I cinquecento anni del movimento anabattista: una storia da ricordare, un’eredità da vivere e condividere

I cinquecento anni del movimento anabattista: una storia da ricordare, un’eredità da vivere e condividere

 

Date storiche come segnaposti

Gli storici hanno spesso usato date specifiche come punti di riferimento per suddividere la storia e comprendere meglio le varie epoche. Si pensi, ad esempio, ad alcune date storiche comunemente usate come segnaposti, dalla cosiddetta “scoperta” (che oggi molti preferiscono chiamare “invasione”) dell’America alla Prima guerra mondiale, dall’inizio della Rivoluzione francese alla caduta del Muro di Berlino. Si tratta di date considerate come momenti di transizione nella storia mondiale, da un prima con alcune caratteristiche a un dopo con altri segni distintivi.

Questi segnaposti sono stati usati anche per la storia del cristianesimo, ad esempio indicando il 31 ottobre 1517 come il giorno nel quale il frate agostiniano Martin Lutero avrebbe affisso un elenco di 95 tesi sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg, segnando con questo atto l’inizio della Riforma protestante.

Ogni importante evento storico, per essere riconosciuto come tale nei manuali di storia e rimanere impresso nell’immaginario collettivo, necessita di un gesto fondativo e, per la Riforma, fu scelta l’affissione delle 95 tesi (Thesenanschlag), anche se esistevano altri eventi e momenti che venivano considerati di pari se non di maggiore importanza. Oggi, la maggioranza degli studiosi di Lutero riconosce che l’affissione delle 95 tesi costituisce un esempio di “evento immaginario”, che rientra nella categoria dei “luoghi della memoria” (proposta dallo storico francese Pierre Nora), perché contiene un individuo, un’azione, un documento, un luogo e una data che, insieme, formano un elemento simbolico della memoria di una collettività.

Nonostante il fatto che sia passato ormai oltre mezzo secolo da quando è stata messa in dubbio la storicità dell’evento associato a quella data, l’immagine dell’affissione delle 95 tesi con Lutero col martello in mano viene riproposta ancora oggi come se si trattasse di un evento storico ed è stata riproposta durante le celebrazioni del V centenario dell’inizio della Riforma nel 2017.

Queste celebrazioni, sostenute in Germania e in altri paesi da ingenti investimenti finanziari, si sono svolte in un clima trionfalistico con un profluvio di festeggiamenti e cerimonie ufficiali. Lo spirito ecumenico che ha pervaso queste celebrazioni è stato suggellato l’emissione, da parte delle Poste Vaticane, di un francobollo commemorativo che ritrae Lutero e Filippo Melantone.

In continuità con le celebrazioni dei centenari precedenti, anche in quelle del 2017 si è registrata la quasi totale assenza di riferimenti alla cosiddetta Riforma radicale.

 

I 500 anni dell’anabattismo

Cinquecento anni fa, a Zurigo, il 21 gennaio 1525 ebbe luogo l’evento che segnò l’inizio dell’anabattismo, del principale movimento della Riforma radicale.

Nei mesi precedenti, i membri di un piccolo gruppo di preghiera e di lettura della Bibbia, di cui facevano parte Konrad Grebel, Felix Mantz e Jörg Blaurock, studiando il Nuovo Testamento erano giunti alla conclusione che il battesimo era il simbolo di una decisione cosciente di sottomettersi alla signoria di Cristo e seguire il suo esempio, un impegno che poteva essere preso soltanto da un adulto; pertanto, il battesimo non poteva riguardare i neonati.

Il 17 gennaio 1525, Grebel e Mantz furono convocati davanti al Consiglio di Zurigo per una disputa pubblica sul tema del battesimo (Blaurock assistette tra il pubblico). La tesi dei dissidenti fu condannata e ogni ulteriore critica al battesimo dei bambini fu bandita. Quattro giorni dopo, le minacce di punizione furono nuovamente rafforzate.

La sera del 21 gennaio 1525, il gruppo si riunì lo stesso per pregare nella casa di Mantz. In un rapporto di quell’incontro, si legge: “Dopo la preghiera, Jörg […] si alzò e chiese a Grebel di battezzarlo con il vero, giusto, battesimo cristiano sulla base della sua fede e conoscenza. […] Konrad lo battezzò, perché in quel momento non c’era un servitore ordinato per compiere tale lavoro. Quando ciò fu fatto, anche gli altri si rivolsero a Jörg con la richiesta che li battezzasse, il che fu fatto. E così, nel grande timore di Dio, si sono uniti nel nome del Signore, confermando l’uno all’altro il ministero del Vangelo e cominciando a insegnare e a mantenere la fede”.

Si trattava di un gesto che metteva in discussione la pratica millenaria di battezzare gli infanti e l’insegnamento dell’istituzione religiosa riconosciuta dallo stato, quindi un atto radicale e sovversivo.

Poco tempo dopo, Grebel, Mantz, Blaurock e altri battezzati fuggirono da Zurigo, ma il battesimo degli adulti si diffuse rapidamente nei villaggi dell’area di Zurigo e anche in altri luoghi.

 

La persecuzione

Nel giro di pochi anni, alcune migliaia di “ribatezzatori” (così vennero chiamati gli anabattisti, che tra loro si chiamavano semplicemente “fratelli”) furono imprigionati, torturati o costretti all’esilio. La maggioranza dei leader subì il martirio: Grebel morì di peste nel 1526 mentre fuggiva; Mantz fu arrestato a Zurigo, condannato a morte e annegato nel 1527; Blaurock si dedicò alla predicazione del Vangelo fino al Tirolo, dove fu arrestato e bruciato nel 1529.

Per capire perché gli anabattisti furono così brutalmente perseguitati e demonizzati dalle autorità politiche e religiose, sia protestanti sia cattoliche, bisogna ricordare che il cristianesimo era stato per secoli una istituzione religiosa violenta e coercitiva, al servizio del potere politico. La richiesta da parte degli anabattisti di libertà in materia di fede, unita ad una vita coerente con il Discorso della Montagna, era visto come una ribellione contro i fondamenti della società “cristiana”.

L’Editto della Dieta imperiale di Spira (23 aprile 1529) decretò che “ogni anabattista e ogni persona ribattezzata di ambo i sessi sia messa a morte con il fuoco, la spada o in qualche altro modo”.

La Confessio Augustana del 1530 sancì la definitiva condanna luterana degli anabattisti: Damnant Anabaptistas viene ripetuta in cinque (5, 9, 12. 16, 17) dei suoi ventotto articoli.

La condanna dell’anabattismo da parte della Riforma magisteriale, motivata anche dalle posizioni di anabattisti apocalittici come Melchior Hoffmann e dal tentativo di instaurare a Münster, in Vestfalia, il “regno dei santi” nel 1534, fu confermata dalla Confessio belgica (1561) delle chiese riformate: “Dio […] ha posto la spada nelle mani del magistrato […] per togliere e reprimere ogni idolatria e ogni falso servizio di Dio […]. Detestiamo quindi tutti gli anabattisti e gli altri ribelli e, in generale, tutti coloro che vogliono rifiutare le autorità e i magistrati e sovvertire la giustizia” (art. 36).

 

Un inizio da ricordare e commemorare, un’eredità da vivere e condividere

L’atto compiuto il 21 gennaio 1525 viene usato per designare l’inizio di quello che sarebbe diventato il movimento dei “ribatezzatori” o anabattisti, un movimento che oggi è formato da oltre due milioni di fedeli in più di ottanta paesi del mondo. Le chiese le cui radici risalgono ai motivi che ispirarono questo movimento e quelle che oggi li condividono fanno parte della Mennonite World Conference (MWC), creata nel 1925. Oggi, la chiesa mennonita più numerosa è la Meserete Kristos Church (che significa “Cristo è il fondamento della chiesa”) dell’Etiopia, con 1.160 chiese e 370,909 membri battezzati.

Come commemorare, cioè fare memoria insieme della storia dell’anabattismo? Innanzi tutto, come hanno indicato chiaramente le chiese della MWC, ricordando che diventare ed essere cristiani è una scelta di libertà, che essere seguaci di Gesù significa superare la violenza e la disuguaglianza sociale, evitando celebrazioni fastose.

Anche in Italia, le chiese che si riconoscono nell’eredità spirituale dell’anabattismo, o in alcuni aspetti, pur senza far parte della MWC hanno deciso di partecipare alla commemorazione dei 500 anni del movimento con varie iniziative che si svolgeranno in diverse città.

Massimo Rubboli

Jimmy Carter, 1924-2024

di Massimo Rubboli

Su Jimmy Carter si veda anche: L’evangelicalismo di Jimmy Carter, di Daniel K. Williams

A 100 anni, dopo una lunga malattia, il 29 dicembre 2024 si è spento Jimmy Carter, 39° presidente degli Stati Uniti, che aveva scelto di non prolungare le cure mediche in ospedale e di ricevere soltanto cure palliative nella propria casa di Plains, in Georgia, dove aveva vissuto con la moglie Rosalynn dal giorno del loro matrimonio il 7 luglio 1946.

Nelle elezioni presidenziali del 1976, che si svolsero in un paese ancora segnato dalle dimissioni di Nixon in seguito allo scandalo Watergate, Carter sconfisse il candidato repubblicano Gerald Ford ma fu presidente per un unico mandato, perché nelle elezioni del 1980 fu sconfitto da Ronald Reagan, sull’onda della crisi legata all’invasione sovietica dell’Afghanistan nel dicembre 1979 e al sequestro, un mese prima, dei dipendenti dell’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran (dopo quasi sei mesi dall’occupazione dell’ambasciata, Carter aveva autorizzato un’operazione delle forze speciali per liberare gli ostaggi che fallì clamorosamente). La vittoria di Reagan, favorita anche dal sostegno della Nuova Destra Religiosa, dipese dal desiderio di una parte dell’elettorato di ridare forza al primato politico, economico e militare degli Stati Uniti, che Carter non aveva sostenuto con la risolutezza mostrata dal candidato repubblicano, e la sua ricerca di soluzioni pacifiche, come nel caso dei Trattati del Canale di Panama del 1977, era stata considerata responsabile di un indebolimento dell’immagine degli Stati Uniti nel mondo.

Dopo la fine della sua presidenza, fondò insieme alla moglie il Carter Center, con sede ad Atlanta, che si è occupato della difesa dei diritti umani, dell’osservazione elettorale neutrale in paesi di “democrazia recente” e dell’aiuto umanitario e medico-sanitario nelle zone colpite da calamità naturali.

Nel 2002, fu insignito del Premio Nobel per la pace con questa motivazione: “per i decenni di sforzi instancabili per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti internazionali, per far progredire la democrazia e i diritti umani e per promuovere lo sviluppo economico e sociale”. Si trattò di un riconoscimento della sua politica estera e, in particolare, della mediazione che aveva portato alla firma, a Washington, il 26 marzo 1979, del Trattato di pace israelo-egiziano, che pose fine al lungo conflitto tra i due paesi.

 

Un “born-again Christian”?

Carter non nascose mai che il suo impegno politico fosse motivato dalla volontà di mettersi al servizio della società civile e che questo spirito di servizio fosse fondato sulla sua fede evangelica[1], che lo portava a volere servire gli altri stando tra di loro e non al di sopra di loro. Carter volle dare un segno di questa sua volontà di servizio fin dal 20 gennaio 1977, giorno del suo insediamento, quando – insieme alla moglie Rosalynn – percorse a piedi Pennsylvania Avenue fino alla Casa Bianca.

