Blind Milton

Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo saggio epistolare-narrativo composto da Filippo Falcone per scopi didattici, ma che ci dà uno spaccato (relativo) della ricchezza e della complessità dell’opera di John Milton, soprattutto in relazione al suo capolavoro Paradise Lost.

 

Vi scrivo, cara Elizabeth, con l’aiuto di Deborah. Se vorrete essere mia sposa, sarà bene che conosciate la mia storia… 

La mia prima moglie mi ha lasciato, se n’è andata dopo un mese, e io, quando è tornata, l’ho ripresa con me, lei e suo padre. Non potevo fare altrimenti. Mary, Mary Powell! Suo padre aveva un debito con il mio. Gli diede Mary per saldarlo. Mio padre era uno “scrivener” – prestava denaro a interesse. Non pensatelo persona da poco, interessata soltanto al vil denaro. A casa nostra si respirava musica – mio padre suonava e componeva, alla maniera di Händel – e a casa nostra si respirava letteratura – grazie alle fortune paterne, ho potuto dedicarmi agli ozi letterari. Che sorpresa veder tornare Mary e suo padre. Loro, reazionari, realisti, qui a cercare un tetto in una casa repubblicana! I muri di questa casa sono confini di libertà. Al diritto divino dei re, questi muri oppongono la legge, al re, il popolo inglese. Carlo I ha perduto ogni legittimità. Combatteva contro il suo stesso popolo. Del suo stesso popolo ha versato il sangue. L’autorità è data per il bene, non per uccidere! Libertà, sì. Eppure, l’amore mi ha costretto. Mary e suo padre hanno vissuto qui con me fino al 1652, fino alla nascita di Deborah. Mary è morta di parto. Io le ho voluto bene, nonostante tutto, ma per tutto il tempo sapevo dentro di me che non c’era tra noi quell’unione di spirito e di intenti, quella comunione profonda che si traduce nella capacità di dare e trovare significato l’uno nell’altra attraverso la parola. Ne ho parlato in 4 trattati sul divorzio. Ho recuperato quello che aveva scritto al riguardo il riformatore Martin Bucero. Lo ricordate Bucero? Era stato in Inghilterra con Edoardo VI e aveva contribuito a introdurre la Riforma qui da noi. Ho scritto 5 trattati sul divorzio, dicevo. Sì, perché lo scopo per cui il matrimonio è stato dato è che l’uomo e la donna non siano soli. A volte, però, si può essere presenti fisicamente, ma sentirsi profondamente soli. Con Mary è stato così. Poi ho conosciuto Katherine. Ci siamo sposati nel 1656. Quanto l’ho amata, la mia Kate, la mia “late espousèd saint”!    

E quante cose sono successe nel frattempo! Le due guerre civili, il regicidio! Ci ho scritto. Prima i trattati antiprelatizi. Cinque. Mi sono schierato con i presbiteriani, contro il sistema episcopale. Ogni chiesa locale dovrebbe avere le proprie guide, i propri presbiteri, senza che si formi una sovrastruttura e una gerarchia. È anche questa una questione di libertà. Sono sempre stato un anticlericale, sapete. Come voi, d’altronde. Credo di non sbagliare. Siete Battista Generale! Come voi, sono contro qualunque sistema di controllo degli uomini sugli uomini. Non mi sfugge, però, che “presbitero” non è che la forma estesa del vecchio “prete”. Anche il presbitero può comportarsi da tiranno e soggiogare le persone. Beh, poi ci fu la prima guerra civile. C’è la tirannia della chiesa e c’è la tirannia del re.   

Tra il 1649 e il 1652 ho scritto trattati politici. Cinque anche quelli. Io contro Salmasius, Saumaise, come lo chiamano i suoi connazionali francesi. Con i miei trattati ho dimostrato, superando le sue argomentazioni, che anche il re è soggetto alla legge e che un re votato alla distruzione del suo popolo è destituito di ogni autorità, di ogni delega nell’esercizio dell’autorità. Il regicidio era giustificato! Ho difeso prima i presbiteriani e il parlamento, poi gli indipendentisti e il New Model Army di Cromwell. Dopo il regicidio, Cromwell ha assunto la guida della Repubblica e mi ha chiesto di essere il suo Secretary for Foreign Tongues. Tutto questo mentre ero cieco! Dal 1652 sono completamente cieco. Non vedo più nulla. Sarà colpa delle tante ore passate a leggere, studiare e scrivere a lume di candela. Ma sono in buona compagnia. Con me ci sono tutti coloro che, come Omero e Tiresia, non vedendo, videro veramente. Mi dispiace solo per Deborah, che mi deve mungere come si munge una vacca ogni mattina, trascrivendo ogni mia parola sotto dettatura!

Katherine è stata un dono del cielo. Si è presa cura di me. Ah, se l’ha fatto! Quanta premura e quanta grazia in lei. Eppure, una sensazione di vuoto, di incompiutezza, mi ha accompagnato ogni momento. Non fraintendetemi. L’amore di Katherine è stato per me alimento prezioso. C’era tuttavia in me un senso profondo di scopo irrealizzato. Neppure l’agone pubblico lo poteva fugare – mi è stata data una voce, sì, e io non ho potuto rimanere in silenzio. Come gli antichi profeti, ho dovuto parlare al popolo e ho dovuto farlo nella lingua della gente, in inglese, in prosa. Sedici trattati in tutto. La prosa è la mia mano sinistra, sapete. La mia destra è la poesia. Mi viene naturale, la poesia. L’ho dovuta però accantonare per lasciare spazio alla sinistra. La contingenza lo richiedeva. Di qui il mio senso di lacerazione, di incompiutezza. Aveva bisogno di esprimersi la mia mano destra, una vocazione la mia, la chiamata di una vita rimasta frustrata così a lungo: scrivere il grande poema epico nazionale! Come La Commedia di Dante, come La Liberata di Tasso! Fino a ieri, l’unica valvola di sfogo sono stati una ventina di sonetti. Ora che le aspirazioni repubblicane sono sfumate e Cromwell non c’è più – ma badate bene che il nostro Lord protettore stava assomigliando sempre più a quel re da cui ci aveva liberati – ora che le aspirazioni repubblicane sono svanite, dicevo, non c’è più spazio per quella voce profetica. È il tempo che una voce universale parli della condizione dell’uomo e del disegno di Dio per la storia – e non soltanto la storia di questa nazione che credevamo eletta, bensì la storia dell’umanità. All’inizio avevo pensato a soggetti come re Artù, King Alfred… l’intento era celebrare la mia Inghilterra, il suo posto nel disegno provvidenziale di Dio, ma ora mi è chiaro che la libertà cui aspiravamo e che abbiamo cercato di afferrare attraverso le armi della politica e della legge deve nascere prima nel cuore dell’uomo. Ecco allora il mio soggetto, il soggetto del grande poema che sin dai tempi del mio viaggio in Italia e sin dai tempi di Cambridge sentivo di dover scrivere… 

Era il 1658, 5 anni or sono, quando finalmente iniziai a scrivere. Avevo atteso così a lungo. Lo dico nel mio Sonetto 19. L’avete letto? Era come se Dio stesse giocando con me. Mi aveva dato un talento, il talento della poesia, e mi chiedeva di non nasconderlo. Mi chiedeva di metterlo a disposizione di tutti, di metterlo a frutto, senza però accenderlo con la sua luce, senza concedermi l’opportunità di usarlo. Ma Dio può chiedere conto di come abbiamo usato i nostri talenti mentre ne toglie la sostanza che li alimenta? Mi sentivo come Dante, nel mezzo del cammin di mia vita, la mia luce doppiamente spenta in un mondo di tenebre. Ora so che Dio non stava giocando con me. Dovevo soltanto attendere e imparare la pazienza, imparare ad affidarmi e dismettere il giogo del mio io, della mia superbia, per prendere su di me un giogo leggero, un giogo di grazia. Ora so che può servirlo anche chi resta fermo e attende. 

Nel 1658, dicevo, l’attesa è finita, il tempo di mettere a frutto il mio talento è arrivato, eccome se è arrivato, nel momento in cui ero più debole, in cui ogni fiducia e visione pareva svanita. Proprio allora, nel buio interiore, iniziò a farsi spazio una luce.               

