che tutto questo allarme è stato creato ad arte dalle multinazionali che producono vaccini per i loro biechi interessi. Notizie, tra l’altro, diffuse dalle stesse persone che si sarebbero per primi messi in fila a farsi vaccinare, qualora il pericolo paventato fosse risultato reale. Bene, questo virus del complottismo è secondo me più pericoloso di quello cinese, e in più, è bene per noi cristiani essere consapevoli che non ne siamo immuni, anzi, direi addirittura che siamo una vera e propria “categoria a rischio” per questo genere di contagio.

Addirittura? E per quale motivo i cristiani dovrebbero essere così a rischio di essere attratti da una mentalità complottista?

Innanzitutto sto parlando di un dato di fatto, documentabile col semplice navigare sui profili social. Le teorie complottiste più stravaganti, a cominciare da quella sulla terra piatta, per continuare poi con le scie chimiche, i falsi allunaggi, l’autismo causato dai vaccini, l’esistenza di cospirazioni mondiali di sedicenti illuminati e quant’altro… non di rado vedono l’adesione entusiasta di cristiani evangelici, spesso suffragata da convinzioni scritturali. L’unica teoria complottista da cui, per ora, sembriamo essere ancora esenti – e meno male! – è quella del negazionismo dell’Olocausto. Questo dato di fatto mi ha portato a domandarmi se ci fosse qualcosa di connaturato alla nostra fede che ci renda in qualche modo suscettibili a questo genere di approccio. La risposta che mi sono dato è che, in effetti, la conversione a Cristo si realizza nel contesto di un’umanità che ha “l’intelligenza ottenebrata”, la quale dunque ha bisogno di venire a conoscenza della verità. Più in generale, la fede cristiana si muove nel contesto di un mondo “che giace nel maligno”, al seguito del “principe della potenza dell’aria”. Queste verità bibliche, che non voglio assolutamente mettere in discussione, hanno la controindicazione di renderci ideologicamente vulnerabili al complottismo. Laddove infatti ci viene detto che esiste una verità tenuta perfidamente nascosta, perché qualcuno sta perseguendo fini malvagi, quel tipo di ragionamento trova in noi cristiani un terreno fertile, già ben dissodato, su cui poter attecchire. È questo presupposto che, come dicevo prima, rende proprio noi cristiani una della principali “categorie a rischio” di contagio del virus del complottismo.

Ritieni inevitabile questo contagio dei credenti, oppure esiste un rimedio?

Se devo pensare a un antidoto, credo che sia quello di recuperare una sana, vitale, biblica consapevolezza della sovranità di Dio. Occorre infatti riflettere che il complottismo ha come effetto quello di annichilirci, renderci passivi, deresponsabilizzarci rispetto a quanto noi, individualmente, possiamo fare oggi in concreto. Il complottismo è per sua natura demotivante e auto-assolutorio circa le nostre responsabilità individuali, in quanto tutto sarebbe già deciso e stabilito a un livello superiore del quale noi non abbiamo alcun controllo. Lo sai che i papaveri sono alti, alti, alti; sei nata paperina, che cosa ci vuoi far? Cantava Nilla Pizzi.  La fede cristiana autentica invece è esattamente l’opposto. È azione, è assunzione di responsabilità, è speranza in un cambiamento reale e profondo che Dio può compiere a partire da scelte di obbedienza del singolo individuo, e che si diffondono poi nel contesto sociale in cui vive. Ecco, penso proprio che come cristiani dovremmo utilizzare la demotivazione e l’auto-assoluzione come una sorta di indicatore del grado di contaminazione da virus del complottismo.

Nicola Berretta

Tre domande ad Alessandro Iovino su Giornalismo e Fede

1. Alessandro tu sei un giornalista: potresti in poche parole descrivere questa professione soprattutto a beneficio di chi è completamente estraneo a essa.

Un giornalista, di per sé, è una persona curiosa. Ecco come amo definirmi: un curioso. Questa deve essere la prima caratteristica di chi si affaccia a questa professione. E‘ come se fossimo, noi giornalisti, degli “esploratori”.
Devi interessarti e documentarti di fatti, persone e questioni molto complesse, e spesso così lontane dalla propria vita, dalle proprie conoscenze, per poi cercare di farsi una precisa idea e infine provare a raccontarla. Per quanto mi riguarda, lo considero un privilegio. Perché non mi annoio mai: visito posti sempre differenti tra loro. Un giorno mi capita di intervistare un premio Nobel e la settimana dopo un uomo le cui azioni non sono poi così nobili (e mi è capitato veramente). Un giornalista fa domande, a volte scomode. Pone quesiti, solleva questioni e cerca di stimolare le risposte dell’interlocutore. Dovrebbe astenersi dal giudicare, ma dare tutti gli strumenti necessari ai telespettatori che poi si faranno una propria idea sull’argomento. Una grande soddisfazione per un giornalista è quando il lettore o telespettatore pensa: “ … questa è la domanda che avrei fatto anche io!”.
E non voglio essere retorico: un giornalista non è mai veramente super partes. Inevitabilmente subisce, come mi è capitato, l’influenza, positiva o negativa, di chi intervista: a volte ha una sintonia, altre invece ha dei pregiudizi.
Dipende poi anche con quale scopo e per chi si compie l’intervista. Nella gran parte dei casi io sono un freelance, quindi libero di fare ciò che credo e penso. La libertà è la chiave per un’intervista di successo.