Il 23 marzo 1976, durante le primarie del Partito democratico in North Carolina, rispondendo alla domanda di un giornalista, Carter affermò di essere un “born again Christian”, cioè un cristiano nato di nuovo. Il giorno dopo, nei programmi televisivi e sulla stampa degli Stati Uniti alcuni giornalisti sostennero che il candidato della Georgia apparteneva alla setta religiosa dei “nati di nuovo”, notizia che fu ripresa anche dalla stampa italiana! In realtà, Carter aveva soltanto fatto riferimento al cap. 3 del Vangelo di Giovanni, nel quale Gesù, a Nicodemo che gli domandava cosa dovesse fare per entrare nel regno dei cieli, rispondeva che sarebbe dovuto “nascere di nuovo”. Si tratta di una metafora ben nota agli evangelici, per i quali significa che la salvezza richiede la conversione; quindi, non suscitò nessuna sorpresa a chi aveva dimestichezza con immagini bibliche, ma sorprese e trasse in inganno chi non lo conosceva.

 

Una fede vissuta

Per quanto riguarda la sua appartenenza denominazionale, Carter fu sempre membro attivo di una chiesa battista[2]. Una delle caratteristiche del battismo è la separazione tra stato e chiesa e Carter si attenne sempre a questo principio e non esibì mai la sua fede personale a scopi politici.

Nella retorica politica americana – in particolare nei discorsi dei candidati alla presidenza – è molto comune l’uso di riferimenti biblici, perché il linguaggio biblico risulta familiare a milioni di elettori che – almeno da giovani – hanno frequentato una chiesa nella quale hanno ricevuto un insegnamento biblico. Carter, invece, fece sempre un uso molto discreto della sua fede nei discorsi pubblici (più di Lincoln, Franklin Roosevelt, Eisenhower e Reagan), ma ne dimostrò l’autenticità – prima, durante e dopo la sua presidenza – con l’impegno personale sia come diacono e insegnante della scuola biblica domenicale nella chiesa battista di Plains sia come volontario dell’associazione Habitat for Humanity, con la quale lavorò dal 1984, insieme alla moglie, come carpentiere nella costruzione di case per famiglie indigenti.

Nel 2006, lui e la moglie lasciarono la Southern Baptist Convention, che aveva modificato la propria base di fede escludendo le donne dal pastorato, e aderirono alla Cooperative Baptist Fellowship[3].  Nel gennaio del 2007, Carter è stato tra i promotori del “Nuovo patto battista”, un’alleanza creata per riunire le varie anime del battismo e rappresentare “una voce battista autentica e profetica per questi tempi difficili, […] accogliere gli stranieri tra noi e sostenere la libertà religiosa e il rispetto per la diversità religiosa”.

L’eredità politica di Carter fu in parte raccolta da Obama. Oggi, è difficile dire se emergerà qualcuna/o in grado di recuperare l’impegno di Carter e Obama per la pace, la giustizia sociale e i diritti umani.

 

Massimo Rubboli ha insegnato Storia dell’America del Nord e Storia del Cristianesimo presso l’Università di Genova, ha pubblicato diversi libri e articoli che illustrano la vicenda storica del cristianesimo e in particolare di alcune aree geografiche nonché di alcune chiese.
Per le Edizioni GBU ha pubblicato diversi volumi tra cui: La guerra santa di Putin e Kirill. Il fattore religioso nel conflitto russo-ucraino (2022), e il volume fresco di stampa: I cristiani, la violenza e le armi. Percorsi storici e revisioni storiografiche (2024)

 

[1] Sul rapporto tra la sua fede evangelica e la sua presidenza, vedi Richard Hutcheson, God in the White House: How Religion Has Changed the Modern Presidency, New York 1988, pp. 114-51; Richard V. Pierard e Robert D. Linder, Civil Religion and the Presidency, Grand Rapids, MI 1988, pp. 231-56; Gary Scott Smith, Faith and the Presidency, Oxford – New York 2006, pp. 293-324.

[2] Il Battismo è la più numerosa famiglia protestante degli Stati Uniti, che conta oltre 30 milioni di membri suddivisi in una miriade di associations, conferences e conventions. Sono battisti l’ex presidente Bill Clinton l’ex vice-presidente Al Gore; lo era anche il presidente Harry Truman.

[3] Jimmy Carter, “Lascio la mia denominazione per l’uguaglianza tra uomo e donna”, in Massimo Rubboli, I battisti. Un profilo storico-teologico dalle origini a oggi, Torino 2011, pp. 190-4.

Perché le storie della nascita di Gesù sono differenti?

di Peter J. Williams
(Warden di Tyndale House, Cambridge)
Articolo pubblicato originariamente in inglese e riprodotto qui con autorizzazione.

Peter J. Williams sarà il relatore al 20° Convegno Studi GBU, nel 2027.

Con l’avvicinarsi del Natale, i cristiani di tutto il mondo trascorreranno un po’ di tempo leggendo e riflettendo sulle narrazioni della nascita di Gesù nei vangeli di Matteo e Luca. Gli eventi di Betlemme sono forse i più noti tra tutti i racconti biblici; tuttavia, quanta attenzione prestiamo al fatto che le narrazioni sono distribuite in due diversi resoconti?

È facile che queste due prospettive si fondano nella nostra mente nell’unica storia che conosciamo così bene. In parte questo è dovuto al fatto che entrambe hanno molti elementi in comune. Sia Matteo che Luca parlano del luogo dove è nato Gesù, del fatto che sua madre era una vergine di nome Maria e che era promessa sposa a un uomo di nome Giuseppe. Entrambe le versioni concordano sul fatto che Giuseppe discendeva dal re Davide, che il nome di Gesù fu dato da un angelo, che la sua nascita fu un adempimento della profezia e che avvenne durante il regno di Erode. Dopo la sua nascita, Matteo e Luca riportano entrambi che Maria e Giuseppe ricevettero visitatori desiderosi di vedere Gesù (magi in Matteo, pastori in Luca).

Sebbene vi sia coerenza su questi punti centrali, tuttavia, vi sono anche molte differenze tra le due narrazioni. Ciò significa che gli studiosi hanno spesso mostrato scetticismo sulla storicità dei racconti. Ciò significa anche che si tende a considerare i racconti di Matteo e Luca come composti e scritti in modo indipendente, senza conoscenza l’uno dell’altro.

Secondo l’opinione prevalente degli studiosi, Marco scrisse per primo, senza narrazione della nascita, e Matteo e Luca scrissero successivamente, utilizzando Marco, ma aggiungendo le rispettive narrazioni della nascita. Per gli studiosi scettici questo crea una situazione difficile. Se Matteo e Luca sono stati scritti in modo indipendente, allora è difficile spiegare la somiglianza dei loro racconti sulla nascita, a meno che non si basino su fatti concreti. Coloro che sostengono che un racconto ha preso in prestito dall’altro e che le incongruenze significano che non ci si può fidare di questi resoconti storici accurati, stanno in effetti insistendo sul fatto che Matteo o Luca hanno preso in prestito dall’altro, e allo stesso tempo hanno scritto in modo incompatibile con la narrazione da cui hanno preso in prestito.

Nonostante ciò sia altamente improbabile, le controversie intorno ai racconti della nascita sono rimaste. Il dibattito tende a concentrarsi su due questioni principali delle differenze tra Matteo e Luca, che esamineremo in dettaglio. Che cosa mostra l’evidenza e come i cristiani dovrebbero affrontare il problema?

Obiezioni per omissione

Una modo di cogliere le contraddizioni tra le narrazioni di Matteo e Luca è rilevare ciò che viene omesso. Matteo parla dei magi, che non sono presenti in Luca, ma Luca include i pastori, che sono assenti in Matteo. Matteo non dice nemmeno che Maria e Giuseppe erano a Nazaret prima di essere a Betlemme. Ancora più significativo è il fatto che Luca non riporti la strage degli innocenti a Betlemme né la fuga in Egitto. Se queste cose sono vere, perché l’altra narrazione le omette?

Le omissioni sono considerate problemi più grandi di quelli che sono in realtà. A conclusione del suo Vangelo, Giovanni osserva: “Ora vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha fatte; se si scrivessero a una a una, penso che il mondo stesso non potrebbe contenere i libri che se ne scriverebbero”. Come afferma qualsiasi biografo, non è possibile registrare ogni dettaglio della vita di una persona. Inevitabilmente, si devono prendere decisioni redazionali su cosa includere e cosa tralasciare, e il compito del biografo è quello di identificare ciò che è più importante per il suo scopo e il suo pubblico.

Per sostenere che la mancata inclusione di episodi come la fuga in Egitto, i magi o i pastori mettano in dubbio l’attendibilità storica dei Vangeli lo scettico deve dimostrare sia che è del tutto irragionevole che gli scrittori non fossero a conoscenza di certi aspetti della storia sia che, se li conoscevano, bisogna dimostrare la loro omissione non era una scelta redazionale legittima.

Ogni documento storico è scritto per un pubblico e per uno scopo. Luca, ad esempio, li riporta entrambi nell’introduzione al suo Vangelo: “è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall’origine, di scrivertene per ordine, illustre Teofilo, perché tu riconosca la certezza delle cose che ti sono state insegnate.” (Lc 1:3-4). Non ci sono particolari motivi per credere che l’omissione della visita dei magi da parte di Luca sia dovuta al fatto che fosse uno storico inaffidabile, piuttosto che non ritenesse tali dettagli altrettanto utili e/o interessanti per Teofilo rispetto a quelli che ha scelto di includere o che, per validi motivi ormai andati perduti, non fosse a conoscenza dell’evento. L’argomentazione a favore dello scetticismo basato sulle omissioni si basa sul fatto che i commentatori moderni sono in grado di valutare con una certa sicurezza (a) quali informazioni sarebbero state disponibili per ogni scrittore dei Vangeli e (b) quali informazioni sarebbe del tutto irragionevole lasciare fuori da un resoconto destinato a un particolare pubblico.

In definitiva, per un lettore moderno non c’è modo di sapere perché Luca non menzioni la visita dei magi, la fuga in Egitto o il massacro dei bambini a Betlemme, di cui si legge in Matteo 2:13-18. Tuttavia, ci sono una serie di fattori che danno peso alla tesi secondo cui l’omissione di questi eventi è stata una decisione redazionale perfettamente plausibile.

Innanzitutto, è importante notare che il viaggio verso l’Egitto non doveva essere lungo. La cosa fondamentale era uscire dalla giurisdizione di Erode. Per fare questo avrebbero potuto andare a Pelusio, lontano 200 miglia o semplicemente a Ostracine, che era più vicina di 65 miglia. La descrizione di Luca del ritorno di Maria e Giuseppe a Nazaret, dopo la nascita di Gesù in 2:39 recita: “Come ebbero adempiuto tutte le prescrizioni della legge del Signore, tornarono in Galilea, a Nazaret, loro città”. Se da un lato non menziona gli eventi di Matteo 2:13-18 dall’altro lato non contraddice questi versetti.

E se considerassimo una versione, ipoteticamente riscritta, come segue? “E quando ebbero terminato ogni cosa secondo la legge del Signore, scesero in Egitto e poi tornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret”. Automaticamente la nostra attenzione si concentrerebbe sul perché sono andati in Egitto. In effetti, Luca avrebbe dovuto riorientare la sua narrazione in maniera determinante anche per dare un senso a questo viaggio aggiuntivo. In altre parole, l’obiezione all’omissione dell’Egitto da parte di Luca è in realtà un’insistenza sul fatto che non può esistere una chiara selettività autoriale, e che Luca deve citare tutto ciò che è significativo per Matteo. È un approccio che si scontra, in primo luogo, con l’idea che si possano avere più resoconti.

Genealogie diverse

Un secondo punto di tensione si trova nelle differenze tra le genealogie di Matteo e Luca su Gesù. La genealogia di Matteo va da Abramo fino a Gesù in tre gruppi di 14 generazioni. La genealogia di Luca va da Gesù fino ad Adamo, anzi a Dio prima di lui.

Mentre le due genealogie sono simili tra Abramo e Davide, divergono drasticamente tra Davide e l’esilio, passando per Shealtiel e Zorobabele, prima di divergere nuovamente e incontrarsi solo con il padre legale di Gesù, Giuseppe. Di conseguenza, Giuseppe viene presentato come se avesse due padri diversi: Giacobbe in Matteo ed Eli in Luca. Spesso si cerca di armonizzare queste due genealogie dicendo che una di esse è in realtà la genealogia di Maria, anche se nel testo non c’è nulla che lo dimostri.