Quella luce ha preso un corpo, fatto di segni, di parole. I versi che condivido con voi sono ciò che ho di più caro. Del manoscritto del mio poema vi faccio dono e vogliate ora accompagnarmi in questo cammino. Parla di me e parla di voi. 

 

Paradiso Perduto I.1-26      

 

Della prima disobbedienza dell’uomo, e del frutto

dell’albero proibito, il cui gusto fatale condusse

la morte nel mondo, e con ogni dolore la perdita

dell’Eden, fin quando non giunga più grande

un Uomo a risanarci riconquistando il seggio benedetto,

canta, Musa Celeste, che sopra la vetta segreta

dell’Oreb o del Sinai donasti ispirazione a quel pastore

che per primo insegnò alla stirpe eletta 

come in principio sorsero i cieli e la terra dal Caos;

o se il colle di Sion maggiormente ti aggrada,

e il ruscello di Siloe che scorreva rapido

presso l’oracolo di Dio, da questi luoghi

offri, ti prego, aiuto al canto avventuroso

che in alto volo aspira a sollevarsi

sopr’il Monte Aonio, e si propone cose

mai tentate in passato in prosa o in rima.

E soprattutto, o Spirito, che sempre preferisci

più d’ogni tempio un cuore retto e puro,

poiché tu sai, istruiscimi; tu che fin dall’inizio

fosti presente e con ali possenti spalancate 

come colomba covasti quell’abisso immane

e lo rendesti pregno: ciò che in me è oscuro illumina,

e ciò che è basso innalzalo e sostienilo;

che dalle vette di questo grande argomento

io possa confermare la Provvidenza Eterna,

e la giustezza delle vie di Dio rivelare agli uomini.

 

Cantare agli uomini della provvidenza di Dio e giustificare le sue vie. Una chiamata troppo alta per me, per l’uomo, tanto alta quanto la distanza tra l’uomo e Dio. Ma a questo fui chiamato, proprio io, avvolto da un duplice buio, buio fisico, il buio della mia cecità, e buio spirituale. Fui chiamato a cose mai tentate prima, in prosa o in rima, per parafrasare Ariosto, cose incommensurabilmente alte, io così basso. Occorreva librarsi oltre il monte Aonio, o Elicona, se preferite, il monte delle muse. Non bastava Calliope, musa della poesia, né poteva soddisfare la fonte di Aganippe presso cui le nove (muse) trovano sollazzo. Era necessaria una luce più alta, un’ispirazione che provenisse da un monte altro, il monte Sion, e da altra fonte, che da quel monte scaturisce, la fonte di Siloe. Ci voleva la musa di Tasso, Urania, musa celeste, colei che ispirò Mosè, il pastore d’Oreb, a narrare la creazione. Lei c’era, lei che, come una colomba, aveva covato la massa informe tratta dal caos, lei che in forma di colomba sarebbe discesa sul Figlio. Proprio il Figlio è quel monte, quella luce, quell’acqua che la musa celeste comunica. Avrete capito che sto parlando dello Spirito di Dio. Soltanto lo Spirito poteva fugare le mie tenebre interiori con la luce del Figlio. Soltanto lo Spirito poteva trarmi dai bassifondi del mio cuore ed elevarmi fino al cielo di Dio. 

Prima, però, mi trascinò fin negli abissi dell’inferno per rendere visibili ai miei occhi velati le mie tenebre interiori. Volli qui dare voce a Satana, come non era mai stato fatto prima in letteratura. Lo volli fare perché volevo incarnare nel mio poema la verità che avevo illustrato nell’Areopagitica, il mio trattato sulla tolleranza e contro la censura. La libertà non è tale finché non è libertà di scegliere tra molteplici alternative. La libertà di scegliere soltanto il bene non è affatto libertà, ma necessità. Là dove, di contro, sia il bene sia il male fossero presentati all’uomo e al lettore, ecco che la scelta si sarebbe dimostrata realmente autentica, realmente libera. Satana, dunque, non soltanto poteva parlare, ma doveva parlare, qualora volessimo restituire all’uomo libertà, e doveva farlo estesamente e in modo persuasivo. 

 

“È questa la regione, è questo il suolo e il clima”,

disse allora l’Arcangelo perduto, “è questa sede che

abbiamo guadagnato contro il cielo, questo dolente buio

contro la luce celeste? Ebbene, sia pure così

se ora colui che è sovrano può dire e decidere

che cosa sia il giusto; e più lontani siamo

da lui e meglio è, da lui che ci uguagliava per ragione

e che la forza ha ormai reso supremo

sopra i suoi uguali. Addio, campi felici,

dove la gioia regna eternamente! E a voi salute, orrori,

mondo infernale; e tu, profondissimo inferno, ricevi 

il nuovo possidente: uno che tempi o luoghi

mai potranno mutare la sua mente. La mente è il proprio luogo,

e può in sé fare un cielo dell’inferno, un inferno del cielo.

Che cosa importa dove, se rimango me stesso; e che altro 

Dovrei essere allora se non tutto, e inferiore soltanto

a lui che il tuono ha reso il più potente? Qui almeno

saremo liberi; poiché l’Altissimo non ha edificato 

questo luogo per poi dovercelo anche invidiare,

non ne saremo cacciati: vi regneremo sicuri, e a mio giudizio

regnare è una degna ambizione, anche sopra l’inferno:

meglio regnare all’inferno che servire in cielo. 

 

Dalla luce al buio. Fin nel buio dell’inferno lo seguii. Poiché Dio era la luce, Satana avrebbe accolto il buio. Il buio sarebbe stato il suo spazio, spazio esterno e interiore a un tempo. Dio non era più grande di lui per intelletto; soltanto per forza. Con la forza li aveva scacciati. Li aveva repressi dopo averli oppressi perché non sottomessi alla sua legge! Un tiranno! Ecco cos’era Dio. Un tiranno! Ora Satana all’inferno poteva essere finalmente libero, lungi da colui che ne limitava la libertà. Poco importava il luogo. La mente era infatti il proprio luogo, indipendentemente da qualsivoglia luogo fisico. Ricordo di averlo scritto sul libro degli ospiti di un esule protestante napoletano a Ginevra. Camillo Cardoini era il suo nome. Scrissi che, lasciando l’Inghilterra per recarmi in Italia, avevo cambiato luogo, ma non la mente. Era il 1639. La persona può essere libera quand’anche in prigione, se è libera nella mente. La persona può essere prigioniera quand’anche in cielo, se è prigioniera nella mente. La mente è una fortezza che le condizioni esterne non possono espugnare, un paesaggio che le circostanze esterne non possono trasmutare. Al contrario, se la mente è cielo, può rendere cielo l’inferno. Se la mente è inferno, può rendere inferno il cielo tutt’attorno. Satana salutò con favore gli orrori del mondo infernale. Là, infatti, sarebbe stato libero da Dio. Là avrebbe potuto fare ciò che voleva. Là non avrebbe conosciuto restrizioni esterne. Là sarebbe stato al di sopra di tutto, al di sopra di tutti, il re. Ed era cosa di gran lunga migliore regnare all’inferno che servire in cielo! Era forse questa la vera libertà? La risposta la iscrissi nelle sue stesse parole. Il luogo e l’assenza di limiti esterni non cambiano la condizione interiore. Il re era schiavo, schiavo di sé stesso, prigioniero nella fortezza della sua mente, prigioniero del suo io. “Ovunque voli è l’inferno. Io stesso sono l’inferno” (libro IV), lo sentii dire. Tutti adoriamo qualcuno o qualcosa. Chi adora Dio è libero. Chi adora ciò che è altro da Dio adora una proiezione di sé stesso ed è schiavo di sé stesso. Proprio l’io era il dio sul cui altare Satana aveva ed avrebbe sacrificato tutto e tutti. La tirannia di Dio altro non era che il limite posto al suo io. Quel limite poteva essere imposto per legge o scelto per amore. Regnare all’inferno era allora elevarsi al di sopra delle altre creature. Significava alimentare la creatura mostruosa e famelica dell’io. Servire in cielo era di contro dimorare nell’amore, amare e conoscere nell’amore il limite alla propria libertà individuale. Satana aveva scelto la prima strada, la via dell’egocentrismo, della tirannide e, in definitiva, della solitudine.         

