Aspettando Losanna IV. Alcune riflessioni preliminari prima di partire per la Corea

Mancano ormai solo 14 giorni dall’inizio del IV incontro mondiale del Movimento di Losanna, fondato con lo scopo di riflettere sulla missione dell’annuncio del Vangelo di Cristo al mondo 50 anni fa, su ispirazione di due dei maggiori esponenti dell’evangelismo mondiale dell’epoca: John Stott e Billy Graham. 

In questi 50 anni il mondo in cui viviamo è profondamente cambiato ed anche la situazione del mondo evangelico. Sebbene, nelle sue varie componenti, il mondo cristiano rimanga la prima religione professata, è anche vero che ci sono delle zone di crisi paradossalmente proprio nel mondo occidentale. Se quando, nel 2010, alcuni di noi parteciparono al terzo incontro che si tenne a Città del Capo, il cristianesimo evangelico occidentale sembrava in crisi in Europa, ma non negli Stati Uniti, oggi anche la più importante nazione evangelica del mondo sta vivendo il suo momento di ripensamenti soprattutto se si guardano ai numeri di coloro che assiduamente frequentano una comunità o si definiscono cristiani. Rispetto a 14 anni fa molti sono anche i cambiamenti sociali: siamo nel mezzo di una rivoluzione digitale che, se era minimamente presente a Città del Capo, diviene di fondamentale importanza per quanto sta accadendo oggi.

Per prepararsi a questo incontro che si terrà nella Corea del Sud a Seul-Incheon, come sempre sarà inteso a riflettere su queste differenti situazioni e a cui parteciperanno circa 5000 delegati in presenza con diverse persone che invece potranno seguire i lavori online (questa già una prima grande differenza), il Movimento ha pubblicato un corposo documento che si intitola State of the Great Commission Report (Rapporto sulla situazione del Grande Mandato). Questo testo serve essenzialmente come lavoro preparatorio, ma anche come base per quello che deve essere fatto. E’ un documento di più di 500 pagine, scritto da molti autori (l’elenco è piuttosto lungo), montato con una grafica accattivante e con diverse info-grafiche in cui si ribadiscono alcune delle emergenze del Grande Mandato di Gesù di fare discepoli. Su questo testo e su alcuni dei suoi aspetti torneremo negli articoli che dedicheremo a questo evento.

L’introduzione analizza, da un punto di vista teologico, il significato della missione cristiana e, come già accaduto nei precedenti congressi, si sottolinea come ormai il cristianesimo sia sempre più globale ed coinvolga, con successo, continenti che sino a qualche decennio erano marginali (Sud America, Africa Subsahariana, una parte del continente asiatico). La proposta globale appare essere quella da una parte di mostrare come la missione sia un qualcosa di complesso che implica diversi aspetti della vita umana oltre quello meramente spirituale, dall’altra quella di cercare una lettura adeguata del mondo contemporaneo che appare sempre più complesso e stratificato, nonostante la globalizzazione che avrebbe dovuto avere come sua conseguenza una maggiore omogeneizzazione. Proprio per questo il documento presenta sia capitoli tematici che cercano di leggere il mondo nella sua complessità, sia capitolo divisi per aree geografiche, dove si individuano i maggiori problemi per la missione in una determinata regione del mondo. Vi è quindi attenzione sia alle tematiche globali che ai problemi che possono essere diversi a seconda del luogo in cui si vive e si agisce per la missione.

Il Congresso durerà un’intera settimana, dal 22 al 28 settembre; come per Città del Capo anche in questo caso, per sottolineare la centralità del testo biblico, ci saranno meditazioni e studi sul libro degli Atti che saranno fatti quotidianamente. L’organizzazione appare complessa ed ognuno dei delegati ha dovuto scegliere degli affinity groups in cui si affronteranno le tematiche ed i problemi che riguardano il mondo contemporaneo e dei gruppi di interesse dove si cerca di affrontare varie tecniche per “modernizzare” il discorso missionario (molto spazio è dato al mondo digitale ed alla cura del creato, due argomenti piuttosto caldi ed in cui il mondo evangelico non ha ancora saputo affrontare in modo adeguato). 

Due nuovi target interessanti sono poi i giovani e gli anziani. Il Movimento si rende conto che, negli ultimi anni, il processo di secolarizzazione ha colpito sempre più le fasce giovanili che soprattutto in Occidente vanno sempre meno in chiesa e si identificano sempre meno con il cristianesimo, coinvolgendo in questo tutte le sue varie componenti (cattolico, anglicano, evangelico, protestante storico). Gli anziani o il diventare tali (cosa che coinvolge in parte ormai anche il sottoscritto) è una nuova chiave della vita in Occidente (ma non solo, si pensi anche ad alcuni paesi dell’Estremo Oriente) e bisogna rapportarsi ad essa proprio se la missione, oltre che fermarsi al mero annuncio del Vangelo deve anche tenere conto dell’ambiente sociale in cui si sviluppa.

Come sempre la Delegazione italiana sarà relativamente piccola, composta, a quanto pare da 27 persone, abbastanza rappresentativa del variegato mondo evangelico, ma mai abbastanza. Sebbene ci siano dei criteri di selezione (40% per cento di donne, 40% di persone non a tempo pieno, una forte presenza di giovani leader sotto i 40 anni) non sempre è chiaro come siamo stati scelti. C’è chi ha fatto domanda autonomamente, chi è stato invitato, chi è stato recuperato all’ultimo momento. Sta di fatto che sarà una delegazione variegata, che non si conosce ancora del tutto tra di sé e che speriamo possa avere un congresso proficuo che possa dare dei frutti in seguito a beneficio di tutto il mondo evangelico italiano. Una novità, rispetto alle altre volte, è che saranno presenti anche dei volontari oltre che dei delegati, che coadiuveranno alla buona riuscita dell’evento.

Il problema della missione e di come si debba portare avanti, di quali siano le sfide del presente e del futuro sono un argomento importante soprattutto in un mondo come quello di oggi che è alle soglie del secondo quarto del XXI secolo che appare travagliato ed in cui il messaggio di “tutto il Vangelo” (per usare un’espressione cara al Movimento di Losanna) dovrebbe portare ristoro non solo agli individui ma all’intera società, cercando di portare un messaggio positivo e propositivo per il vivere bene in questo mondo nella speranza del ritorno di Cristo. Speriamo che Losanna IV, che celebrerà i 50 anni di questo movimento possa mostrare come una realtà variegata e molteplice come l’evangelismo mondiale possa diventare unitario nella testimonianza e nella fedeltà, tenendo conto anche delle diverse prospettive presenti e centrando l’attenzione sul messaggio del Vangelo e del bisogno che c’è per questo periodo. Ritorneremo durante il viaggio e dopo a parlare di questo evento mondiale che ci vede sicuramente protagonisti come credenti, ma anche forse marginali come Nazione, cosa che ci dovrebbe anche far riflettere.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Riflessioni teologiche su Israele e la Palestina

di Gerald R. McDermott
(questo articolo è tratto da un libro che Edizioni GBU si apprestano a pubblicare sul tema)

Il nuovo sionismo cristiano ha tre implicazioni per i teologi, quando riflettono sulla giustizia in relazione al conflitto israeliano–palestinese. In primo luogo, rimanda alla necessità, sia per gli Ebrei sia per gli Arabi, di «condividere la responsabilità dell’amarezza»[1]. Lo si può esprimere anche in un altro modo: su entrambi i versanti, serve umiltà. Con ragione gli Ebrei possono dire di avere legittimamente acquistato la terra dagli Arabi a cominciare dal XIX secolo, di avere trasformato enormi, aride distese in suolo produttivo e portato enormi vantaggi materiali alle popolazioni arabe. Dovrebbero però riconoscere che nelle guerre del 1948 e del 1967, una terra precedentemente posseduta e controllata da Arabi è passata in mani ebraiche. Gli Ebrei hanno buone ragioni per pensare che questi trasferimenti siano stati per la maggior parte portati avanti in modo corretto, tramite liberi scambi finanziari o a seguito di guerre iniziate dagli Arabi. Dovrebbero però anche ammettere che gli Arabi hanno perso la dignità e il possesso di molto. Gli Ebrei hanno vinto.

Gli Arabi devono riconoscere che se avevano dei diritti sulla terra prima delle guerre e del terrorismo, questi due tipi di tragedie hanno fatto loro perdere alcuni di questi diritti. Dico “alcuni” di questi diritti perché gli Arabi possiedono e controllano ancora gran parte della terra nell’Israele propriamente detto e l’Autorità palestinese controlla ancora tutta o quasi tutta la Cisgiordania. Hamas, un governo arabo, possiede e controlla tutta Gaza. Il passaggio di terre da una proprietà araba a una ebraica è avvenuto, per lo più, a causa di guerre incominciate e perse dagli Arabi. Altre terre sono state perse dagli Arabi a causa della recinzione (più comunemente nota come «il muro») costruita fra la Cisgiordania e alcune parti d’Israele. È stata costruita per bloccare gli attacchi terroristici provenienti dalla Cisgiordania aventi di mira i civili in Israele ed è in larga misura servita allo scopo.

A volte, quando i cristiani cercano di applicare la loro teologia a questioni legate alla giustizia in questo conflitto, lo fanno con più calore che luce. Ecco alcuni fatti poco noti, da cui però qualsiasi valutazione della disputa non dovrebbe prescindere.

  1. Durante la guerra del 1948, la Giordania invase la parte assegnata agli Arabi e la occupò, definendo quell’area la propria Cisgiordania. Per vent’anni, il mondo arabo non ha riconosciuto uno specifico popolo palestinese. Nel frattempo, la Giordania definì gli abitanti della Cisgiordania, Giordani, mentre la Siria li definì Siriani in quanto per secoli, sotto l’impero ottomano, la Palestina era stata considerata parte della Siria del sud.
  2. Dopo la guerra del 1948 vi fu uno scambio di rifugiati in Medio Oriente. Gli Ebrei persero almeno tante case quante ne persero gli Arabi. Mentre Israele assorbì quasi tutti gli 800.000 rifugiati ebrei fuggiti da territori arabi e musulmani dove avevano vissuto per secoli, se non millenni, le nazioni arabe rifiutarono di dare delle nuove case ai rifugiati arabi in arrivo (725.000) e decisero di tenerli in campi profughi da utilizzare come strumento propagandistico contro Israele.
  3. Nel trattato di pace con l’Egitto del 1978–1979, Israele ha restituito il 90% del territorio occupato, conquistato dopo la guerra dei sei giorni del 1967. Si trovava quasi tutto sul Sinai.
  4. Il “muro” ha reciso degli insediamenti palestinesi, danneggiato gli agricoltori palestinesi separandoli dalle loro piantagioni e dalle loro fattorie e in alcuni casi li ha ridotti in povertà. Lo stato ebraico ha assorbito più territorio. Al tempo stesso, però, il muro ha reciso più di 1.200 acri di territorio intorno a Gerusalemme, acquistato dagli Ebrei prima del 1948[2].
  5. La teologia musulmana contribuisce al conflitto, in quanto il Corano profetizza che gli Ebrei vivranno dispersi, poveri e miseri[3]. La prosperità d’Israele appare perciò ai devoti musulmani una contraddizione sconcertante come minimo, esecrabile nella peggiore delle ipotesi. Al tempo stesso, il Corano attesta che Dio ha dato la terra d’Israele agli Ebrei: «[Faraone] voleva scacciarli [gli Israeliti] dalla terra [d’Egitto], ma Noi [Allah] li facemmo annegare, lui e quelli che erano con lui. Dicemmo poi ai Figli di Israele: «Abitate la terra [la terra d’Israele]!». Quando si compì l’ultima promessa [la fine dei giorni], vi facemmo venire in massa eterogenea» (Corano, sura 17:103–104). Uno sceicco contemporaneo lo prende per quello che è: «Il Corano riconosce nella terra d’Israele l’eredità degli Ebrei e spiega che, prima del giudizio finale, gli Ebrei torneranno ad abitarvi. Questa profezia si è già adempiuta»[4].