Le diverse genealogie confondono i lettori moderni, la maggior parte dei quali ha una certa percezione di ciò che si aspetta da una genealogia. La nostra cultura ama l’idea di tracciare la nostra linea di famiglia. Ci sono programmi televisivi dedicati alla ricerca dei propri avi, siti web per compilare il proprio albero genealogico e in pochi clic è possibile farsi recapitare a casa un kit di test genetici. Per noi le genealogie registrano in modo fedele e accurato la nostra discendenza, passo dopo passo, lungo le generazioni, senza tralasciarne nessuna.

Ma se non fosse questo il significato di genealogia nel mondo antico? E se le genealogie fossero utilizzate in modo diverso, per presentare informazioni diverse? Per valutare la storicità delle genealogie evangeliche dobbiamo riconoscere che le nostre nozioni moderne potrebbero non essere trasferibili al mondo antico.

Le due genealogie evangeliche mettono in evidenza punti diversi. Matteo traccia un percorso da Abramo attraverso la linea reale fino a Gesù, e cita in modo sorprendente quattro donne che non erano israelite (Tamar, Raab, Rut) o almeno avevano legami con stranieri (la moglie di Uria). Tra l’altro, questo ci prepara alla fine del libro, che mostra che il angelo è per tutte le nazioni.

La genealogia di Luca collega Gesù con il primo uomo e ci aiuta a pensare ai contrasti tra Gesù e Adamo (e tutti gli altri esseri umani in generale). È un perfetto preludio alla narrazione della tentazione in Luca 4:1-13, in cui Gesù rifiuta il cibo nell’arido deserto in contrasto con Adamo che prese il frutto proibito in un giardino pieno di altri frutti.

Per quanto riguarda le diverse testimonianze sul padre di Giuseppe, non è difficile, né oggi né allora, immaginare che qualcuno possa avere un padre legale diverso da quello biologico, soprattutto se il padre biologico di Giuseppe lo ha ripudiato per la vergogna della gravidanza irregolare di Maria. Ma ci sono altre cose interessanti da notare sulle genealogie. In primo luogo, sebbene le due genealogie indichino nonni diversi per Gesù, il nome del suo bisnonno è quasi identico in entrambe le genealogie: Mattan in Matteo e Mattat in Luca. L’unica differenza sta nella consonante finale, che è facilmente spiegabile: questi nomi riflettono due parole ebraiche – mattan e mattat – che significano entrambe “dono”.

In secondo luogo, prendendo spunto da questo nome, vediamo che alcuni nomi della genealogia di Luca condividono un’unica radice. Il nome Mattat e altri cinque nomi nella genealogia dopo Davide derivano dalla radice ebraica triconsonantica NTN, che significa “dare”. Sono Mattatia (3:25), Mattatia (3:26), Mattat (3:29), Mattata (3:31) e Natan (3:31). Ciò ha senso perché si tratta della genealogia che passa attraverso il figlio di Davide, Natan. La radice di “dare” è stata utilizzata per formare alcuni dei nomi più popolari dei discendenti di Natan. Come accade spesso nelle famiglie, i nomi si ripetono. Ci sono tre Giuseppe, due Levi, due Melchi e il nome Er (3,28), che è attestato solo per la tribù di Giuda (cfr. Gen 38:3). Si tratta di caratteristiche che potremmo aspettarci in una vera narrazione. Possiamo anche notare che la genealogia non commette errori nell’avere uno dei nomi greci popolari, come Filippo o Erode, per il periodo precedente ad Alessandro Magno.

In terzo luogo, sia in Matteo sia in Marco ci vengono detti i nomi dei fratelli di Gesù: Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda (Mt 13:55) o Giacomo, Giosia, Giuda e Simone (Mc 6:3). Si differenziano solo per l’ordine dei due nomi finali e per l’adattamento del nome ebraico Giuseppe a una desinenza greca nella forma Joses in Marco. Tuttavia, questi nomi si collegano anche alla genealogia di Matteo. I ragazzi venivano spesso chiamati con il nome dei nonni (pratica nota come papponimia) e talvolta con quello del padre (patronimia). Se il nome di Gesù è stato effettivamente dato dall’angelo come indicato in Matteo 1:21, allora né il nome del padre né quello del nonno erano un’opzione. Tuttavia, vediamo entrambi i nomi utilizzati in famiglia. Per Giacomo si intende solitamente il primo figlio nato da Giuseppe e Maria dopo la nascita di Gesù. Per questo motivo fu chiamato Giacomo, o rigorosamente Iakobos, cioè il nome del nonno Giacobbe con la desinenza greca -os. Iakobos si è evoluto in italiano come Giacomo attraverso secoli di cambiamenti di suono. Il figlio successivo a Iakobos prese il nome del padre Giuseppe.

Così possiamo vedere nei nomi dei fratelli di Gesù una piccola coincidenza che supporta la genealogia di Matteo.

Quattro prospettive arricchenti

Per tutte le discussioni accademiche intorno alle due narrazioni della nascita rimane il fatto che esse concordano sui punti principali e non sono in disaccordo su nulla. Sebbene vi siano indubbiamente differenze di enfasi, i resoconti non si contraddicono direttamente. In effetti, sia gli accordi evidenti sia quelli meno evidenti tra questi resoconti sono proprio quelli che ci aspetteremmo se si basassero su una buona testimonianza.

Forse questo è uno dei motivi per cui la storia del Natale è creduta da milioni di cristiani in tutto il mondo ed è stata ampiamente creduta dalla Chiesa per millenni. Avere quattro racconti biblici della vita di Gesù, tra cui due della sua nascita arricchisce incredibilmente la nostra comprensione di ciò che è accaduto e del suo significato. Le persone notano elementi diversi di una scena e la raccontano a modo loro. Se non si omettesse nulla, i Vangeli sarebbero più poveri. Comunque i diversi resoconti sarebbero sempre diversi: se gli eventi registrati fossero identici, non avrebbe molto senso averne più di uno.

Senza Umanesimo niente Riforma

di Alister E. McGrath

Il termine “Umanesimo” è facilmente soggetto a fraintendimenti. Nel ventunesimo secolo questa parola è spesso utilizzata per indicare una sorta di “ateismo” o di “secolarismo” e per definire una concezione del mondo che esclude (o almeno evita di farvi riferimento) la fede nel soprannaturale. In età rinascimentale il termine presentava delle connotazioni decisamente diverse. Il Rinascimento fu un importante periodo di rigenerazione culturale che ebbe inizio in Italia nel quattordicesimo secolo e gradualmente si diffuse in gran parte d’Europa, raggiungendo l’apice della sua influenza nei primi anni del XVI secolo. La sua tesi centrale era che la cultura del tempo poteva essere rinnovata grazie a un confronto creativo con l’eredità culturale del passato, soprattutto con l’eredità dell’antica Grecia e di Roma.

L’Umanesimo può essere visto come la filosofia che sta dietro il Rinascimento. La cosa migliore è intenderlo come il perseguimento di un’eloquenza e di un’eccellenza culturale che affonda le sue radici nella convinzione che i modelli più alti si trovino nelle civiltà classiche di Roma e di Atene. Il suo metodo di fondo può essere sintetizzato nello slogan latino ad fontes, parafrasabile con «ritorno alle fonti»! Un fiume è nel suo stato di maggior purezza alla sua fonte. L’Umanesimo promuoveva il superamento del «Medioevo» (espressione che, non per nulla, è una creazione umanistica, volta a minimizzare questo disprezzato intermezzo storico fra le glorie del
mondo antico e il loro rinnovamento nel Rinascimento) così da poter consentire al presente di essere rinnovato e rinvigorito, attingendo in profondità alla sorgente dell’antichità. Gli effetti di questo programma sono osservabili su una sorprendente molteplicità di piani. Gli stili architettonici classici vennero a essere preferiti all’imperversante gotico. L’elegante stile di Cicerone rimpiazzò la forma piuttosto ridondante e imbarbarita di latino utilizzata dagli scrittori scolastici. Nelle università si metteva una grande passione nello studio del diritto romano e della filosofia greca. In tutti i casi si può vedere in azione lo stesso principio di base: ora che la cultura occidentale era diventata stanca, spenta e priva di direzione, la sua sorgente aveva la capacità di conferirle nuova vita e nuovo vigore.

La maggior parte degli umanisti dell’epoca, come il grande Erasmo da Rotterdam, erano cristiani interessati al rinnovamento e alla riforma della chiesa. Perché allora non applicare lo stesso metodo di rigenerazione al cristianesimo? Perché non tornare ad fontes, alle fonti originali della fede, e non consentire loro di conferire nuovo vigore a una chiesa che ormai si era bruciata e aveva perso credibilità? Era possibile riconquistare la vitalità e la semplicità dell’età apostolica? Nel quindicesimo e agli inizi del sedicesimo secolo questa era una visione potente, motivante, capace di catturare l’immaginazione di tanti laici.

Come fare, però? Qual era il corrispettivo religioso della cultura del mondo classico? Qual era la sorgente del cristianesimo? Gli umanisti cristiani avevano pochi dubbi: la Bibbia, soprattutto il Nuovo Testamento. Era questa la fonte ultima della fede. Gli scritti dei teologi medievali si potevano mettere da parte senza nessun problema, in modo da consentire un confronto diretto con le idee del Nuovo Testamento. Le interpretazioni ecclesiasticamente rassicuranti e familiari della Bibbia, riscontrabili nella teologia scolastica, dovevano essere accantonate in favore di una lettura diretta del testo. Per gli ecclesiastici conservatori si trattava di un passaggio pericoloso e minaccioso che aveva il potenziale di destabilizzare l’equilibrio teologico, frutto di delicati compromessi, raggiunti nel corso di tanti secoli. L’istanza umanistica di tornare alla Bibbia risultò un appello decisamente più radicale di quanto tanti alti prelati non fossero disposti a digerire.

Gli umanisti erano per lo più studiosi, uomini di lettere che sottolineavano che questo ritorno sistematico alla Bibbia dovesse realizzarsi sulla base del meglio che l’erudizione accademica potesse offrire. L’effettivo messaggio della Bibbia, che andava letta nelle sue lingue originali, doveva essere stabilito sulla base della più affidabile metodologia testuale. Immediatamente l’autorità della traduzione latina della Vulgata si trovò a essere minacciata. Quando gli studiosi umanistici si posero a esaminare nei particolari la storia del testo, incominciarono a emergere problemi. Domande difficili pressavano con forza crescente sulla sua integrità testuale e sulla sua attendibilità filologica. Quando la Vulgata fu spassionatamente comparata con i migliori manoscritti greci, si iniziarono a notare degli errori. Furono identificate delle varianti testuali. Nel 1516 Erasmo stesso licenziò un’edizione del testo greco del Nuovo Testamento che provocò una specie di ciclone. Pur contenendo molti errori, produsse un cambiamento epocale di mentalità, mettendo in dubbio in diversi punti il vigente testo biblico della Vulgata. Per mettere la cosa nei termini più crudi possibili: se Erasmo aveva ragione, c’era il caso che alcune enunciazioni, accettate come “bibliche” dalle precedenti generazioni, non facessero neppure parte del testo originale del Nuovo Testamento. Che implicazioni aveva questo, si chiesero allora in molti, per quelle dottrine della chiesa che
erano basate su tali enunciazioni?

Uno dei testi spesso utilizzati dai teologi medievali per difendere la dottrina della trinità è di particolare interesse: «Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza nel cielo: il Padre, la Parola e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno. Tre ancora sono quelli che rendono testimonianza sulla terra: lo Spirito, l’acqua e il sangue; e questi tre sono d’accordo come uno» (1 Gv 5:7–8, ND).