Vidi Satana convocare una grande assemblea. Tutti i demoni convennero nel “pandemonium” – ho coniato apposta la parola. Dà l’idea vero? Pan – tutti – demonium – i demoni. Mi piace giocare con le parole. Il poema è pieno di giochi etimologici. Anche nel sonetto 19 ce n’era uno. L’avete riconosciuto? When I consider how my light is spent / ere half my days in this dark world and wide. Il mio tempo è trascorso e la mia luce è spenta! Il mio paesaggio interiore non era dissimile dalle tenebre del pandemonium. Satana vi aveva convocato una grande assemblea, dicevo. Immaginatevi un vortice di angeli caduti osannanti il loro nuovo padrone. Satana li informò di un nuovo mondo abitato da creature perfette e meravigliose, come lo erano stati loro. Era la loro occasione: cercare di frustrare il nuovo disegno di Dio! Il loro campione, Satana, avrebbe fatto il lungo viaggio fino al nuovo mondo e avrebbe indotto le nuove creature di Dio a ribellarsi al despota celeste. 

La mia penna lo seguì oltre le porte d’inferno, custodite da due mostruose allegorie, peccato e morte. Là fuori, fuori dalle porte d’inferno, vidi Satana attraversare in volo il caos. Io con lui nel buio dell’inferno, io con lui nel caos: il mio inferno, il mio caos. Fino alle porte del cielo volò. Oltre quelle porte solo luce, una luce che irradiava tutt’attorno. Satana non poteva sopportarla, anzi, la odiava, perché insieme a quella luce tornava il ricordo di ciò che un tempo era stato, della gioia che aveva conosciuto, dell’amore che aveva rifiutato per volgere il suo sguardo a sé stesso. Il dolore che quella luce portava con sé per il bene e l’amore perduto poteva essere esorcizzato soltanto da un odio maggiore, unicamente scendendo sempre più in profondità nella spirale dell’io. “Maledetto” non il limite e il divieto, “ma maledetto il suo amore”, esclamò Satana.

Conosciuto il buio e il caos, quella luce celeste salutai, luce sempiterna, inattingibile, in cui Dio dimora, effluvio della sua essenza. Il libro III del poema apre una finestra sull’eternità e sul Figlio che sceglie di donarsi per la nuova creazione. Decisi di non introdurre la nuova creazione fino al libro IV. Dopo aver percorso in lungo e in largo gli spazi, Satana giunse alle soglie della terra e si posò su un albero con il sembiante di un cormorano. È attraverso i suoi occhi che vedrete per la prima volta Adamo ed Eva, i nostri progenitori. Attraverso gli occhi della caduta ne conosciamo la perfezione e la bellezza. Sì, ancora una volta Satana si trovò colto nello scarto tra il suo buio e la luce di Dio, ora evidente nell’abisso che separava l’immagine di Dio impressa nella creatura umana e quell’immagine in lui deturpata. Che apparizione sublime quelle creature! Imponderabile. Ineffabile. Inedita. I boccoli dell’uomo dorati cadevano fino alle spalle. Mossi come le onde del mare i di lei fulgenti capelli e rossi scendevano incontrollati lungo la sua schiena. Formidabile in virtù e intelletto, lui. Magnificente in pensiero e grazia, lei. Liberi entrambi, sommamente liberi, l’uomo e la donna, uniti in un chiasmo, in Dio. I confini della loro libertà erano i confini del giardino, confini tracciati da un singolo divieto di non mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male. Tale divieto non ne limitava la libertà, ma la generava, rappresentando la possibilità di scegliere finanche contro Dio. 

La sopraffazione presto si tramutò in Satana in invidia e odio profondo, invidia e odio inclini a distruggere ciò che Satana non avrebbe mai più potuto avere. 

Forse avrete già letto il Masque presso il Ludlow Castle che vi ho mandato di recente. Come Comus, il mostro del Masque, faceva con la casta Lady, custodita dalla luce interiore nell’inaccessibile libertà della sua virtù, così Satana spiò i nostri progenitori mentre, mano nella mano, passeggiavano in Eden e poi ancora mentre, su un manto verdeggiante e tra alberi che facevano da riparo e chiostro sponsale, si unirono, riflettendo di Dio l’immagine e la somiglianza, l’unità nella pluralità. Dio inviò Raffaele per mettere in guardia Adamo ed Eva. I due, conoscendo soltanto amore, non potevano presagire che il male li spiasse alla porta e che potesse materializzarsi nel giardino. 

Nel libro VI gettai uno sguardo analettico alla battaglia in cielo tra gli angeli di Dio e gli angeli caduti, poi sconfitti e gettati all’inferno. Avrete sentito parlare del nuovo cannone a polvere da sparo. Vi alludo descrivendo la battaglia celeste. Una grande innovazione tecnologica, si intende, ma letteralmente una diavoleria! 

Nel libro VII, su richiesta di Adamo, Raffaele venne a riferire come e perché il mondo e le creature che vi avrebbero preso dimora furono da principio creati a seguito dell’espulsione di Satana e dei suoi angeli dal cielo.

Il libro VIII costituisce un passaggio esistenziale. Adamo parlò con Raffaele. Un tentativo il suo di elaborare il proprio essere nel mondo. Diversamente da qualunque altra creatura umana dopo di lui, fu formato già adulto, dotato di coscienza di sé. Ricordò allora quei primi attimi di vita. Rifletté sul significato dell’esistenza, sull’identità, sul mondo attorno a sé e il suo posto in quel mondo. Già Eva, nel libro IV, aveva iniziato a prendere coscienza di sé riconoscendosi in quello che chiamai “liquid plain”, un lago. Riflessa nell’acqua vide per la prima volta la propria immagine. Subito balzò indietro e lo stesso fece quella. Poi tornò a specchiarsi e così l’immagine. Feci fare alle parole quello che fecero Eva e la sua immagine attraverso un chiasmo: “It started back; but pleased I soon returned, Pleased it returned as soon”. In questo movimento volli riflettere in senso prolettico il movimento dello sguardo di Eva, uno sguardo che già rivolto a Dio e alla sua immagine impressa nell’uomo si sarebbe rivolto a sé stessa.  

Nel libro IX si consuma la rovina dei nostri progenitori, come la chiamai in Of Education, il mio trattato sull’istruzione. Una separazione prelude alla caduta. Eva rivendicò la sua indipendenza da Adamo. Forte della sua perfezione, della sua libertà e della sua virtù, insistette con lui che si separassero per ottimizzare il lavoro nel giardino, per risultare più efficienti. Adamo, consapevole della minaccia che si stava stringendo attorno a loro, cercò di mettere in guardia Eva. Pose l’accento sul valore del sostegno reciproco. Come la Lady del Masque, anche Eva era custodita dalla recta ratio, ragione illuminata dalla luce interiore. Nulla poteva violarla. Tuttavia, cosa sarebbe successo se la ragione fosse stata mal informata? Adamo non dubitava di lei. Piuttosto, non voleva sottostimare la sordida arte di un nemico sconosciuto da cui era stato messo in guardia dal messaggero celeste. La loro separazione fisica avrebbe fatto da sfondo a una separazione morale e spirituale. La minaccia non tardò a fare capolino. Stanca per il lavoro, Eva si assopì. Satana le si avvicinò e le sussurrò all’orecchio parole, suscitando immagini oniriche. Al suo risveglio, un serpente le si fece incontro in posizione eretta e dotato di parola. Sapiente. Eminentemente sapiente. Si rivolse a Eva, ora sola, informando la suggestione del sogno con una cascata di allusioni sensoriali. Facendo appello ai sensi, volle fiaccare ed eludere le resistenze della ragione. Il serpente stesso aveva mangiato del frutto dell’albero proibito e non era morto. “Sapience”, a un tempo sapore e conoscenza. Mangiando, Eva avrebbe acquisito sapienza! L’evidenza era lì, davanti a lei, il serpente. Forse le parole di Dio andavano intese diversamente. Certo quel frutto era desiderabile. Dio certo non voleva negare alla creatura maggiore conoscenza. Qualora ci fosse qualche scarto tra lei e Adamo, certo tale gnosi l’avrebbe colmato. Tese la mano, colse il frutto, ne mangiò. 