2. Hai intervistato molti personaggi politici italiani e stranieri e molti personaggi dello spettacolo: qual è l’intervista è il personaggio che ti ha lasciato maggiormente il segno.

Sono molto orgoglioso, prima di tutto, di aver intervistato molto esponenti del mondo evangelico internazionale, diversi tra loro: da Reinhard Bonnke a John Piper, e la lista è molto lunga.
Quella che con Bud Spencer è stata l’intervista più coinvolgete che ho compiuto tra quelli del mondo dello spettacolo: uomo umile, buono e di fede. Diventammo amici.
Fu un grande onore intervistare Rita Levi Montalcini, in occasione dei suoi 100 anni, così come Piero Angela, maestro di giornalismo divulgativo ed il prof. Antonino Zichichi.
L’intervista politica più importante che ho realizzato, è stata quella a John Aschroft, già procuratore Generale degli Stati Uniti: parlammo dell’11 settembre 2001 e di molte vicende di politica internazionale.
La mia prima intervista di “peso” fu quella a Giulio Andreotti. Mai conosciuto un uomo più acuto di lui.
Ho intervistato anche Licio Gelli, l’uomo più oscuro ed enigmatico delle storia recente.
Avevo poco più di 22 anni. Molti mi sconsigliavano di farlo. Fu una sfida non indifferente trovarmi di fronte un uomo così abile nel mistificare e tergiversare. Ma fu un lungo lavoro che poi culminò in un libro, che fu molto apprezzato anche dal Presidente delle Repubblica Sergio Mattarella che mi invio’ un messaggio olografo.
Infine, mai avrei immaginato nella mia vita di incontrare ed intervistare il Premio Nobel ed ex presidente sovietico Mikail Gorbachev: consegnare una Bibbia nelle sue mani, fu un grande onore spirituale.
E la realizzazione di un sogno.

3. Sei anche un giornalista cristiano: come coniughi la tua fede e la tua professione.

Non posso dire di aver fatto sempre bene.
Se mi guardo indietro, mi riconosco tanti errori. Sono anche un po’ spericolato: un giornalista deve però esserlo, altrimenti come avrei potuto intervistare ed avvicinare certi personaggi?
Non so se ci sono delle regole, onestamente, per poter coniugare al meglio la mia fede con la mia professione. Posso solo rivendicare di essere stato sempre me stesso, come quando intervistai don Gabriele Amorth, il famoso prete esorcista, poco prima della sua morte.
Non ci limitammo su nulla: posi con garbo ma con fermezza molte questioni spirituali e dottrinali, una dietro l’altra.
Lui non si risparmio’: venne fuori un confronto serrato ma stimolante. Concluse dicendo di essere stato felice di aver realizzato per la prima volta un’intervista con un giornalista di fede evangelica.
La sfida è continua, le insidie sono dietro l’angolo ogni volta che si fanno domande e ci si confronta. Non ho un segreto e non ho lezioni da dare. Ma solo tanto da imparare. Forse una sola cosa: in cuor mio, prego sempre prima di iniziare un’intervista: “Dio mio, guidami tu…. ”.

Alessandro Iovino è un giornalista pubblicista di Napoli; ha scritto 15 libri e ha vinto diversi premi letterari, e nel 2019 è stato insignito del “Firma Religions for Freedom Award”.
Dal 2011 al 2018 è stato assistente parlamentare presso il Senato della Repubblica.

Tre domande a Giancarlo Rinaldi su Paolo e Nerone

Giancarlo Rinaldi, Paolo e Nerone. L’Epistola ai romani alla luce della storia e dell’archeologia, Edizioni Vivarium novum, Roma 2019, pp. 310, euro 20,00.

 

 

 

1. Un ennesimo commentario all’Epistola ai romani di Paolo? E perché, poi, se a scriverlo non è un teologo né un esegeta di professione?