Erasmo sottolineò che le parole «il Padre, la Parola e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno. Tre ancora sono quelli che rendono testimonianza sulla terra» non si trovano in nessun manoscritto greco. Furono aggiunte successivamente alla Vulgata latina, probabilmente dopo l’800, pur non essendo note in nessuna antica versione greca. La spiegazione più verosimile è che queste parole siano state inizialmente aggiunte come “glossa” (un breve commento posto accanto o sotto il testo) e che un successivo scriba abbia presunto che facessero parte del testo stesso e ve le abbia quindi incluse nei successivi testi latini, senza sapere che non facevano parte del testo greco originale del Nuovo Testamento32. Se un tale brano doveva essere dichiarato «non biblico» questa, la più difficile delle dottrine cristiane, sarebbe potuta diventare pericolosamente vulnerabile.

L’esigenza di una lettura della Bibbia nelle sue lingue originali incontrò un ampio consenso in tutta l’Europa occidentale. Chi voleva promuovere gli ideali del Rinascimento aspirava a essere trium linguarum gnarus, vale a dire competente in greco, ebraico e latino. Tutto ciò portò alla fondazione di collegi per lo studio delle tre lingue o in alcuni casi di una cattedra per ciascuna delle lingue come avvenne, per esempio, nelle università di Alcalá in Spagna (1499), Wittenberg in Germania (1502), Oxford in Inghilterra (il Corpus Christi College, 1517), Lovanio nell’odierno Belgio (1517) e presso il Collège royal de France a Parigi (1530)33.

Non passò molto tempo perché la possibilità di seri errori di traduzione scoperti nella Vulgata minacciasse di imporre una revisione degli insegnamenti ecclesiastici in essere. Erasmo ne evidenziò alcuni nel 1516. Un ottimo esempio si trova nella traduzione della Vulgata delle parole con cui si apre il ministero di Gesù in Galilea (Mt 4:17): «Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino». Questa traduzione istituisce un collegamento diretto fra la venuta del regno di Dio e il sacramento della confessione. Erasmo evidenziò che il testo originale greco si doveva tradurre: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino». Laddove la Vulgata sembrava fare riferimento a una pratica esteriore (il sacramento della penitenza), Erasmo sottolineò che il riferimento era a un atteggiamento psicologico interiore, quello del “ravvedersi”.

Nella concezione umanistica della ricerca biblica, però, risultò esservi più dell’esigenza di migliori traduzioni. La nascita del «new learning» promosse, nel secondo decennio del XVI secolo, una visione alternativa dell’autorità interpretativa, di spettanza non più della chiesa ma della comunità scientifica. Il mondo accademico aveva già la chiave per la ricostruzione del testo biblico e della sua traduzione in volgare. Sarebbe stato solo un piccolo passo quello della rivendicazione del diritto di interpretare il testo utilizzando le nuove metodologie ermeneutiche del Rinascimento che si stavano allora sviluppando34.

«Senza Umanesimo non ci sarebbe stata nessuna Riforma». Questo slogan, ripetuto spesso, sottolinea il punto cruciale dell’imposizione di un programma più radicale di riforma della chiesa di quello che chiunque avrebbe potuto prevedere, grazie alla nascita dell’Umanesimo. È vero che erano in  tanti a essere convinti che vi fosse un urgente bisogno di eliminare gli abusi, semplificare le strutture e incrementare i livelli d’istruzione all’interno della chiesa; ora però altri iniziavano a suggerire che fosse necessaria una revisione di altro livello. Era possibile che almeno alcuni degli insegnamenti della chiesa poggiassero su basi bibliche non del tutto adeguate. Le persone erano bene avvezze a lamentarsi dei tanti difetti morali e spirituali della chiesa; questo però era qualche cosa di nuovo e minacciava di innescare dei dibattiti profondamente imbarazzanti e degli sviluppi che, nel cristianesimo occidentale,
sarebbero stati senza precedenti.

A un certo punto quest’appello alla riforma della chiesa si legò con la nuova idea di umanità che si stava affermando più o meno in questo periodo. La miscela che ne risultò fu esplosiva.

Alister E. McGrath, La Riforma protestante e le sue idee sovversive. Una storia dal XVI al XXI secolo, Edizioni GBU, 2017.

Quando gli evangelici ammiravano Giuliano (l’apostata)

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Lo storico del Cristianesimo Giancarlo Rinaldi introduce così il breve lasso di tempo in cui, nel quarto secolo, giunse a imperare sull’Impero romano un singolare imperatore di nome Giuliano (Flavio Claudio Giuliano), che passò alla storia con l’epiteto di Giuliano l’apostata.

 

[Giancarlo Rinaldi, Cristianesimi nell’antichità, Edizioni GBU, 2008, pp. 706–714].

«Il ruolo della Chiesa cristiana durante il secolo quarto subisce, nel­l’àmbito dell’impero romano, una trasformazione radicale. Essa, infatti, pas­sa dalla iniziale persecuzione promossa dai tetrarchi (Diocleziano, Galerio, Massimino Daia) alla tolleranza sancita da Galerio, nel 311, e da Costanti­no, nel 313. Da questa tolleranza, inoltre, essa passa rapidamente alla premi­nenza e poi all’acquisizione dello status di religione di Stato unica e ufficiale, in virtù dell’Editto di Tessalonica promulgato dall’imperatore Teodosio I nel febbraio del 380. Prendendo in considerazione più da vicino gli eventi con­nessi a questa parabola possiamo senz’altro rilevare che la Chiesa da realtà perseguitata agli inizi del secolo si presentò alla fine dello stesso quale fautri­ce di persecuzioni a danno di giudei, di pagani e, più ancòra, di cristiani non appartenenti a quella che possiamo definire la “Chiesa imperiale ortodossa”».

La ‘reazione’ di Giuliano imperatore
In questo clima di montante intolleranza antipagana ebbe a trascorrere i suoi anni giovanili Flavio Claudio Giuliano (331–363). Il regno di Giuliano fu di breve durata (361-363) ma di grande significato nell’àmbito della storia religiosa.Si è parlato a tal proposito di un tentativo di ‘laicizzazione’ del­lo Stato. Giuliano, sia per storia personale (all’età di sei anni scampò, in­sieme al fratello Gallo a una strage, il cui mandante fu ritenuto l’imperatore Costantino, che distrusse la sua famiglia) sia per formazione (dal neoplatonismo alla teurgia ai misteri elusini, passando per i culti di Mitra e Cibele) si dedicò non a una persecuzione, nei confronti dei cristiani quanto a un “conflitto culturale”. La politica giulianea, infatti, fu appassionatamente intesa a revocare le situazioni di privilegio a favore dei cristiani che si erano determinate da Co­stantino al 361.

Giulano definiva i cristiani ‘Galilei’ in ragione del fatto che li riteneva responsabili della trasposizione della divinità ebraica a livello di un principio divino universale. La sua principale opera, di cui possediamo frammenti, portava infatti il titolo di Adversus Ga­lilaeos, (tr. it. di E. Masaracchia, Giuliano Imperatore, Contra Galilaeos, Roma 1990). Giuliano fu celebrato da due grandi scrittori pagani di Antiochia: Liba­nio e Ammiano Marcellino. Ma fu avversato, soprattutto in risposta alla sua opera principale, da numerosi autori. Tra le confutazioni sopravvive frammentaria­mente quella di Teodoro di Mopsuestia e quella di Cirillo d’Alessandria, che è la più im­portante.
I cristiani elevarono grida di gioia alla notizia della morte di Giuliano. La celebra­rono come una punizione di Dio.

Fin qui Rinaldi.

La singolarità di questa vicenda, da cui il titolo dell’articolo, sta nel fatto che questo personaggio fu ripreso dagli evangelici dell’800, nel clima infuocato del Risorgimento, e indicato come un campione di un governo che abolisse la Religione di stato (identificata chiaramente con il Cattolicesimo con le implicazioni relative al ruolo del Papa nelle vicende dell’Unità d’Italia).

La pagina che riproponiamo qui è testimonianza di questo singolare approccio all’imperatore pagano ma presenta degli spunti che potrebbero essere estremamente illuminanti per la particolare congiuntura storica che stiamo vivendo, agli albori della nuova era trumpiana. In questa pagina poi emerge tutta la distanza della tradizione evangelica italiana che potremmo definire di “teologia politica” rispetto alle lezioni che provengono da oltre l’Atlantico incluso i ravvedimenti forse tardivi di personaggi come Timothy Keller o di altri ancora che solo negli ultimi tempi, in particolare pensando ad alcuni scritti di Keller, hanno lanciato l’allarme contro la deriva politica dell’evangelismo americano.

 

La libertà di coscienza proclamata da Giuliano
[Trattasi di stralci del capitolo VI del libretto La religione di Stato, di Teodorico Pietrocola Rossetti, del 1861, pp. 35–41. Pubblicato nell’anno della nascita del Regno d’Italia, lo scritto ha un intento chiaramente propositivo verso i nuovi assetti politici, statuali ma anche sociali e culturali che si andavano delineando in quel cruciale periodo storico].

 

Costantino non fu, né divenne mai cristiano né mostrò mai di esser rigenerato, né nato di nuovo, né mai camminò secondo Cristo, ma dopo la sua conversione continuò ad essere despota efferato e violento; alcuni della famiglia imperiale, scandalizzati dal suo esempio, rigettarono il nuovo credo nell’intimo del loro cuore, e lo professarono esteriormente per ragione di Stato.

[Giuliano] era stato battezzato quend’era pargolo, fu educato al romanesimo e alla superstizione … ma arguto com’era ed inesorabilmente logico, non trovò Cristo ne’ canoni, nelle tradizioni, e nelle invenzioni degli ambiziosi prelati, e disprezzò il nuovo credo. Potente incentivo a questa sua apostasia fu la corruzione, i vizii e l’empietà de’ romanisti. Quelli della sua parentela, insegnati da Eusebio e da Ario, e non già dall’Evangelo, non aveano sentito il rinnovamento del cuore e continuarono nelle loro ferocie e dissolutezze: ciò ancora scandalizzò Giuliano, per cui credette che la religione pagana valesse meglio della nuova.  …

Per questi fatti si può dire che l’apostasia di Giuliano fu opera de’ preti e non sua: – ed essa apostasia perde tutto il colore che le si vuole apporre, quando si pensa che apostatare dall’errore è nulla, mentre è cosa gravissima apostatare dalla Verità. (corsivo nell’or.).

E poi – che razza di religione era quella, se all’annunzio dell’apostasia di Giuliano, i pagani che si spacciavano convertiti al Romanesimo riapersero i loro templi? Era una religione di Stato – convenzionale – imposta con la forza, e che dura fin che vi son tiranni, ma poi cade al primo bagliore del sole della libertà. …

Giuliano fu il solo che concepì in tutta la sua pienezza l’idea della libertà di coscienza. Ma non gli giovò a nulla, perché egli aveva una Religione di Stato [il paganesimo, ndc], impedimento gravissimo all’attuazione di quell’idea. La sua filosofia e la sua moderazione non bastarono a metterla in esecuzione, perciocché un Credo di Stato è un lacciuolo che ritiene la preziosissima libertà dell’anima e le impedisce ogni manifestazione di volontà morale.

Tutti gli atti del suo regno aveano per mira la libertà di coscienza, – ed incredibilia sed vera, – con essi egli insegnava ai Romanisti ad esser cristiani.