Una terza implicazione del nuovo sionismo cristiano per la nostra comprensione di questo conflitto è che c’è una buona ragione per cui questo conflitto riguarda il mondo intero. La Bibbia lascia capire che il destino delle nazioni è legato a quello d’Israele[5].

In Isaia 19:23–25 le nazioni dell’Egitto e dell’Assiria sono benedette a causa d’Israele e Zaccaria 12 profetizza che Dio farà di Gerusalemme una «coppa di stordimento» per le nazioni circostanti. In altre parole, non soltanto Israele è un testimone per le nazioni (Is 43:10); Dio interagisce con le nazioni attraverso Israele. Nel loro relazionarsi con Israele, le nazioni, in qualche modo misterioso, vengono in contatto con il Dio d’Israele. Rispondono a Dio e sono da Dio giudicate in questa segreta relazione. Dobbiamo subito confessare che c’è molto che non sappiamo a questo proposito. Non significa certamente che Israele abbia sempre ragione o non sia mai stato ingiusto nel suo modo di rapportarsi con le altre nazioni. Neppure significa che la teologia cristiana debba sempre prendere le parti d’Israele contro le altre nazioni, specie quando Israele ha chiaramente torto. La Scrittura, però, chiarisce che Dio governa le nazioni; Israele, come popolo e come terra, rientra ancora nella sua provvidenza segreta, non soltanto quando Dio tratta con Ebrei e gentili sul piano individuale ma anche quando giudica le nazioni in quanto tali. Devono fare attenzione a non essere come gli amici di Giobbe, che mossero delle false accuse contro Giobbe e affrontarono l’ira di Dio.

[1] James Parkes, End of an Exile: Israel, the Jews and the Gentile World, a cura di Eugene B. Korn e Roberta Kalechofsky, Micah, Marblehead, Micah, 2004, p. 43.

[2] Israel Today (febbraio 2007), p. 11, citato in David W. Torrance, George Taylor, Israel God’s Servant: God’s Key to the Redemption of the World, Paternoster, Londra, 2007, p. 19.

[3] Per esempio, Corano, sura 2:61 (La giovenca): «E furono colpiti dall’abiezione e dalla miseria e subirono la collera di Allah» (il testo inglese è ripreso dalla versione del Corano conservatrice nota come Sahih International; per il testo italiano cfr. www.ilCorano.net, traduzione a cura di Hamza Roberto Piccardo, ndt).

[4] Sceicco Professor Abdul Hadi Palazzi, “What the Qur’an Really Says”, ristampato da Viewpoint, inverno 1998, www.templemount.org/quranland.html (ultimo accesso dell’autore: 8 luglio 2015; ultimo accesso del traduttore: 12 settembre 2022). Palazzi è il segretario generale dell’Assemblea musulmana italiana nonché califfo per l’Europa dell’ordine Qadiri Sufi [A mio parere gli autori si screditano, citando un personaggio come lui; farei una valutazione prima di mantenere questa citazione nell’edizione italiana. Cfr. https://latanadellupo.forumcommunity.net/?t=50885225].

[5] Torrance e Taylor, Israel God’s Servant, op, cit., pp. 28, 62.

Ci fa evangelici “una solida e serena convinzione”

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Il racconto di un'amicizia. Dialogo tra papa Francesco e il pastore Giovanni Traettino - Alessandro Iovino - copertinaNote a margine della lettura del libro di Alessandro Iovino, Il racconto di un amicizia. Dialogo tra papa Francesco e il pastore Traettino, Eternity, Milano, 2024, pp. 182.

 

Iovino ha fatto un capolavoro giornalistico. Non c’è che dire, anche in considerazione della diffusione del libro. Non c’è giorno in cui non si aggiunga un opinionista, un recensore, un’intervista alla lunga sequela di coloro che segnalano la novità rappresentata dal libro.

Dobbiamo allora, in prima istanza, dire qualcosa sul progetto che sta dietro il prodotto editoriale.

Tutto parte dall’amicizia tra l’attuale Pontefice e il pastore Giovanni Traettino, figura di spicco dell’evangelismo pentecostale e carismatico italiano e punto di riferimento della “Chiesa della Riconciliazione”. Questa amicizia raggiunge l’apice nella visita che Francesco fa al pastore, alla sua famiglia e alla chiesa di evangelica di Caserta il 28 luglio 2014. Il libro contiene belle e preziose foto di questo evento, in particolare quelle nella casa del pastore Traettino.

Il lavoro di Iovino comincia all’indomani di questo evento con un percorso di avvicinamento allo stesso pastore, che l’autore rivela di non aver conosciuto in precedenza, e poi di preparazione dell’intervista vera e propria che si è svolta il 7 novembre del 2023 presso Casa Santa Marta, la residenza del pontefice, anche questo evento corredato di foto a colori.

Si tratta dunque di un libro che intende fissare subito, senza perdere tempo, il flusso di eventi che hanno ruotato e ruotano intorno a questa amicizia, facendola conoscere, raccontandola e caricandola, come è naturale che sia, di significati e prospettive che guardano al futuro.

Lo ribadiamo, una bella operazione “giornalistica”. Insisto sul qualificativo perché sarebbe un errore approcciare il libro da un lato con le lenti amplissime e indefinite dello sguardo ecumenico e, dall’altro lato, sbirciandolo dall’angustissimo e contraddittorio evangelico “buco della serratura”, che in altri tempi ho definito “approccio identitario al cattolicesimo”.

Tra questi estremi c’è infatti il ricco spazio costituito dal materiale proveniente da confronti e rapporti tra cattolici ed evangelici che richiede chiavi di lettura più adeguate e spendibili nell’unica ottica alla quale un evangelico può attenersi per leggere e interpretare i fenomeni della storia e della vita in generale, vale a dire quella del vangelo (faccio tutto per il vangelo … esclamava Paolo, 1 Cor 9). Abbiamo tra le mani dunque un libro relativo al rapporto tra cattolicesimo ed evangelismo – nella versione italiana di un simile rapporto. Questo è un fatto ineludibile che, ancor prima di essere declinato nella prospettiva della documentazione giornalistica, impone una riflessione preliminare.

Di che cosa parliamo quando parliamo di rapporti tra evangelici e cattolici? L’espressione potrebbe essere espressa con altre formule (cattolicesimo/protestantesimo – ma ho i miei dubbi sull’adeguatezza di questa formula per il libro di cui stiamo parlando, nonostante l’autore provi a inserire l’evento-intervista in un panorama più  ampio, vedi pp. 53-55).
Io direi che ci sono almeno tre risposte da dare alla domanda relativa al contenuto di materiale che si occupa del rapporto tra cattolici ed evangelici.

Per prima cosa potremmo avere a che fare con materiale che si occupa del cattolicesimo in sé e per sé, con un approccio tipico di studiosi di storia della chiesa, di storia del dogma, di teologia, etc.. In questo approccio il punto di partenza dello studioso (evangelico o cattolico o secolare) conta un po’ meno. L’idea è che nel descrivere un mondo, e il cattolicesimo è un’intera costellazione di mondi, ci si sforzi di essere il più obiettivi possibili nella sua descrizione. Sarà importante, in questo approccio, tra le tante precauzioni metodologiche, fare attenzione per esempio ai registri comunicativi con i quali il cattolicesimo, i suoi esponenti o sezioni quali Conferenze episcopali, etc. oppure lo stesso pontefice, si esprimono. Un’intervista ha una collocazione che è differente da un documento ufficiale e nello studio bisognerà pensare al modo opportuno di articolare queste due fonti. Il ricorso a spot o a frasi ad effetto per parlare di cattolicesimo non appaiono adeguati in questo primo approccio che, ribadiamolo, ha lo scopo di descrivere il cattolicesimo. La descrizione obiettiva si presta poi a essere usata per diverse finalità. Sicuramente, la testimonianza cristiana al vangelo potrebbe giovarsi di simili descrizioni.

All’estremo opposto dell’approccio focalizzato sul contenuto c’è l’approccio focalizzato sull’interesse di chi parla di cattolicesimo. L’ho definito approccio identitario al cattolicesimo (AIC). In questo caso tutto lo studio del cattolicesimo (ma anche di qualsiasi altro oggetto di studio) ha lo scopo di far emergere gli approcci evangelici al cattolicesimo. Si studia il cattolicesimo, de jure e de facto, per capire che cosa pensano e fanno gli evangelici (di tutto il mondo) nei suoi confronti. L’approccio identitario al cattolicesimo è allora un mascherato studio della condizione dell’evangelismo, volto a suggerire una maggiore circospezione e tutela nei confronti di ipotetici complotti finalizzati a portare gli evangelici sotto la cupola di Roma. Questo approccio, che non si pone lo scopo della testimonianza al vangelo, potrebbe intravedere nel lavoro di Iovino un pericoloso precedente. Unico motivo, più o meno dichiarato, è quello di intruppare gli evangelici in una novella e gigantesca dieta planetaria (dieta era il termine usato nel XVI secolo per i dibattiti, a volte sanguinosi, tra cattolici ed evangelici) con tanti emuli di Lutero e Calvino intenti a segnare i limiti di ciò che non può essere attraversato, nel rapporto con il cattolicesimo.

Ma c’è un terzo modo di intendere e studiare il rapporto tra cattolici ed evangelici. Non centrato sull’oggetto studiato (il cattolicesimo); non sull’interesse di chi studia (approccio identitario) ma semplicemente focalizzato sul rapporto in sé e per sé.

Di cosa stiamo parlando, nel nostro caso? Di un incontro tra un pontefice e un pastore evangelico (PUNTO).

Sicuramente è qualcosa di straordinario e Iovino non lesina espressioni enfatiche per il suo capolavoro giornalistico (un momento di luce purissima, p. 57). Il libro appartiene allora a un materiale, prezioso, che racconta ciò che è accaduto tante altre volte, magari a livelli inferiori, quanto ad autorevolezza dei protagonisti. E non mi riferisco agli incontri ecumenici veri e propri ma a una lunga sequela di eventi, incontri, dibattiti che si organizzano a livello di parrocchie, di sedi arcivescovili, in contesti di celebrazioni storiche, di presentazioni di iniziative sociali e di varia natura, etc.

Questo materiale non deve essere derubricato al livello di indicazione universale, ma neanche nazionale, su quello che è lo stato dei rapporti tra il cattolicesimo e l’evangelismo. È al contrario un materiale prezioso che testimonia di una vera e propria provvidenza divina che ha permesso il superamento dei secoli e dei decenni bui in cui queste comunità di fede si guardavano in cagnesco. Nel libro sono presenti numerosi accenni a questi tempi bui: c’è la testimonianza di Bergoglio (pp. 32); c’è il riferimento alla Circolare Buffarini-Guidi (pp. 52sg.), etc. Per inciso: Iovino non conosce forse pienamente la storia ottocentesca dell’evangelismo italiano e la faticosa conquista, condita di stragi e attentati, della libertà di culto. Il materiale relativo ai rapporti tra cattolici ed evangelici racconta dunque una bella storia di rispetto crescente, stima e apprezzamenti. Grazie a Dio per questo.