Ho scritto questo testo proprio perché non ho una formazione teologica ma ho compiuto studi di storia del mondo antico e ho insegnato in università di Stato piuttosto che in seminari o istituti religiosi. La grande sfida per me, infatti, era quella di capirci qualcosa in più in un testo non sempre facile, ponendomi dal punto di vista non dell’esegeta moderno bensì di quello di chi visse all’epoca in cui Paolo scrisse e il suo messaggio iniziò a circolare. Questo spiega anche il perché io abbia scelto una Casa Editrice che non ha mai pubblicato studi sulla Bibbia ma che è specializzata in testi scolastici per lo studio del latino e del greco: ho voluto restituire all’attenzione dei classicisti un documento che appartiene pienamente alla loro letteratura, poiché è scritto in greco, ma che solitamente non viene adeguatamente apprezzato nei percorsi scolastici o universitari. Dal versante opposto, ho inoltre voluto dimostrare ai lettori affezionati alla Bibbia come un suo libro sia molto più facilmente comprensibile quando lo si inserisce nel suo naturale contesto storico. Nel nostro caso il principato di Nerone che va dal 54 al 69 d.C.

2. Quale novità di rilievo emerge da questa contestualizzazione?

Parecchie. Paolo presenta alle comunità romane che lo leggevano (ed erano esigue e non prive di crisi e problematiche) un ‘manifesto’ il quale da un lato metteva in crisi la convinzione dei giudei di costituire, loro e loro soltanto, il popolo di Dio, dall’altro sfidava l’intero impianto culturale classico: una tradizione millenniale di cultura, religione, filosofia, etc. In particolare Paolo sfidò, senza neanche esserne pienamente consapevole, l’assiologia del princeps, di Nerone, cioè la sua visione del mondo e dell’impero la quale metteva al centro l’opera di un imperatore assimilato alla sfera del divino e brillante nelle sue realizzazioni ed esibizioni artistiche. Da questa sfida, paradossalmente, il rabbino di Tarso uscì vincitore e le sue pagine, dopo aver ispirato molte menti acutissime (si pensi ad Agostino, Lutero, Wesley, Barth, etc.) ancora oggi fanno discutere. Paolo ha sfidato i confini della città antica quando ha configurato una nuova politèia, cioè cittadinanza celeste; ha sfidato la filosofia stoica (in auge alla corte neroniana se solo si pensa a Seneca) quando ha proclamato una nuova via per la conoscenza del divino e un nuovo concetto di prònoia – provvidenza; ha sfidato le tecniche esegetiche allora in auge rileggendo, ad esempio, le vicende di Abramo, di Esaù e di Giacobbe; ha polemizzato con il fatalismo astrologico parlando di coordinate celesti (“altezza e profondità”) vinte dalla forza liberatrice di Cristo; ha circoscritto la teologia imperiale d’impianto ellenistico affermando che l’aucoritas del princeps non è assoluta e naturale bensì derivata dall’Alto. Ma v’è anche tanto altro come espongo nel mio volume.

 

3. Chi legge l’Epistola ai romani con interesse di teologo o anche di semplice credente che giovamento può ricevere dalla lettura del suo libro?

In generale la contestualizzazione del documento, con il sussidio della storia romana e dell’archeologia del periodo, aiuta non poco a comprendere il testo stesso nel suo significato specifico. Intanto ci si libera da successive stratificazioni esegetiche le quali spesso sono diventate pesanti precomprensioni. Nella storia è sempre il prima che spiega il poi e mai viceversa. Risulta ad esempio che Paolo aveva ben presente il sostanziale fallimento della sua missione verso i giudei, che pure erano suoi naturali ‘fratelli’ di sangue. Fu questo fallimento ad aprirgli gli enormi orizzonti di un apostolo “delle genti”, cioè dei ‘pagani’. Questa acquisizione ci fa rileggere i tormentati capitoli dal nono all’undicesimo con nuova luce: Paolo, ad esempio, enfatizza la sovranità di Dio nel processo di salvezza (via salutis) non certo per attribuirgli la condanna aprioristica di un gruppo o di chicchessia ma anzi, al contrario, per mettere a tacere quei giudei he reputavano impossibile l’estensione della grazia di Dio all’universo mondo di chi avrebbe creduto. E ciò a prescindere da afferenze etniche. Inoltre una lettura attenta del capitolo settimo ci fa comprendere il debito di quella pagina verso le tecniche della retorica antica per cui la prigionia del peccato e la difficoltà al bene operare (video bona, deteriora sequor) non è già un’autoconfessione d’impotenza di Paolo bensì una ‘prosopopea’, cioè un espediente letterario che mette in scena un interlocutore tipizzato laddove invece, l’esperienza paolina (che è poi quella dell’autentico credente) è quella della liberazione dal peccato. Secondo il manifesto paolino la vittoria sul peccato è possibile, e proprio in questa vita, senza attendere ‘purgatorio’ di sorta nell’aldilà né liberazioni dell’anima dal corpo, secondo la diffusa concezione orfico platonica dell’epoca. Insomma quando Paolo chiamava ‘santi’ i suoi lettori non li prendeva in giro: faceva sul serio.