«Ho deliberato, egli disse [cit. della fonte], usare tale umanità con tutti i Galilei, che nessun d’essi, in qualunque luogo sia, soffra violenza, né sia strascinato al tempio, né trattato male contro la sua religione. Ma gli Ariani, gonfi per le loro ricchezze, hanno assaliti i Valentiniani, e hanno commesso in Edessa misfatti, che in città ben ordinate non debbono accadere. Adunque per dar loro aiuto a praticare la loro ammirabile legge, e agevolare la via d’entrar nel regno de’ cieli, abbiamo ordinato che siano tolte loro tutte le facoltà della chiesa d’Edessa: i denari sieno dati ai soldati, i terreni sieno uniti al nostro patrimonio, acciocché, divenendo poveri, sieno più saggi, e non sia loro tolto il regno de’ cieli che sperano »

 

La tolleranza e il perdono delle offese erano praticati dall’apostata! Dio giudicava quegli inesorabili settarii per la bocca di un empio. «Per gl’iddii, ordinava Giuliano [cit. della fonte], non voglio che i Galilei sieno uccisi, né battuti ingiustamente, né offesi in veruna forma» … Lezione ai feroci uccisori degli Albigesi, de’ Valdesi, degli Ugonotti, e degli Americani! Ed altrove: «Giuliano ai Bostriani: Io credeva che i capi de’ galilei conoscessero che hanno maggior obbligo a me che al mio predecessore [Costante], poiché per la maggior parte sotto di lui sono stati cacciati, imprigionati, perseguitati e assai ne furono ancora uccisi di quelli che vengono detti eretici … Sotto il mio regno, all’incontro, gli sbandati sono stati richiamati, i beni confiscati sono stati restituiti; e tuttavia a tal segno è giunto il loro furore, che fanno ogni opera di sconvolgere i popoli, perché non è più permesso loro usar tirannia sopra gli altri …»

E agli abitanti di Bostra:

«Le ragioni hanno a vincer gli uomini, non le ingiurie, né i tormenti nelle membra. E lo dico e ridico più volte, non sia malmenato il popolo de’ Galilei; perciocché coloro che in grandi cose s’ingannano sono più degni di pietà che d’odio» (neretto mio).

 

 

 

 

 

 

 

 

5 anni dal Covid-19: tempo di bilanci numerici… e non solo

di Nicola Berretta

Sono trascorsi oramai quasi 5 anni da quel lontano febbraio 2020 quando in Italia scoppiò la pandemia da Covid-19, e il dramma collettivo che abbiamo tutti quanti attraversato sembra oramai solo un ricordo lontano. Un ricordo, però, che lascia ancora strascichi con conseguenze fisiche in alcuni di coloro che ne sono stati colpiti più violentemente, ma anche conseguenze emotive in chi ha perduto persone care, o psicologiche in chi ha subito con maggiore difficoltà il lungo periodo di isolamento sociale, soprattutto bambini e adolescenti. Prima però che quella brutta esperienza cada completamente nell’oblio, confinata nei soli manuali di microbiologia ed epidemiologia, penso che sia giunto il tempo per fare qualche bilancio, guardando all’esperienza vissuta con maggiore lucidità potendola adesso osservare dall’esterno, senza essere più travolti dall’accavallarsi di notizie allarmanti se non addirittura evocatrici di complotti costruiti a tavolino. Non va infatti dimenticato il clima di sospetto e demonizzazione che ha accompagnato gli anni della pandemia, che ha coinvolto anche realtà ecclesiali. Fare un bilancio a posteriori può essere dunque utile per valutare con spirito critico l’esperienza attraversata, nella speranza di farne tesoro per il futuro.

I dati che seguono sono per la maggior parte frutto di una mia elaborazione a partire da informazioni fornite dal Ministero della Salute e accessibili in rete[1]. Inoltre farò riferimento a elaborazioni dell’Istituto europeo EuroMOMO, che raccoglie dati sulla mortalità della popolazione della maggior parte dei Paesi europei, inclusa l’Italia, accessibili anch’essi in rete[2].

Una critica metodologica che potrebbe essere mossa prima ancora di illustrare i dati che seguono potrebbe sorgere per un dubbio sollevato fin dall’inizio della pandemia, circa l’affidabilità del numero di morti certificati dalle agenzie preposte, se cioè si sia trattato davvero di decessi dovuti al Covid-19 oppure quei numeri siano stati intenzionalmente gonfiati, se non addirittura inventati di sana pianta. Forse ricorderemo la polemica se si trattasse di morti per Covid oppure di morti con Covid, se cioè si trattasse di persone decedute a causa del virus Sars-Cov-2 oppure di persone morte per tutt’altro motivo, ma che incidentalmente erano state infettate da quel virus. È utile allora avvalersi di una comparazione tra i dati ufficiali sui decessi da Covid-19 comunicati dal Ministero della Salute e quelli relativi al numero assoluto di morti documentato dall’agenzia EuroMOMO. Questi ultimi infatti sono analisi statistiche su quante persone siano morte in un determinato periodo, al di là della causa del loro decesso, sia esso dovuto a malattie di qualsiasi tipo oppure anche accidentale.

 

Il Grafico 1 presenta in alto i decessi che si sono verificati Italia dalla fine del 2018 ad oggi (novembre ’24) per qualsiasi causa[3]. La linea orizzontale rossa indica la soglia oltre la quale i morti sono sostanzialmente superiori all’atteso, in base alle statistiche degli anni precedenti. Nota che il numero di decessi presenta sempre un’eccedenza più o meno marcata nei mesi di dicembre e gennaio, a causa dell’influenza stagionale, come si può notare ad esempio all’inizio del 2019, tuttavia è evidente l’aumento drammatico nell’incidenza dei morti per qualsiasi causa poco dopo l’inizio del 2020, quando per l’appunto scoppia in Italia la pandemia da Covid-19, e che continua in ondate successive anche in periodi dell’anno di norma non soggetti a variazioni sostanziali nel numero di decessi. Quello che però è ancora più importante sottolineare è la comparazione tra il grafico in alto di EuroMOMO e quello grigio sottostante, relativo al numero di morti ufficialmente riconosciuti per causa di Covid-19. Una semplice analisi visiva mostra un andamento pressoché parallelo dei due grafici. Anche un’analisi dei numeri crudi, che qui non presento, indica che il numero di morti dichiarati ufficialmente come dovuti a Covid-19 rispecchia l’eccedenza di decessi rispetto ad anni precedenti, anzi, sembrerebbe addirittura inferiore. Cosa ci dice questo? Ci dice che i numeri comunicati dalle agenzie governative sui decessi dovuti al Covid-19 sono affidabili. Se può essere accaduto che qualcuno sia stato erroneamente incluso tra i deceduti per Covid-19, ce ne sono stati altrettanti (se non di più) che sono morti per Covid-19 ma non sono stati documentati come tali.

Dopo questa premessa metodologica è utile ricordare di che numeri stiamo parlando. Da febbraio 2020 ad oggi il virus Sars-Cov-2 ha colpito quasi 27 milioni di italiani[4], provocando un totale di 198.155 morti (al 30 ottobre 2024). Sono tanti? Sono pochi? Beh, se è vero che in Italia il numero di civili morti durante la IIa guerra mondiale sono stati poco più di 150 mila (fonte Wikipedia[5]), direi che in questi ultimi 5 anni in Italia si è verificata una vera e propria tragedia. Altro che influenza! È utile e doveroso sottolineare questa realtà, per avere maggiore sobrietà e comprensione nel valutare oggi, col senno di poi, decisioni operative che sono state prese per rispondere a un’emergenza di estrema gravità e per di più del tutto inedita nella nostra storia recente.

Torniamo ancora ai dati di EuroMOMO (Grafico 2), questa volta però guardando ai decessi avvenuti per qualsiasi causa da fine 2018 a oggi in tutta Europa, sia totali (grafico in alto) sia suddivise per fasce di età (grafici successivi). Di nuovo, l’eccedenza numerica rispetto alle attese è segnalata dal superamento della linea rossa tratteggiata. Nota che questa volta l’andamento è tendenzialmente sinusoidale e non rettilineo come nel grafico precedente, perché questo grafico riporta numeri assoluti e non il parametro statistico “z-score”. Al di là di questi dettagli tecnici, sono ancora evidenti le chiare eccedenze nel numero di decessi corrispondenti alle varie ondate di pandemia da Covid-19 successive a febbraio 2020. L’informazione in più che ci fornisce questo grafico è l’incidenza dei decessi in rapporto all’età. Se da una parte è chiarissimo l’aumento di decessi in persone di oltre 65 anni (grafico in basso), per i più giovani (0-14 e 15-44 anni) il numero dei morti in Europa è rimasto sostanzialmente all’interno dei parametri attesi. Questo dato conferma l’evidenza ampiamente riportata secondo cui gli effetti più gravi del Covid-19 si sono verificati in larga parte nella fascia di età oltre i 60 anni, mentre i più giovani ne sono stati sostanzialmente risparmiati.

C’è però un altro dato importante che ci viene fornito da questo grafico, alla luce delle polemiche che tuttora circolano circa i pericoli del vaccino anti-Covid somministrato in massa in Europa a tutte le fasce di età dalla seconda metà del 2021 a tutto il 2022. Se da una parte è vero che nei più giovani non si è verificato alcun aumento sostanziale nel numero dei decessi da virus Sars-Cov-2, è altrettanto vero che non si è verificato alcun aumento significativo di decessi nei giovani a seguito della campagna vaccinale. Se cioè fosse vero, come taluni continuano ad affermare, che vi sarebbero state e vi sarebbero tuttora tantissimi decessi di giovani che hanno ricevuto il vaccino, ma sottaciuta dalle fonti governative, questi grafici dovrebbero renderle esplicite. Mi rendo conto che, chi è convinto che vi sia in atto una cospirazione per coprire il pericolo di questi vaccini, continuerà a ritenere che anche questi numeri siano stati manipolati, ma mi auguro che possano convincere quella fascia più ampia di persone che magari sono rimaste nel dubbio perché impressionate da informazioni circa episodi singoli e circostanziati.

 

Continuando sul tema della campagna vaccinale, andiamo ora all’ultimo Grafico 3, ottenuto dai dati ufficiali diramati dal Ministero della Salute. Il grafico in alto (colore blu) mostra il numero di italiani risultati positivi al virus Sars-Cov-2 dall’inizio della pandemia a oggi, mentre quello sottostante (colore rosso) riporta il numero di morti giornalieri nello stesso arco temporale. Si nota un picco di decessi avvenuto con la 1a ondata iniziata nel febbraio 2020. Fu in risposta a quell’esplosione di morti da Covid-19 che il Governo italiano impose restrizioni alla libera circolazione per tutta la primavera 2020 (lockdown). A quella 1a ondata di decessi ha fatto seguito una 2a ondata dopo l’estate 2020 fino alla primavera del 2021. Questa è stata la fase che ha visto complessivamente il maggior numero di decessi per Covid-19, ma comunque, in rapporto, è stata più contenuta della precedente, se si considera il numero di positivi notevolmente maggiore che si verificò in quel periodo rispetto alla prima ondata (grafico blu). Si assiste poi a una 3a ondata di decessi a partire dalla seconda metà del 2021, che continua in modo irregolare per tutto il 2022. Anche in questa 3a fase c’è un considerevole numero di decessi, ma occorre notare che questi decessi si verificano in concomitanza col periodo in cui si registra il maggior numero di persone positive (nota la serie di picchi nel grafico blu, che raggiungono valori fino a più di 200.000 positivi al giorno).

Questa osservazione ci introduce al grafico in basso (colore bianco). Si tratta di un grafico che misura la letalità del virus, valutata guardando a quanti decessi si sono verificati in un determinato periodo, in rapporto al numero di persone che sono risultate positive al virus in quello stesso periodo[6]. I valori di letalità dalla seconda metà del 2020 si assestano tra l’1 e il 3%[7]. Il che vuol dire che in quel periodo, di 1000 persone che venivano diagnosticate positive al virus Sars-Cov-2, ne sarebbero poi decedute da 10 a 30. Osservando con attenzione il grafico, si nota che a partire dagli ultimi mesi del 2021 si assiste a un drastico calo nel tasso di letalità, che resta costante per tutto il 2022 a livelli attorno allo 0.3%, per poi risalire. Tornando all’esempio di prima, tra la fine del 2021 a tutto il 2022, su 1000 persone che venivano diagnosticate positive al virus Sars-Cov-2, ne decedevano 3, cioè fino a un decimo della situazione precedente. Cosa è successo in Italia dall’autunno del 2021 a tutto il 2022? La risposta è semplice: c’è stata un’estesa campagna vaccinale contro il virus Sars-Cov-2.