Un’altra caratteristica di questo tipo di materiale, a cui appartiene a pieno titolo il nostro volume, è quello rappresentato dal sentimento espresso dai protagonisti di questi eventi; essi tendono a proiettare l’esperienza positiva del singolo evento verso un futuro che potrebbe riservare ulteriori tappe. Nel libro si parla di raggiungere una maggiore unità nella diversità (p. 55). Non ho la sfera di cristallo ma penso di poter dire che questa speranza è molto bella in quanto restituisce l’atmosfera positiva dell’evento che racconta (figuriamoci: l’intervista a un papa da parte di un giornalista evangelico, p. 47); dice naturalmente poco a proposito del futuro. I protagonisti dell’approccio identitario al cattolicesimo potranno stare tranquilli: ci saranno sempre evangelici che passeranno dall’altra parte così come cattolici che faranno il percorso inverso. Le cose non cambieranno di molto. Speriamo, questo sì, che, grazie a iniziative del genere, cresca il rispetto e la stima reciproca e si possa, in nome di un’stanza superiore, quella del vangelo, permettere che le anime conoscano la salvezza in Gesù.

Adesso veniamo al libro, che si presenta diviso in tre parti.
Nella prima c’è la cronaca dell’Intervista vera e propria, con un resoconto dettagliato delle domande e delle risposte dei due protagonisti in un clima, manco a dirlo, di amicizia, cortesia e con accenti di indubbia, trasparente, cristiana e, perché no, evangelica (in senso lato) comunanza.

Nella seconda parte, dal titolo “Ascoltiamoci”, l’autore cerca di fare un bilancio dell’evento­-intervista, ripercorrendo il percorso delle domande e corredandolo di sue personali riflessioni e di citazioni bibliche. Mi pare di capire, o di interpretare, che queste citazioni vogliano creare, in qualche modo, una zona cuscinetto tra due mondi che non sono solo rappresentati plasticamente dai titoli dei personaggi coinvolti, il pastore evangelico e il pontefice, ma che attraversano, lo si percepisce molto bene, l’intimo del giornalista e del credente Alessandro (Non è semplice trovare buoni motivi per sostenere le proprie aperture, non è semplice trovare parole per spiegare il bisogno di smuovere stati di immobilità durati decenni, p. 64). È questa la parte più autoriale, se così possiamo dire, del libro, quella in cui il giornalista si improvvisa teologo.

La terza parte è una raccolta, preziosa, di fonti (discorsi, interviste e testimonianze) che hanno fatto seguito all’evento del 2014 e giungono fino al giorno d’oggi (pp. 105-173).
In questa terza parte sono riportati i discorsi del pontefice e di Traettino in occasione della visita di Francesco a Caserta.

L’intervista si sviluppa seguendo una successione  di domande. Mi pare che non venga spiegata la successione dei temi e delle domande (sono tredici e sono elencati opportunamente nell’indice). I temi che scandiscono le domande erano comunque presenti nei due discorsi del 2014, tenuti a Caserta. Ma a un lettore attento come potrebbe essere il sottoscritto avrebbe fatto piacere una giustificazione della loro articolazione, per esempio quale domanda prima e quale domanda poi. Questa nota sulla successione dei temi ha anche a che fare con un altro fatto, vale a dire che non sempre si coglie una simmetria nelle risposte che forniscono i due protagonisti.

Mi spiego e faccio l’esempio del tema della diversità (pp. 38-44). Non si capisce perché su questo tema Bergoglio parli di migrazioni e dunque di diversità culturali, di globalizzazione e di integrazione mentre il pastore Traettino si sofferma sulla diversità che si registra tra cristiani. Sarebbe stato interessante ascoltare Bergoglio affrontare di petto, e nel contesto dell’intervista, il tema della diversità all’interno del cristianesimo, e dello stesso cattolicesimo, così come ascoltare Traettino parlare di diversità culturale, di immigrazione e così via. Questo non significa che i protagonisti non affrontino i temi relativi alle differenze tra cattolici ed evangelici. Ma non si capisce perché proprio in quel punto le risposte non rispettino una certa simmetria.

Le differenze teologiche vengono trattate con un approccio fenomenologico piuttosto che dottrinario. Il che restituisce delle convergenze suggestive. Penso per esempio al tema della confessione, declinato da Bergoglio in chiave comunitaria, declinazione nei confronti della quale Traettino non può che essere d’accordo. Eppure la confessione è e resta un sacramento. Idem per la questione del vicariato, così come sul ruolo della Madre di Dio.

È probabile che il clima di rispetto e di apprezzamento reciproco, a cui abbiamo alluso, abbia bisogno di questo ampio spazio fenomenologico in cui i singoli dogmi vengono in qualche modo sfumati per lasciare lo spazio nel dialogo a ciò che di positivo creano. Bello. Ma i dogmi ci sono e questo lo sanno sia Traettino sia Bergoglio. Non dobbiamo suggerirglielo noi.

Ci sono due punti in cui l’autore nelle domande e gli intervistati nelle risposte usano l’espressione “teologia”: teologia dell’essenziale (p. 18) e teologia del poliedro (p. 23). Concentriamoci un attimo su questi due punti perché essi mi sembrano i più qualificanti del volume.

Teologia del poliedro. Bergoglio allude alla figura del poliedro, con buona pace di Iovino che ci confessa non essere bravo in matematica (geometria), quando, nel suo discorso del 2014, parla della diversità tra evangelici e cattolici (cioè proprio l’argomento che manca nella risposta a Iovino). Lì Bergoglio prendendo spunto da un’espressione che, se la memoria non mi inganna, era di Oscar Cullman, vale a dire “diversità riconciliata” e facendo leva sull’azione dello Spirito (con un riferimento abbastanza esplicito a 1 Corinzi 12) afferma che l’unità tra i cristiani assomiglia a un poliedro (anche un prisma?) in cui ogni faccia è beneficiaria dell’unica azione dell’unico Spirito ma si esprime nelle sue proprie peculiarità che siano quelle della chiesa di Roma, delle chiese della Riforma, o del movimento pentecostale: “il poliedro è una unità, ma con tutte le parti diverse; ognuna ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità nella diversità” (p. 106). Bergoglio riteneva che questa figura potesse esprimere un nuovo volto del vecchio progetto ecumenico.

Il vecchio progetto ecumenico, che pure aleggia in alcune risposte e in tutto il volume, prendendo spunto da un altro brano neotestamentario (Giovanni 17 – vi allude Traettino – p. 110) poneva capo a un’altra figura “geometrica”, quella del cerchio (una ruota) in cui i raggi convergono al suo centro dove il centro, fuor di metafora, è Cristo.

Qui abbiamo un ampio campo di confronto tra evangelici e cattolici che si avvantaggia del fatto che non si sviluppa a suon di versetti sparati l’uno contro l’altro o di costruzioni teologiche che si contrappongono. No, ancora una volta, ricorrendo alla mediazione dei fenomeni a cui danno vita le costruzioni teoriche, abbiamo il vantaggio di discutere a partire da costellazioni metaforiche e figurative.

Giusto un piccolo assaggio. La figura dell’ecumenismo storico, il cerchio, se da un lato esprime un grande afflato teleologico (si va tutti verso Cristo) pone il problema di quale sia il punto di partenza. Gesù Cristo non è solo l’omega ma anche l’alfa; non è solo un punto di arrivo ma anche un punto di partenza. Parliamo dello stesso Cristo quando riflettiamo e tiriamo dentro al discorso ecumenico tutta la vicenda della ricerca del Gesù storico nel suo rapporto con il Cristo della fede? O qual è lo status del Risorto in rapporto a due segmenti della storia del cristianesimo, vale a dire la chiesa nella sua condizione istituzionalizzata (successione) oppure la predicazione della Parola che è viva in ragione del Vivente?

La nuova figura per i rapporti ecumenici, quella del poliedro, è debitrice nei confronti di 1 Corinzi 12. Ma non sarebbe questa una sorta di santificazione e cristallizzazione dello status storico raggiunto dalle chiese? E se ogni faccia del poliedro ha la sua ragion d’essere nel carisma ricevuto, non sarebbe questa una gigantesca premessa per un relativismo teologico in cui è bene che ognuno stia al proprio posto, premesso che ci riconosciamo nei carismi ricevuti e che ce li teniamo cari senza metterli in discussione? Qui l’approccio identitario al cattolicesimo, quello in cui si studia il cattolicesimo per dirsi alla fine “dobbiamo essere più protestanti” trova una sua ragion d’essere proprio nel poliedro proposto da Francesco. In questo caso, veramente, si finisce sotto la cupola di Roma (sic). E infine, potrebbero darsi altre, nuove facce del poliedro? Chi le introduce, come verranno accolte, quale autorità potrà alla fine dire: ecco, il poliedro si è arricchito di una nuova faccia?

I due modelli, cerchio e poliedro, si dimostrano deficitari non nei confronti di questa o quella prospettiva confessionale, ma deficitari nei confronti del vangelo. Non hanno forse affermato i due protagonisti, Bergoglio e Traettino, in più punti, che bisogna pensare a un cristianesimo in cammino? Solo il vangelo è ciò che può mettere in cammino donne uomini che rinunciano alle loro identità, siano esse cattolica, protestante o pentecostale!

La teologia dell’essenziale (p. 18). Qui, se capisco bene lo sviluppo dell’ottimo lavoro fatto da Iovino, mi pare di percepire uno slittamento. Quando il pastore Traettino introdusse nel 2014 il tema dell’essenziale, riprendendo una frase di Raniero Cantalamessa (gli evangelici sono cristiani col carisma dell’essenzialità, p. 111), declinò egregiamente quella caratteristica in una una pagina impregnata di cristocentrismo con il chiaro riferimento a 1 Corinzi 3:11: “la conversione a Cristo; la relazione personale con Cristo; l’imitazione di Cristo …” (p. 112).

Quando il tema viene ripreso nell’intervista (pp. 18sg.) l’essenzialità viene declinata in modo diverso: “chiederei a entrambi di raccontarmi l’essenza dell’amore per Dio e dell’amore di Dio, facendo riferimento a quella che potremmo definire teologia dell’essenziale” (Iovino). Le risposte sono abbastanza conseguenti, volgendosi verso quello che appare essere il grande paradigma che il mondo post-cristiano chiede alle chiese cristiane di interpretare. Un paradigma in cui si esprima nell’amore (Vattimo parlava di caritas) il tutto del cristianesimo. Per carità, tutto potrebbe tenersi: il cristocentrismo è un’elaborazione che non esclude il tema dell’amore di Dio per il mondo e del possibile amore del mondo per Dio e degli uomini tra loro (“energia sorgiva per tutte le relazioni”, Traettino, p. 19).

Ma questa è una grande sfida epistemologica: il cristianesimo può essere ridotto a una sua essenza che si limiti a un afflato inclusivo generalizzato senza prevedere l’altro tema della verità e, ahimè, dell’esclusione?

Il libro in questo senso è un esercizio interessante che ci spinge a interrogarci. Hanno risposto Bergoglio e Traettino a questa sfida? Hanno colto le differenze che insistono tra il vangelo e le conseguenze del vangelo. Il pastore Traettino del discorso del 2014 mi piace di più del pastore che nel 2023 risponde alla domanda sull’essenzialità.