 

Tre domande a Luca Ciotta su Dio e il Karma

Qualche settimana fa una donna visibilmente innammorata e commossa per il gesto del suo uomo, un famoso calciatore, gli dedicava un pensiero in cui gli riconosceva il dono del karma, aggiungendo “Dio lo sa, Dio te lo ha dato”.
Quest’affermazione ci ha fatto venire in mento di porre a Luca Ciotta, del CESNUR di Torino, le nostre tre canoniche domande relative al karma (Redazione).

1. Quale potrebbe essere una definizione del karma?

Il karma, in religioni quali l’induismo e il buddhismo dove di fatto nasce e si sviluppa, è la convinzione che le nostre azioni in questa vita condizionino le nostre vite future. Naturalmente, il karma nasce dalla dottrina della reincarnazione, il credere in un susseguirsi di esistenze che nel mondo Occidentale equivale ad un’opportunità, mentre nell’induismo e nel buddhismo viene considerata una realtà dalla quale liberarsi.

Il karma è equiparabile ad una legge: un principio di giustizia retributiva che determina lo stato di una vita e la condizione delle future reincarnazioni come effetto di azioni eseguite in passato.

 

2. Quale l’influenza del karma sulle vite degli uomini?

Lo stato del karma determina dunque il destino delle vite future, procedendo verso reincarnazioni migliori o peggiori.

Non è sempre chiaro il tipo di azioni da compiere per migliorare il proprio karma e quindi il livello della successiva reincarnazione: dipende dalla scuola induista e buddhista di appartenenza e dalla dottrina del maestro a cui ci si sottomesse.

Nel moderno Occidente, il karma di solito si identifica con il destino: una sorta di “fato” non sempre legato ad azioni determinate oppure alla dottrina della reincarnazione.

 

3. Che relazione tra il karma e la Bibbia?

L’idea di una legge meccanicistica di causa – effetto alla quale tutti sono soggetti (anche i cosiddetti “Dèi” nell’induismo) non è presente nella rivelazione giudaico-cristiana, dove è un Dio personale, vivente e relazionale ad incontrarsi con l’uomo ha creato, a guidare i suoi passi e in ultima istanza a valutarlo. Peraltro la reincarnazione, legata indissolubilmente al karma, non è presente nelle Scritture, dove viene affermato chiaramente che è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio (Ebrei 9:27). L’uomo certamente è responsabile delle sue azioni (Galati 6:7), ma davanti a un Dio che lo ama e non di fronte ad una legge irreversibile e impersonale.

Nel Nuovo Testamento l’avvento del Signore Gesù evidenzia la realtà della grazia – peraltro già presente nell’Antico Testamento – ottenuta mediante la fede in Lui che porta al perdono di azioni errate e alla vita eterna in Sua presenza.

Troviamo dunque promesse migliori nella rivelazione giudaico cristiana, particolarmente riferendoci alle conseguenze della venuta e dell’opera del Signore Gesù Cristo.

Nel karma rendo conto a qualcosa, nella Bibbia mi rapporto con qualcuno, le cui meravigliose caratteristiche sono oltremodo convincenti.

 

Luca Ciotta, bibliotecario e ricercatore al Cesnur di Torino (Centro Studi Nuove Religioni)

Tre domande a Roberto Frache sui cambiamenti climatici

Perché i cambiamenti climatici rappresentano oggi un problema che preoccupa la coscienza di una parte di popolazione mondiale?

E’ indubbio che l’ iniziativa di Greta Thunberg ha suscitato un grandissimo interesse, in particolare nei giovani. Non sono un sociologo e, quindi, non mi addentro in ipotesi interpretative ma credo sia legittimo chiedersi come mai, fino ad oggi, tutto questo interesse sia rimasto sopito o, perlomeno, nascosto. Gli allarmi sono stati numerosi e documentati – vedi l’ enciclica papale “Laudato si” del maggio 2015 – ma sembra che non abbiano scosso la maggioranza delle persone. In ogni caso è evidente che la preoccupazione – laddove esiste – è tipicamente egoistica. Infatti non ci si preoccupa tanto dei danni che subisce il nostro pianeta ma del fatto che questi danni perturbano la nostra esistenza in termini di vivibilità, salute, nutrimento. Anche le insegne che abbiamo visto innalzate nei cortei dei giovani erano in genere riferite al diritto di vivere bene  – oggi e domani- su questa nostra terra piuttosto che al rimprovero per le lacerazioni inflitte alla natura. Spero che il seguito di questo movimento possa farmi ricredere da queste  mie posizioni e porti da una responsabile consapevolezza.