Giunse allora Adamo. Lo spazio fisico che coprì per raggiungerla si era trasformato in un baratro interiore incommensurabile. Più cercava di avvicinarsi a lei con la parola, più aumentava la distanza, l’abisso incolmabile, tra loro. Un muro li separava, un muro fatto di egocentrismo, egoismo, volontà di potenza, nudità, vergogna. Tra Dio ed Eva, Adamo scelse Eva. Scelse di condividere il suo destino, di non abbandonarla. Mangiò a sua volta il frutto dell’albero. Credeva di ritrovarla, ma la perse doppiamente. Le mani che si erano intrecciate nel giardino si chiusero a formare pugni. Dio parlò loro, chiedendo dove fossero. Una frattura impossibile da comporre li divideva ora da Dio e l’uno dall’altra. Bramarono fuggire, salvare sé stessi a spese dell’altro, ma nulla poteva salvarli dalla voragine interiore. L’odio, il buio, l’oppressione, l’avidità, la gelosia, l’invidia, la stanchezza, il tormento, l’io avevano preso il posto dell’amore, della pace, della gioia, del riposo, del dono di sé, di Dio. Le passioni avevano rovesciato la ragione, viceré di Dio, assumendo il controllo della mente. Si scoprirono per la prima volta nudi, la loro nudità fisica correlativo di una nudità non percepita attraverso i sensi. Anche il giardino cominciò a mutare a immagine dell’inferno interiore. Tutto era perduto.  

Fu allora che videro avanzare verso di loro nel giardino una figura divina e di figlio d’uomo a un tempo. Vedendoli nudi, la figura assunse forma di servo. Con pelli di animali li coprì. Ma, molto più che la nudità esteriore, rivestì quella interiore con la propria giustizia. L’Eden interiore perduto tornò a fiorire, ravvivato dal perdono e dall’amore di chi li aveva raggiunti nello spazio interiore in cui si erano smarriti, dalla grazia di chi aveva assorbito in sé la loro ingiustizia e la loro vergogna. Ne scaturì il perdono. Le mani tornarono a ricongiungersi. I nostri progenitori dovettero lasciare l’Eden, sì, ma portavano ora con sé un paradiso interiore di gran lunga migliore di quel giardino. I confini d’Eden che avevano contenuto la loro perfezione erano ora superati dall’esperienza, esperienza di perdita del paradiso, ora riscattata dalla grazia. Nell’amore ora desiderio e dovere si strinsero in un abbraccio. Nell’amore l’uomo e la donna conobbero la vera libertà, la libertà interiore, e si scoprirono liberi di amare. La distanza che li separava l’uno dall’altra era stata pienamente colmata. Adamo sarebbe stato la casa di Eva, Eva di Adamo, in Dio. Davanti a loro si spalancava il mondo intero e con esso la possibilità di fare dell’inferno un paradiso. Fu così che, mano nella mano, l’uomo e la donna si incamminarono verso l’orizzonte. 

 

Questa, cara Elizabeth, in questa epoca buia di Restaurazione, è la mia storia e, se lo vorrete, la vostra.                                 

 

Vostro,

John Milton

Filippo Falcone

Benjamìn Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Adelphi, 2023

Cosa significhi essere umani pensiamo di saperlo finché non ci pensiamo. Come afferrare ciò che ci rende unici?

Lo siamo, poi, davvero, unici, qui sul pianeta?

Cetacei come delfini e balene sembrano avere linguaggi molto più complessi di quanto sospettiamo, il polpo mostra di avere un’intelligenza talmente creativa da sfuggire intenzionalmente ai tentativi di decifrarla tramite i più vari esperimenti, il corvo, è dimostrato, possiede coscienza di sé; il mondo delle monere, poi, sta rivelando esseri in grado di livelli di cooperazione tra individui che oltrepassa le stesse capacità umane. L’umano come summa dell’evoluzione è roba da manuali delle scuole medie, ormai nostalgico rimasuglio di un ottimismo da tempo dissolto.

Questo è stato, ad un certo punto: abbiamo immaginato di aver capito tutto, che fosse solo questione di tempo; avevamo acceso la luce sulla realtà, non restava che lasciare che rischiarasse tutto e rivelasse l’essenza ultima di ogni cosa. Scienza e ragione possedevano le chiavi di accesso a tutto il vero.

La scrittura di Benjamìn Labatut (cileno, nato a Rotterdam, 43 anni) è attratta da questa hybris, dalla frenesia che le coglie, scienza e ragione, nell’impresa della conoscenza; quando il procedere non ha nulla del posato e metodico lavoro dello scienziato ma intuizione e visione travolgono la mente fino al limitare della follìa; quando, soprattutto, il reale rivela di essere più inafferrabile e selvaggio del previsto.

C’è qualcosa di diabolico nel filo che lega la scoperta del blu di Prussia, il primo pigmento sintetico della storia e lo Zyklon B, il micidiale gas con cui il sistema nazista annientò milioni di ebrei, zingari, handicappati. Era il rosso carminio che Diesbach e Dippel cercavano di ottenere, nel 1709, maciullando insetti in laboratorio quando, per una casuale reazione al sale di potassio, si trovarono davanti un blu vivido come il cielo. Il pigmento sembra portarsi dietro la maledizione ereditata dalla torbida personalità del teologo, alchimista e ciarlatano Dippel. Perché è soltanto per errore che, meno di ottant’anni dopo, nel laboratorio del chimico Scheele, un cucchiaio sporco di acido solforico è entrato in contatto con il composto blu creando l’acido cianidrico o, appunto, acido prussico, il più potente veleno della modernità. Ed è miscelando gli stessi elementi che Fritz Haber (1907) ha sintetizzato l’azoto, rivoluzionando l’agricoltura moderna (cosa che favorì l’esplosione demografica del XX secolo) ma anche un micidiale disinfestante per animali (Zyklon sta per ciclone, per allusione ai suoi effetti devastanti) con il quale, lui ebreo, furono sterminati nel lager i suoi stessi familiari. Ogni gerarca nazista aveva la sua scatolina di pillole di cianuro per l’emergenza. A centinaia si suicidarono in questo modo al precipitare degli eventi.

È come un rapimento mistico che travolge il giovane Heisenberg (1925) fino al limite della consunzione fisica mentre, allucinato, stila appunti incomprensibili che senza alcun appello annunciano il limite ultimo della conoscenza possibile della materia. Per il semplice fatto che l’osservatore e l’oggetto osservato sono fatti della stessa materia, nelle sue particelle elementari, irrimediabilmente l’atto stesso dell’osservare perturba ciò che osserva. Il principio di indeterminazione di Heisenberg sancisce per sempre il limite alla razionalità della fisica dei quanti.

Ed ha qualcosa del veggente, del profetico, il modo in cui Karl Schwarzschild, tra i bombardamenti e le urla dei mutilati, redige formule su foglietti sparsi, nel gelido inverno del 1915, dalle quali ricava l’inquietante evidenza matematica dell’esistenza, negli abissi interstellari, di mostruose entità che fagocitano ogni particella di materia venga loro a tiro, inclusa la luce, annullando il tempo stesso, i buchi neri.

E quale angosciante rivelazione, poi, si è aperta nelle formulazioni indecifrabili di Grothendieck prima e Mochizucki poi, che a sessant’anni di distanza l’uno dall’altro, dopo aver fatto tremare le fondamenta stesse della geometria hanno, entrambi, inspiegabilmente, ritirato le proprie teorizzazioni rifiutando ogni ulteriore chiarimento?