Facciamo allora qualche semplice calcolo numerico. Durante l’intero anno 2022 è stato riportato ufficialmente un totale di circa 50.000 morti per Covid-19. Un numero sicuramente alto, ma di fatto relativamente contenuto se si rapporta all’altissimo numero di contagi che si sono verificati in quel periodo (3a ondata nel grafico blu). Se infatti il tasso di letalità fosse stato pari a quello dell’anno precedente, prima della campagna vaccinale, quel numero di positivi avrebbe dato luogo a più o meno 300.000 morti. Questi numeri ci dicono che la campagna vaccinale ha salvato (solo in Italia!) un numero pari a circa 250.000 vite umane, cioè, più del totale di morti per Covid-19 che si sono verificati fino a oggi in Italia! Per inciso, dopo la campagna vaccinale il tasso di letalità è risalito per raggiungere valori simili al periodo precedente, ma tutt’oggi il numero assoluto di decessi rimane contenuto perché il numero di positivi al virus è calato drasticamente[8].

Questi sono numeri, non sono opinioni. Sono numeri che dovrebbero sollecitarci qualche riflessione. La prima cosa che mi viene in mente è l’intervento mio e di due stimati colleghi (Emanuele Negri e Graziano Riccioni) nel maggio del 2022, in occasione del 15° Convegno nazionale delle Edizioni GBU[9], in cui ci esponemmo a favore della campagna vaccinale allora in atto, all’interno di una polemica a tratti molto aspra sollevata da chi invece ne paventava i pericoli collegati a malvagie cospirazioni internazionali. Ricordo molto bene i commenti successivi in risposta a quell’intervento, e i moniti sulla grave responsabilità che ci eravamo assunti (davanti a Dio!) nell’esporre al rischio di morire tante ignare persone, senza che essi stessi fornissero poi alcuna evidenza oggettiva, documentata, a sostegno di quegli anatemi.  La mia coscienza era pulita allora e lo è tanto più adesso, alla luce di quanto documentato sopra. Ma mi domando se coloro che si sono spesi per diffondere notizie infondate su complotti internazionali in atto, finalizzati a imporre una vaccinazione dannosa per la salute umana, non dovrebbero oggi valutare l’opportunità di riflettere sul proprio comportamento. Di fatto, almeno 250.000 persone (solo in Italia!) non sarebbero oggi in mezzo a noi se si fosse dato ascolto ai loro interventi minacciosi sui rischi dei vaccini. Sottolineo, non mi sto riferendo a chi, per motivi personali, ha deciso di non vaccinarsi. Sto parlando di chi si è fatto promotore della diffusione di notizie infondate su inesistenti pericoli dei vaccini, per dissuadere e scongiurare che altri si vaccinassero.

La speranza è che questi anni tribolati divengano solo un ricordo lontano che i giovani d’oggi potranno narrare ai loro nipotini, vantandosi di aver vissuto quell’esperienza riportata nei libri di storia. Tuttavia non sarebbe male se facessimo tutti quanti tesoro di ciò che è accaduto, magari anche solo per riflettere sugli enormi danni di cui possiamo divenire responsabili diffondendo notizie di cui non siamo certi circa l’origine e la correttezza. E su questo, non è utile rifugiarsi dietro l’alibi di averlo fatto innocentemente, solo “a titolo di informazione”, come spesso mi capita di sentire. Nel momento stesso in cui diffondiamo una notizia infondata, si diviene corresponsabili dei danni che essa provoca.

Inoltre, non sarebbe male riflettere sul clima di diffuso sospetto e scetticismo nei confronti della scienza, che si è tristemente radicato in gran parte del nostro mondo evangelico nel corso dell’ultimo secolo. Ci siamo dimenticati che il metodo scientifico affonda le sue radici nella cultura biblica, come illustri scienziati del passato (e anche del presente) mettono bene in chiaro. È triste constatare che il dilagante pensiero ateo scientista si sia appropriato della paternità di una disciplina che invece è nostra, ma gliel’abbiamo noi stessi consegnata in mano, guardando al mondo scientifico come a un nemico della fede. Un pensiero che consolidiamo ulteriormente nell’accostarci alle tante teorie cospirazioniste antiscientifiche oramai sempre più diffuse in rete. Se questa esperienza ci porterà perlomeno a iniziare un cambiamento nel nostro atteggiamento sospettoso nei riguardi dei risultati scientifici, allora il Covid-19 sarà stato una vera benedizione.

[1] https://opendatamds.maps.arcgis.com/apps/dashboards/0f1c9a02467b45a7b4ca12d8ba296596

[2] https://www.euromomo.eu/graphs-and-maps

[3] Nota che i dati non sono numeri assoluti, ma il parametro statistico “z-score”, che è comunque direttamente correlato alla quantità di decessi.

[4] Questo dato non tiene conto delle persone che hanno contratto più volte il virus nel corso di questi anni, per cui questa cifra è verosimilmente una sovrastima.

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Vittime_della_seconda_guerra_mondiale

[6] Più precisamente, ogni giorno è stata calcolata la media dei decessi avvenuti quel giorno stesso e nei 6 giorni precedenti. Questo valore è stato rapportato (x100) alla media dei nuovi positivi riportati nella seconda settimana antecedente. Questa scelta è stata fatta assumendo un periodo di degenza di 2 settimane, da quando una persona era stata riconosciuta positiva al virus fino al suo decesso.

[7] Nota che nei primi mesi di pandemia il valore di letalità è talmente alto da andare fuori scala. Si tratta di valori che raggiungono anche l’80-90%, ma si tratta sicuramente di cifre non verosimili perché con tutta probabilità il numero di decessi era rapportato a un numero di positivi inferiore al dato reale, vista la scarsa diffusione di tamponi.

[8] Circa i motivi di questo calo nella diffusione del virus, lascio la parola ai virologi che spiegherebbero molto meglio di me questo fenomeno, non nuovo, di ondate di diffusione dei virus finché poi di fatto si estinguono. Detto questo, la risalita del tasso di letalità indica che il virus continua ad essere potenzialmente pericoloso, ed è per questo motivo che ne viene tutt’ora attentamente monitorata la diffusione.

[9] https://www.youtube.com/watch?v=2r5nJA6oPGY

Convegno Studi GBU – Impressioni

di Maria Gil Orefice, laureanda in Filologia Moderna

“Vivere e confrontarsi con l’Islam” è il tema su cui si è incentrato il diciassettesimo Convegno di Studi GBU: tre giorni densi di seminari e approfondimenti estremamente interessanti ma soprattutto utili per conoscere meglio il mondo musulmano e comprendere i metodi migliori per instaurare un dialogo nella Verità con chi ne fa parte. L’oratore, insieme ai professori incaricati dei diversi seminari, ha accompagnato noi partecipanti nella scoperta dell’Islam, delle sue origini e di come si è evoluta la sua percezione nel corso dei secoli.

Due interventi che ho molto apprezzato personalmente sono stati quelli del professor Claudio Monopoli e della professoressa Aoife Beville. Il primo ha tracciato l’evoluzione della percezione del mondo musulmano nella letteratura italiana, da Dante che pone Maometto tra i seminatori di discordia (non tra gli eretici!) a Tasso che nella sua Gerusalemme liberata dipinge i musulmani come esseri completamente malvagi, con forze demoniache dalla loro. La professoressa Beville ha invece approfondito Il cavallo e il ragazzo di C.S. Lewis e il modo in cui l’autore ha descritto i Calormeniani al suo interno, sviluppando una riflessione molto interessante su come qualcosa che noi potremmo non notare neanche (in questo caso, la rappresentazione dei Calormeniani come uomini dalla pelle scura e la barba lunga e sporca che indossano turbanti) possa invece apparire evidente e dissuadere dalla lettura un musulmano che dovesse trovarsi a leggere. Collegandomi a questo, riporto uno dei punti fondamentali emersi durante il Convegno: per creare un dialogo con qualcuno altro da noi, è necessario approcciarsi con dignità a ciò in cui crede. Per quanto noi siamo giustamente convinti della Verità della Bibbia, non dobbiamo commettere l’errore di sminuire le persone musulmane con cui ci confrontiamo; non se vogliamo avere una possibilità di instaurare un dialogo sincero e utile a portarli a Dio.

Questo Convegno mi ha fornito vari spunti e tattiche utili a comprendere ed evangelizzare i musulmani, ma ciò che mi ha più colpita è senza dubbio come lo strumento più efficace nel portare i musulmani a Cristo sia il Corano stesso. Questo non ci è stato solo spiegato dall’oratore, Emil Shehadeh, ma anche testimoniato da un ragazzo cristiano di origini musulmane che ha raccontato come proprio leggendo il Corano abbia iniziato a porsi domande: perché l’Islam ritiene Maometto come massimo profeta, se nel loro libro sacro è evidente che Gesù sia il più glorioso tra tutti i profeti? Perché molti musulmani accusano i cristiani di aver modificato la Bibbia, se il Corano afferma che Allah non permette a nessuno di modificare la sua parola?

Conoscere il contenuto del Corano, quindi, rappresenta un vantaggio se si vuole instaurare un dialogo con persone musulmane. Emil Shehadeh ci ha fornito delle ottime basi di partenza; sta a noi, ora, continuare a studiare e approfondire il tema, se sentiamo la chiamata in questa direzione.

Questi tre giorni di Convegno sono stati un’esperienza intensa e davvero utile per la mia crescita spirituale, sono grata di aver partecipato e averne ricavato spunti utili per come evangelizzare o dialogare con persone di altre fedi in generale, oltre che musulmane nello specifico.

L’evangelicalismo di Jimmy Carter

(Daniel K. Williams)

Articolo tradotto e pubblicato con autorizzazione di Christianity Today

 

Quando Jimmy Carter parlò della sua fede in Cristo, durante la campagna elettorale per la presidenza del 1976, molti evangelici rimasero estasiati.

Nessun candidato aveva mai affermato di essere “nato di nuovo” o parlato così apertamente del suo rapporto con Gesù. Né aveva accolto mai i giornalisti nella sua classe di discepolato per adulti, che Carter continuò a tenere nello stesso periodo in cui si era candidato per la Casa Bianca. D’altronde, nessun altro candidato era mai stato un diacono di una chiesa battista del sud degli Stati Uniti.

Il pastore dell’Oklahoma, Bailey Smith, rivolgendosi alla folla radunata per l’incontro annuale della SBC, nel giugno del 1976, affermò che gli Stati Uniti avevano bisogno di un “uomo nato di nuovo alla Casa Bianca”. Poi aggiunse, nel caso qualcuno non avesse colto l’allusione, “Le iniziali del suo nome sono le stesse di quelle del nostro Signore!” [Jimmy Carter, come Jesus Christ, ndt]

Ma solo poche settimane dopo, la Third Century Publishers, una casa editrice evangelica riconducibile al fondatore di Campus Crusade for Christ, Bill Bright, pubblicò un libro che criticava duramente la bontà della fede evangelica di Carter. Il libro, What about Jimmy Carter? fu scritto da un giovane evangelista di nome Ron Boehme.

Boehme, quando sentì parlare per la prima volta della candidatura di Carter, disse di essersi “emozionato” all’idea che un cristiano nato di nuovo fosse candidato alla Presidenza. Tuttavia, man mano che approfondiva le convinzioni di Carter, la sua opinione sul candidato democratico si inasprirono. Scoprì che Carter aveva abbracciato una visione neo-ortodossa della Bibbia e sosteneva politiche liberali relative all’aborto e ai diritti degli omosessuali.

Boehme concluse che forse Carter non fosse affatto un evangelico o che addirittura non fosse neanche un credente. Scrisse: “Quando qualcuno, nella sua campagna politica e nel suo approccio alla legge, promuove o asseconda immoralità ed empietà allora non è un vero seguace di Gesù”. Prendendo in prestito di una delle affermazioni di Gesù nel Sermone sul Monte, Boehme aggiunse: “Un albero buono non può produrre frutti cattivi”.