 

  1. Che responsabilità ha l’ uomo in questo scenario?

Le variazioni climatiche si sono verificate da sempre sul nostro pianeta. Ci ricordiamo che la Groenlandia deve il suo nome al fatto che nel medioevo si presentava, almeno nella sua parte meridionale, coperta di vegetazione. Ci ricordiamo ancora che, sempre nel medioevo, popolazioni intere – i walser – varcavano le Alpi attraverso, ad esempio, il Colle del Lyss senza grossi problemi.   Il ruolo dell’ uomo oggi, con le emissioni dei gas serra,  ha contribuito ad accelerare i processi fino ad un vicino punto di non ritorno. Occorre purtroppo anche sottolineare il grado di inquinamento – le “isole” di plastica negli oceani ne sono una testimonianza evidente – che l’ uomo ha immesso nel pianeta. Senza dubbio, anche qui, le pulsioni  egoistiche che mirano alla nostra soddisfazione hanno accresciuto il fabbisogno energetico e, conseguentemente, lo sfruttamento delle risorse naturali. A fronte di una necessità energetica per la sopravvivenza calcolata in circa 2500 kcal/giorno, nell’ occidente consumistico ci si aggira su un fabbisogno energetico di circa 80 – 100.000 kcal/giorno. E’ chiaro che questo modello di sviluppo ci porterà alla lunga alla distruzione del pianeta. Mi chiedo, e forse sono anche qui un po’ pessimista, se i giovani siano coscienti di questi fatti e se siano disponibili alle rinunce dolorose ma necessarie. Saremo in grado, ad esempio, di limitare il numero e gli sviluppi di tutti i “marchingeni” elettronici che sembrano ormai delle appendici naturali del nostro corpo?

 

  1. Quale può essere il contributo dei cristiani affinchè il pianeta e le sue risorse vengano tutelate e valorizzate?

Un punto importante penso sia il sottolineare che il pianeta ci è stato dato dal Creatore in qualità di gestori e non di sfruttatori. Tutta la tematica della salvaguardia ambientale andrebbe vista quindi con una  prospettiva teocentrica e non egocentrica. L’ enciclica già citata, molto corretta sia dal punto di vista scientifico che biblico, sottolinea che “… non si può proporre una relazione con l’ ambiente a prescindere da quella con le altre persone e con Dio. Sarebbe un individualismo romantico travestito da bellezza ecologica e un asfissiante rinchiudersi nell’ immanente” . E’ una direzione corretta ma mi chiedo se il nostro mondo “cristiano” conosca e persegua queste affermazioni. Senza dubbio, come cristiani, portiamo delle responsabilità non avendo insegnato e vissuto sufficientemente il rispetto per il creato. La storia mostra come, ad iniziare dagli scritti dei “padri” della chiesa, il pensiero cristiano si sia rifatto a quello greco più che a quello biblico. Così la teologia cristiana del medioevo è stata debitrice alla filosofia greca: sistemi di ascendenza platonica-agostiniana vedevano nella realtà fisica più un impaccio per lo spirito che un dono dell’ amore di Dio; pensieri di ispirazione aristotelica-tomistica sono stati risucchiati da una deriva metafisica che li allontanò sempre di più dai problemi storici in nome di una salvezza astratta. Ancora, la teologia cristiana è stata debole e silenziosa quando, dall’ umanesimo in poi, la cultura occidentale ha ridotto la natura a puro strumento di cui l’uomo è diventato «maitre et  possesseur» come afferma Cartesio alla fine del suo Discours de la Methode. Eppure i testi biblici, dai più antichi (ad esempio: Esodo 13/9; Levitico 25/1-7) sottolineano il rispetto per la terra, i raccolti, gli animali. I Salmi cantano spesso la gioia e la bellezza della natura (Salmo 95 e 98); Gesù ha mostrato in diverse occasioni di essere un appassionato osservatore dei fiori e degli uccelli del cielo (Matteo 6; Luca 12). Abbiamo quindi, come cristiani, delle responsabilità. Oggi, consapevoli di questo, dovremmo essere in prima linea per esprimere e vivere  il rispetto del creato, dono del Creatore, e muoverci in tutte le direzioni  che portano ad una responsabile gestione dell’ ambiente.