Devo concludere questa lunga riflessione. Questo è un libro che dà a pensare, che stimola anche là dove il lettore potrebbe aver desiderato maggiore coerenza. Un libro da non leggere con le lenti semplicisticamente ecumeniche ma neanche da leggere con i paraocchi dell’approccio identitario al cattolicesimo, magari suggerendo che esso potrebbe essere espressione di uno scivolamento che si vorrebbe evitare all’evangelismo italiano e addirittura mondiale.

Un libro, al contrario, da leggere con curiosità, con generosità nei confronti di chi lo ha pensato e assemblato. E se da questa venisse fuori la necessità di tornare a pensare sempre e di nuovo a partire dal vangelo, allora vuol dire che si è trattato di una “buona” lettura.

 

 

 

Il teologo della speranza

Si è spento ieri, dopo 98 anni di vita su questa terra, il teologo riformato Jürgen Moltmann, uno dei massimi pensatori della seconda metà del XX secolo, che ha avuto il merito di influenzare non solo la teologia luterana e protestante mainline, ma anche quella evangelica, grazie ai diversi dottori di ricerca di area evangelica che si sono formati con lui.

Volevo partire da un mio ricordo per delineare brevemente il panorama dei suoi studi e della sua influenza. Giovane studente di filosofia entusiasta della propria ricerca (così si deve essere a 22 anni) mi rivolsi a lui per un colloquio chiedendo un suo parere sulla mia tesi di laurea. Devo dire che ne uscii deluso in parte perché criticò il mio interessarmi ad un pensatore come Martin Heidegger ed al suo rapporto con la teologia. Negli anni 1980 riteneva che la tematica dell’esistenza umana e del suo rapporto con il divino e della sua possibilità di decisione fosse “superata” dagli eventi. Oggi, cum grano salis, devo dire che in parte comprendo meglio le sue critiche ed il suo volersi posizionare al di là del dibattito teologico e filosofico che vi era stato nei paesi di lingua tedesca tra le due guerre e che sicuramente aveva prodotto grandi pensatori (mi riferisco a K. Barth, a Bonhoeffer ed a R. Bultmann) ma che aveva fatto vivere uno dei periodi più infausti della sua storia ad un Paese in cui il protestantesimo in realtà poco aveva fatto per fronteggiare il Nazismo (in qualche modo vi si era anche compromesso), era giusto anche perché bisognava creare un nuovo orizzonte di pensiero in cui muoversi ed in cui costruire una teologia che avesse una visione ottimista della vita.

Il punto di partenza del pensatore tedesco sarà duplice, come dovrebbe essere per chiunque si ponga il problema di parlare di Dio nel proprio: confrontarsi con il tempo presente e guardare alla tradizione da cui si proviene mettendo la riflessione sul testo biblico al centro. Il punto di riferimento teorico iniziale (perché da lì si andrà oltre) sarà il testo monumentale (tra l’altro poco letto in Italia) del filosofo marxista tedesco Ernst Bloch Il principio speranza. Bloch aveva pubblicato il suo libro negli anni 1950 ed aveva iniziato a concepirlo prima del secondo conflitto mondiale per concluderlo poco dopo, cercando di costruire un nuovo modello utopico che potesse dare una visione verso il meglio alla società che risorgeva dalle ceneri del secondo conflitto: lo stesso filosofo, benché ateo, aveva dato attenzione alla questione escatologica nel pensiero teologico. Questa intenzionalità di Bloch sarà ripresa da Moltmann nel suo primo grande libro teologico, Teologia della speranza, dove, con diretto riferimento all’opera del pensatore marxista, si dava spazio ad una delle cosiddette tre virtù teologali e si faceva divenire la speranza il perno di un nuovo modo di vedere teologico che avesse al centro la riflessione sulle cose ultime, sul Regno di Dio e sulla promessa di un mondo migliore. Pubblicato nel 1964 le reazioni furono positive da parte di alcuni che usarono il testo come spunto per una “nuova” teologia politica, più negativa da parte dei teologi “classici” del protestantesimo (come lo stesso Barth) che vedevano nel puntare alle cose ultime un esito poco realistico della teologia e poco centrato sul Solus Christus. 

Bisogna però dare atto che il superamento di una certa teologia di origine riformata portò sicuramente dei frutti positivi anche nell’analisi del testo biblico e nella ripresa dei temi escatologici che erano stati in parte abbandonati dalla teologia protestante del XX secolo e che furono ripresi proprio in questo periodo. In parte per rispondere alle obiezioni mossegli agli inizi degli anni 1970 il pensatore tedesco pubblicò Il Dio crocifisso, che aveva come sottotitolo la Croce di Cristo come fondamento e critica della teologia cristiana. Sulla base di una lettura attenta dei testi biblici, Moltmann guarda alla morte di Cristo non dalla parte antropologica (ovvero quella che concerne il perdono dei peccati dell’uomo) ma dalla parte della sofferenza di Dio che perdona e che diventa il vero centro della teologia cristiana, la proposta di un “contropotere” di Dio rispetto ai soprusi degli uomini. L’opera susciterà anch’essa grande discussione, e, forse, talvolta si è dato troppo peso al suo valore nella teologia politica piuttosto che nella riflessione sul divino che rimane assolutamente importante.

Moltmann continuerà la sua riflessione volutamente non sistematica (nonostante il superamento del pensiero barthiano si ammette implicitamente l’impossibilità di poter scrivere una nuova Dogmatica completa, ma di potersi occupare soprattutto di argomenti fondamentali in opere singole) con riflessioni sulla Trinità (in Trinità e regno di Dio abbraccerà la visione economica della tre persone più che quella ontologica, ritenendola più utile per capire la dinamicità del divino), sulla Chiesa (La Chiesa nella forza dello Spirito) in cui si ribadirà l’importanza della terza persona della divinità per conferire il senso di comunione alla Chiesa e comunità paritaria, nel confronto con l’ebraismo (i suoi dialoghi con Pinchas Lapide sono tra i primi fatti da un teologo luterano con il pensiero ebraico dopo il Nazismo).

Quando lo incontrai nel 1985 era impegnato su un nuovo fronte, quello della costruzione di una teologia della creazione in stampo ecologista, anticipando di molti anni (almeno per l’Italia) una discussione “teologica” di problemi che oggi sono alla ribalta e su cui poca attenzione è stata data dal mondo evangelico. Il Creato va pertanto salvaguardato con attenzione e con cura e l’uomo è responsabile di fronte a Dio della cura del mondo in cui siamo stati posti. La teologia “verde” di Moltmann lo ha portato negli ultimi anni alla riflessione sui grandi temi dell’etica e, quindi, in una sorta di cerchio, ad un ritorno su quelle che possono essere considerate le cose penultime. 

Tralasciando gli scritti autobiografici, quelli scritti con la moglie (Moltmann-Wendel) che si possono, insieme agli altri citati, tutti leggere in lingua italiana, data l’attenzione che è stata data a questo pensatore anche da parte del mondo cattolico postconciliare, volevamo soffermarci sul suo lascito nel mondo evangelico, citando almeno tre autori che ne hanno subito l’influenza. Il primo è John Stott che scrisse la Croce di Cristo anche in risposta ad un Cristo troppo “politico” e poco “annunciante” che poteva emergere dall’opera di Moltmann ma che ne subì l’influenza anche nell’organizzazione del Movimento di Losanna come momento di raccolta degli evangelici. Ancora più forte è stata l’influenza su due importanti pensatori odierni che sono Bauckham e Volf. Entrambi allievi di Moltmann con cui hanno studiato, hanno il primo continuato la sua opera nel campo dell’escatologia e della teologia della creazione, il secondo nel campo della teologia della Speranza e della Croce collegata alla riconciliazione, alla teologia politica ed al vivere con gioia e bene la vita che Dio ci dona. Quindi, a prescindere da quello che possiamo pensare su alcune sue interpretazioni dei testi biblici che potrebbero sembrare poco ortodosse, rimane un pensatore che ha attraversato la seconda metà del XX secolo ed il cui contributo è stato determinante nella formazione dell’odierno pensiero teologico. La nostra raccomandazione pertanto è di leggere i suoi testi che ormai possono essere considerati dei classici del pensiero teologico.

                                                                                                                                                      Valerio Bernardi – DIRS GBU

Dopostoria

di Claudio Monopoli

 

L’effetto Streisand
L’effetto Streisand è quel fenomeno per cui un fatto che non avrebbe avuto un’ampia risonanza mediatica, nel momento in cui viene censurato vive una propagazione molto più grande di quella che avrebbe avuto originariamente. È ciò che è accaduto nei giorni passati con lo scrittore Antonio Scurati, giornalista e scrittore vincitore del premio Strega nel 2019 con il primo libro della sua trilogia basata principalmente sulla figura di Mussolini, dalla sua ascesa fino alla sua morte. Il suo discorso in occasione del 25 aprile e della festa della liberazione dal Nazifascismo è stato cancellato dalla programmazione della Rai. Ha fatto scalpore che la giornalista Serena Bortone abbia deciso di leggere comunque il suo monologo che altro non faceva che ripercorrere momenti drammatici del nostro passato fascista, come l’omicidio Matteotti, e che metteva nuovamente in luce l’incapacità da parte di molti membri del governo, che strizzano l’occhio ad un’ala politica nostalgica del regime, di definirsi antifascisti.

 

Scurati e il romanzo della Dopostoria
Senza dimenticare le vicende politiche attuali e del secolo scorso, soffermiamoci però anche sulla dignità autoriale di Antonio Scurati e sul suo pensiero critico che offre molti spunti di riflessione.

Nella sua celebre trilogia su Mussolini, i libri di Antonio Scurati si distinguono per l’uso prevalente del racconto in prima persona. La voce narrante coincide quasi sempre al punto di vista del personaggio principale e alla sua interpretazione degli eventi storici. Lo scrittore adotta spesso un narratore omodiegetico e una focalizzazione interna, permettendo così ai lettori di immergersi completamente nell’esperienza dei personaggi, vivendo la storia attraverso i loro occhi e senza conoscere più di quanto i personaggi stessi sappiano.

All’occorrenza però libera il narratore onnisciente, (quello Manzoniano dei Promessi sposi per intenderci), che con sferzante ironia giudica quanto il lettore ha appena letto, entrambi consci dei drammi storici futuri. L’approfondimento storico delle vicende è lodevole, fonti e documenti sono accurati, la mole di lavoro è cospicua. Certo non bisogna dimenticarsi la finzione narrativa necessaria per costruire, incordare e intessere la trama. D’altronde l’obiettivo non è storiografico ma novellistico. Lo scrittore attribuisce a tale tipologia di romanzi non tanto l’etichetta di romanzi storici quanto quella di «romanzi della Dopostoria […] scritti da una generazione nata subito dopo la fine di tutto questo (gli orrori del ‘900) e subito prima dell’inizio di tutto il resto». Opere scritte dunque da coloro che hanno inesperienza degli orrori, schiera che include lo stesso Scurati, ma che attraverso i mass media e le fonti storiche cercano di rientrare in contatto con l’esperienza della Storia. Scurati riflette sulla perdita senso dalla mancata esperienza e dunque sul continuo tentativo di ricerca di senso per una vita cronologicamente e culturalmente non vicina a quella del “secolo breve” che affrontava il pericolo dell’apocalisse umana anno dopo anno. «I romanzi della Dopostoria stanno, dunque, in questo paradosso e ne assumono la contraddizione: attingono la propria materia narrativa alla storia epico-tragica del Novecento, che ha inaugurato l’era dell’esperienza testimoniale, ma sono scritti da una generazione di non-testimoni inesperti. Sono, insomma, per forza di cose, tutti vangeli apocrifi»: insomma manca l’autorità della testimonianza.