Difficilissimo da classificare, lo stile di Labatut, tra biografia scientifica e finzione letteraria, in Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2023), mette insieme realtà e fiction senza soluzione di continuità mentre racconta alcune significative avventure scientifiche della modernità. Ciò che risulta non ha nulla del metodico e posato lavoro dell’uomo di scienza quanto piuttosto del vorticoso rapimento del mistico, trasportato suo malgrado al limite pericoloso tra veggenza e follia.

La conoscenza sta sfuggendo al nostro controllo e presto non saremo più “capaci di capire cosa significa essere umani. Non che in passato lo avessimo capito… ma adesso le cose stanno peggiorando… ma non si tratta della gente comune. Nemmeno gli scienziati capiscono più il mondo”. Dio avrà anche creato il mondo con il linguaggio della matematica ma vacilla ogni giorno di più quell’ingenua convinzione che padroneggiare questo linguaggio significasse entrare nella mente di Dio. Per il semplice fatto che lo stesso linguaggio della natura risulta ben più sfuggente di quanto abbiamo sospettato.

Il contenuto dei racconti che compongono l’opera di Labatut non corrisponde del tutto ai fatti storici ma è talmente avvincente che, come è della grande letteratura, il lettore non vuole liberarsi dell’illusione che sia tutta la verità, nient’altro che la verità.

Qual è l’interesse teologico di una lettura come questa?

Non abbiamo certo più bisogno, noi cristiani, del dio tappabuchi per coprire le falle della nostra ignoranza del mondo. Né abbiamo bisogno di tifosi dell’antiscientismo per rimpolpare le schiere di coloro che credono che la realtà trascenda il dato della pura materia, quale che sia la sua complessità. Ma l’arrogante credenza che, come umani, abbiamo in mano le chiavi della conoscenza e che tutto è a disposizione della nostra indagine, che da questo abbiamo dimostrazione sufficiente per estromettere Dio dal mondo, neanche questa, riconosciamolo, è di grande utilità.

Con Dio o contro Dio, per quanto speditamente procediamo, attraverso il metodo scientifico sperimentale, nell’accrescere la nostra conoscenza, resta come una cortina, un velo, al di là del quale riusciamo a dare uno sguardo solo occasionalmente e come non per nostra volontà.

E ciò che di là si rivela ci riempie di meraviglia ma anche umilia la nostra mente di umani.

Daniele Mangiola

Dio, l’Io e la Bibbia di Moby Dick

Il mondo di Moby Dick

“Il nemico nel suo sembiante è meno orribile di quando infuria nel petto dell’uomo”. Così in un passaggio di Young Goodman Brown, racconto breve di Nathaniel Hawthorne. In un certo senso, Moby Dick; or, the Whale (1851) è tutto qui. Il romanzo di Herman Melville (1819-1891) è il grande romanzo epico americano. Così Hawthorne: “Che libro ha scritto Melville! Mi dà un’idea di forza di gran lunga maggiore di quella espressa dai precedenti suoi”. Sesto romanzo di Melville, Moby Dick non è estraneo all’influenza dell’autore della Lettera Scarlatta cui dedica il romanzo, Melville sottolinea come la contemplazione della sua opera “continui ad affondare robuste radici del New England sempre più in profondità nel caldo terreno della mia anima del Sud”.  

Melville è indubbiamente lambito dal trascendentalismo emersoniano, da cui Hawthorne idealmente discende, ma prende le distanze dalla “self-reliance” (“fare affidamento su sé stessi”) e dall’ottimismo circa la natura umana e il mondo che lo connotano. È certamente possibile leggere l’opera di Hawthorne puramente in termini di critica al moralismo, all’identitarismo e all’ipocrisia della società puritana, una critica affine a quella che in Stevenson e Wilde investe la società vittoriana, Melville ravvisa nondimeno nel buio che la percorre qualcosa che informa la natura dell’uomo, Nell’alzare il velo di rispettabilità che cela i mali del mondo puritano, come di quello vittoriano, i tre autori mettono sì in luce il degrado e l’alienazione morale e spirituale di un intero ambiente, ma paiono nel contempo identificare all’interno dell’uomo la fonte del male.

Il giovane brav’uomo, il signor Brown, incarna tutto ciò. Di giorno è esemplificazione dell’ideale di integrità, innocenza e purezza puritano. Di notte percorre la foresta per prendere parte al Sabbat. Là si scopre in buona compagnia. Vi si trovano tutte le cariche puritane più importanti e insospettabili. Quel Sabbat è ciò che infuria dentro l’uomo, là dove con il favore delle tenebre rimane celato e taciuto. Due sono allora i signor Brown, così come non c’è Jekyll senza Hyde, né Dorian senza il suo ritratto e non c’è Ismaele senza Achab.   

Come Hawthorne e i trascendentalisti, John Milton, William Wordsworth e S. T. Coleridge esercitano a loro volta una profonda influenza su Melville. Un giovane Herman, insegnante di letteratura inglese presso la Sikes District School, li integra nel curriculum di studi. Un ruolo non meno importante è quello giocato dalla cultura classica. Ancora bambino, Melville ne intraprende lo studio a scuola e continua a coltivarla nel tempo. Il solco che essa lascia è profondo e pervasivo. Infine, il mare. Melville è, tra le altre cose, uomo di mare. Naviga. Partecipa a una spedizione a bordo di una baleniera (la Acushnet). Visita luoghi esotici e remoti, tra i quali la Polinesia.  

Pur nella loro eterogeneità, tutte queste fonti letterarie o esperienziali trovano un denominatore comune nella Bibbia (la Bibbia di re Giacomo, la King James o Versione Autorizzata, 1611). In Melville la Bibbia è grammatica e sintassi del pensiero. I riferimenti e le allusioni alla Bibbia nelle sue opere sono innumerevoli, ma è il tessuto implicito delle Scritture a costituire la sostanza stessa della prosa e del pensiero. Come una balena non sa di essere immersa nell’acqua, né può vivere senza di essa, così in Melville le Scritture sono l’elemento essenziale che informa pensiero, immagini, simbolismo, lessico e fraseologia, elemento in ordine al quale ogni altra fonte trova la propria collocazione e senza il quale Moby Dick non esisterebbe. Non c’è peraltro in Melville conflitto tra elemento classico e biblico. Al contrario, i due si completano e alimentano a vicenda andando a formare una sorta di sfondo unico sul quale proiettare i significati. Quello di Melville è ricorso a un metodo mitico ante litteram che ha nel Paradiso Perduto il proprio modello. La vita per mare, a sua volta, trova tali e tante rappresentazioni nelle Scritture – su tutte, quella del libro di Giona. In ultima analisi, è la Bibbia stessa a fornirci le chiavi ermeneutiche del testo.

Ma quale Bibbia legge Melville? Herman nasce nel 1819 da padre unitariano (movimento cristiano del tutto sovrapponibile al trascendentalismo – vd. S. T. Coleridge) e madre calvinista (la famiglia di lei appartiene alla Dutch Reformed Church). Con la morte del padre (1832), l’influenza del calvinismo materno si fa preponderante nella sua vita. È attraverso lenti calviniste che la lettura delle Scritture è filtrata e con essa un’intera visione del mondo e dell’uomo. Nondimeno, negli scritti di Melville si avverte da subito la tensione tra questa matrice e l’afflato trascendentalista, tensione che trova una sintesi compiuta in Moby Dick.