Roberto Frache – già Professore Ordinario di Chimica Analitica presso l’ Università di Genova. L’ attività di ricerca ha riguardato la messa a punto di metodiche analitiche per la determinazione e la speciazione di metalli presenti in tracce in matrici complesse come acqua di mare, sedimenti e organismi. Ha inoltre svolto ricerche sull’ ambiente marino con particolare riguardo al Mare di Ross in Antartide. Ha partecipato, spesso come Responsabile scientifico,  a programmi di cooperazione interuniversitaria in Cile. E’ autore di circa 200 pubblicazioni su riviste internazionali  e di numerose Comunicazioni a Congressi nazionali ed internazionali. E’ stato responsabile del Settore Oceanografia Chimica presso il Consorzio CONISMA e Presidente dell’ Associazione Italiana di Oceanologia e Limnologia. Presso l’ Università di Genova è stato Direttore del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale.

Roberto Frache è anche autore per i tipi di Edizioni GBU di Bibbia e scienza, alla ricerca di un equilibrio (1996)

Tre domande a Gary Thomas sul fenomeno #meToo

  1. Che cosa hai pensato quando la stampa e i media hanno iniziato a prestare attenzione al fenomeno delle proteste per gli abusi di uomini nei confronti di donne in molti campi?

Sentire quante donne hanno dovuto sopportare una cosa del genere è stata per me un’esperienza straziante, e ho pensato che si trattasse per tutti noi di un invito assolutamente opportuno e necessario a simpatizzare con le vittime e a fare qualcosa.
Per esempio, alcuni anni fa, predicando a giovani uomini, qui nella chiesa di Houston, sostenevo che sarebbero state le persone più “affidabili” di tutta la città, questo almeno fino ad oggi. Ora nelle mie prediche inserisco sempre più esempi di relazioni tra capi e sottoposti.
La chiesa ha bisogno di dare l’esempio.

 

Mio figlio frequenta la business school di Harvard, e questo mi ha dato la possibilità di frequentare un corso con lui in cui il professore mi ha aperto gli occhi su quelli che definisco i capricci del “consenso”. Il cinquanta percento delle persone negli Stati Uniti, dal punto di vista economico, ha più debiti di quanto ha risparmiato, e se capitasse loro di perdere il proprio reddito per due o tre mesi si troverebbero di fronte a una situazione finanziaria devastante. Con dinamiche di questo genere accade che se un capo chiede a un sottoposto di fare qualcosa, e nell’ipotesi in cui il capo non venisse accontentato, potrebbe accadere che la famiglia del subordinato verrebbe rovinata economicamente, e ciò potrebbe spingere i sottoposti a essere inclini a fare cose che detestano, per necessità economiche.

Il “consenso” che ne verrebbe fuori non sarebbe un vero consenso.

Credo che almeno il novanta per cento delle donne che denunciano abusi dicano la verità e hanno bisogno di essere ascoltate; ma conosco almeno un caso in cui un pastore è stato trattato ingiustamente. Ecco perché penso che le chiese debbano avere strategie adeguate per gestire le situazioni, allorquando si levano accuse del genere. C’è bisogno di qualcuno che sia esterno all’organizzazione implicata, addestrato ad affrontare il problema in un modo in cui non può esserlo la chiesa stessa e la cui priorità è quella di cercare la verità, senza difendere o attaccare nessuno. Dato che anche le chiese sono state compromesse e hanno comprensibilmente perso la fiducia di tanti, potrebbe essere il momento in cui esse si sottopongano umilmente a verifiche oggettive esterne, allorquando sopraggiungono problemi del genere. Le chiese che hanno cercato di affrontare questi casi internamente hanno dato di se stesse una pessima immagine.

 

  1. Il fenomeno ha indubbiamente a che fare con il rapporto tra uomo e donna, un campo in cui hai scritto molto; il quadro che ne esce, a parte quello della violenza, è quello di uno scontro tra generi, maschile e femminile, senza capire quale potrebbe essere il punto d’incontro nelle diverse aree dell’esistenza, dal matrimonio, al lavoro, all’educazione.

Il Vangelo di Gesù Cristo è interamente basato sulla riconciliazione e si oppone sia all’oppressione sia alla marginalizzazione, incluso tutto ciò che ha a che fare con il genere. Uno dei modi migliori per affrontare questo problema è quello di costruire matrimoni solidi, soddisfacenti e pieni di amore (cherishing). Quando io amo mia moglie, mi sento molto meno incline a molestare o sollecitare sessualmente un’altra donna. Un matrimonio solido ci protegge dal sessualizzare l’altro genere e ci dispone ad apprezzare a godere delle competenze, dell’intuizione, della collaborazione e persino dell’amicizia di persone dell’altro sesso, senza trasformare tutto ciò in qualcosa di inappropriato. Se fossimo concentrati sui nostri matrimoni, saremmo meno propensi a diventare dei carnefici. Ciò non impedisce alle donne (e in qualche occasione agli uomini) di essere vittimizzate e dunque non sto incolpando le vittime di avere matrimoni al di sotto di certi standard. Sto parlando a coloro che si fanno del male da se stessi.