Se quindi la mancanza di esperienza è collegata ad una crisi del senso, qualora l’esperienza avvenisse, ritornerebbe il senso?

 

La negazione della spiritualità
Da cristiani del XXI secolo possiamo affermare di non essere stati testimoni oculari della morte e risurrezione di Gesù; inoltre oggi il pensiero critico materialistico nega la minima plausibilità del concetto di resurrezione o di Dio al livello razionale. Su tale negazione di una dimensione spirituale parla lo stesso Scurati, che tutt’altro si definisce credente, eppure afferma che la spiritualità sia oggi «quasi impronunciabile, perché intesa come negazione del metodo filosofico stesso. Al mondo letterario, poi, risulta estranea: anzi, il suo ambito è occupato da una sorta di paraletteratura spiritualista, a opera di autori come Paulo Coelho. Eppure, quel vuoto rimane e, dall’esterno, si ha la sensazione che anche le istituzioni religiose abbiano in alcuni casi abdicato alla spiritualità come centro della propria missione. […] L’uomo di oggi Ha fatto opera attiva di negazione della spiritualità. Ne è prova l’abitudine a cercare di spiegare fatti spirituali con categorie materiali: ma questo non è pensiero razionale, bensì la superstizione del nostro tempo».

Per scurati una dimensione spirituale sembrerebbe dunque intrinseca nell’essere umano e negarla sarebbe più irrazionale di affermarla.

 

L’esperienza del cristiano
A differenza di altri eventi storici del passato di cui ineluttabilmente ormai è negata l’esperienza, al cristiano contemporaneo, che si fonda su una storia molto più antica di quella del seconda guerra mondiale, oserei affermare che tale esperienza invece non possa essergli negata: il cristiano che si definisca tale, (non basta culturalmente), è perché ha sperimentato personalmente la salvezza, una morte e risurrezione a livello spirituale. Quest’esperienza, sebbene non possa essere spiegata con formule scientifiche, ha un impatto così profondo sulla sua psiche, sulla sua mente e perfino sul suo corpo, che egli sente di non poter più vivere come prima. Ciò porta ad un cambiamento radicale nella vita, con l’acquisizione di uno scopo e di un significato che trascendono la materia.

Dunque se è vero che, come afferma Scurati, i romanzi dell’inesperienza perdono senso e cercano di riacquisirlo disperatamente per donare nuova carica ad eventi del passato chiusi nelle epoche, il cristiano non può rientrare in questa definizione di inesperto, privo di esperienza: il cristiano è colui che ha sperimentato l’amore di Cristo e ha ritrovato senso.

 

L’esperienza dello Spirito
Sembra che lo stesso scrittore discuta la possibilità di attribuire allo Spirito questa funzione significatrice quando parlando delle chiese afferma che «dovrebbero essere o tornare a essere non solo scrigni d’arte, ma luoghi in cui lo Spirito si è fatto storia»; invece oggi siamo «affetti da quella malattia che è il “presentismo”, una delle direttrici che ci tiene maggiormente lontani dall’esperienza spirituale e che riduce la fine della vita a un mero estinguersi, sotto una cappa nichilistica di angoscia».

Lo Spirito, con ogni accezione con cui l’autore lo intende, deve tornare a ridonare senso, l’alternativa è il nichilismo e l’angoscia.

 

Historiae magistra vitae
Non si vuole forzare un ragionamento o delle conclusioni lontane dall’autore ma sicuramente è interessante notare tali temi ed eventuali ragionamenti e risposte che possano scaturire da quanto scandagliato.

Potrebbe scaturire una contro domanda: perché l’esperienza dello Spirito sarebbe differente dalle altre ricerche di riattribuzione di senso?

In una recente intervista l’attuale presidente del senato Ignazio La Russa intervistato dalla giornalista Berlinguer scherzando (ma fino a che punto?) ha dichiarato di apprezzare i libri di Scurati, soprattutto il primo della trilogia che ovviamente parla dell’ascesa del fascismo fino al delitto Matteotti. Da insegnante di storia racconto ai miei studenti che “historia magistra vitae” (la storia è maestra di vita), ma è veramente così? Se il nostro presidente del senato allude ad un piacere nel leggere dell’ascesa del fascismo e meno della sua disfatta potremmo dire che la storia qui è stata una cattiva maestra, e che poco è stato imparato.

 

I frutti
Che tipo di frutto viene prodotto dall’inesperienza del neo-fascismo che tenta di affermare la sua esperienza e per donargli un senso? Un frutto sgradevole e poco digeribile, come la censura da cui abbiamo preso spunto (e non solo). Al contrario coloro che si definiscono cristiani quali frutti producono? Coloro che affermano l’esperienza dello Spirito, come vengono visti dall’esterno? Personalmente sono disposto a venir considerato stolto e irrazionale per l’affidarmi ad un’entità che non posso misurare con il linguaggio scientifico-matematico, e che il mio modo di vivere venga valutato ingenuo e fideistico, ma odierei non dimostrare l’amore, a chiunque sia, quell’amore che riflette l’amore del Dio in cui credo e di cui ho fatto esperienza e che dona senso al mio vivere.

«Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri».

Ringrazio Dio e chiunque abbia favorito nel corso dei secoli la libera espressione del pensiero, nel luogo in cui mi trovo oggi, e ho speranza che termini al più presto qualsiasi persecuzione.

 

«Per me il cristianesimo è apocalittico, vive nell’attesa di un altro mondo. Possiede l’idea grandiosa che protendersi verso la fine è un modo di concentrarsi su ciò che viene prima, di scoprirne il senso. Ridurre il cristianesimo a pratica sociale, a scapito della meditazione sulla fine, è un grave errore. Esso è costituzionalmente rivolto al Regno che verrà» (Antonio Scurati)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Intelligenza artificiale: la rivoluzione silenziosa

di Giulia Di Fonso

Non esiste un accordo unanime all’interno della comunità scientifica riguardo a una definizione universalmente accettata per il concetto di intelligenza artificiale. Questa mancanza di consenso è principalmente dovuta alla stessa natura dell’IA e alla sfocatura dell’applicazione del suo concetto nell’operatività delle macchine. Il termine “intelligenza artificiale” si basa sul concetto di “intelligenza” e pertanto è opportuno partire dalla definizione stessa di intelligenza fornita dall’Enciclopedia Treccani. Secondo tale definizione, l’intelligenza è un “insieme complesso di facoltà psichiche e mentali che consentono di pensare, comprendere o spiegare i fatti o le azioni, elaborare modelli astratti della realtà, intendere e farsi intendere dagli altri, giudicare e adattarsi agli ambienti”.

Questa definizione è incentrata sull’uomo ma riconosce anche agli animali un certo grado di intelligenza. Per quanto riguarda l’intelligenza degli animali può essere molto difficile considerare intelligenti determinate capacità perché per noi sono prive di significato. Considerando il contesto generale nel quale agiscono gli essere umani e gli animali si potrebbe definire intelligente la capacità di raggiungere determinati obiettivi. Gli obiettivi primari potrebbero essere legati alla sopravvivenza della specie, ma andrebbero comunque considerati obiettivi più immediati legati al piacere. Quando consideriamo l’intelligenza delle macchine dobbiamo domandarci se per definirle intelligenti dobbiamo considerare il raggiungimento degli stessi obiettivi posti per gli esseri viventi.

Per le macchine un obiettivo che noi consideriamo primario potrebbe non essere un obiettivo primario. Date le difficoltà nella comprensione di cosa sia l’intelligenza negli esseri viventi, definire l’Intelligenza Artificiale risulta molto difficile e controverso. Rapportando l’Intelligenza Artificiale all’intelligenza umana ci si deve chiedere se sia importante il risultato o la comprensione del procedimento per arrivare a quel risultato. Inoltre, anche se è possibile fornire una definizione precisa e specifica del concetto di intelligenza artificiale, questa deve comunque essere caratterizzata da una certa flessibilità, poiché la natura stessa della materia è soggetta a cambiamenti e mutamenti costanti nel tempo. Tali cambiamenti non solo influiscono sulle capacità dell’IA, ma modificano anche gli obiettivi che vengono progressivamente raggiunti, ampliando così il campo di applicazione dell’intelligenza artificiale.

Ciononostante, qualificare l’IA ci permette di poter comprendere le sue potenzialità e le sue capacità. In questa ottica in campo italiano l’IA è stata definita come “una disciplina appartenente all’informatica che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione dei sistemi hardware e sistemi di programma software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, ad un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana”.

Cristianità e intelligenza artificiale in chiesa?

La finalità non risiede nella sua stessa esistenza, bensì nel miglioramento della qualità della vita umana, costituendo uno strumento mirato a servire l’essere umano, e non a doominare l’essere umano.

Nellpambito del dibattito sull’intelligenza artificiale, due concetti fondamentali continuano a detenere un ruolo centrale: responsabilità e consapevolezza.

L’innovazione rapida che si sta diffondendo in questo mondo come “rivoluzione silenziosa” richiede che ci poniamo delle domande: queste macchine, che ora parlano come noi, ci possono aiutare? E quanto vi è di dannoso o di buono in tutto questo? Dobbiamo tornare a riflettere sul senso delle cose: è giusto o ingiusto? È vero, è falso? Che cosa è vero e cosa è falso? Che cosa è giusto e ingiusto?

Giulia Di Fonso è stata coordinatrice del GBU di Foggia e sta completando gli studi magistrali in scienze manageriali a Parma

Benjamìn Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Adelphi, 2023

Cosa significhi essere umani pensiamo di saperlo finché non ci pensiamo. Come afferrare ciò che ci rende unici?

Lo siamo, poi, davvero, unici, qui sul pianeta?

Cetacei come delfini e balene sembrano avere linguaggi molto più complessi di quanto sospettiamo, il polpo mostra di avere un’intelligenza talmente creativa da sfuggire intenzionalmente ai tentativi di decifrarla tramite i più vari esperimenti, il corvo, è dimostrato, possiede coscienza di sé; il mondo delle monere, poi, sta rivelando esseri in grado di livelli di cooperazione tra individui che oltrepassa le stesse capacità umane. L’umano come summa dell’evoluzione è roba da manuali delle scuole medie, ormai nostalgico rimasuglio di un ottimismo da tempo dissolto.

Questo è stato, ad un certo punto: abbiamo immaginato di aver capito tutto, che fosse solo questione di tempo; avevamo acceso la luce sulla realtà, non restava che lasciare che rischiarasse tutto e rivelasse l’essenza ultima di ogni cosa. Scienza e ragione possedevano le chiavi di accesso a tutto il vero.

La scrittura di Benjamìn Labatut (cileno, nato a Rotterdam, 43 anni) è attratta da questa hybris, dalla frenesia che le coglie, scienza e ragione, nell’impresa della conoscenza; quando il procedere non ha nulla del posato e metodico lavoro dello scienziato ma intuizione e visione travolgono la mente fino al limitare della follìa; quando, soprattutto, il reale rivela di essere più inafferrabile e selvaggio del previsto.