Traspare dall’opera di Melville un tentativo costante di decostruzione delle identità religiose, di riscoperta dell’essenza del messaggio evangelico al di là di quelle identità e delle loro proiezioni nefaste in termini di narrazioni e ideologie dominanti. In successione, Typee, Omoo e Mardi, sullo sfondo della cornice edenica della Polinesia e dei mari del Sud, accendono i riflettori sulla condotta della cosiddetta avanguardia della civilizzazione nella regione e in particolare sulla “glorious cause” della missione cristiana o, per dirla con Kipling, il fardello dell’uomo bianco. L’occupazione delle Sandwich Islands da parte di un gruppo di Metodisti presuntuosi e pieni di velleità induce Tommo a esclamare “Heaven help ‘the Isles of the Sea!’” (ndt “il Cielo aiuti le isole del Mare!” – Typee, Evanston, IL, 1968, 26:195 – le traduzioni dei testi sono di chi scrive). Facendo eco a Is 24:15, la supplica iscrive il contesto direttamente nel testo biblico. Nei due romanzi successivi, la preoccupazione di Melville verso gli sforzi missionari non sembra sfumare. In Omoo l’autore riflette sulla collusione tra religione e commercio, ma pare di scorgere in lui una lacerazione tra il riconoscimento del valore di far conoscere ai popoli insulari il messaggio cristiano e il rigetto totale verso lo smantellamento di strutture sociali e costrutti culturali nativi operato dagli stessi araldi di quel messaggio. “Undoubtedly”, scrive, “the missionaries were prompted by a sincere desire for good; but the effect has been lamentable (“Senza dubbio […] i missionari erano mossi da un desiderio sincero di bene; ma gli effetti si sono dimostrati nefasti” – Omoo, Evanston, IL, 1968, 47:183). E ancora, in Mardi, “the march of conquest through wild provinces may be the march of Mind; but not the march of Love” (“la marcia di conquista attraverso le province selvagge è forse la marcia della Mente, ma non è la marcia dell’Amore” – Mardi, Evanston, IL, 1970, 168:552). 

Quella di Melville non è rinuncia al messaggio evangelico in nome di una visione universalista, equanime e relativista mutuabile da date forme di trascendentalismo. Al contrario, è ricerca di quel messaggio così come si declina nell’amore nel mondo. In questo, la visione trascendentalista contribuisce a mettere a fuoco lo spirito del dettato biblico. Non distante dalle istanze di Melville è lo stesso Hawthorne, il quale nel 1850, un anno dopo la pubblicazione di Mardi, ritrae un mondo, quello de La Lettera scarlatta, in cui chi detiene la Parola ne fa strumento identitario e di potere, là dove la peccatrice Hester Prynne e, da ultimo, la figlia Pearl, sono vera rappresentazione della grazia di Dio nella misura in cui la lettera della legge (la “A” di adultera impressa su Hester) viene in loro trasformata in lettera di perdono e amore (“Amor”).

Intercorre un anno tra la pubblicazione de La Lettera Scarlatta e Moby Dick. La trama del secondo è piuttosto esile. C’è un narratore interno che fa da cornice al racconto e che si imbarca sul Pequod, baleniera il cui capitano è il famigerato e diabolico Achab. Achab ha una gamba sola. L’altra gli è stata tranciata da Moby Dick, un capodoglio bianco. Nella sua ossessione e follia vendicativa, Achab abbandona qualsiasi obiettivo razionale ancorché utilitarista – catturare il più alto numero di balene da cui estrarre olio – e trascina tutto l’equipaggio nella missione suicida di dare la caccia a quell’unica balena e ucciderla. Nell’assalto finale, Achab muore, insieme a tutto l’equipaggio. L’unico superstite è il narratore, che rimane in vita per raccontare la storia.   

 

Ismaele

Il grande tema dei primi tre romanzi di Melville viene recuperato qui da subito e si intreccia con il racconto di formazione e il tema del doppio. Ismaele è il giovane alla ricerca. Come i personaggi di Typee, Omoo e Mardi, anche Ismaele deve affrontare un mondo altro da ciò che vuole apparire. La maschera di innocenza e virtù che indossa è piuttosto caratterizzata da Ismaele come “ipocrisie civilizzate e insulsi inganni”. Ismaele, tuttavia, non si considera altro da tutto questo, ma riconosce in sé lo stesso principio, lo stesso buio. “With the rest me intertwined”, direbbe Whitman. Il suo senso di inadeguatezza, il suo vuoto interiore e la sua alienazione si traducono nella brama del mare come elemento purificatore e nel quale trovare significato. Il viaggio per mare è proprio questo, metafora della vita interiore e della sua elaborazione. Prima di imbarcarsi, Ismaele narra il suo ingresso nella Spouter-Inn a New Bedford. C’è un mendicante tremolante sul selciato, un povero “Lazzaro” (vd. il racconto del ricco e Lazzaro in Lu 16:19-31), così lo chiama, che non può proteggersi in alcun modo dal potente “Euroaquilone” (vd. la vicenda di Paolo di Tarso, la cui nave è sospinta alla deriva da questo vento impetuoso in At 27:14), forte vento freddo di tramontana. Il locandiere non nota altro che una splendida nottata. La miseria del mendicante è il diletto del locandiere. Questa dialettica risalta sullo sfondo biblico a suggerire come quella cui si trova davanti Ismaele è la condizione umana, ma a indicare nel contempo la distanza tra cielo e terra e come “in terra non sia fatto come in cielo”. Ismaele vive in questa tensione, nella lacerazione di chi vuole veder realizzata sulla terra la realtà celeste. È il mondo cristiano per primo a contraddirla e a nascondere la contraddizione sotto un velo di civilizzata ipocrisia. 

Melville fornisce, nondimeno, a ogni personaggio un doppio, o più di uno, che lo aiuti a elaborare la propria condizione e giungere a un superamento. Il doppio di Ismaele, il primo, è Queequeg, un pagano! La contrapposizione tra Ismaele e Queequeg non è soltanto contrapposizione tra civiltà e barbarie, ma tra cristianesimo e paganesimo. A New Bedford i due sono esposti alla religiosità l’uno dell’altro. In un primo momento entrambi assistono al culto nella Cappella del Baleniere, culto presieduto dal rev. Mapple, lui stesso un tempo baleniere. Il suo sermone verte su Giona. Il pulpito elevato e a forma di prua dà un senso di ostentazione e di giudizio che fa da contorno a un sermone in cui viene messo in risalto il rigore della legge di Dio, la sua intransigenza, la necessità di non peccare e di pentirsi. È un messaggio che non fa i conti con la complessità e la fragilità della condizione umana, un messaggio cui sotteso è il giudizio e, in definitiva, un messaggio in cui non trova posto il nucleo centrale del libro di Giona e ciò che Giona, e il rev. Mapple con lui, non è in grado di accettare – l’amore di Dio. 

Figlio del re pagano Kokovoko, Queequeg era attratto in giovane età dal cristianesimo. Vi vedeva la possibilità di emancipare il suo popolo dalle superstizioni pagane, trarlo fuori dal buio dell’ignoranza e condurlo a una maggiore luce e felicità. La sua esperienza a bordo di una baleniera l’aveva presto convinto che “even Christians could be both miserable and wicked; infinitely more so, than all his father’s heathens” (“i cristiani fossero a loro volta miseri e malvagi; e infinitamente di più dei pagani di suo padre”). Giunto infine a Nantucket, era ormai persuaso che il mondo fosse malvagio a ogni sua latitudine e che tanto valesse morire da pagano. Mentre prepara il suo idolo, Yojo, per le preghiere serali, Queequeg ricambia il favore ed estende a Ismaele l’invito ad assistere alla sua cerimonia. Ismaele esita, ma tra sé e sé pensa: “What is worship? – to do the will of God – that is worship. And what is the will of God? – to do to my fellow man what I would have my fellow man do to me – that is the will of God. Now, Queequeg is my fellow man” (“Che cos’è in fondo l’adorazione? – Fare la volontà di Dio – ecco cos’è l’adorazione. E qual è la volontà di Dio? – Fare al mio prossimo ciò che vorrei lui facesse a me [vd. Mt 7:12; Lu 6:31] – ecco qual è a volontà di Dio. Ora, è Queequeg il mio prossimo”). Una volta di più, il senso profondo del testo è calato nello stampo della Scrittura. Assistendo alla cerimonia pagana, Ismaele non partecipa all’adorazione dell’idolo di Queequeg, ma per la prima volta adora Dio. Lo adora nella misura in cui supera i confini identitari dell’io per stare con lui – ecco cos’è l’amore. 