 

  1. Ci hai insegnato che le relazioni con l’altro fanno parte della formazione spirituale dell’individuo (maschio o femmina); cosa puoi dirci, alla luce di tutto ciò che sta accadendo e alla luce delle Scritture?

Ho scoperto che quando in particolare rispetto mia moglie, imparo in generale a rispettare le altre donne. Le situazioni rivelano qual è il carattere di una persona (cattivo e buono) e il carattere può essere cesellato per perseguire intenzionalmente Dio e la santità nel matrimonio. L’intera premessa del matrimonio sacro: che cosa sarebbe se Dio avesse ideato il matrimonio per renderci santi più che per renderci felici? – potrebbe applicarsi altrettanto facilmente ai rapporti di lavoro. Potremo non essere d’accordo fra di noi, potremo essere gelosi, ma dobbiamo perdonarci e continuare a lavorare insieme. Possiamo aspettarci, a causa della nostra natura caduta nel peccato, che ci sarà conflitto e che a volte sarà tutto davvero difficile. Ma quando il nostro obiettivo è la ricerca dell’identità di Cristo possiamo imparare a perdonare invece che a fare pettegolezzi; servire invece di gongolare su noi stessi o vivere nel risentimento; onorare invece che disprezzare; e incoraggiare invece di abusare o perseguitare sessualmente.

Gary Thomas è pastore di una chiesa evangelica di Houston ed è uno scrittore molto prolifico nel campo della “foremazione spirituale”. Edizioni GBU (www.edizionigbu.it) ha pubblicato tre libri di Gary Thomas:
Vincolo santo. E se Dio avesse ideato il matrimonio non tanto per farci felici quanto per renderci santi? (2009)
Educazione santa. E se Dio avesse voluto l’educazione non tanto per crescere bene i nostri figli quanto per rendere santi i genitori? (2014)
Ricerca santa. E se il problema non fosse tanto chi sposare quanto perché sposarsi? (2013)

Gary Thomas è stato il relatore del IX Convegno Nazionale GBU (2014), “Amore cercato, amore vissuto, amore donato

Dio non è violento. È giusto! (D. Bock)

1) La Bibbia contiene pagine in cui sono descritte e presentate diverse forme di violenza. Che cosa pensa di quelle pagine?
Quelle pagine sono un riflesso della vita che si vive in un mondo caduto nel peccato; in esse Dio ricorda agli uomini che devono rendere conto per le scelte che fanno. Quelle pagine esprimono il realismo che la Bibbia possiede.

2) Crede che la violenza sia insita nella natura di Dio così come è presentata nella Bibbia?
Dio non è violento. Egli è giusto.  Il problema assomiglia un po’ all’interrogativo se un governo sbagli nel perseguire la giustizia nei confronti dei criminali, punendoli. Se si leggono i fatti più violenti dell’Antico Testamento si vedrà che Dio punisce una società in cui era diffuso il sacrificio dei bambini, solo per menzionare uno dei tanti crimini. Dobbiamo ricordare che Dio  prende sul serio il peccato poiché questo produce dei danni e dunque è necessaria una sua condanna.

3) Crede che il cristianesimo sia una religione violenta o che contenga in sé i germi della violenza, al punto tale da essere una religione pericolosa per la convivenza tra i popoli, ma anche per lo sviluppo dell’individuo?
Le parti della storia del cristianesimo che sono riusltate violente, e l’Europa conosce molto queste pagine di storia, sono per lo più il risultato del nazioalismo piuttosto che della fede cristiana. Il nazionaleismo può e fa spesso uso della religione per tentare di giustificarsi e di proteggersi. Quando il messaggio di Gesù, che invita a non rispondere occhio per occhio e che incoraggia a perseguire la pace, viene preso sul serio, tanto da esprimere la grazia di Dio nelle cose della nostra vita, allora c’è poco spazio per ritenere il cristianesimo una religione violenta o pericolosa.

Darrell L. Bock (Dallas Theological Seminary)

Darrell Bock è stato il relatore del XII Convegno Nazionale GBU (2017)
Puoi vedere e ascoltare le sue relazioni nel Canale Vimeo di Edizioni GBU

Plenaria 1. Prepararsi adeguatamente alla battaglia: ridefinire il conflitto culturale
Plenaria 2. Lezioni paoline per il confronto culturale
Plenaria 3. Come affrontare e condure un dialogo difficile
Plenaria 4. Il vangelo rintracciato nella promessa e nei sacramenti
Plenaria 5. Che cos’è il vangelo? Uno sguardo a Luca 3:16 e Romani 1:16-17
Plenaria 6. Perché l’amore è un imperativo?