C’è qualcosa di diabolico nel filo che lega la scoperta del blu di Prussia, il primo pigmento sintetico della storia e lo Zyklon B, il micidiale gas con cui il sistema nazista annientò milioni di ebrei, zingari, handicappati. Era il rosso carminio che Diesbach e Dippel cercavano di ottenere, nel 1709, maciullando insetti in laboratorio quando, per una casuale reazione al sale di potassio, si trovarono davanti un blu vivido come il cielo. Il pigmento sembra portarsi dietro la maledizione ereditata dalla torbida personalità del teologo, alchimista e ciarlatano Dippel. Perché è soltanto per errore che, meno di ottant’anni dopo, nel laboratorio del chimico Scheele, un cucchiaio sporco di acido solforico è entrato in contatto con il composto blu creando l’acido cianidrico o, appunto, acido prussico, il più potente veleno della modernità. Ed è miscelando gli stessi elementi che Fritz Haber (1907) ha sintetizzato l’azoto, rivoluzionando l’agricoltura moderna (cosa che favorì l’esplosione demografica del XX secolo) ma anche un micidiale disinfestante per animali (Zyklon sta per ciclone, per allusione ai suoi effetti devastanti) con il quale, lui ebreo, furono sterminati nel lager i suoi stessi familiari. Ogni gerarca nazista aveva la sua scatolina di pillole di cianuro per l’emergenza. A centinaia si suicidarono in questo modo al precipitare degli eventi.

È come un rapimento mistico che travolge il giovane Heisenberg (1925) fino al limite della consunzione fisica mentre, allucinato, stila appunti incomprensibili che senza alcun appello annunciano il limite ultimo della conoscenza possibile della materia. Per il semplice fatto che l’osservatore e l’oggetto osservato sono fatti della stessa materia, nelle sue particelle elementari, irrimediabilmente l’atto stesso dell’osservare perturba ciò che osserva. Il principio di indeterminazione di Heisenberg sancisce per sempre il limite alla razionalità della fisica dei quanti.

Ed ha qualcosa del veggente, del profetico, il modo in cui Karl Schwarzschild, tra i bombardamenti e le urla dei mutilati, redige formule su foglietti sparsi, nel gelido inverno del 1915, dalle quali ricava l’inquietante evidenza matematica dell’esistenza, negli abissi interstellari, di mostruose entità che fagocitano ogni particella di materia venga loro a tiro, inclusa la luce, annullando il tempo stesso, i buchi neri.

E quale angosciante rivelazione, poi, si è aperta nelle formulazioni indecifrabili di Grothendieck prima e Mochizucki poi, che a sessant’anni di distanza l’uno dall’altro, dopo aver fatto tremare le fondamenta stesse della geometria hanno, entrambi, inspiegabilmente, ritirato le proprie teorizzazioni rifiutando ogni ulteriore chiarimento?

Difficilissimo da classificare, lo stile di Labatut, tra biografia scientifica e finzione letteraria, in Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2023), mette insieme realtà e fiction senza soluzione di continuità mentre racconta alcune significative avventure scientifiche della modernità. Ciò che risulta non ha nulla del metodico e posato lavoro dell’uomo di scienza quanto piuttosto del vorticoso rapimento del mistico, trasportato suo malgrado al limite pericoloso tra veggenza e follia.

La conoscenza sta sfuggendo al nostro controllo e presto non saremo più “capaci di capire cosa significa essere umani. Non che in passato lo avessimo capito… ma adesso le cose stanno peggiorando… ma non si tratta della gente comune. Nemmeno gli scienziati capiscono più il mondo”. Dio avrà anche creato il mondo con il linguaggio della matematica ma vacilla ogni giorno di più quell’ingenua convinzione che padroneggiare questo linguaggio significasse entrare nella mente di Dio. Per il semplice fatto che lo stesso linguaggio della natura risulta ben più sfuggente di quanto abbiamo sospettato.

Il contenuto dei racconti che compongono l’opera di Labatut non corrisponde del tutto ai fatti storici ma è talmente avvincente che, come è della grande letteratura, il lettore non vuole liberarsi dell’illusione che sia tutta la verità, nient’altro che la verità.

Qual è l’interesse teologico di una lettura come questa?

Non abbiamo certo più bisogno, noi cristiani, del dio tappabuchi per coprire le falle della nostra ignoranza del mondo. Né abbiamo bisogno di tifosi dell’antiscientismo per rimpolpare le schiere di coloro che credono che la realtà trascenda il dato della pura materia, quale che sia la sua complessità. Ma l’arrogante credenza che, come umani, abbiamo in mano le chiavi della conoscenza e che tutto è a disposizione della nostra indagine, che da questo abbiamo dimostrazione sufficiente per estromettere Dio dal mondo, neanche questa, riconosciamolo, è di grande utilità.

Con Dio o contro Dio, per quanto speditamente procediamo, attraverso il metodo scientifico sperimentale, nell’accrescere la nostra conoscenza, resta come una cortina, un velo, al di là del quale riusciamo a dare uno sguardo solo occasionalmente e come non per nostra volontà.

E ciò che di là si rivela ci riempie di meraviglia ma anche umilia la nostra mente di umani.

Daniele Mangiola

Shoah, Giornata della Memoria, Corte Internazionale dell’Aja e qualche altro pensiero

Come molti sanno oggi, 27 gennaio, nell’Unione Europea si è deciso di ricordare l’arrivo dell’Armata Rossa ad Auschwitz e, con questo evento, quanto è accaduto al popolo ebraico durante l’occupazione nazista in Europa. L’antisemitismo che ha prodotto la Shoah ed il tentativo di sopprimere intenzionalmente un popolo ha radici antiche ed il cristianesimo (anche quello protestante) non è esente dall’avere delle colpe per quanto accaduto.

Ricordare, soprattutto con senso critico ed approfondendo le circostanze storiche, oltre che cercando di comprendere (in modo empatico) quanto è stato subito è un’operazione sicuramente educativa e fortemente evocativa che ci fa anche comprendere quale possa essere l’uso del sapere storico.

Come spesso accade in Italia questo evento quest’anno è stato costellato di diverse polemiche dovute all’attuale situazione in Medio Oriente. che coinvolge direttamente lo stato di Israele che ha occupato la striscia di Gaza con lo scopo di annientare Hamas dopo i tremendi avvenimenti del 7 ottobre scorso. La contestazione più clamorosa è stata quella di un docente del Liceo Bottoni che ha scritto alla comunità ebraica di Milano ed agli Istituti Storici che si occupano di preparare manifestazioni in quest’occasione il suo disagio rispetto a questa commemorazione (la lettera si può leggere al seguente link: https://www.liceobottoni.edu.it/pagine/non-potr-essere-un-giorno-della-memoria-come-gli-altri ) Gli Istituti storici (in particolare il Parri) hanno risposto alle osservazioni, ribadendo l’importanza del compito civile che tocca ad ognuno di noi nel ricordare quanto accaduto (https://www.reteparri.it/comunicati/il-coordinamento-lombardo-risponde-al-prof-mazzi-sul-giorno-della-memoria-10423/?fbclid=IwAR1w0XD2uf88DaGFpVMyt9910L_8WWE3zDFbK3TraSg0jXAf3OsF9-jIbjU ). 

A livello internazionale, invece, il 27 gennaio 2024 viene dopo che la Corte Internazionale dell’Aja ha emanato la sua sentenza dopo il ricorso del Sud Africa che, implicitamente, accusava di genocidio lo Stato di Israele per i fatti di Gaza e chiedeva, di fatto, che la Corte si pronunciasse a favore di un immediato cessate il fuoco ed ad un’implicita condanna di Israele per quanto stava accadendo. La Corte in una sentenza piuttosto lunga e complessa (il cui testo può essere letto in inglese qui: https://www.icj-cij.org/sites/default/files/case-related/192/192-20240126-ord-01-00-en.pdf?fbclid=IwAR3sKnUEmCbaVZpx6Jj-1SO8Zvb2AUe4uIMZDxOko8y_OtaJk5EgL89hnOQ) ha ribadito la sua preoccupazione per quanto sta accadendo, ma non ha ordinato un cessate il fuoco né ha espressamente condannato Israele, esortando però lo stesso Stato a tutelare i diritti dei Palestinesi e ad evitare di commettere crimini di guerra che possano pre-alludere ad un genocidio, avendo Israele stesso sottoscritto la Convenzione che prevede la prevenzione dei genocidi (sulla base proprio della memoria di quanto accaduto in Europa).

Accanto a questi fatti significativi i thread dei miei social sono anche pieni di post di chiaro accento antisemita che vanno da quelli che dipingono Primo Levi come un antisionista (implicitamente presumendo che Levi non fosse a favore di Israele, questione assolutamente falsa), a coloro che suggeriscono fantomatici saggi che vogliono mostare come il sionismo fosse connivente con il Nazismo (sulla falsa riga di una errata interpretazione della cosiddetta “zona grigia” cui si riferisce sia Levi sia Hannah Arendt ne La banalità del male), alle indecenti vignette di alcuni autori italiani.

Cosa dire rispetto a tutto quanto accaduto e cosa possono dire gli evangelici rispetto a quanto sta succedendo oggi? Possiamo arrivare ad una lettura diversa del passato, possiamo rinnegare quanto accaduto o sentirci a disagio a ricordare e riportare alla memoria (sempre con senso storico)?

Personalmente, come docente, ho sempre pensato fosse doveroso ricordare questo particolare evento e in più occasioni (anche con una certa fatica) ho accompagnato gruppi di ragazzi a visitare i luoghi dello sterminio per riflettere insieme. Ovviamente questo lo si fa per evidenziare le atrocità che l’uomo può commettere e nella speranza che la comprensione di un evento così tragico porti tutti a riflettere su come tutto questo possa essere avvenuto e si possa cercare di non farlo avvenire più.

Cosa dire rispetto a queste circostanze e rispetto alle riserve mosse o agli insorgenti antisemitismi insorgenti sia dall’estrema destra che dall’estrema sinistra (che sino agli anni 1970 in Europa aveva un atteggiamento diverso rispetto a certe problematiche). 

In primo luogo va ribadita un cosa: l’attuale Stato di Israele è sicuramente frutto del sionismo, ma il sionismo non è mai stato un movimento unitario ed ha avuto al suo interno diverse anime, da quella totalmente laica ricollegantesi alle idee di Nazione sorte nel XIX secolo a quelle più strettamente religiose (che spesso non si sono neanche riconosciute nel movimento sionista). La dialettica politica e religiosa dello Stato di Israele rispecchia tali dinamiche anche oggi. Il sionismo non ha avuto nulla a che fare con la Shoah che è stata subita da tutti gli Ebrei dell’Europa a prescindere dalle loro scelte politiche vittime di una paura atavica verso il diverso e di una malvagità che si collegava a teorie cospirazioniste che ancora oggi i media diffondono con disinvoltura. Sicuramente si può non essere filosionisti (esattamente come Primo Levi ed Hannah Arendt), ma l’antisionismo (che automaticamente mette in dubbio l’esistenza dell’attuale stato di Israele) va spesso a coincidere con l’antisemitismo che ha avuto come sua conseguenza profonda nella storia dell’umanità la Shoah. Questa cosa non va dimenticata quando si parla di quanto oggi sta accadendo in Medio Oriente.

Lo Stato di Israele oggi è uno stato laico (e molti evangelici dimenticano questo particolare quando ne parlano), una costruzione storica avvenuta nel 1948 e riconosciuta dagli organismi internazionali. Le politiche di questo Stato (che è uno Stato democratico con delle sue peculiarità) come quelle di ogni istituzione umana sono soggette a critica e possono essere assolutamente criticate quando i Governi di Israele fanno delle scelte sbagliate. Come ogni democrazia anche lo stato di  Israele è imperfetto, come lo è qualsiasi istituzione umana. Queste critiche non devono però dimenticare che parliamo ad una popolazione che ha già all’interno una sua dialettica e che è composta da diverse parti che hanno opinioni diverse e su cui si può far pressione. Allo stesso tempo non dobbiamo dimenticare il motivo per cui gli Ebrei hanno costituito questo Stato e il perché gli organismi internazionali lo hanno riconosciuto dandogli legittimità.