Solo ora e insieme a questo compagno Ismaele può affrontare il mondo, rappresentato dal Pequod. Gli armatori del Pequod sono i capitani Peleg e Bildad, due Quaccheri. Lungi dal coltivare luce interiore e pacifismo, i due sono paradossalmente caratterizzati come uomini bellicosi e materialisti. Il capitano Bildad ostenta pietà trascorrendo gran parte del suo tempo piegato sulla sua Bibbia, ma poi non disdegna di piegare la propria regola di assumere soltanto nativi convertiti ai propri interessi quando si accorge dell’abilità di Queequeg con l’arpione. Per gran parte del corpo centrale del romanzo la figura di Ismaele quasi scompare. Fa capolino di tanto in tanto, per poi riprendere tutta la scena alla fine. Quando riaffiora nei capitoli centrali, vediamo come il mondo non sia cambiato. Rimane quel luogo oscuro dal quale era profondamente alienato. Sta cambiando lui. Sta imparando a vivere nel mondo, non in ordine alla possibilità di farlo proprio o di essere ad esso assimilato, ma in ordine alla capacità di amarlo. L’amore diventa così lo spazio dell’universalità, dell’equanimità e della verità.

Se la figura di Ismaele quasi scompare per la gran parte del corpo centrale del romanzo, è perché deve cedere il passo ad Achab. Achab incarna il buio e il vuoto di Ismaele. Il pieno superamento della propria condizione può avvenire unicamente in ordine a una liberazione dalle tenebre dell’io. Achab deve morire. Nell’ultimo assalto a Moby Dick, Ismaele attraversa una sorta di morte, simile a quella di Giona trascinato negli abissi dentro un grande pesce. Con Ismaele muore Achab. Come Giona, Ismaele riaffiora, senza Achab, lui solo, in una specie di rinascita, su di un asse di legno. È un resto cruciforme della bara di Queequeg. La morte di Queequeg è la sua vita. Per tre giorni e tre notti, dice il racconto di Giona, il profeta rimane nel pesce. Il riferimento temporale prefigura, nelle parole evangeliche, la morte di Cristo. Tutto nella scena ha la funzione di comporre l’identificazione tra la morte e la resurrezione di Cristo e Ismaele. In forza di tale assimilazione, il narratore viene redento dall’io e da tutte le sue proiezioni (Achab) per nascere di nuovo come persona libera di narrare. Come l’antico marinaio di Coleridge, anche Ismaele è chiamato a dare conto di quanto accaduto, non già come esercizio di espiazione perpetua, ma di amore. L’amore segna il passaggio alla maturità, una maturità capace di abbracciare la meraviglia del mondo così come tutte le sue ingloriose imperfezioni, una maturità fatta a un tempo di intelletto ed emozione, conoscenza e grazia. Ora il narratore Ismaele, libero da Achab, la via dell’io, può istruire altri nella via di Dio.

 

Achab

Achab è il personaggio centrale di Moby Dick. Ne abbiamo considerato alcuni aspetti in funzione di Ismaele, ma più di qualunque altra figura il suo personaggio ha una costruzione indipendente in relazione al simbolo dominante nel romanzo, Moby Dick. Achab è personaggio prometeico, incarnazione di hybris e ossessione monomaniacale, egocentrismo e vendetta. Tutto questo però altro non è che ciò con cui Achab riempie il baratro interiore che tutte le acque dell’oceano non sono in grado di colmare. La sua figura assurge al piano del mito sullo sfondo metafisico e mitologico del mondo della cetologia e dello sfruttamento dei capidogli, che tanta parte del corpo centrale del libro occupa. Ciò che inizialmente appare una vendetta personale del capitano contro la creatura che l’ha menomato assume presto i contorni dell’odio puro e, da ultimo, di sfida cosmica. Il cielo e il suo sole diventano suo nemico. Come Satana nel Paradiso Perduto odia i raggi del sole, perché gli ricordano il bene che egli ha deciso di sfidare, così Achab, nell’atto di fare a pezzi il quadrante con cui dovrebbe orientare la navigazione, maledice gli occhi che si alzano “to that heaven, whose live vividness but scorches him, as these old eyes are even now scorched with thy light, O sun!” (“a quel cielo, la cui lucente vividezza non fa che bruciarlo, come questi vecchi occhi continuano a essere bruciati dalla tua luce, O sole!”). La sfida di Achab è lanciata contro tutto ciò che costituisce un limite al suo io e in definitiva contro il limite ultimo, incarnato nella balena bianca. “I now know that thy right worship is defiance” (“ora so che la tua vera adorazione è la ribellione”). Là dove Ismaele comprende che la vera adorazione di Dio risiede nell’amore, Achab la identifica nella ribellione all’Altro in quanto limite al proprio io. Ciò che Ismaele abbraccia è ciò che Achab sfida. Sarà il dio Apollo, il Pequod il suo carro che trascina il sole dove vuole. Sarà Poseidone, colui che controlla i mari. La bussola che con arti demoniache Achab fabbrica, a sostituire il quadrante, funziona alla perfezione. “Ahab can mend all” (“Achab può aggiustare qualunque cosa”), dice di sé il capitano, in preda a delirio di onnipotenza. “In his fiery eyes of scorn and triumph, you then saw Ahab in all his fatal pride” (“Nei suoi occhi ardenti di disprezzo e trionfo, si vedeva Achab in tuo il suo fatale orgoglio”). La sua assimilazione al Satana di Milton è qui completa. Satana è re d’inferno e Achab dio dei mari, ma come Satana è schiavo della sua mente, dell’inferno che porta dentro ovunque vada, così Achab non può liberarsi di Moby Dick, mostro marino megafono cosmico della sua hybris. La libertà vista come assenza di limiti è allora schiavitù del proprio io, sul cui altare Achab deve sacrificare sé stesso, il Pequod e tutto il suo equipaggio. 

Se Moby Dick può essere considerato una sorta di doppio di Achab, quale proiezione della sua volontà di potenza, un altro doppio ne compone la figura, là dove altri tre vengono in sequenza respinti. Il primo è Fedallah, una sorta di subconscio demoniaco del capitano. Achab introduce lui e la sua diabolica ciurma sul Pequod di soppiatto. Parte oscura dell’animo umano, come Hyde, Fedallah deve rimanere nascosto fino al primo inseguimento, quando il corso fatale del capitano è ormai sancito e può dunque venire alla luce. La presenza malvagia di Fedallah è particolarmente evidente quando Achab, sprezzante, sfida la sapienza di Dio. La sua realtà corporea è messa sempre più in dubbio dall’equipaggio. Come il secondo sé del capitano di Conrad nel Compagno segreto emerge dagli abissi dell’inconscio sul ponte in quello che viene descritto come il sembiante di un’entità spirituale, così Fedallah appare come una sorta di ombra oscura del capitano. Quando questi profetizza eventi straordinari che debbono accadere prima che Achab muoia e Achab inizia a percepirsi immortale, sentiamo la eco di Macbeth e scorgiamo in lui qualcosa dell’illusione che Satana accarezza nel Paradiso Perduto. “What […] hidden lord and master, and cruel, remorseless emperor commands me?” (“Quale oscuro signore e padrone, e imperatore crudele e spietato mi comanda?”). Il male e l’io si sono impossessati di lui. Come un dr. Jekyll ante litteram, al termine della storia Achab diventa Fedallah. Come Satana, Achab dà la colpa al fato. Come Macbeth, colui che ha un ruolo di comando viene soggiogato e comandato da un padrone interiore.

Nel Canto di Natale (1843), Dickens manda al signor Scrooge tre fantasmi perché gli mostrino dove conduce il suo corso fatto di avidità, egoismo e assenza di amore. Melville fa lo stesso con Achab. Gli manda tre marinai, altrettanti doppi, che rappresentano il bene o l’innocenza e che potrebbero modificare o per lo meno mitigare il suo destino. 

Per primo compare Bulkington, simbolo di onestà e franchezza, di coraggio, di quell’equanimità di fronte alle molte e varie onde dell’esperienza umana e del disegno cosmico che Achab non farà mai propria. Bulkington viene sepolto nel capitolo 6 per permettere all’ossessione di Achab di fare il suo corso, ma rimane nell’immaginazione del lettore e lì ricompare quale contraltare della follia monomaniacale del capitano. 