 

Darrell L. Bock
Alla riscoperta del vero vangelo perduto
Prefazione di Rick Warren
Collana: Orizzonti del pensiero cristiano
Edizioni GBU, Chieti, 2017
FORMATO: 21,5 X 13,5
ISBN 9788896441916
PREZZO: € 15,00 | PP. 180

Tre domande a Pablo Martinez su Bibbia e violenza

  La Bibbia contiene pagine in cui sono descritte e presentate diverse forme di violenza. Che cosa pensa di quelle pagine?

La Bibbia contiene descrizioni di violenza, non sue prescrizioni. Tutti i racconti che hanno a che fare con la violenza hanno a che fare in ultima analisi con la malvagità della natura umana che è la sorgente di tutte le «guerre e le contese» (Gc 4:1).

È vero che ci sono alcuni casi in cui i giudizi di Dio implicano un certo grado di violenza che in apparenza potrebbe essere attribuita a Dio. Questi testi dovrebbero essere interpretati attentamente nel contesto dell’esecuzione di tali, divini giudizi, allor quando il peccato del popolo era «giunto fino al colmo» (Gen 15:16). Dio non punisce in maniera capricciosa (Il SIGNORE! il SIGNORE! il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco in bontà e fedeltà, Es 34), ma un Dio giusto ha il diritto e il dovere di giudicare e di scegliere come farlo. Dio ha usato sia il suo popolo sia le nazioni pagane come mezzi di giudizio. Per esempio, Dio ha usato la ferocia dell’esercito dei Caldei (Abacuc 1––2) come uno strumento per manifestare il giudizio sul suo popolo. Le pagine violente della Bibbia, allora, quelle che sembrano riferibili a Dio si trovano sempre in questo contesto di amministrazione della giustizia.

 

  1. Crede che la violenza sia insita nella natura di Dio così come è presentata nella Bibbia?

Nella Bibbia la violenza è uno specchio del carattere dell’uomo e non del carattere di Dio. Si noti che noi tutti abbiamo una tendenza a proiettare sugli altri i nostri fallimenti e i nostri errori. Ritenere che il problema della violenza si collochi in Dio non è altro che una proiezione e un auto inganno (Ger 17:9). Gesù stesso ha avvertito: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo?” (Lc 6:41–42). Ha chiaramente insegnato che la radice del male a tutti i livelli si trova dentro di noi. Ha spiegato con termini molto chiari la ragione per la quale nel mondo c’è tanta difficoltà «È quello che esce dall’uomo che contamina l’uomo; perché è dal di dentro, dal cuore degli uomini, che escono cattivi pensieri, … » (Mc 7:20–23).

Dio ha in abominio la violenza a tal punto da essersi pentito di aver creato l’uomo poiché «Il SIGNORE vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo» (Gen 6:5). Egli non poteva sopportare così tanto male.

La vera essenza del carattere di Dio è amore, ed è per questo motivo che ogni forma di violenza ferisce il cuore di Dio «Il SIGNORE si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo» (Gen 6:6).

Il Dio della Bibbia non solo afferma di essere amore ma lo ha anche dimostrato. Il suo venire a noi sulla terra in Gesù Cristo e nella sua sofferenza per noi sulla croce è la suprema e insuperabile prova che l’essenza di Dio è amore.

 

  1. Crede che il cristianesimo sia una religione violenta o che contenga in sé i germi della violenza, al punto tale da essere una religione pericolosa per la convivenza tra i popoli, ma anche per lo sviluppo dell’individuo?

Penso che sia esattamente il contrario: il cristianesimo è storicamente riconosciuto come la religione dell’amore. Si presuppone che l’amore sia l’aspetto distintivo di chiunque si rapporti a Gesù. L’amore è l’aspetto preminente e il carattere peculiare della vita e dell’insegnamento di Gesù. Tutto in lui ruota intorno all’amore poiché egli ha dato la precedenza all’amore. L’amore è la motivazione e l’apice di tutto ciò che era, che insegnava e che fece.

Una religione che riassume l’intero dovere dell’uomo in due frasi – amare Dio e amare il prossimo – non può essere altro che un contributo salutare e positivo alla società.

Oggi anche i pensatori non cristiani riconoscono che la nostra civiltà europea sia appoggiata su un tripode con tre pilastri: il sistema giuridico di origine romana, la filosofia greca e l’etica ebraico–cristiana.

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