Boehme non fu il solo a giungere a questa conclusione. Sebbene Carter nel 1976 avesse preso circa la metà dei voti degli evangelici bianchi, molti evangelici, nelle settimane che precedettero le elezioni, rilanciarono i dubbi di Boehme. L’intervista di Carter alla rivista Playboy turbò molti cristiani conservatori, e lo stesso effetto produssero alcune delle sue posizioni politiche.

Nel 1980, alcuni evangelici che un tempo avevano sostenuto Carter (come il conduttore radiofonico Pat Robertson) furono in prima linea nel movimento per sconfiggerlo alle elezioni di quell’anno. Carter, sostenevano, aveva promosso un “umanesimo secolare” grazie al sostegno di un programma femminista e al suo rifiuto di opporsi ai diritti degli omosessuali. In effetti, nel 1980, fu in gran parte una reazione alle politiche presidenziali di Carter che spinse la mobilitazione politica della destra religiosa e il forte sostegno evangelico a Ronald Reagan.

Dopo che Carter lasciò la Presidenza, la frattura tra lui e la leadership, sempre più conservatrice della Southern Baptist Convention, continuò ad approfondirsi. Alla fine, Carter lasciò la Convention per unirsi alla Cooperative Baptist Fellowship (SBC), una denominazione che ordinava le donne e rifiutava alcune delle posizioni politiche conservatrici della SBC.

Ma Carter continuò a definirsi un cristiano evangelico. Continuò a raccontare di leggere la Bibbia ogni giorno, di pregare costantemente e di tenere lezioni settimanali di scuola domenicale nella sua chiesa battista. Il suo lavoro di volontariato con lo Habitat for Humanity divenne leggendario. E spesso, mentre era ancora Presidente, aveva condiviso la sua fede con gli altri, incluso leader internazionali non cristiani.

Scrisse anche diversi libri sulla sua fede. “Sono convinto che Gesù sia il Figlio di Dio”, affermò nel suo ultimo libro, pubblicato nel 2018. Dichiarò che Gesù era il suo “personale salvatore “, e anche “una guida personale e un esempio per la propria vita e per quella degli altri. … Gli elementi fondamentali del cristianesimo valgono personalmente per me, modellano il mio atteggiamento e le mie azioni e contribuiscono a darmi una vita gioiosa e positiva, una vita che ha uno scopo”.

Dopo aver consultato la descrizione dell’evangelicalismo che aveva rinvenuto in un articolo di Wikipedia, e dopo averla integrata con note tratte da uno dei suoi commentari alla Bibbia, Carter concluse nel suo libro che egli non era solo un cristiano, ma che era un “cristiano evangelico”. Era nato di nuovo; condivideva la sua fede con gli altri e amava Gesù come suo personale Salvatore. Che cosa poteva esserci di più evangelico di questo?

Ma c’era una differenza tra la comprensione della fede che Carter mostrava e le opinioni dei suoi critici evangelici. La sua esperienza di conversione con la nuova nascita avrebbe potuto essere sicuramente simile alla loro, e la sua dedizione alla preghiera e alla lettura della Bibbia altrettanto forte della loro, ma su due questioni Carter era distante dagli evangelici conservatori della fine del XX secolo: l’inerranza biblica e la politica.

Questi erano proprio i temi al centro della crescita dei conservatori della Southern Baptist Convention che ebbe inizio proprio mentre Carter era in carica come Presidente. Per molti evangelici conservatori degli anni ’70, per Harold Lindsell, Francis Schaeffer e i leader della parte conservatrice all’interno della Southern Baptist Convention, il tema dell’inerranza biblica era centrale per l’identità evangelica. Sostenevano che senza una Bibbia infallibile i cristiani protestanti non avrebbero avuto una fonte di autorità che fosse stata stabile e trascendente. Il principio della Riforma del sola scriptura, combinato con una comprensione della perfezione e della sovranità di Dio, esigeva una scrittura infallibile.

Molti di questi evangelici sostenevano anche che il governo americano avesse bisogno di uno standard morale stabile e trascendente, basato sui principi cristiani. La legalizzazione dell’aborto e una nuova glorificazione pubblica dell’immoralità sessuale erano il risultato di politici e giudici che avevano dimenticato la legge di Dio.

La loro visione del cristianesimo che doveva avere un’influenza nella sfera pubblica si esprimeva principalmente nel bisogno di sostenere i principi morali cristiani a fronte della crescente secolarizzazione. Ritenevano la rivoluzione sessuale, insieme alla seconda ondata di femminismo, la più grande minaccia che la famiglia americana avesse mai subito. Ed erano determinati a fermare quella minaccia eleggendo persone devote nelle cariche pubbliche, persone che sarebbero state guidate dalla legge di Dio, non dalle tendenze culturali del tempo.

Carter, però, non condivideva nessuna di queste opinioni. Le sue idee politiche e religiose non erano state plasmate da una reazione alla rivoluzione sessuale, ma dall’esperienza del movimento per i diritti civili. Come altri bianchi del sud della sua generazione, Carter era cresciuto a contatto con la segregazione razziale e la disuguaglianza, e giunse alla conclusione che le chiese evangeliche bianche della sua regione erano per lo più dalla parte sbagliata della lotta per la giustizia degli afroamericani.

La chiesa battista di Carter a Plains, in Georgia, fu ufficialmente segregazionista fino al 1976. La comunità votò negli anni ’60 contro l’accoglienza di persone di colore quali propri membri, e Carter si oppose a quella decisione pur non abbandonando la chiesa. Eppure, come ricordò anni dopo nel suo libro Faith: A Journey for All, venne ispirato dagli esempi di altri cristiani che assunsero una posizione controculturale volta a superare la linea del colore presente nel sud segregazionista. Ad esempio, a poche miglia dalla sua casa di Plains, Millard e Linda Fuller diedero il via a un’impresa agricola cristiana interrazziale, chiamata Koinonia, per poi fondare Habitat for Humanity.

Incontri con persone come i Fuller convinsero Carter che ciò di cui il paese aveva bisogno non era una campagna pubblica per riportare l’America a Dio. Era una concreta imitazione dell’etica di Gesù. Dopotutto, era in questo modo che i sostenitori cristiani afroamericani dei diritti civili avevano ottenuto il sostegno dei cristiani bianchi, che in precedenza erano contro di loro, in quanto furono toccati dall’esempio dell’amore cristiano che avevano visto tra gli attivisti.

Carter fu così colpito da esempi del genere tanto da incorniciare la sua fede intorno a questo principio piuttosto che intorno a specifiche rivendicazioni dottrinali. Ma più leggeva le Scritture, più veniva colpito dall’etica di Cristo e più desiderava avere Gesù come suo “amico” per grazia mediante la fede.

Per Carter, quindi, l’inerranza biblica non era un problema. Giunse a pensare che forse la Bibbia potesse contenere alcune contraddizioni interne che non potevano essere armonizzate, e che parti della Bibbia potessero avere bisogno di essere reinterpretate alla luce della scienza moderna. Ma questo non aveva importanza, poiché il racconto della vita di Gesù era al contrario storicamente corretto.

Similmente, Carter ritenne che le priorità politiche della destra cristiana fossero sbagliate, perché erano incentrate non sull’etica di Gesù ma sull’idea errata che i valori della famiglia potessero essere imposti per legge. In quanto battista arminiano, Carter si opponeva ai credi: credeva nel sacerdozio di tutti i credenti e insisteva fermamente sul fatto che la fede, per essere autentica, dovesse essere liberamente scelta. Non poteva essere dettata dalla legge, sostenne in dei suoi numerosi libri, tra cui Our Endangered Values: America’s Moral Crisis e Faith: A Journey for All.

Seguire Gesù mentre si occupava una carica pubblica non poteva significare allora imporre standard cristiani per legge. Per Carter, doveva significare agire con integrità e con sollecitudine per tutte le persone. E se la nazione si fosse rivolta a Dio, allora il frutto di questa conversione non sarebbe stato necessariamente quello di leggi contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso o contro l’aborto. Sarebbe stato, al contrario, un dedicarsi “alla risoluzione delle controversie con mezzi pacifici” e un impegno per “libertà e per i diritti umani” a favore degli altri, incluso, e in particolar modo, i diritti delle donne che, secondo lui, troppi evangelici conservatori ignoravano.

La fede di Carter appariva più funzionale al protestantesimo storico che non all’evangelicalismo americano di fine XX o di inizio XXI secolo, e gli evangelici non avevano torto quando rilevavano questa differenza. Ma Carter è rimasto un battista per tutta la vita in quanto credeva in una conversione frutto della nuova nascita, in una relazione personale con Gesù e nella necessità di condividere la propria fede con gli altri. Parlava sempre di fede con un accento evangelico e, nonostante le sue differenze rispetto ai cristiani più conservatori, nutriva un amore per lo stesso Salvatore.

Nell’ottica della storia, e grazie al periodo più lungo di una post-presidenza americana, queste somiglianze sono forse più facili da vedere oggi di quanto non lo fossero nel 1980. La determinazione di Carter a estendere l’amore di Gesù è stato il miglior riflesso del Sermone sul Monte di quanto non si rendessero conto i suoi critici evangelici.

Daniel K. Williams insegna American history presso la Ashland University ed è autore di The Politics of the Cross: A Christian Alternative to Partisanship.

10 considerazioni per un dialogo all’insegna del vivere e confrontarsi con …

(di Giacomo Carlo Di Gaetano)

  1. Il dialogo è parte integrante della missione e della proclamazione del vangelo
    Manifesta virtù cristiane (ascolto e attenzione) e non è espressione della mollezza o della debolezza postmoderna né tanto meno di uno scivolamento verso forme di religionismo o ecumenismo (Col. 4:6; Gc 1:19; Rom 12:18)
  1. Dialogo nella verità
    È impensabile un dialogo in cui il cristiano rinunci alle verità proclamate da Gesù o rinunci alla testimonianza cristiana in quanto ciò significherebbe rinunciare al proprio essere cristiani (Gv 14:6; Rom 1:16–17, 2:16; 2 Tm 3:16–17; Eb 4:12–13; Gv 17:17).

«I cristiani che hanno una posizione dottrinale chiara hanno buone opportunità nel dialogo [p.es. con i musulmani], poiché un convinto fedele musulmano parlerebbe di buon grado più con un cristiano convinto che con un cristiano cosiddetto “liberale” che non conosce la sua fede o con un ateo» (Schirmacher, p. 75).

  1. Dialogo e fondamentalismo
    Le verità fondamentali del cristiano devono essere ricondotte in ultima analisi alla persona e all’opera di Gesù. Nel dialogo i nostri interlocutori non incontrano Gesù ma semplici testimoni. Per questo le verità fondamentali non coincidono con il fondamentalismo, termine utile più a fotografare forme e comportamenti degli individui piuttosto che verità da comunicare.
  1. Nel dialogo, oltre alla Verità, l’Amore
    Il dialogo ha due facce: da un lato c’è l’approccio critico verso le posizioni altrui (Paolo e i suoi sentimenti ad Atene) dall’altro c’è il desiderio di condurre lo stesso dialogo con mansuetudine e rispetto (At 17:16 e 22; 1 Pt 3:15–16)
  1. La dignità dei dialoganti
    La verità e l’amore nel dialogo sono possibili solo presupponendo la pari dignità degli interlocutori. A tal fine il cristiano si impegna a non nascondere o camuffare ciò in cui crede ma anche a non disdegnare la condizione di “credente” dell’interlocutore.«Nel dialogo ci facciamo reciprocamente partecipi della nostra umanità, con la sua dignità e la sua degradazione, ed esprimiamo la nostra comune sollecitudine per questa umanità» (Stott, p. 86)
  2. Il dialogo è tra due esseri umani
    Nel dialogo il nostro interlocutore non sta interagendo direttamente con Dio ma con altri esseri umani che hanno fatto una particolare esperienza di e con Dio.