A lui succede Starbuck. Questi rivolge le proprie energie alla conversione del capitano, ma è dominato da una paura che procede dalla gnosi. In lui spirito e corpo, cielo e terra, non possono incontrarsi. Egli antepone l’innocenza personale al bene altrui. Dinanzi alla possibilità di salvare l’equipaggio, togliendo la vita ad Achab, Starbuck preferisce preservare la propria anima da colpe. Il movimento che lo contraddistingue è diametralmente opposto a quello di Ismaele, che per amore di Queequeg accantona il proprio interesse. Starbuck è personificazione di una virtù autoreferenziale e inefficace. 

Come Giona e Ismaele, Pip, l’ultimo dei tre marinai deputati a distogliere Achab dai suoi sordidi propositi, sperimenta una sorta di morte e rinascita, trascinato com’è negli abissi dove viene “drowned the infinite of his soul” (“annegato l’infinito della sua anima”), ma “kept his finite body” (“preservato il suo corpo finito”). Pip vede negli abissi l’onnipresenza di Dio, il suo piede sul pedale del telaio, e ne parla. Il resto dell’equipaggio lo ritiene folle. Il suo battesimo annega la sua identità umana e gli restituisce un’identità altra. Svestito dell’umana ragione, Pip è rivestito della sapienza celeste. Paolo di Tarso parla della follia della croce, che fa da contraltare a chi cerca da un lato forza, dall’altro sapienza umana. “So man’s insanity is heaven’s sense; and wandering from all mortal reason, man comes at last to that celestial thought, which, to reason, is absurd” (“Così la pazzia dell’uomo è la sapienza del cielo; e allontanandosi da ogni umana ragione, l’uomo giunge alla fine a quel celeste pensiero, che, per la ragione, è insensato”). Pip sfida Achab ad abbandonare la propria follia umana per abbracciare la pazzia di Dio. Più di chiunque altro, Pip scuote le fondamenta interiori di Achab. Il capitano lo avverte parte di sé, intessuto intimamente alle corde del suo cuore. Nel suo amare l’austero e malvagio capitano incondizionatamente, Pip incarna la sapienza e la grazia di Cristo. Come il sole, Achab finisce per respingere anche lui.

Moby Dick

Moby Dick è il limite, è Dio, e Moby Dick è proiezione dell’io di Achab. Come il Dio di Blake, agnello e tigre, Moby Dick è sfuggente forza indomita e indomabile, energia e libertà, terrore e furia, candore e innocenza. Ha un suo giaciglio nel buio degli abissi, ma affiora in tutto il suo nitore. Moby Dick è entità cosmica e simbolo, essere mitico e trascendente, corporeo e metafisico. Alla fine del cap. 41 viene identificato come “Job’s whale” (“balena di Giobbe”), il leviatano di Giobbe, spaventosa creatura marina che sfugge al controllo umano. Dio ne parla nel contesto dell’elencazione delle opere imponderabili della sua creazione al fine di mostrare a Giobbe, che lo interroga e mette in dubbio il suo disegno, l’infinita e inaccessibile sapienza di Dio, a un tempo fuoco consumante e inesauribile grazia. Anche il leviatano ubbidisce alla sua voce. Giobbe dichiara la resa e s’immerge insieme alla creatura ancestrale in Dio. Non così Achab, per il quale le acque rimangono quell’elemento interiore in cui Moby Dick può essere solamente l’oppressore. 

Moby Dick è anche la balena di Giona. Il sermone del rev. Mapple prefigura la vicenda di Achab e del Pequod. Giona non vuole ubbidire a Dio, che gli ordina di andare a Ninive, grande città assira, e rivolgerle il suo messaggio. Si imbarca per contro alla volta di Tarsis, agli antipodi di Ninive. Il suo intento è quello di allontanarsi dalla presenza di Dio. Ma Dio manda una grande tempesta. Giona sa di esserne il responsabile e si fa gettare fuori bordo dai marinai. Al che, Dio manda un grande pesce, che inghiottisce Giona. La creatura marina incarna a un tempo giudizio e salvezza. Trascina Giona nelle profondità del mare, ma poi lo restituisce alla vita. Dio vuole insegnare a Giona la sua infinita misericordia, là dove Giona conosce di lui soltanto il giudizio. Giona è governato da una giustizia vendicativa verso l’oppressore assiro. La sua è la hybris di chi cerca di salvare la propria identità personale e nazionale e, avendola vista violata, invoca una giustizia retributiva. 

Il disegno di Dio è teso a redimere Ninive. Achab la vuole annientare. Moby Dick è la sua Ninive. La sua è una giustizia umana che si contrappone alla giustizia di Dio. La giustizia umana salva l’io a spese dell’altro. La giustizia di Dio salva l’altro a spese di Dio. La reazione di Giona alla conversione e al perdono di Ninive è esemplare. Risentimento, atteggiamento di sfida aperta, ribellione, superbia. Giona è fino in fondo Achab. Dio nella sua grazia continua a cercare di ricondurre Giona alla sua presenza. Gli manda un ricino come riparo dal sole e ulteriore tentativo di insegnargli la sua compassione, così come Melville manda ad Achab tre diverse figure perché si produca in lui μετάνοια (metànoia, conversione). È un amore quello di Dio il quale investe l’alterità di uomini, donne e bambini che non fanno parte di Israele, ma è un amore che investe altresì ogni altra creatura. Il libro di Giona si chiude con le parole: “Tu hai pietà del ricino […] e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame”. L’antico marinaio dell’eponima ballata di Coleridge afferma la sua hybris e alienazione dall’altro uccidendo un albatros. L’identificazione con la sua colpa, che in definitiva è identificazione con la morte di Cristo (la ciurma appende l’albatros cruciforme al collo del marinaio) lo porterà a benedire un groviglio di serpenti acquatici. Al termine della vicenda, l’antico marinaio ha imparato ad amare ciò che non è amabile, ogni creatura di Dio, dalla più piccola alla più grande. 

La visione trascendentalista e biblica si fondono qui e interrogano il lettore. Chi può amare Moby Dick? Chi può amare il mondo, il Creatore e ogni creatura? Il colore bianco di Moby Dick “is at once the most meaningful symbol of spiritual things, nay, the very veil of the Christian’s Deity; and yet is the intensifying agent in things most appalling to mankind” (“è a un tempo il simbolo più significativo delle cose spirituali, anzi, il velo stesso della Deità che il cristiano adora; eppure, esso è anche l’agente intensificante nelle cose per l’umanità più terribili”). Abbiamo visto come Moby Dick sia l’una o l’altra cosa per i nostri personaggi, giudizio o assoluzione, oppressione o redenzione.  Nelle parole di Ismaele: “The mystical cosmetic which produces every one of her hues, the great principle of light, for ever remains white [..] and […] would touch all objects” (“la cosmesi mistica che produce ognuno dei suoi colori, il grande principio della luce, rimane perennemente bianco […] e […] lambiva ogni oggetto”). Il colore bianco pervade ogni cosa, è il principio stesso della luce. Tale cosmesi, il Logos dell’universo, pertiene alla realtà fisica, ma è nel contempo realtà “mistica”. Moby Dick è prisma che rifrange le tonalità dell’animo umano. È il bianco, la luce, che consente alle sfumature di manifestarsi. È il principio in cui sussistono tutte le cose e contro cui si infrange l’idolatria dell’io. Come può esserne proiezione? Soltanto nella misura in cui Moby Dick assorbe in sé il male, l’orgoglio, l’egocentrismo e la ribellione dell’uomo; soltanto là dove se ne fa carico, diventando il luogo in cui buio e luce, giudizio e giustificazione si incontrano. 

Moby Dick parla dell’uomo, della società degli uomini, del creato e di Dio. Li contrappone, li interroga, li trascina in mezzo al mare, fino agli abissi, per poi farli riemergere. Moby Dick sonda le profondità marine dell’animo umano e gli spazi metafisici, la terra fisica e il cielo. Contesta ipocrisia e identitarismo, nazionalismo e colonialismo culturale. Contesta l’io e le sue maschere, l’io e la sua hybris, l’egocentrismo, il potere, lo sfruttamento e la sopraffazione. A tutto questo contrappone Cristo, la balena bianca, fine dell’io e inizio dell’amore.       

                                                                                                                                                                         Filippo Falcone