Mi rendo conto che gli evangelici mostrano chiare simpatie filo-israeliane ed hanno bene in mente come sia importante commemorare la giornata della Memoria ricordando quanto accaduto ormai più di 80 anni fa in Europa. Allo stesso tempo dobbiamo qui ricordare una serie di questioni:

  1. Lo Shalom (la pace) anche per Israele è una delle costanti della predicazione biblica. Un credente non può aprioristicamente appoggiare un conflitto (anche giusto) se questo provoca un cattivo uso del mezzo bellico, provocando dolore anche contro coloro che non dovrebbero essere coinvolti. Pregare per la pace in ogni circostanza non è sbagliato;
  2. Israele (il suo Governo) possono essere criticati come ogni governo umano. Se le scelte dell’attuale Primo ministro israeliano e del suo Governo sono e sono state sbagliate non c’è nulla di male nel dirlo, senza con questo dubitare della stessa esistenza dello Stato;
  3. Non bisogna dimenticare della presenza cristiana in Palestina. Come afferma un articolo di Christianity Today di qualche mese fa (https://www.christianitytoday.com/ct/2023/october-web-only/israel-hamas-war-palestine-evangelical-christian-zionism.html?fbclid=IwAR15ztDoKpEe1XCIC_iUAH3euHKAMXUpgyMRuel25lzBckvC6fS-I21jM4M) nel territorio israelo-palestinese, la maggior parte dei credenti sono di origine palestinese e non ebraica. Le ragioni possono essere molteplici, ma dobbiamo tenere in considerazione anche questo fatto, all’interno di una situazione di estrema complessità.

Tutto ciò e le critiche che possiamo muovere ad una situazione complessa e delicata non ci devono far dimenticare cosa è successo e non devono neanche farci dimenticare il ruolo importante che gli Ebrei hanno avuto (e hanno) nella storia della salvezza. Pertanto rimane sempre nostro dovere civico e di credenti ricordare cosa è successo non solo il 27 gennaio (che è un’occasione), ma costantemente nella nostra vita e nel nostro impegno.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Siamo solo noi!

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Così cantava Vasco Rossi nel lontano 1981:

Siamo solo noi, Quelli che ormai non credono più a niente E vi fregano sempre

Siamo solo noi Che tra demonio e santità è lo stesso Basta che ci sia posto.

La canzone mi è venuta in mente leggendo la Dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede, Fiducia Supplicans (18/12/23) in cui la Chiesa Cattolica apre alle benedizioni delle coppie di fatto e delle coppie dello stesso sesso (in situazioni irregolari).
Il “noi” dell’orgoglio di Vasco Rossi naturalmente siamo “noi evangelici”, quelli duri e puri, quelli che recitano i testi ufficiali delle chiese della Riforma, i cinque sola, gli evangelicali! Tutto il mondo ormai apre ai diversi stili di vita e di relazioni rispetto al dettato della creazione, anche la millenaria Chiesa di Roma … ormai, siamo rimasti solo noi!

Veramente? E Putin e Kirill dove li metti? E gli ayatollah iraniani dove li metti?

Che bella compagnia! C’è qualcosa che non funziona. Se la tribuna di chi punta il dito contro la deriva denunciata già da Paolo in Romani 1 si è così notevolmente ridotta e alla fine sul pulpito ci ritroviamo con così simpatici co–belligeranti, allora qualche cosa è andato storto, non funziona. Se permettete, l’amore per il vangelo, la sottomissione alla Bibbia e la compagnia di tutti i Riformatori messi insieme, almeno a leggere le loro opere – un po’, meno a seguire il loro esempio (sic!) – mi impongono di abbandonare immediatamente quel pulpito e non essere contato, per denunciare una distorsione del disegno di Dio, in compagnia di assassini, autocrati e tagliagole di ogni risma. Vade retro Satana!

Ma dove andiamo? Per il momento cerchiamo di capire il documento vaticano.

Come sempre si fa con ogni cosa che si scrive, a qualsiasi latitudine, va letto senza pregiudizi del tipo «ma quello è un gesuita furbo». In genere questo tipo di documenti parla a due mondi: a quello interno, e la cosa è evidente nella stessa struttura della Fiducia Supplicans. E parla anche al mondo più ampio in ragione del ruolo storico e sociale dei soggetti coinvolti. Non mi sento particolarmente toccato in quanto protestante (Approccio Identitario al Cattolicesimo) ma leggo e rifletto in ragione della testimonianza al vangelo. Questa deve essere sempre la stella polare dell’approccio al cattolicesimo: la terzietà del vangelo rispetto a cattolici … ed evangelici!

Fatta questa premessa, il documento, è vero, ha lo scopo di inquadrare un approccio spirituale e teologico (il concetto di benedizione) nei confronti delle «coppie dello stesso sesso» o in condizioni irregolari. In buona sostanza, questa possibilità viene posta all’insegna di quelli che il Catechismo definisce “sacramentali” (art. 1677–1679) tra i quali occupano un posto importante le “benedizioni”. Ed è questo il cuore del documento, lo sforzo di articolare e ricondurre al ruolo che la Chiesa vede per se stessa lo straordinario e ricco mondo biblico del concetto di “benedizione”. Benedizione in senso discendente da Dio agli uomini (si parte da Nm 6) e benedizione in senso ascendente (dalla terra al cielo nel senso di lodare e benedire Dio).

«Dio comunica alla chiesa il potere di benedire» attraverso Cristo. La chiesa è il sacramento dell’amore infinito di Dio (par. IV). E poi si finisce con Maria. Questo, in sintesi, il problema teologico tra cattolici ed evangelici che anche in questo caso ruota intorno alla concezione che la Chiesa di Roma ha di se stessa. Non che tra evangelici e protestanti sia chiaro che cosa significhi una chiesa che “benedice”. Però, questo è sempre e solamente il nucleo della distanza.

Non ci dedichiamo a questa distanza ma guardiamo al tema biblico della “benedizione”. Il documento distingue tra il piano liturgico, quello sul quale «la benedizione richiede che quello che si benedice sia conforme alla volontà di Dio espressa negli insegnamenti della Chiesa», più avanti si afferma «sia in grado di corrispondere ai disegni di Dio iscritti nella Creazione …». E questo è il caso del matrimonio tra un uomo e una donna che il documento cerca di mettere al riparo e distinguere rispetto ad altre situazioni.

«Proprio per evitare qualsiasi forma di confusione o di scandalo, quando la preghiera di benedizione, benché espressa al di fuori dei riti previsti dai libri liturgici, sia chiesta da una coppia in una situazione irregolare, questa benedizione mai verrà svolta contestualmente ai riti civili di unione e nemmeno in relazione a essi. Neanche con degli abiti, gesti o parole propri di un matrimonio. Lo stesso vale quando la benedizione è richiesta da una coppia dello stesso sesso» (39)

E c’è l’altro piano in cui le benedizioni, in tutte e due le forme, discendente e ascendente, si ritrova, ed è quello pastorale: «quando si chiede una benedizione si sta esprimendo una richiesta di aiuto a Dio» ed è questa circostanza, che si può incontrare per strada, in un pellegrinaggio, nei gangli della vita, che deve essere valorizzata. È il piano della ricchezza della pietà popolare nel quale le benedizioni sono una risorsa pastorale piuttosto che un rischio.

«In questi casi, si impartisce una benedizione che non solo ha valore ascendente ma che è anche l’invocazione di una benedizione discendente da parte di Dio stesso su coloro che, riconoscendosi indigenti e bisognosi del suo aiuto, non rivendicano la legittimazione di un proprio status, ma mendicano che tutto ciò che di vero di buono e di umanamente valido è presente nella loro vita e relazioni, sia investito, sanato ed elevato dalla presenza dello Spirito Santo. Queste forme di benedizione esprimono una supplica a Dio perché conceda quegli aiuti che provengono dagli impulsi del suo Spirito – che la teologia classica chiama “grazie attuali” – affinché le umane relazioni possano maturare e crescere nella fedeltà al messaggio del Vangelo, liberarsi dalle loro imperfezioni e fragilità ed esprimersi nella dimensione sempre più grande dell’amore divino» (31, corsivo mio).

 Nell’articolo 32 si parla poi di “grazia”, una grazia che opera nella vita di coloro che non si ritengono giusti e una grazia in grado di orientare ogni cosa secondo i misteriosi ed imprevedibili disegni di Dio.

In tutto questo documento si rileva un tema che tocca da vicino ogni cristiano, ogni organizzazione, ogni chiesa, quale che sia la sua autocomprensione. È il rapporto che insiste, e deve essere pensato alla luce della contemporaneità, tra uno spazio delineato dalla grazia, una grazia che noi definiremmo salvifica e che nella teologia cattolica si esprime nel concetto di sacramento, e tutto ciò che sta intorno. Ci riferiamo a quello che continua a essere il mondo di Dio, pur se un mondo che “giace nel maligno” e che manifesta la sua lontananza da Dio anche nella distorsione del disegno di creazione. Come, per esempio, nel caso dell’aggettivo “irregolare” che si aggiunge al sostantivo “coppie”.

Se volessimo dare all’articolazione di questi due spazi un’immagine che riprende il vocabolario evangelico, dei vangeli, possiamo riprendere le parole di Gesù nel Sermone sul monte. Posto che Dio faccia piovere sui giusti e sugli ingiusti, che faccia levare il sole sui buoni e sugli empi (Mt 5) viene da chiedersi: in che modo i discepoli di Gesù Cristo, dopo aver mostrato a tutti l’ombrello della grazia salvifica rappresentato da Gesù, dalla sua opera compiuta sulla croce – egli sarebbe anche il parasole nei confronti dei raggi infuocati della santità e della giustizia di Dio che giudica il peccato, e il peccatore – in che modo, dunque, organizzare la compresenza e la convivenza nello stesso mondo di Dio? In che modo confrontarsi e vivere con, insieme, alle coppie irregolari? Lanciamo loro addosso, ogni volta che li incontriamo, il sermone di Jonathan Edwards, Peccatori nelle mani di un Dio adirato? Manifestiamo tutto il nostro disprezzo per cose che non si possono neanche raccontare? Ci lamenteremo di un mondo sottosopra e ci iscriveremo a un partito che vuole raddrizzarlo? Nel documento si legge: «quando le persone invocano una benedizione non dovrebbe essere posta un’esaustiva analisi morale come precondizione per poterla conferire. Non si deve richiedere loro una previa perfezione morale.» Più avanti si fa l’esempio di benedizioni impartite in un carcere, ai carcerati (27).

La richiesta di una benedizione esprime ed alimenta infatti «l’apertura alla trascendenza, la pietà, la vicinanza a Dio in mille circostanze concrete della vita, e questo non è cosa da poco nel mondo in cui viviamo. È un seme dello Spirito Santo che va curato, non ostacolato».

Ciò che il documento ispirato da Francesco tenta di fare, riflettendo sul senso biblico di “benedizione”, è ciò che altre tradizioni cercano di articolare quando distinguono, per esempio, tra la grazia salvifica e la grazia comune. Ecco alcuni indizi:

  • «Desiderare e ricevere una benedizione può essere il bene possibile in alcune situazioni».
  • «Qualsiasi benedizione sarà l’occasione per un rinnovato annuncio del kerygma, un invito ad avvicinarsi sempre di più all’amore di Cristo».
  • «Questo mondo ha bisogno di benedizione e noi possiamo dare la benedizione e ricevere la benedizione».