«I cristiani desiderano che le persone trovino pace con Dio, ricevano il perdono e credano che solo in Dio c’è la verità. Ma queste stesse persone non hanno peccato contro di noi e non devono inginocchiarsi davanti a noi per essere giustificate. Noi stessi non siamo coloro che hanno la verità in tutto e che in ogni cosa che dicono professano sempre la verità. I cristiani non sono onnisapienti» (Schirmacher, p. 74)

«Il mio interesse non è mai diretto al buddismo ma a una persona vivente e al suo buddismo; non stabilisco mai un contatto con l’Islam, ma con un musulmano e il suo maomettismo» (J.H. Bavink, in Stott, p. 85)

  1. Dialogo e “diritti” dei dialoganti.
    Nel cristianesimo i diritti non derivano dal fatto di essere cristiani ma dal fatto che siamo creati a immagine di Dio. Ci sono religioni che accordano diritti unicamente ai propri fedeli. Solo nel cristianesimo si concepisce l’idea di operare e implementare i diritti di tutti, incluso di coloro che sono contro il cristianesimo.
  1. Dialogo e identità
    Il dialogo per i cristiani non discende dal fatto che siamo chiamati a proclamare l’amore di Dio (mandato evangelistico) ma dal fatto di sapere che siamo dei peccatori perdonati.
    I nostri interlocutori devono riconciliarsi con Dio e non con noi. Dunque, è importante che nel dialogo non si dia l’impressione di voler conquistare qualcuno alla nostra causa, enfatizzando la nostra identità religiosa (cristiani vs musulmani; evangelici vs cattolici, etc.).
    Le identità devono essere ridimensionate a causa dell’eccellenza di Gesù Cristo (Fil 3).
  1. Modelli di dialogo
    Dall’insegnamento delle Scritture possiamo estrapolare diversi modelli. Due in particolare possono rivelarsi utili.
    Il primo modello ci impone una scelta: le preghiere del pubblicano e del peccatore (Lc 18:1–13).
    Il secondo ci suggerisce una strategia: il dialogo di Gesù con la donna “samaritana” (Gv 4). Dove bisogna adorare, a Gerusalemme o a Samaria? La risposta di Gesù rileva il fatto che sebbene si possa pensare a una preminenza di una località (la salvezza viene da Sion) tuttavia ora si adora in modo diverso.
  1. Dialogo e cose in comune
    Il dialogo (p.es. con i musulmani) verterà sulle somiglianze tra le due fedi. Allorquando le somiglianze saranno esplorate e condivise, in quel momento, accadrà che un musulmano avrà esaurito i propri argomenti.
    Un cristiano invece inizierà proprio da lì, dalle somiglianze, per rendere la sua testimonianza:«I cristiani non credono semplicemente in un creatore che desidera che facciamo la sua volontà. Piuttosto, credono in un Dio trino la cui seconda persona, Gesù Cristo, ha compiuto la salvezza per il mondo: egli ha conseguito la salvezza per il mondo in quanto l’umanità non è capace di liberarsi dalla colpa dell’ingiustizia. Sono proprio queste le cose indispensabili per i cristiani e queste non appaiono nella lista delle somiglianze tra l’Islam e il Cristianesimo» (Schirmacher, p. 76).

 

Breve bibliografia

  1. J. Stott, Missione cristiana nel mondo moderno
  2. T. Schirmacher, The Koran and the Bible
  3. A. Bannister, Musulmani e cristiani adorano lo stesso Dio?
  4. E. Shehadeh, Dodici discepoli nella Casa dell’Islam
  5. M. Volf, Contro la marea

Tre domande a Francesco Maggio

(Vivere e confrontarsi con l’Islam)


Francesco Maggio
è impegnato da molti anni in un servizio (ministero lo chiamiamo in gergo evangelico) di testimonianza ai musulmani. Ha fondato la SCAI, Scuola di Apologetica e Islamistica

 

Francesco, raccontaci un po’ del tuo ministero verso i musulmani; che cosa fai nei loro confronti e come è nata questa vocazione.

Durante la mia crescita nella fede cristiana ho iniziato a dialogare con i musulmani nel tentativo di condividere il messaggio del Vangelo. Tuttavia, senza un’adeguata preparazione, mi sono presto accorto che non riuscivo a portare avanti la mia testimonianza in modo efficace. Questo è un problema che accomuna molti di noi: ci troviamo spesso impreparati quando si tratta di affrontare un confronto di questo tipo. Nei nostri scambi con i musulmani la conversazione spesso prende una piega critica nei confronti di Gesù Cristo, della Trinità, della Sua divinità e delle Sacre Scritture. I musulmani tendono a mettere in discussione le nostre credenze e ciò che è scritto nella Bibbia. Basta parlare con un musulmano per accorgersene. Inoltre, il Corano stesso contiene diversi passaggi che criticano apertamente pagani, cristiani ed ebrei. La polemica sembra essere parte integrante del loro modo di confrontarsi. Mi accorgevo così che avevo bisogno di una preparazione da acquisire presso una scuola biblica focalizzata sull’evangelizzazione tra i musulmani. Abbiamo scuole bibliche che ci preparano per rispondere e per testimoniare ai mormoni, ai testimoni di Geova, agli atei ma non trovavo una scuola biblica che insegnasse a testimoniare e a rispondere ai musulmani. Per questo andai a Londra per la mia formazione missiologica. Sono passati ormai 32 anni.

 

In che modo, sinteticamente, pensi che si debba cercare un approccio con vicini e amici musulmani per parlare loro del vangelo?
Le mie riflessioni nel corso del tempo sono state le seguenti: per un approccio con i vicini e amici musulmani per parlare loro del Vangelo è essenziale partire da un atteggiamento di profondo rispetto e amicizia. Nell’evangelizzazione, infatti, il metodo più diffuso è il rapporto di amicizia, un rapporto in cui introdurre gradualmente il messaggio del Vangelo

È importante ricordare che non stiamo cercando di “vincere una discussione” o imporre le nostre convinzioni, ma piuttosto di condividere la nostra esperienza di fede in modo genuino e amorevole.

Un buon punto di partenza è allora essere disposti ad ascoltare. Spesso, la migliore apertura è mostrare interesse per le loro esperienze religiose (semplici domande, come perché pregate 5 volte al giorno, e altre domande). Questo crea un terreno fertile per un confronto sincero sul quale entrambi possono esprimersi senza sentirsi giudicati. Durante la conversazione, personalmente, cerco di testimoniare la mia fede in modo chiaro, semplice e personale. Spiego cosa significa per me il vangelo: non come un insieme di regole, ma come la storia di Dio che in Cristo mi ha cambiato la vita e mi ha assicurato la salvezza secondo i meriti di suo Figlio.

Cerco di dire loro che il vangelo è più di un messaggio religioso; è una relazione viva con Gesù, fonte di salvezza eterna. Credo dunque che ognuno debba raccontare il modo in cui la propria vita è stata trasformata e come si continua a sperimentare il suo perdono e la sua grazia ogni giorno.

È anche importante ricordare di non diluire il messaggio per cercare di compiacere. Siamo chiamati a essere onesti riguardo alla verità del vangelo, anche se può essere difficile o sfidante. Come dice 1 Pietro 3:15, dobbiamo essere sempre pronti a dare una risposta riguardo alla speranza che è in noi, ma farlo con gentilezza e rispetto.

Molto spesso, i musulmani convinti si presentano come sfidanti, tendendo a trascinare gli interlocutori in polemiche contro la Verità. Come dicevo, generalmente non siamo preparati né abituati a rispondere loro, e spesso ci ritroviamo a fuggire dal confronto. Tuttavia, possiamo trovare ispirazione dai profeti e dai servitori di Dio nelle Scritture.

Pensiamo, ad esempio, al profeta Elia, che affrontò i profeti di Baal. Elia scelse di rimanere saldo sul terreno della Verità e dimostrò un potente segno del potere di Dio. Allo stesso modo, il profeta Geremia si trovò spesso di fronte a falsi profeti, e rimase fermo nella proclamazione del messaggio di Dio.

Anche Gesù affrontò i Farisei, i quali cercavano continuamente di metterlo in difficoltà con domande insidiose, simili alle sfide che spesso ci pongono i musulmani convinti. Gesù rispose sempre con saggezza, non cadendo mai nelle trappole.

Mi viene in mente anche l’apostolo Paolo, che a sua volta si confrontò con i filosofi di Atene. Paolo non cercò di polemizzare, ma di spiegare la Verità con pazienza e chiarezza. Egli studiò la loro narrativa e le loro credenze, basate sulle idee di poeti e profeti precedenti, e utilizzò questa conoscenza per costruire un ponte verso il Vangelo.

Mi sono dunque accorto che per raggiungere efficacemente i cuori dei musulmani è fondamentale abbandonare metodi ormai superati. Il nostro uditorio, i nostri amici, oggi sono musulmani di seconda e terza generazione; nei nostri atenei sanno come spiazzare forbitamente e filosoficamente gli argomenti biblici. Usano diverse e scientificamente raffinate argomentazioni, differenti da quelle utilizzate dai loro padri. I musulmani di oggi sono universitari, avvocati, professori, ingegneri, laureandi, sono persone di cultura.
I nostri giovani credenti universitari li incontrano ogni giorno. Alcuni di questi musulmani di seconda e terza generazione sono divenuti anche personalità politiche.
Il nostro obiettivo deve essere quello di permettere al messaggio del Vangelo di penetrare profondamente nelle anime di chi lo ascolta, distinguendolo dalle sterili discussioni verbali e dalle polemiche. È essenziale riportare il Vangelo al suo giusto posto, ponendolo al centro del dialogo.

Ma chi di noi è in grado di trasmettere questo messaggio in maniera chiara e incisiva in pochi minuti?

Infine, è fondamentale avere pazienza e fiducia nel fatto che non siamo noi a cambiare i cuori, ma solo Dio può fare questo miracolo. La nostra responsabilità è seminare con amore e verità, pregando affinché sia lo Spirito Santo a operare nelle vite delle persone, recipienti possibili della svariata Grazia di Dio.

Il successo non si misura dalle conversioni immediate, ma dall’onestà e dall’amore con cui riusciamo a riflettere Cristo.

 

Ritieni che oltre alla spinta evangelistica sia lecito e giusto per i cristiani evangelici impegnarsi, insieme ai musulmani, per capire in che modo poter convivere pacificamente tra di loro in una stessa comunità sociale?

È essenziale affermare che per i cristiani evangelici la Verità è unica e si trova nella Bibbia, e questa verità non può essere alterata o compromessa in alcuna circostanza. Detto questo, è non solo possibile, ma anche giusto impegnarsi con i musulmani per esplorare insieme come convivere pacificamente all’interno della stessa comunità sociale. La convivenza pacifica non richiede di rinunciare alle nostre convinzioni di fede in Cristo, ma piuttosto ci chiama a vivere e testimoniare la nostra fede con autenticità, chiarezza e amore.

Il mio obiettivo è sempre quello di mostrare l’amore di Cristo, anche a musulmani che hanno convinzioni religiose fortemente polemiche. Questo amore si manifesta attraverso il rispetto scendendo sul livello della loro offensiva non per vincere gli argomenti ma renderli ubbidienti alla Verità e per aprire il cuore dei musulmani polemisti al Vangelo, sempre rimanendo fedeli ai principi biblici.

In 2 Corinzi 10:5*, è scritto: “Noi distruggiamo i ragionamenti e ogni altezza che si eleva contro la conoscenza di Dio, e facciamo prigioniero ogni pensiero fino a renderlo ubbidiente a Cristo.”

Nello stesso tempo come dice la Scrittura: “Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini” (Romani 12:18).
Siamo chiamati a cercare la pace e la convivenza, contribuendo al benessere della comunità senza mai compromettere la verità in cui crediamo.

Francesco Maggio terrà un Seminario al 17° Convegno Studi GBU dal titolo: Gesù di Nazaret e Maometto: vite parallele?