Questo il documento. Questo il mio sforzo di comprensione. Non si tratta di una ciliegina sulla torta, come è stato definito. Continuo a pensare che bisogna parlare con grande rispetto soprattutto delle tradizioni che non si condividono, in ragione del vangelo prima di tutto e per rispetto dei milioni di miei concittadini che le condividono.

Resta allora il tema: come confrontarsi e vivere con … ? Da evangelico e in ragione della visione della chiesa che trovo nel Nuovo Testamento (sarà anche un po’ confusa ma non mi pare arrivi al sacramentalismo della Chiesa di Roma) e posto che c’è un solo evento in cui la chiesa apre e chiude, vale a dire l’atto della predicazione del vangelo e della Parola di Dio, non credo che si debba arrivare a formule di benedizione per cogliere e valorizzare, tra l’altro, l’apertura alla trascendenza.

Non bisogna incontrare le distorsioni del disegno di creazione di Dio in quanto appartenenti a una categoria socio–teologica come quella di “cristiani”: cristiani liberali, cristiani cattolici, cristiani evangelicali, etc. Il termine cristiani rimanda a Cristo ed è un termine che segnala un evento semiotico, che rimanda ad altro, a Cristo appunto. Questo evento è fatto di testimonianza e riconoscenza e può essere incarnato solo da un uomo, in carne ed ossa, nella sua umanità (ad Antiochia i discepoli furono chiamati cristiani per la prima volta). Non furono i cristiani a essere riconosciuti come discepoli!

Questo significa che le irregolarità vanno incontrate da uomo a uomo, da uomo peccatore a uomo peccatore. Nel mentre segnala che le coppie dello stesso sesso non sono secondo il piano di Dio, un cristiano deve confessare di essere peccatore anche lui. Le liste di vizi che troviamo nel NT associano l’omosessualità all’avarizia, per esempio. Per non parlare dell’adulterio e della fornicazione, vero deposito di ipocrisie maschiliste e brodo di coltura di tutte le distorsioni che arrivano anche al femminicidio. Attraverso la rivoluzione sessuale degli anni sessanta del secolo scorso giunge di rimando al cristianesimo un potente richiamo a saper articolare adeguatamente una predicazione del peccato: non solo come preambolo alla predicazione della grazia e del perdono ma anche come costruzione dell’unico piano in cui la fede di chi proclama il vangelo potrebbe incontrare la fede di chi non conosce ancora il vangelo e il perdono che offre, che ha concesso anche alla fede di chi predica.

Se in Fiducia Supplicans si può intravedere una parvenza di una tale ansia, allora essa potrebbe essere fatta propria da chiunque, senza avere bisogno di arrivare a un sacramentale.

Concretamente, in che modo l’idea che lì si esprime nel concetto di benedizione, potrebbe essere trasposto in ambiti in cui si ritiene che la “chiesa” non benedice un bel niente? Due macro–aree in cui si esprime chi chiede benedizione e in chi vuole accordarla o vuole mostrare solidarietà umana.

La prima è quella del riconoscimento pieno dei diritti delle persone e delle situazioni che, personalmente, sul piano della predicazione, definirei situazioni di disordine e di peccato. Il peccatore deve poter peccare, senza che gli sia impedito per legge; posti naturalmente tutti i limiti propri del consorzio civile. Come evangelici, nel mentre ci si appella al piano della creazione (uomo e donna nel matrimonio) ci si dovrebbe schierare apertamente per i pieni diritti civili di chi sceglie un’altra strada, una strada, ripetiamolo, che considereremmo peccaminosa.

La seconda macro–area la definirei linguistica e ha a che fare con la valorizzazione delle sfumature. Qualche tempo fa qualcuno mi ha ricordato che a un Convegno Studi GBU abbiamo inviato un relatore gay. Ho fatto presente che Ed Shaw fa parte di un gruppo di pastori e uomini di chiesa che è venuto fuori confessando non la propria omosessualità ma la lotta contro l’attrazione sessuale per lo stesso sesso. Il coraggio di questi fratelli e di queste sorelle deve essere valorizzato, riconoscendo in esso lo stesso coraggio che dovremmo avere noi quando dovremmo confessare pubblicamente la lotta che ci caratterizza nei confronti di un peccato particolare. L’attrazione verso lo stesso sesso non è omosessualità ma è l’onesta condizione di un peccatore che desidera definire la sua identità non in ragione del suo orientamento sessuale ma in ragione di come questo orientamento venga appagato da una relazione intima con Gesù Cristo.

Sono solo due spunti, ma se da evangelici ci impegnassimo in essi saremmo una benedizione, anche senza sacramentali e continuando a predicale il vangelo in cui c’è il perdono e la liberazione.

A questo punto è probabile che si realizzerebbe la condizione di Vasco Rossi: siamo solo noi!

 

Il rifiuto della trascendenza. Alcuni pensieri sparsi su Toni Negri.

Abbiamo appreso proprio ieri della morte di uno dei maggiori e più controversi intellettuali italiani della seconda metà del XX secolo: Antonio Negri. Negri era un pensatore assolutamente originale di cui, tra l’altro, abbiamo parlato nell’ultimo libro pubblicato dalle edizioni GBU, I discepoli furono chiamati cristiani.

Riflettendo sulla sua dipartita terrena ed a pochi giorni dal termine del nostro Convegno di studi dedicato all’ateismo vogliamo tracciare un breve ritratto e fare alcune riflessioni su questo pensatore. 

Antonio Negri è stato un filosofo protagonista tra fine anni 1960 e inizi 1970 dei movimenti di protesta giovanile di stampo marxista ed extraparlamentare in Italia. Mentre diventa uno dei dirigenti di Potere Operaio, scriveva alcuni dei saggi che lo hanno reso famoso, uno dedicato al filosofo Spinoza (L’anomalia selvaggia) e l’altro al pensiero di Cartesio (Descartes politico). E’ stato un raffinato analista del pensiero di Marx e lo ha cercato di reinterpretare il suo pensiero in chiave più contemporanea con alcune venature influenzate dallo strutturalismo e dal post-strutturalismo francese. Coinvolto anche attivamente nei cosiddetti anni di piombo nel terrorismo rosso, sino ad essere accusato di essere capo della Brigate Rosse (accusa rivelatasi infondata) sarà comunque condannato per altri reati e, dopo essere scappato in Francia, ritornerà in Italia a scontare la sua pensa. Agli inizi del XXI secolo tornerà alla ribalta (all’inizio non in Italia)  con la pubblicazione di Impero con Michael Hardt, testo che avrà un grande successo globale e che riporterà il pensatore italiano alla ribalta del panorama culturale mondiale. 

Negri si è sempre professato ateo ed i due suoi autori classici preferiti, Spinoza e Marx lo sono di fatto stati, anche se consideriamo Spinoza un panteista moderno che ha cercato, da ebreo, di racchiudere la realtà del mondo e del divino in un’unica sostanza. Che interesse potrebbe avere pertanto per il mondo evangelico?

Ci sono diverse piste che si possono percorrere e qui ne proporremo alcune. Negri ha sempre mostrato interesse per i movimenti religiosi. Partendo dall’analisi di alcuni passi di Marx ha sempre pensato che i movimenti religiosi, soprattutto quelli che partono dal basso e che sono poco istituzionali, possono essere la premessa di una liberazione effettiva dell’uomo. Lettore avido dal marxista Ernst Bloch che aveva analizzato qualche decennio prima il pensiero di T. Müntzer, visto come un proto-rivoluzionario, ha guardato con attenzione ai movimenti della teologia della liberazione che, a suo parere, sono espressione di quella Moltitudine che potrebbe rovesciare lo stesso Impero o capovolgerne le sorti. Ovviamente per il pensatore padovano il movimento religioso può essere visto come un inizio e non come il coronamento di un traguardo raggiunto che può essere solo supportato da un movimento politico. 

Nel 2008 una serie di evangelici americani sono entrati in dialogo con Negri e Hardt per analizzare la nozione di impero. Per Wolterstorff ed altri pensatori evangelici Negri aveva colto nel suo testo il fatto che, ormai, l’Impero non potesse più identificarsi con una particolare nazione (nonostante la supremazia statunitense) e che questo avrebbe potuto dare l’occasione soprattutto ai movimenti evangelici che stavano avendo successo nel Sud del mondo di creare spazi di apertura verso il Regno di Dio e verso una società più giusta e versata alla pace nel mondo. Il libro, che si intitola Christian Alternatives to the Political Status Quo (Alternative cristiane allo status quo politico) si conclude con una replica di Negri che, insieme ad Hardt, ringrazia dell’interesse per i suoi studi ma, allo stesso tempo, ribadisce anche che la sua idea di speranza di pace è qui sulla terra e che rifiuta qualsiasi possibilità che ci sia una trascendenza (un Dio) che possa essere risolutrice per ciò che accade nel mondo. Quindi una grande attenzione per i movimenti religiosi informali che possono far parte di quella Moltitudine (altro titolo di un saggio di Negri) che può far cambiare l’Impero ma che, alla fine, non possono essere risolutivi per il costante richiamo che fanno al Divino.

Negri è anche stato un attento lettore del testo biblico. Ho sentito anche diverse sue interviste dove dimostrava la sua capacità di fare esegesi di un testo che trovava assolutamente interessante ma su cui voleva andare oltre. Questo suo interesse, oltre che da una originaria formazione cattolica (comune a molti teorici della sinistra extraparlamentare degli anni 1960/70) derivava anche dalla sua attenzione per il pensiero dell’ebreo Spinoza che, pur essendo stato uno degli iniziatori del cosiddetto metodo storico-critico, da buon ebreo dava grande spazio all’esegesi delle Scritture (si veda i numerosi riferimenti ed anche i tentativi di una esegesi “umana” che sono presenti nel Trattato Teologico-politico). Negri negli anni Novanta, proprio durante gli anni della prigionia, ha elaborato un testo di difficile lettura dedicato al libro di Giobbe ed intitolato il Lavoro di Giobbe. Ciò che affascinava il pensatore padovano era la figura del personaggio biblico che deve faticare per farsi ascoltare da Dio. Non si tratta del rapporto con il trascendente, quanto del continuo dissidio e lotta che passa anche attraverso il proprio corpo e la sua presenza. Una lettura interessante, ma anche questa priva di una trascendenza (l’entrata di Dio sembra una messa in scena) e che se ci dà pagine assolutamente interessanti nella descrizione del personaggio, allo stesso tempo ci fa capire come si possa leggere un testo biblico in parte non capendone totalmente il senso o dandone uno alternativo a quella di molta esegesi.

Negri non è assolutamente facile da leggere ed i testi citati da me sono di difficile lettura (fa eccezione proprio Impero in cui Hardt ha funzionato a mio parere da facilitatore, anche perché il testo è stato pubblicato originariamente in inglese, una lingua che non sempre riesce a tenere conto delle ardite capriole linguistiche dei filosofi continentali), ma allo stesso tempo rimane una figura paradigmatica del panorama culturale italiano. Sicuramente gli evangelici farebbero bene a tenerne conto non per la sua “ateologia” (in cui è rimasto coerente), quanto per le sue riflessioni sul potere, sulla crisi degli Stati e sull’interpretazione del tempo presente, tenendo conto che, come ogni marxista occidentale (pur appellandosi a Lenin talvolta, ma, a nostro parere essendo distante) cerca di costruire un’utopia ed una speranza che può trovare proprio nel testo biblico una risposta ed è una figura che ci permette di confrontarci con quell’ateismo dialogante differente dai modelli scientisti che oggi vanno più di moda.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU