Le donne nella vita di Gesù

[Redazione: in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne e in concomitanza con il sentire generale della nazione dopo i gravi fatti riportati dalle cronache e relativi ai tanti femminicidi, ascoltiamo molte riflessioni sulla cultura “patriarcale” che sarebbe tra le cause di ciò che sta accadendo. E non sono poche le occasioni in cui dietro la cultura patriarcale si prende di mira la narrazione biblica in cui sarebbe espressa una tale cultura, addirittura racocmandata da Dio stesso. Questo breve contributo che qui pubblichiamo vuole segnalare come tutta la rivelazione ebraico–cristiana ha un punto focale nella persona di Gesù. In lui troviamo un approccio rivoluzionario alla condizione della donna dei suoi tempi. La sua figura e il suo agire emergono dal tessuto dei racconti biblici, rivelando un intento divino diverso dalle vicende che pure sono narrate senza infingimenti nel corso della progressione della rivelazione]

 

di Derek e Dianne Tidball
(tratto da Bibbia e quote rosa, Edizioni GBU, 2021)

 

Nella vita e nel ministero di Gesù le donne sono tutt’altro che invisibili. Sono testimoni di prim’ordine degli eventi della sua vita, discepole fedeli fino alla fine, destinatarie della sua gra­zia, protagoniste partecipi del suo insegnamento e beneficia­rie della sua giustizia. Diciassette donne sono ricordate per nome ma una schiera di altre, che pure restano nell’anonima­to, non sono certo meno apprezzate1. Incoraggiate da Gesù, non si appostano ai margini, anche se in un primo momento alcune, per la pressione della loro cultura, si rifugiano timo­rosamente nell’ombra; diventano però persone la cui presenza si nota, la cui voce è ascoltata e le cui vite sono rese complete. Le tratta con un rispetto e un apprezzamento che non han­no precedenti e ribalta il giudizio negativo cui di solito erano soggette nel resto della società.

Diverse donne giocano un ruolo importante negli eventi della vita di Cristo. Godono di una particolare visibilità alla sua nascita, nonché alla sua crocifissione e risurrezione. In corrispondenza di entrambi questi momenti cruciali, gli uo­mini devono accontentarsi di cercare di tenere il passo con loro. Elisabetta e Anna, oltre a Maria, sua madre, sono pre­senze importanti nei racconti relativi alla sua nascita. Maria Maddalena, Giovanna, Salome e Maria madre di Giacomo furono le prime improbabili ma veritiere testimoni della ri­surrezione. Fra questi due estremi le donne prendono parte ad alcuni dei più memorabili episodi della sua vita e costi­tuiscono per noi dei modelli esemplari di discepolato.

Le donne negli incontri di Gesù
Lo storico ebreo Giuseppe Flavio riassunse succintamente l’atteggiamento generale da parte degli Ebrei verso le donne ai tempi di Gesù, quando scrisse che «la donna … è in tutte le cose inferiore all’uomo»1. Quasi tutti gli Ebrei di sesso ma­schile guardavano con disprezzo le donne. Avere un figlio era motivo di ringraziamento, avere una figlia era motivo di ram­marico. Gli uomini erano creature razionali, mentre le don­ne erano creature sensuali2. Si reputava che le donne contas­sero poco e la loro posizione era sempre in bilico fra quella di figlie e quella di schiave. Il loro posto era per lo più in casa, dove restavano segregate, essendo «più adatte», per dirla con Filone, «a vivere dentro le mura domestiche e a non allonta­narsene mai»3. Anche lì erano soggette all’autorità patriarcale e quando fossero cadute in disgrazia con i loro mariti, si po­teva divorziare senza preoccuparsi del loro futuro benessere. L’idea assolutamente dominante era che non valesse la pena istruirle e per lo più si pensava che non fosse possibile inse­gnare loro niente. Gli uomini le accusavano di tutta una serie di malattie e non da ultimo di essere fonte di tentazione ses­suale. Dal momento che questo andava evitato a tutti i costi, era considerato sconveniente parlare a una donna per strada, anche se la donna in questione era la propria moglie. Un’at­tenzione ancora maggiore si doveva prestare quando ci s’in­contrava con loro in privato.

Gesù si mostra del tutto incurante di tali limitazioni e prende una posizione rivoluzionaria nel suo modo di relazio­narsi con le donne. I Vangeli riferiscono di numerosi incon­tri che ha con loro, sia in pubblico sia in privato, incluso alcu­ne allusioni al fatto che fra i suoi discepoli itineranti ci sono delle donne5. Non pare affatto a disagio in loro compagnia e le tratta con dignità e rispetto. Non le accusa di essere fon­te di tentazione sessuale; prende anzi le difese di una donna sorpresa in adulterio, contro le accuse degli uomini6 e fa ri­cadere sugli questi l’onere di disciplinare la propria concupi­scenza (Mt 5:27–30)7. Arreca loro salvezza e guarigione pro­prio come agli uomini, così, se fanno la volontà di Dio, di­ventano preziose sorelle o madri in quella che è la sua vera fa­miglia, che è una cosa diversa dalla sua famiglia naturale (Mc 3:34–35). Sono in grado e meritano di ricevere istruzione (Lc 10:38–42). Inoltre, decisamente in polemica con la costuma­ta cultura dei maestri d’Israele, può anche affermare audace­mente che «i pubblicani e le prostitute entrano … nel regno di Dio» prima dei sacerdoti e degli anziani d’Israele8.

Spesso una cosa è quello che si afferma, altra cosa è il modo con cui lo si mette in pratica; in Gesù, invece, trovia­mo una perfetta armonia. L’importanza da lui attribuita alla loro dignità fu più che teorica, come si può vedere dai vari in­contri riportati da Vangeli, dove si prende liberamente e amo­revolmente cura delle donne.
Bibbia e quote rosa, Derek e Dianne Tidball
Collana Il duplice ascolto
p. 424 | € 20,00
ISBN: 9788832049060
Edizioni GBU, 2021
Disponibile anche in ebook

Vedi il Lunedì Letterario

Una cultura apologetica

di Stefan Gustavsson

Che aspetto ha una cultura apologetica nell’ambito di una comunità? Ha almeno cinque caratteristiche.
La prima è l’apertura. Una cultura apologetica non significa costruire un’atmosfera autoritaria in cui qualcuno ti dice come stanno le cose. Al contrario, si tratta di creare apertura e dare alle persone la libertà di pensare e di riflettere al cospetto di Dio e tirare le proprie conclusioni. Come scrive Paolo:

«abbiamo rifiutato gli intrighi vergognosi
e non ci comportiamo con astuzia
né falsifichiamo la parola di Dio,
ma rendendo pubblica la verità,
raccomandiamo noi stessi
alla coscienza di ogni uomo davanti a Dio» (2 Cor 4:2).

La seconda caratteristica è l’umiltà. Avevo un buon amico che ironicamente mi diceva: «Pensa che strano, proprio noi abbiamo ragione in tutte le questioni teologiche!» Il punto è che tutti abbiamo motivo di testare le nostre posizioni ed essere pronti a riconsiderare cose che si rivelano infondate o errate. Qui bisogna dare alle persone lo spazio per cercare la verità e ottenerla dando loro tempo di arrivare a delle convinzioni. La comunità deve essere un luogo che accoglie sia il credente sia il dubbioso. Come scrive Giuda nella sua lettera: «Abbiate pietà di quelli che sono nel dubbio» (Gd v. 22). Fondamentalmente non c’è una contraddizione tra una chiesa e le sue guide che hanno un profilo chiaro, con un chiaro insegnamento biblico e che allo stesso tempo creano un clima aperto in cui le domande oneste ricevono risposte oneste e le persone vengono prese sul serio nella loro ricerca.

La terza caratteristica è la veridicità. Non si tratta di difendere tradizioni o stabilire un sistema di opinioni: si tratta della verità. Riguarda ciò che è sempre vero, su come stanno veramente le cose, indipendentemente da noi, e prima ancora che esistessimo e dopo che saremo morti. Dobbiamo concentrarci sulla verità, tutta la verità e nient’altro che la verità, il che significa che dobbiamo essere pronti a ravvederci per tutto ciò è falso ed erroneo.

La quarta caratteristica è la sete di conoscenza. Per poter raggiungere ciò che è vero, dobbiamo imparare a pensare meglio e dotarci di strumenti per cercare la conoscenza. La comunità cristiana deve diventare un luogo in cui crescere anche in conoscenza e competenza. Un luogo in cui diventiamo tutti più abili a comprendere il mondo creato da Dio e il nostro posto in esso, e sempre più reattivi verso la Parola rivelata di Dio e ciò a cui essa ci chiama. La fiducia nella Parola di Dio e il suo studio sono assolutamente cruciali, perché insieme a Gesù nella sua posizione di sommo sacerdote, confessiamo: «la tua parola è verità» (Gv 7;17).
Vale la pena notare l’atteggiamento di Martin Lutero quando riformò l’istruzione universitaria a Wittenberg, all’inizio del XVI secolo. Scelse deliberatamente di mantenere il libro di testo della logica di Aristotele, perché era importante che il cristiano imparasse a pensare con chiarezza4. La fiducia nella Parola di Dio e l’enfasi su un pensiero chiaro stanno nelle fondamenta, non l’uno contro l’altro! (Ernest George Schwiebert, Luther and His Times, Concordia Publishing House, St. Louis, 1950, p. 299.)

La quinta caratteristica è la prospettiva. Il numero di domande è grande, ma non tutte le questioni sono ugualmente importanti e ugualmente fondamentali. Dobbiamo quindi aiutarci a vicenda a vedere cosa è centrale e cosa è periferico, cosa è fondamentale per la fede cristiana e cosa è meno decisivo. Il punto in cui come cristiani possiamo convivere senza problemi con diverse interpretazioni delle singole parti della Bibbia e dove invece si trovano i pilastri. Allo stesso modo, dobbiamo acquisire una prospettiva relativa alla cultura che ci circonda e vedere dove siamo sotto attacco e dove, a un certo punto, registriamo una tregua.

Oggi sono i fondamenti della fede a essere sotto attacco, non il modo in cui formuliamo la nostra visione del battesimo o cosa pensiamo del millennio. Dio esiste davvero o è tutta immaginazione e suggestione, una forma di autoinganno religioso? Se Dio esiste, come possiamo sapere chi egli è? Come possiamo metterci in contatto con lui? Possono avvenire miracoli in un mondo in cui possiamo descrivere tutto  utilizzando le leggi della natura? I testi biblici sono attendibili? Sono parole venute da Dio? Gesù è esistito e, se è esisto, chi era? Cosa è successo dopo la sua morte e sepoltura? È vivo oggi – e dove si trova? Perché una persona non si può relazionare direttamente con Dio senza la “mediazione” di Gesù? Come possono le nostre mancanze, i nostri errori e i passi falsi – il nostro “peccato” – essere qualcosa di così grave da separarci da Dio? E come può la morte di Gesù sulla croce cambiare la situazione? È ragionevole considerare le altre religioni come vicoli ciechi? L’uomo è influenzato dall’ereditarietà e dall’ambiente, dalla biologia e dalla sociologia, è davvero libero e responsabile? E non è umiliante sottomettersi a Dio rinunciando al proprio diritto all’autodeterminazione? In poche parole, si tratta dello scontro frontale tra la fede cristiana e la visione laica della vita, indipendentemente dal fatto che essa arrivi a noi sotto forma di culto della ragione dell’umanesimo illuminista o del relativismo postmoderno.

L’apologetica deve tornare a essere una parte centrale del compito di una comunità locale. Perché? Perché l’apologetica è biblica e perché l’apologetica è necessaria! Per alcuni l’apologetica ha un ruolo importante nel processo di avvicinamento alla fede, per altri l’apologetica gioca un ruolo importante nel processo di crescita nella fede. L’apologetica può arrivare prima o dopo la conversione, può portare le persone alla fede e può approfondire la fede. Ma senza apologetica rimaniamo – senza motivo – indifesi e senza armi.

Glover, storico dell’Università di Cambridge, descrive il successo del cristianesimo nell’Impero Romano in modo affascinante, evidenziando tre peculiari aspetti che si trovavano alla base. I cristiani vivevano una vita nuova (amore), avevano un pensiero migliore (verità) e avevano trovato una via di fuga dalla morte (speranza). Nelle parole di Glover: «Il cristianesimo fu vittorioso perché i primi cristiani superarono il mondo che li circondava nel suo modo di vivere, nel pensiero, e superarono la sua fine»5. Oggi abbiamo la stessa chiamata, incluso l’impegno “a “superare nel pensiero” il nostro tempo (T.R. Glover, The Jesus of History, Association Press, New York, 1917, p. 213.).

Stefan Gustavsson,
Vivere e confrontatsi con l’ateismo,
7-10 Dicembre Montesilvano,
16° Convegno Studi GBU

Oppenheimer. Riflessione a margine di un film sulla scienza, sul potere di morte e sulla speranza

L’estate che sta volgendo al termine è stata interessante da un punto di vista cinematografico, soprattutto per l’uscita (insolita soprattutto per l’Italia) di diversi blockbuster che hanno portato molte persone a frequentare le sale cinematografiche. E’ stata l’estate di Barbienheimer, coniando un termine che vuole unire i titoli dei due film che hanno fatto più cassa e suscitato più discussioni.

Tralasciando per il momento di parlare di Barbie, mi soffermerò nel fare alcune osservazioni personali sull’ultimo film di Christopher Nolan, Oppenheimer, uscito solo di recente in Italia e che ha avuto un discreto successo nei diversi Paesi dove è stato proiettato, nonostante la sua lunghezza (3 ore che però meritano).

Il film, al contrario degli altri di Nolan che oggi è uno dei maggiori registi viventi, è un biopic ed ha al centro della storia il fisico che, coordinando il progetto Manhattan, ha permesso la costruzione della bomba atomica che è poi stata usata nel bombardamento di Hiroshima e Nagasaki e che ha, di fatto, portato al termine del secondo conflitto mondiale. Non si tratta di una sceneggiatura originale ma è basato su una biografia intitolata Il Prometeo americano

Al contrario di quello che si possa pensare delle moderne produzioni di Hollywood, il film non è pacifista e, come accade anche in altri film di Nolan (mi riferisco soprattutto a Dunkirk), pur non indulgendo nella guerra, mostra tutte le ragioni e le scelte che portarono all’uso dell’arma di distruzione di massa da parte dell’esercito USA e di come lo stesso scienziato fosse assolutamente favorevole a questa scelta, salvo poi pensare che non bisognasse andare oltre con la ricerca scientifica ed arrivare alla produzione della bomba H (si ponga attenzione ai suoi dialoghi con Teller nel film).

La ricostruzione storica, come accade quasi sempre nei film del regista inglese, segue una linea cronologica solamente all’inizio quando si parla della formazione del fisico statunitense, per poi lavorare su due piani cronologici diversi: quello della progettazione della bomba e della costruzione dell’equipe che vi ha lavorato a Los Alamos e quello dell’inchiesta durante la Paura Rossa americana contro lo stesso Oppenheimer che sono scanditi anche dall’uso del colore nella prima parte e del bianco e nero soprattutto durante l’inchiesta del Senato americano.

Il film fa un’ottima ricostruzione di ambientazione storica soprattutto nella linea temporale che riguarda le attività a Los Alamos e lavora molto, in maniera inconsueta per l’autore britannico, sui dialoghi nella parte concernente la Paura Rossa. Ne esce fuori un monumentale film che non annoia e che, però, per essere compreso appieno avrebbe bisogno di una base di conoscenza della fisica, soprattutto quando si sofferma (anche se brevemente) sugli aspetti teorici della costruzione della bomba. Il conflitto ed il richiamo al Nazismo è ben fatto e mostra come per Nolan la Seconda Guerra Mondiale sia stata una guerra giusta contro la malvagità, senza lasciare remore su questo. 

Gli attori usati dimostrano la loro bravura, soprattutto il protagonista, Cillian Murphy e, a mio parere (contro quello di molti), anche Robert Downey Jr quasi irriconoscibile nella parte del cattivo repubblicano anticomunista. Forse qualche scena di nudo poteva essere evitata, non comprendendone il bisogno, anche se il rapporto con il mondo femminile dello scienziato risulta interessante.

Gli interrogativi che può suscitare la visione del film sono molteplici e di vario tipo e vanno da quello del nostro rapporto con la scienza, alle questioni etiche, a quelle politiche e, non ultime a quelle religiose. Cerchiamo di passarle in rassegna con ordine.

Buona parte del film è basato su quella che potremmo chiamare l’età dell’oro della fisica moderna, il periodo in cui hanno sviluppato le loro idee alcuni dei maggiori esponenti di questa disciplina che nel film sono quasi tutti presenti in dei camei efficaci (Bohr, Heisenberg, Einstein con cui vi è il dialogo più interessante) e mostra un rispetto notevole nel far percepire il potenziale delle capacità umane nello studio della natura e nelle sue applicazioni. Le discussioni a Los Alamos tra i fisici dimostrano che il regista crede veramente che siamo nell’età della scienza e che le possibilità siano infinite, ma, allo stesso tempo, non sono lesinati interrogativi sulle questioni etiche.

Quanto è stato giusto usare la bomba atomica sui civili? Questo interrogativo, come è giusto che sia, viene lasciato aperto nel film e non vi è una risposta chiara. Lo stesso Oppenheimer sembra oscillare tra l’idea che la scelta sia giusta e utile, al turbamento per quello che è stato fatto ed all’idea che una tale scelta vada assolutamente condivisa con altri e non possa essere esclusiva di una sola nazione. Sicuramente la bomba atomica non può rappresentare il bene e sta lì a mostrare tutta l’ambiguità dello sviluppo umano che può produrre grandi cose che possono essere assolutamente dannose, sulla base di scoperte che possono avere anche applicazioni positive. 

L’immagine di Prometeo è qui calzante: il mito greco parla di un uomo che sfida gli dei tramite la tecnologia. Nello studio delle religioni comparate Prometeo è stato spesso paragonato ad Adamo per il suo “peccato” di orgoglio: la domanda che sorge a colui che vede il film è proprio quella di chiedersi se imbrigliare il potere dell’atomo non sia stato, da parte del genere umano, un peccato di orgoglio. Appare anche interessante il conflitto tra mondo americano ed europeo che è latente: a parte i cattivi nazisti, i fisici europei (quelli storici come Bohr e Einstein) avranno delle remore a partecipare al progetto Manhattan, al contrario di Oppenheimer che non avrà alcun dubbio. 

Vi è poi il motivo politico: Oppenheimer aveva chiare simpatie comuniste e se questo non era stato un problema durante il secondo conflitto mondiale (bisognava comunque utilizzare le sue capacità), lo diventa allo scoppio della Guerra Fredda e della Paura Rossa: è questo il filo conduttore del secondo piano temporale del film. Non è una scelta casuale perché si vuole far vedere, almeno in parte, come siano le scelte politiche di tipo umano a condizionare quello che succede. L’idea che un “eroe” che ha avuto il merito (nella prospettiva USA) di aver accelerato la fine della guerra, possa essere processato per motivi politici e ingiustamente era una parte importante del libro da cui è tratto il film. Qui Nolan forse appare un po’ scontato, mostrando una politica corrotta e gretta rispetto alla grandezza dello scienziato. L’interrogatorio fatto a Oppenheimer rimane però una parte interessante del film ed i dialoghi di questa parte sono molto interessanti.

“Ora sono morte, il distruttore dei mondi” è una frase della Bhagavad Gita, uno degli scritti più importanti delle Upanisad che, secondo alcuni, il fisico americano avrebbe pronunciato poco prima del testo Trinity, ovvero della prima esplosione atomica. Pur non essendo certi di questa citazione, essa ci porta alla finale riflessione teologico-religiosa. In un’intervista del 1963 rilasciata al Christian Century, Oppenheimer diceva che tra le sue letture preferite, oltre Platone, vi erano i testi induisti. La differenza tra il significato della frase detta da Krishna e quello che pensava Oppenheimer è molto differente: Krishna può rimanere indifferente alla morte ed alla distruzione del mondo perché tutto torna come prima. Benché non credente Oppenheimer rimaneva fortemente legato alla sue radici ebraiche e, pertanto, non poteva “perdonarsi” l’essere causa della morte di diverse persone. E’ proprio questa una delle questioni chiave del film: la responsabilità umana di fronte a delle scelte tremende che sono fatte in nome della scienza e con una presenza divina del tutto assente.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Rammentatevi che sono morto nella fede di Dio, per la libertà. Breve profilo di un partigiano evangelico.

La Resistenza per la minoranza evangelica è stato un periodo significativo, soprattutto per coloro che hanno partecipato alle lotte partigiane, una minoranza nella “minoranza” che, però, pensava di associare la propria fede alla causa della libertà per la Nazione. Diversi sono i profili di partigiani evangelici, sicuramente in una percentuale più alta di quella che era la “densità” religiosa protestante in Italia. 

Una figura particolare di questo movimento è stata quella di Jacopo Lombardini che, come hanno ricordato recentemente NEV e Riforma, in occasione del posizionamento di una pietra d’inciampo a lui dedicata presso il Collegio Valdese di Torre Pellice, ha ricevuto per il suo operato una medaglia d’argento alla memoria dalla Repubblica italiana.

Chi era Lombardini? Al contrario di quello che si possa pensare non proveniva dalle Valli Valdese ma dalla provincia di Carrara, dove, sin da piccolo, grazie anche al nonno ed al padre, aveva avuto simpatie repubblicane e mazziniane (il nonno era stato un garibaldino che aveva partecipato al tentativo della conquista di Trento). Grazie a queste convinzioni, dopo aver terminato gli studi magistrali ed essersi dedicato anche alla poesia (scriverà nella sua vita anche dei romanzi), si era avvicinato all’irredentismo di sinistra pre-prima guerra mondiale e fu interventista democratico, tanto che si arruolò come volontario durante la Grande Guerra.

Tornato a casa, proprio anche grazie al suo mazzinianesimo ed al suo anticlericalismo che difficili da conciliare nella Chiesa Cattolica, si avvicinò dopo il conflitto alla Chiesa Evangelica e si convertì al metodismo diventando, dopo un paio di anni di studi a Roma, il predicatore della Chiesa di Carrara che fiorì durante la sua predicazione. 

L’avvento del Fascismo negli anni 1920 e il suo voler vivere in un territorio che riteneva più “libero” per gli evangelici lo portò, dopo diverse frequentazioni estive, a trasferirsi nelle Valli Valdesi, dove, dopo qualche anno, divenne insegnante presso il Collegio Valdese di Torre Pellice. La sua attività di educatore e la sua volontà di voler istruire i giovani è attestata da diverse sue affermazioni. Lombardini fu un esempio di quello che spesso è avvenuto nel mondo evangelico italiano: uomini dalla “doppia vocazione” che insieme alla predicazione cercano di conciliare il proprio lavoro secolare, in questo caso quello di educatore.

La sua adesione all’antifascismo è da farsi risalire immediatamente dopo l’avvento al potere di Mussolini. Aderì, proprio per le sue idee repubblicane e mazziniane, sin da subito al gruppo fondato dai fratelli Rosselli di Giustizia e libertà (gruppo di cui molti evangelici fecero parte) che poi confluì nel Partito d’Azione, sempre di ispirazione repubblicana e mazziniana.

Nel 1942 viene sospeso dall’insegnamento su segnalazione di un genitore che si lamentava dei valori non propriamente fascisti insegnati dal docente carrarino. 

Qualche mese dopo Lombardini aderirà alla lotta partigiana proprio nei gruppi affiliati al Partito d’Azione e farà parte della V divisione Alpina di Giustizia e Libertà, dove avrà anche il ruolo di cappellano laico della divisione (dove non militavano solo evangelici). Sarà così che nel marzo del 1944, dopo un duro rastrellamento da parte delle forze naziste, Lombardini sarà arrestato e tradotto prima a Torino, poi a Fossoli, poi a Mathausen, dove pur vivendo giorni terribili non perderà né la fede, né la speranza. Qui continuerà a scrivere e ad occuparsi degli altri prigionieri. E’ di questo periodo la seguente poesia, scritta in occasione della morte del ventunenne partigiano Sergio Toja, cui sarà intitolata la stessa divisione di cui era membro Lombardini.

 

Sergio, fratello, ti ho visto

sul marmo di sala mortuaria

piccola e nuda e solitaria 

e in alto una forma di Cristo. 

Come Lui, nudo e forato, di nulla coperto che un panno 

nel vestibolo dedicato 

– a quei che risusciteranno -.

Tu così hai fatto partenza:

forse anch’io, ora, ho più fretta;

che vuoi: si vive, si aspetta

con indisciplinata impazienza

 

Prima della morte avvenuta nella camera a gas proprio il 25 aprile 1945, scriverà questa commovente alla propria sorella, testimone della fede mantenuta anche in circostanze tragiche come quella che aveva vissuto.

 

Cara Maria, 

Se ti arriverà questa mia lettera che affido ad un mio amico vorrà dire che mi è successo qualche disgrazia e che ho finito di soffrire. Ti scrivo dai monti, dove mi sono rifugiato per non sottostare alla dominazione tedesca e per fare un po’ di bene. Sono infatti un po’ il cappellano dei Valdesi che sono nelle Bande partigiane. Pur essendo del tutto disarmato è logico che io corra gli stessi pericoli dei miei compagni che hanno deciso di salvare con le armi l’Italia e di dare al popolo d’Italia un regime giusto e libero. Ho accettato di fare questo come un dovere, perché non ho mai cessato di amare la libertà. Ti prego di perdonarmi di questo dolore che ti do. Ti prego di perdonarmi i dolori che ti ho dato nella vita. Ma ti ho sempre voluto bene, ed ho voluto bene a tutti i miei nipoti. Salutameli ad uno ad uno. Salutami Filiberto e tutti i parenti. Salutami i fratelli che sono rimasti del gruppo evangelico. Mi dispiace di non aver potuto far nulla di quanto avevo in mente per esso. Mi raccomando a tutti che non lasciate spegnere quella piccola luce di fede e di speranza che è stata accesa nel nostro paese. Io morirò, con l’aiuto di Dio, nella fede Evangelica alla quale sono stato chiamato per grazia di Dio. Siate fedeli anche voi. In questi giorni di pericolo di morte, io provo quale tesoro sia la fede: essa infatti mi permette di essere tranquillo. A Dio, mia cara sorella, a Dio, miei cari parenti ed amici tutti. Rammentatevi che sono morto nella fede di Dio, per la liberta. Siate fedeli a Dio ed amate la libertà per la quale tanti sono morti. 

Jacopo Lombardini

 

La sua esortazione di rimanere fedeli a Dio, ad amare la libertà, a rimanere fermi nella fede evangelica sono alcune delle caratteristiche del piccolo mondo evangelico italiano che non vanno dimenticate e che vedono proprio in Lombardini, come affermava anche Spini, il punto di unione tra la fede, l’aspirazione ad una Nazione libera, il Vangelo, il Risorgimento e la Restistenza. Per il suo esempio e la sua morte Lombardini fu insignito della medaglia d’argento alla memoria. La motivazione del conferimento dice:

 

Lombardini Jacopo fu Francesco e fu Musetti Assunta da Gragnana (Apuania) classe 1892, partigiano combattente. Uomo di cultura e patriota di sicura fede fu, subito dopo l’armistizio. animatore infaticabile della lotta di liberazione nelle Valli del Pellice e della Germanasca; conosciuto ed amato dai giovani che andava ammaestrando nella fede alla Libertà e alla Patria. Caduto in mano ai tedeschi nel corso di un duro rastrellamento e crudelmente seviziato, manteneva sempre contegno elevato ed esemplare, affrontando con cristiana serenità il duro calvario dei campi di concentramento. Barbaramente suppliziato chiudeva l’esistenza nel servizio dei più nobili ideali.

 

Fede,  libertà e amore per il proprio servizio sono valori che ancora oggi noi dobbiamo continuare a trasmettere, anche ricordando la commemorazione civile del 25 aprile.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Atei non si nasce … si diventa!

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Questa affermazione potrebbe ben assurgere allo status di quaestio degna delle migliori dispute teologiche medievali. In effetti, da un punto di vista dogmatico, ci sarebbe molto da discutere, incrociando i dati della dottrina della creazione con il corredo di quali fossero le dotazioni della creatura umana a immagine di Dio che poi sono andate perse con la caduta nel peccato, con quelli della dottrina del peccato e dell’antropologia, su quale sia la portata epistemica del peccato. Se cioè in questi sia ricompreso anche il rifiuto di credere nell’esistenza di Dio (incredulità), postura riconducibile a un’interpretazione piana del termine ateismo.

Ma in queste righe non mi interessa tanto la posta in gioco teologica, anche se personalmente, a leggere Romani 1, una certa idea ce l’ho e propende verso il corno della negazione, vale a dire che non sembrerebbe contemplata nella condizione di depravazione totale, nella condizione di caduta nel peccato, la non credenza, la negazione dell’esistenza di Dio.

Ragion per cui si pone il problema della sua origine: da dove viene la negazione professata della non esistenza di Dio?

L’affermazione vuole semplicemente porre il problema in questi termini: l’ateo non inizia la sua riflessione sul mondo a partire dal presupposto che Dio non esiste. Affermazione questa che in qualche modo vuole passare al lato all’esperimento attribuito a Ugo Grozio o più in generale allo scetticismo del Seicento: etsi Deus non daretur.

«Dio non esiste» sarebbe al contrario la conclusione di un percorso di varia natura: logico–argomentativo, esistenziale, fenomenologico, razionalistico, psicologico, sociologico, scientifico, etc. La rilevazione di questo spostamento, dal presupposto alla conclusione, è probabile che non avvenga nell’arco della speculazione o dell’esistenza di un solo individuo, di un solo pensatore – sulla possibilità di commisurare esistenza e speculazione filosofica del singolo, si guardi allo scritto ebraico e biblico di Qoelet.

La rilevazione potrebbe avvenire nel considerare dei fenomeni che vadano oltre le singole biografie, che coinvolgano periodi storici o scansioni temporali e culturali (si pensi agli anni in cui era in voga il nuovo ateismo!).

Questa possibilità, vale a dire che l’affermazione «Dio non esiste» sia una conclusione e una meta del percorso della mente umana piuttosto che un presupposto o un punto di partenza, spiazza totalmente l’impresa apologetica e in particolare l’apologetica evangelica degli ultimi vent’anni. Questa, infatti, è stata incentrata molto sulla mossa di poter dimostrare, magari dialogando, argomentando, dibattendo che no, non bisogna partire dal presupposto che Dio non esiste, ma dal presupposto opposto, Dio esiste, e ci sono molte cose che lo dimostrerebbero. Addirittura, una vera e propria scuola apologetica si è intestata questa strategia, definendosi appunto, presupposizionalismo.

Ebbene, che cosa cambierebbe se, invece di considerare la posizione atea un punto di partenza, la considereremmo al contrario un punto di arrivo, a volte di vero e proprio approdo?

In primo luogo, avremmo un indizio sulla possibilità di costruire una eziologia dell’ateismo; e qui scopriremmo che molto spesso la posizione atea è seconda rispetto alle posizioni teistiche variamente articolate nel corso della millenaria avventura della teologia, ma anche filosofia, cristiana.

Scopriremmo anche che alcune posizioni atee sono, legittimamente, conclusioni raggiunte a partire da costruzioni dogmatiche che tanto dicono di Dio quanto si allontanano dall’esperienza diretta del divino e, in particolare, dall’esperienza del Dio della Bibbia.

In secondo luogo, si aprirebbe la possibilità di ripercorrere, con tanta umiltà da parte dell’apologeta, il percorso che ha condotto alla conclusione ateista. Che cosa voleva dire veramente Nietzsche, quando fa dire a Zaratustra che «Dio è morto»? Con chi ce l’aveva l’altro maestro del sospetto, collega del filosofo del nichilismo, quando affermava che la «religione è l’oppio dei popoli»? Possiamo far nostro l’avvertimento freudiano sulle tante illusioni che albergano il discorso religioso, incluso il gergo della teologia cristiana.

L’ontoteologia tanto aborrita da gran parte della filosofia contemporanea è veramente un frutto indigesto del lavoro della teologia cristiana che ci presenta un Dio davanti al quale non possiamo più rivolgere preghiere e, quindi, meglio da rimuovere come uno dei deliri della mentalità violenta del pensiero occidentale?

Ci vuole un grande bagno di umiltà per ascoltare la conclusione dell’ateo e poi chiedergli, va bene, le tue conclusioni appaiono corrette, ma vogliamo ripercorrere la strada insieme per vedere se il Dio della Bibbia coincida totalmente con il dio dell’ontoteologia? Se c’è ancora una differenza, una pascaliana differenza, tra il dio dei filosofi e il Dio di Abraamo, Isacco e Giacobbe?

Forse un aiuto in un simile rovesciamento di prospettiva può venirci dall’illuminante fatica di Paolo Ricca che nel suo Dio. Apologia (Claudiana 2022) ci fornisce un esempio, soprattutto nella prima parte, Dio nella modernità (pp. 31–151), in cui entra all’interno di molti percorsi ateisti della modernità tracciando bilanci e trovando inaspettate possibilità apologetiche.

Un libro sicuramente non esente da spunti su cui continuare a riflettere, soprattutto per il debito che paga a Karl Barth, pensatore non molto distante da quella corrente del presupposizionalismo a cui si faceva riferimento sopra, ma tuttavia un libro che dovrebbero leggere e meditare tutti coloro che hanno a che fare con gli studenti universitari nella speranza di condividere con loro Gesù da studente a studente.

Se poi non bastasse, allora non possiamo non segnalare che, proprio il tema dell’ateismo e del vivere con e insieme agli atei, è il tema del XVI Convegno di Studi GBU (7–10 dicembre 2023) «Vivere e confrontarsi con l’ateismo».

Raccogliamo la sfida: andiamo in cerca di coloro che, forse, un po’ anche per colpa nostra, pur non essendo nati atei, sono diventati tali!

Contro la marea 2 (La famiglia conta)

Prosegue la pubblicazione – settimanale – di otto paragrafi (qui il secondo) del libro del teologo di orgine croata Miroslav Volf, che sarà in libreria a Maggio, dal titolo Contro la marea. L’amore in un tempo di sogni meschini e di continue inimicizie. Il libro è una raccolta di brevi scritti, alcuni dei quali hanno poi visto un loro ampliamento in libri tematici.

Ma io non sono Abramo
Per qualche tempo sono stato sia attratto sia turbato dalla storia del viaggio di Abramo per presentare suo figlio Isacco come olocausto nella terra di Moria. Ero colpito dalla straordinaria devozione di Abramo verso Dio, ma avvertivo repulsione al pensiero che questa devozione lo portasse a volere il sacrificio del suo unico figlio. Così ho riflettuto con estremo interesse su un articolo di un numero dell’International Journal of Systematic Theology. Nel discutere la lettura di questa storia fatta da Kierkegaard, Murray Rea sosteneva che «mentre nessuna giustificazione dell’azione di Abramo… poteva essere offerta, era però da ammirare il suo fidarsi di Dio oltre i limiti della sua comprensione». Tale fiducia è comunque ammirevole, aggiungeva, «soltanto nel contesto di una lunga vita di ubbidienza e amore»

Leggevo il testo e in silenzio annuivo in quanto ero d’accordo con quanto scritto. Quando sono arrivato all’ultima pagina ho visto un disegno di una piccola mano. Pochi giorni prima stavo “leggendo” la rivista con mio figlio Nathanael, che allora aveva venti mesi. Annoiato perché non c’erano immagini di persone o animali, aveva deciso di aiutare i redattori e aveva aggiunto qualcosa di interessante nella rivista. «Papà, ruka [che in croato significa “mano”]», aveva detto mentre collocava la sua mano sulla porzione di pagine alla fine dell’articolo. Avevo preso allora una matita e avevo disegnato il contorno delle sue piccole dita.
«Lo avresti fatto?»; nella mia immaginazione pensavo a un Nathanael dodicenne, un ragazzo della stessa età di quella che aveva Isacco quando avrebbe potuto trasportare la legna per il sacrificio, che mi poneva questa domanda.

«No figlio» rispondevo rapidamente, rabbrividendo al solo pensiero di tutto ciò. «Non lo avrei mai fatto».
«Ma non eri d’accordo con il Sig. Rea?»
«Si, ma non sono Abramo».
«E se Dio ti avesse detto di “offrire il tuo solo figlio, Nathanael, che tu ami”? Non avresti ubbidito a Dio?».
«Non è facile riconoscere la voce di Dio. Ti ricordi la storia di Samuele? Pensava che il suo vecchio maestro lo stesse chiamando, quando in realtà Dio gli stava parlando. Il più delle volte capita esattamente il contrario».
«Sì, ma Samuele era allora soltanto un bambino»
«Se sentissi una voce che mi dicesse di offrirti come un olocausto, non penserei che fosse Dio. Non posso non pensare che Kant avesse in parte ragione»
«Kant?»
«Si, Immanuel Kant, il famoso filosofo. Pensava che Abramo avrebbe dovuto rispondere alla voce dicendo, “È quasi certo che io non devo uccidere un figlio innocente, ma non sono e non posso mai diventare certo che, il “tu” che mi sta apparendo”, sia Dio».
«Kant pensava che Abramo avesse torto, ma tu pensi che Abramo avesse ragione?»
«Si, Kant aveva torto su Abramo. Non tutti le sortite nel campo che va oltre l’etica sono proibite. Ma Kant avrebbe avuto ragione, se stesse parlando di qualcun altro. Paragonandomi ad Abramo, io spiritualmente sono come Samuele, un piccolo ragazzo che non sa».
«Oh dai, papà! Sei un grande uomo e insegni teologia a Yale!»
«No, Nathanael, Abramo era il più grande tra i grandi, Dio gli dice di lasciare la terra dei suoi genitori, non farti idee strane! Ubbidisce, e si scopre che era la cosa giusta da fare. Dio gli dice che avrà un figlio, anche se fisicamente lui e Sara non potevano avere figli, e nasce Isacco. Abramo sapeva come ascoltare Dio. Vedi, la sua abilità a riconoscere la voce di Dio e la sua volontà di avere fiducia in Dio si rinforzavano a vicenda».

«Significa che quando Abramo dice ad Isacco che “Dio provvederà all’agnello” non gli stava lanciando fumo negli occhi?»
«Non penso lo facesse. Abramo sapeva due cose: sapeva che Dio gli aveva parlato e sapeva che poteva avere fiducia di Dio».
«Quindi Abramo aveva ubbidito sapendo in anticipo che non avrebbe fatto ciò che Dio gli aveva comandato?»
«“Sapere” è troppo forte, “Avere fiducia” è meglio”».
«Ma ha quasi assassinato Isacco!»
«Quasi»
«Questo è bene. Isacco non è stato assassinato. Grazie a Dio la storia non ha niente a che fare con me e te. È una storia che narra di un grande uomo, un padre che potremmo ammirare ma non imitare».
«Giusto, non dovremmo imitare Abramo in questo aspetto. L’Antico Testamento proibisce specificatamente il sacrificio di bambini. Tuttavia, la storia ha qualcosa a che fare con me e te. “Suppongo”, continuavo, “che Dio mi chieda: ‘Chi è più importante per te, Nathanael o Io?’” Cosa pensi che dovrei dire?”».
«Dovresti dire “Dio”»!
«Perché?»
«Tu mi hai detto che il mio nome significa “Dio ha donato”, giusto»?
«Giusto».
«Bene, se non fosse per il donatore, non ci sarebbe nessun dono».
«Ragazzo sveglio! Per riceverti come un dono da Dio, giustamente, devo amare Dio più di te. In un certo senso è ciò che Dio ha fatto. Sei geloso?»
«No. Se non fosse stato per Dio, tu non mi avresti avuto e io non avrei avuto te; non potremmo giocare a pallone e sciare insieme, e tu non potresti insegnarmi a guidare anche se ho dodici anni, e tu…»
I miei pensieri furono interrotti dal suono dei piedini che stavano correndo verso di me. Ignaro della seria conversazione che stavo avendo nella mia mente con il suo io più creesciuto, il mio piccolo figlio strofinò la sua testa sulle mie gambe e richiese “Solletico!”. L’ho fatto, per metà rammaricandomi che non potevo andare avanti a dire al suo sé più adulto del Dio che, ben lontano dal richiedere di sacrificare i nostri bambini, sacrificò se stesso nella persona del Figlio per la nostra salvezza. Allora mi avrebbe probabilmente chiesto dell’abuso divino sul figlio e gli avrei dovuto dire qualcosa sul mistero della Trinità. Un’altra volta.

(M. Volf, Contro la marea. L’amore in un tempo di sogni meschini e di continue inimicizie, Edizioni GBU, di prossima pubblicazione

Missione urbana

Missione urbana

(M. Volf)

Miroslav Volf, Contro la marea, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU

Quando nel 1997 visitai un sobborgo di Baltimora chiamato Sandtown, il ricordo più vivo che conservo è quello di un fastidioso e stridente contrasto. Ricordo un intero agglomerato di case abbandonate, ognuna somigliante a un grande teschio, con il vuoto buio che veniva fuori dalle porte e dalle finestre rotte e la vita che beffardamente l’aveva abbandonata. Nel mezzo di questi ruderi, comunque, c’era una strada brulicante di vita. Le case erano state riparate e dipinte con brillanti colori, i vicini chiacchieravano fra di loro, i bambini stavano giocando per le strade. Era come se in questo posto una sorta di risurrezione avesse rivestito le ossa secche della morte urbana con una pulsante carne di vita. Al cuore di questa improbabile trasformazione vi era una piccola compagnia di cristiani. Si chiamava New Song Community (Comunità del Canto Nuovo).

To live in Peace (2002) è un’opera che racconta la storia di questa comunità e offre una spiegazione per la sua missione all’interno della città. L’autore, Mark Gornik, rispondendo a una chiamata proveniente da Dio, è stato tra i primi ad andare ad abitare a Sandtown. Il libro dà un’eloquente testimonianza di vita, prendendo come modello l’amore di Cristo che si dona, ispirato dallo Spirito di vita, con vite che qui trasformano un panorama urbano senza speranza in un luogo del Dio della pace.

Per leggere in maniera appropriata questo libro, andate direttamente al quinto capitolo, dal titolo «Cantare un nuovo canto». Questo capitolo, con la storia della graduale risurrezione di Sandtown, è il cuore del libro. Senza di esso le importanti riflessioni teologiche e sociologiche che precedono e seguono non possono essere pienamente comprese. Ispirato dall’opera pioneristica di John Perkins sullo sviluppo delle comunità (le sue famose tre “R”: Ricollocazione, Riconciliazione e Redistribuzione), Gornik e Allan Tibbles si sono mossi nel vicinato non armati di qualche «piano o programma», ma solo con la convinzione che «la chiesa di Dio è la comunità riconciliata che porta giustizia nei punti di più grande sofferenza del mondo».

Iniziarono ad andare in giro nella comunità sin da quando, secondo una testimonianza che parlava «della capacità di grazia di Sandtown», si sentirono accolti. Da allora, come afferma Gornik, tutto dipese non tanto dallo sforzo di quei pochi che andarono ad abitare a Sandtown, quanto da quello dei molti che non l’avevano abbandonata «durante i tempi duri». Dapprima sorse una comunità ecclesiale, poi le case arrivarono a prezzi abbordabili per tutti, poi ancora il drastico miglioramento del sistema educativo e sanitario locale. Infine fu messa in piedi un’efficiente strategia per l’occupazione. Gli obbiettivi sono facili da enumerare, ma ogni passo raggiunto con successo ha richiesto un miracolo di coraggio e tenacia.

Ho finito il libro colpito e provocato in molte maniere. In primo luogo è una sfida personale. Gornik e Tibbles non hanno scelto di perseguire il confort del servizio cristiano in ambienti della classe media. Al contrario, hanno deciso di ricollocarsi in un posto desolato e senza speranza. Per Tibbles questa era una sfida molto speciale: è quadriplegico, sposato, e padre di due ragazze. Ciò che mi ha colpito non era soltanto la robusta santità dei due uomini, ma come se ne rivestivano con leggerezza, senza sforzo o autocelebrazione.

In secondo luogo, è una sfida ecclesiale. Nonostante la retorica del servizio reso al mondo, le chiese spesso soccombono alla tentazione di vivere in primo luogo per se stesse, far crescere i loro numeri, incrementare i loro programmi, costruire nuovi edifici. Per la New Song Community, la chiesa significa essere per gli altri, con gli altri, specialmente con i più bisognosi. «I ministeri di giustizia e riconciliazione non sono aggiunte che stanno fuori dal campo della chiesa», ma sono «costitutivi della vita ecclesiale unita a Cristo».

La terza sfida concerne il carattere del servizio. Troppo spesso tutti aiutiamo i bisognosi in una maniera tale da umiliarli. Anche il discutere di “potenziamento” è un qualcosa che ti lascia un sapore amaro di condiscendenza. Il libro To live in Peace è tinto di profondo rispetto per la dignità dei bisognosi. Non sono gli “altri” per cui deve essere fatto qualcosa, ancor meno gli ignoranti che devono essere istruiti o gli indisciplinati che devono essere disciplinati. Sono membri di famiglia che sono incappati in tempi difficili e devono essere  incoraggiati e aiutati.

In quarto luogo, la sfida di collegare la fede con la vita. Gornik argomenta ripetutamente contro l’idea di affrontare il problema delle periferie con progetti preconfezionati che, o derivino dalla fede o siano informati da tesi secolari (sebbene il libro faccia un grande uso di suggestioni teologiche e sociologiche). Al contrario, suggerisce una duplice strategia: 1. mantenere l’attenzione sul punto verso cui è necessario che la comunità si muova (lo shalom della nuova creazione di Dio) e sul sentiero su cui bisogna camminare (l’amore di Cristo che si dona) e 2. concentrarsi «sul fare fedelmente mille piccole cose in un periodo di diversi anni».

Infine, il libro è una sfida per chi pensa a iniziative basate sulla fede. Gornik sa che la chiesa ha risorse significative e uniche per rivolgersi ai bisogni delle periferie; il suo libro è una spiegazione di queste risorse. Tuttavia avverte che l’attuale enfasi sulle iniziative basate sulla fede personalizza eccessivamente la povertà e il cambiamento sociale e non dà attenzione sia «ai bisogni di infrastrutture e capitali» sia alla dimensione strutturale della povertà. Gornik si rifiuta di essere preso da false alternative tipo l’attenzione per le persone o per le strutture. Se le comunità devono vivere in pace bisogna indirizzarsi su entrambe, e perciò sia la chiesa sia i governi hanno un ruolo da giocare.

La saggezza cristiana, l’impegno e il coraggio inscritti nel libro di Gornik e incarnati nella New Song Community sono straordinari. Spero che tutti possano cogliere qualcosa dalla visione di Gornik: «Guidati dalla convinzione che Cristo crocifisso crea spazio per l’abbraccio degli altri e che lo Spirito del Cristo risorto porta nuova vita», le chiese possono e devono servire «a portare avanti lo shalom nelle periferie cittadine».

 

L’articolo è tratto dal libro Contro la marea, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU

Lotta, pace e riconciliazione. In ricordo di Desmond Tutu.

E’ notizia di ieri che il vescovo anglicano Desmond Tutu ha lasciato questa terra. Tutu è stata una delle figure più rappresentative del cristianesimo alla fine del secolo scorso ed ha dato un contributo importante al processo di cancellazione delle regole dell’apartheid in Sud Africa, aiutando una delle più pacifiche “rivoluzioni” avvenute negli ultime decenni.

Bisogna però ricordare che, al contrario di Mandela, Tutu è stato ed è voluto essere in primo luogo un uomo di chiesa. Formatosi nell’infanzia in un ambiente metodista (quello che in Sudafrica ha sempre avuto una posizione di netta condanna nei confronti della segregazione razziale), l’incontro con il vescovo anglicano Tom Huddleston lo avvicinò a questa denominazione e gli permise (lui proveniente da una famiglia di umili origini) un’ottima formazione teologica al King’s College di Londra.

Tornato nel proprio Paese, Tutu nel suo primo periodo ministeriale, rimase piuttosto “indifferente” alla questioni più squisitamente politiche e cercò, in una situazione di chiara difficoltà, di predicare un Vangelo che fosse separato dai problemi che iniziavano ad attraversare il Paese e che avevano esautorato la popolazione di colore da qualsiasi possibilità di decidere il proprio futuro. La sua concezione del rapporto tra Stato e Chiesa era piuttosto laica ed a favore di una separazione delle due sfere. Questo, però, non impediva un impegno nel sociale e nella ricerca di alleviare dai problemi le fasce più svantaggiate della società. 

La svolta avvenne nel 1975, quando Tutu si trovò a ricoprire il ruolo di Decano della chiesa anglicana di Johannesburg, proprio quando scoppiarono le rivolte nel ghetto di Soweto che videro come risposta una durissima repressione da parte del governo bianco. Fu in quel momento che Tutu intensificherà la sua militanza teologico-politica che lo porterà ad una dura condanna del regime di apartheid ed al tentativo di cercare di “predicare” una società dove la razza non dovesse giocare alcun ruolo. Pur propendendo per una soluzione non violenta, non respinse anche la possibilità di azioni forti da parte di coloro che erano oppressi.

Divenuto vescovo di Città del Capo (il primo vescovo di colore anglicano in Sudafrica), Tutu continuò la sua militanza ed il suo essere schierato a favore della giustizia razziale e del ripristino di un regime giusto ed uguale per tutti. Le sue battaglie di questo periodo portarono l’Accademia di Oslo a conferirgli nel 1984 il Premio Nobel per la Pace. Si trattò di una chiara scelta politica dove gli Svedesi da una parte vollero mettere pressione sul regime dell’apartheid, dall’altra decisero di scegliere un esponente che lottava per la giustizia senza però posizioni di radicalizzazione e di violenza presenti in alcuni esponenti dell’African National Congress (di cui Tutu non ha fatto mai parte) e anche da parte di alcuni esponenti di chiese che erano più radicali nelle loro scelte, forse anche perché il loro ministerio non era all’interno di chiese multirazziali come lo è la Chiesa Anglicana in Sud Africa (mi riferisco qui ad esponenti teologicamente significativi ma anche discussi come il riformato Allan Boesak).

Nel 1994, con Nelson Mandela presidente (a cui lo legherà una profonda amicizia), Tutu sarà chiamato a coordinare e presiedere la Commissione per la Verità e la Riconciliazione che doveva cercare di dare un contributo alla nascita del nuovo Sudafrica, ricordando le ingiustizie commesse, ma cercando soprattutto la pacificazione tra le diverse componenti della società della nuova nazione. Il lavoro della Commissione è diventato un modello per le transizioni pacifiche da una situazione di regime autoritario e democratico, cercando di superare il modello di semplice condanna del passato (lo stesso Tutu affermava che il tentativo è stato quello di superare il modello Norimberga, in cui coloro che avevano perpetrato il male venivano semplicemente condannati) e volendo trovare la Verità per partire da questa per una riconciliazione tra le parti senza dimenticare il passato ma andando avanti. I lavori della commissione che sono ancora oggi un modello per il dibattito democratico odierno possono essere consultati al sito https://www.justice.gov.za/trc/. Nonostante gli sforzi fatti e la pubblicazione di diversi volumi da parte della Commissione, il lavoro non è stato accettato da tutte le parti, anche se ha permesso una transizione pacifica al Paese che, pur vivendo ancora oggi diverse difficoltà, è diventata una democrazia piuttosto solida. Tutu ha continuato per il resto della sua vita, anche quando si è ritirato come negli ultimi anni, a combattere per le ingiustizie nei confronti dei più deboli.

Il vescovo sudafricano è noto soprattutto per le sue azioni che per le sue idee e per questo va ricordato e può essere oggi, senza retorica, affiancato (come già in molti hanno fatto) a uomini come Martin Luther King jr per quello che ha fatto. Questo, però, non impedisce di fare una rapida analisi del suo pensiero, contenuto soprattutto in opere che sono essenzialmente raccolte di discorsi e di predicazioni. In una interessante intervista rilasciata nel 1992 a Christianity Today (consultabile al link https://www.christianitytoday.com/ct/1992/october-5/prisoner-of-hope.html), Tutu mostra come il suo pensiero ha profonde radici bibliche e, in particolare, come spesso è accaduto per pensatori che hanno collegato le loro battaglie a percorsi di liberazione, fa riferimento ai libri profetici, abbondantemente citati nell’intervista. Non manca però un riferimento alla teologia paolina della riconciliazione e del perdono che è stata alla base dell’ultima parte del suo operato e che ha avuto come frutto il lavoro della commissione succitata, ancorata a sicuri valori cristiani. Il suo percorso è sempre stato “ecumenico” (ha anche lavorato per un certo periodo per il Consiglio Ecumenico delle Chiese) ed attento alle problematiche sociali e politiche, non dimenticando però il suo ruolo pastorale che è sempre rimasto al centro delle sue idee. 

Il lascito di Desmond Tutu è importante e deve far riflettere tutti noi come il cristianesimo si possa veramente mettersi al servizio della società in cui vive per renderla migliore e più giusta, senza per questo compromettere il messaggio di redenzione. Tutu, pertanto, rimane uno dei “profeti” del nostro tempo cui bisogna guardare quando ci si vuole realmente impegnare nella società, senza per questo compromettere la propria fede ed essere fedeli testimoni dell’annuncio di Cristo.

                                                                                                                                                      

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Il razzismo da Robinson Crusoe ad Atticus. Percorso storico letterario

di Filippo Falcone

Nella sua bozza iniziale della Dichiarazione di Indipendenza, Thomas Jefferson aveva incluso un formidabile attacco frontale all’istituto della schiavitù. Dopo un intenso dibattito tra i delegati radunati a Philadelphia nella primavera e inizio estate del 1776, il passaggio venne stralciato. Non così, però, il principio da cui quel passaggio discendeva: “I hold this truth to be self-evident, that all men are created equal” (“Considero questa verità in sé ovvia – che tutti gli uomini sono creati uguali”). Si dovette attendere, tuttavia, quasi un secolo e una Guerra Civile (1861-65) perché quel seme germogliasse – la schiavitù fu abolita dal tredicesimo emendamento alla Costituzione ratificato sotto gli auspici del presidente Lincoln il 6 dicembre del 1865. La legislazione non pose immediatamente fine a tutte le forme di schiavitù, specie negli stati del sud, dove ragioni economiche si sommavano alla discriminazione razziale quali fattori di preservazione di fenomeni schiavistici. Ciononostante, il paese aveva posto le basi per un cambiamento di rotta. Lo stesso non può dirsi per la discriminazione e la segregazione razziale. Fenomeni di discriminazione e segregazione segnarono l’intero secolo successivo in un inesorabile crescendo che conduce idealmente al Movimento per i Diritti Civili degli anni ’50 e ’60 del Novecento. La battaglia non violenta di Martin Luther King Jr. fu tutta tesa ad ottenere pari dignità e diritti di cittadinanza per gli afro-americani. L’elezione di Barack Obama alla presidenza del paese nel 2008 pare segnare simbolicamente la fine di un percorso, un punto d’arrivo, la presa di coscienza definitiva di quel principio creazionale enunciato più di due secoli prima. I fatti recenti di Minneapolis paiono smentire questa conclusione e ci riportano drammaticamente alle pagine più buie della storia americana. Culturalmente questa pagina di storia risale a un tempo antecedente la Dichiarazione di Indipendenza in Inghilterra.

 

Siamo a Londra, nel 1719, quando viene pubblicato Robinson Crusoe, primo romanzo di Daniel Defoe, da molti considerato il primo romanzo della letteratura inglese (alcuni ravvisano in Oroonoko di Aphra Behn il precursore del romanzo moderno). Robinson incarna la classe media puritana inglese in grado, con pragmatismo, ragione e fiducia nella provvidenza, di controllare e governare una realtà avversa e apparentemente irreversibile. Quando avviene l’incontro tra Robinson e Friday, il primo soccorre il secondo da morte certa. Subito il rapporto tra i due si delinea come relazione tra salvatore e salvato. Subito Robinson dà un nome al nativo, ridefinendone l’identità in relazione a se stesso. Ogni identità precedente viene obliterata. L’uomo ora è Friday, giorno in cui Robinson l’ha soccorso. E Friday si rivolgerà a Robinson chiamandolo “master” (padrone). Il ruolo di subordinazione dell’indigeno all’uomo inglese viene così immediatamente sancito, ma si completa soltanto con la totale ridefinizione culturale di Friday. Robinson dà a Friday vestiti lisi e strappati, ma pur sempre europei, con cui coprirsi e Friday è ben lieto di riscoprirsi vestito come il suo padrone. Robinson non si cura poi di apprendere la lingua di Friday, ma gli insegna la sua. Solo i rudimenti, però, soltanto quanto basti a comprendere gli ordini del padrone ed eseguirli. Robinson ha delle armi, ma non permette a Friday di usarle, così come ha utensili e una conoscenza tecnico-pratica che segnano uno scarto ulteriore rispetto al suo sottoposto. I giudizi estetici di Robinson confermano un’intera visione del mondo: se Friday è bello, è perché i suoi tratti non sono grossolani come quelli di un africano, ma fini, come quelli di un europeo. Infine, la religione. Robinson istruisce Friday negli elementi della vera religione, la religione cristiana e riformata, in contrapposizione con le credenze pagane e primitive di Friday. Si scorge qui un movimento di affermazione ideologica e identitaria, che poco ha a che fare con la testimonianza evangelica. Se in Robinson non c’è in nessun caso malevolenza, né volontà di sopraffazione, dall’inizio alla fine il nativo è percepito come una tabula rasa su cui scrivere la propria storia. Da un lato Friday è parte di quella realtà irregolare che Robinson deve dominare o porre sotto il proprio controllo, dall’altro si definiscono già i contorni di quella volontà civilizzatrice che, nelle parole di Kipling, è il fardello dell’uomo bianco – una sorta di dovere morale di trasmissione di valori, conoscenze, costumi e strumenti propri di una civiltà, quella inglese, considerata superiore.

 

Sono queste e altre le dinamiche di una mentalità coloniale che non si configura come meramente culturale. Esiste un dettaglio spesso trascurato in quella che può essere considerata cornice narrativa, che rimanda drammaticamente al contesto storico che fa da sfondo alla vicenda. Robinson possiede una piantagione in Brasile e, quando la sua nave fa naufragio, è diretto alla volta del continente africano verosimilmente con l’intento di fare incetta di schiavi che coltivino le sue terre. È il secolo della tratta degli schiavi. Ce ne dà massimamente conto Olaudah Equiano (Gustavus Vassa), abolizionista originario dell’allora Regno del Benin. Venduto due volte come schiavo, Equiano si convertì al cristianesimo, battezzandosi nel 1759, e riuscì ad acquistare la libertà nel 1766. Le sue memorie (The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano, or Augustus Vassa, the African, 1789) forniscono uno spaccato dei disumani orrori della tratta – in particolare di quello che era conosciuto come il “middle passage”, il viaggio verso l’America – che tanta parte avrà nello smuovere le coscienze in funzione dell’approvazione dello Slave Trade Act americano (1794), ratificato da George Washington, e quindi di quello inglese (1807), frutto dell’infaticabile sforzo di un gruppo di pressione di evangelici e quaccheri, che godeva di una nutrita rappresentanza in parlamento e di una voce incisiva come quella di William Wilberforce.

 

Le memorie di Olaudah Equiano stanno all’abolizione della tratta degli schiavi come l’autobiografia del metodista-episcopale Frederick Douglass (A Narrative of the Life of Frederick Douglass, an American Slave, 1845) all’abolizione della schiavitù in America. La descrizione delle brutalità e ingiustizie subite da Douglass, schiavo dalla nascita, per mano dei padroni, sedicenti cristiani, e dei tentativi di fuga verso una libertà negata e repressa ancora e ancora, contribuirono alla formazione di una coscienza nuova, di cui si sarebbe fatta interprete, tra gli altri, Harriet Beecher Stowe, figlia di un ministro calvinista congregazionalista, con il romanzo abolizionista Uncle Tom’s Cabin (1852; tr. it. La Capanna dello zio Tom). Vi si denunciava, tra le altre cose, l’assurdità che un essere umano, venuto a Gesù ed entrato nella compagnia dei santi, fosse venduto come merce a un’asta. Lo scontro tra questa nuova coscienza e la vecchia avrebbe prodotto le sanguinose pagine della Guerra Civile.

 

In seguito, la battaglia per l’anima dell’America si sarebbe progressivamente spostata sul terreno dei diritti civili. Il Movimento per i Diritti Civili, che a circa un secolo dall’abolizione della schiavitù ha lasciato un segno indelebile nella coscienza americana, non è stato il prodotto dell’azione di un singolo uomo, ma è forse più corretto dire che l’uomo Martin Luther King Jr. sia stato il prodotto di un movimento che affonda le sue radici nella storia e nella cultura cristiana afro-americana e che ha trovato in lui un portavoce capace di raccogliere un popolo attorno a una visione comune. Formidabile espressione letteraria di quella visione è To Kill a Mockingbird (1960; tr. it. Il buio oltre la siepe). Harper Lee ambienta il suo romanzo nell’Alabama degli anni ’30, gli anni della Grande Depressione, ma è da subito chiaro il suo intento di parlare a un presente così fortemente scosso da tensioni razziali. La vicenda è narrata dal punto di vista di due bambini, Scout e Jem, intuizione narrativa, questa, che consente all’autrice di porre in ancor maggiore risalto la perniciosità e l’assurdità del razzismo che permea il mondo degli adulti. La vita di Maycomb, tranquilla cittadina immaginaria – e che pertanto potrebbe essere Montgomery come Minneapolis –, è scossa dalla notizia di una violenza sessuale su una ragazza bianca, Mayella Ewell. Tom Robinson, un afro-americano, viene ingiustamente accusato del crimine. Incaricato di difenderlo è Atticus, padre di Scout e Jem. L’avvocato bianco riesce a dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che responsabile delle percosse e della violenza sessuale di cui è stata vittima la ragazza è il padre Bob. Per tutto il tempo Atticus è solo nella sua battaglia, che si consuma tra l’ostilità diffusa della comunità bianca nei suoi confronti. Per tutti è “l’amico dei negri”, ma lo sguardo dei bambini lo trasfigura in un eroe. La sua identificazione con la causa di Tom e della comunità nera diventa anche integrazione in quella comunità. Questa si esprime non soltanto in termini emotivi, ma anche fisici, quando Scout e Jem assistono al processo dalla balconata del tribunale riservata agli afro-americani. Nonostante la solidità dell’impianto difensivo, Tom viene ugualmente condannato e, colto dallo sconforto e dalla sfiducia nella possibilità che il verdetto venga ribaltato in appello, tenta la fuga dal carcere e viene ucciso a fucilate. Bob Ewell, divorato dall’odio per chi si è schierato dalla parte dei neri contro un bianco, tenta di uccidere Scout e Jem, ma viene a sua volta ucciso da un vicino di casa di Atticus, il misterioso Boo, figura che incarna a sua volta l’emarginazione sociale, ora redenta da Harper Lee.

In termini di coscienza collettiva, il cammino che porta da Robinson ad Atticus è lungo e tortuoso. Il percorso inverso, quello che da Atticus riconduce a Robinson, pare significativamente più breve. Se tutti gli uomini sono creati liberi e uguali, libertà e uguaglianza necessitano del sostegno continuo della memoria storica e di un’incisiva elaborazione culturale contro una visione retriva che continua ad affiorare. Memoria storica ed elaborazione culturale non sono, tuttavia, sufficienti a estirpare prevaricazione, oppressione e odio, perché hanno capacità di rapportarsi unicamente con gli effetti di un problema che affonda le sue radici in profondità e necessitano a loro volta di essere continuamente liberate da sovrastrutture e manipolazioni identitarie. Le radici del problema sono da ricercare nel cuore dell’uomo, in una natura caduta che costitutivamente distorce il principio creazionale di uguaglianza e libertà. Quale che sia il grado di coscienza storica e culturale individuale o collettiva, l’io continua a esigere il sacrificio dell’altro sul proprio altare, annientandolo, sottomettendolo o assimilandolo a se stesso. Il messaggio cristiano addita il bisogno di un intervento radicale. È necessario un cuore nuovo, capace di cercare il bene dell’altro e di interpretare il mondo, con la sua storia e cultura, in funzione di quel bene. Ecco, allora, l’invito rivolto a ogni uomo a sperimentare, in Cristo, una nuova nascita, e con essa il dono di un cuore nuovo in cui abita lo Spirito e che declina l’intera legge di Dio in amore (Ez. 36:26-7; 2 Cor. 15:17). A questo invito si affianca la chiamata rivolta al credente a resistere agli effetti del male nella società, riflettendo i tratti della giustizia, della pace e dell’amore propri del regno di Dio e della nuova creazione inaugurata in Cristo (vd. Mt. 5–7).

 

Se Robinson e Atticus rappresentano due fermalibri, gli opposti letterari di questa vicenda di creazione, caduta e redenzione, con Jefferson, Equiano, Wilberforce, Douglass, Stowe, King e molti altri ancora, essa si fa largo nella storia e la comprende e ridefinisce nel segno di una nuova creazione.

Filippo Falcone è Dottore di ricerca in Letteratura inglese e si è specializzato presso la Oklahoma State University. E’ stato professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano; ha pubblicato una monografia sul concetto di libertà in John Milton e saggi sul poeta inglese; collabora con la Società Biblica di Ginevra e con le Edizioni GBU, cone le quali ha curato l’opera di George Herbert, Il cielo nell’ordinario. Antologia ragionata e lettura critica (2020).

“Il mondo non è più per me”. Un richiamo ai cristiani evangelici

di Roger E. Olson

Immagino quale sarà l’immediata reazione di alcuni evangelici e non solo. L’ho pensato anche io. Il vecchio inno “Il mondo non è più per me” deve essere messo da parte perché ci porta a dimenticare il mandato biblico che ci spinge a prenderci cura di questo mondo, in questo “tempo tra i tempi”.

Non posso citare qui tutte le parole del canto ma, per quelli che non lo conoscono, si tratta di un canto molto popolare nelle chiese, quando ero ragazzo, negli anni ’50 e poi ancora successivamente. Era cantato dalle comunità locali così come da artisti che lo registravano per composizioni musicali e da “trio” che lo eseguivano dal vivo. Fu scritto nel 1908 da John T. Benson.

Anni fa e forse ancora oggi in qualche chiesa evangelica il tema della “mia patria celeste” (un altro canto recitava “My treasures are laid up somewhere beyond the blue” tr. lett. Il mio tesoro si trova da qualche parte oltre il cielo) era molto popolare e sentito. Questo era il caso per me, per la mia famiglia e per la mia chiesa, quando eravamo poveri e indigenti. Infatti la “mia” esperienza evangelica è stata molto dura. La nostra unica speranza di vita confortevole, di libertà nei confronti dei lacci del decadimento (che era la nostra condizione) era appunto il cielo.

Questo non significa che non ci preoccupassimo di questo mondo, ma noi combattavamo per sopravvivere tanto da non avere tempo o forza per influenzare il mondo “significativamente”. La nostra preoccupaizone per questo mondo equivaleva a pregare per la nostra nazione per i suoi governanti e a fare la carità. Molti degli evangelici di oggi non ricordano e neanche immaginano a cosa somigliava quel tipo di vita – per molti evangelici di quel tempo. Era una “vita grama”.

Un altro, popolare canto di quei tempi, popolare tra gli evangelici, era “Son soddisfatto della semplice vita” di Ira Stanphill, un prolifico autore di canti evangelici degli anni ’50. C’era una piccola controversia nella chiesa ai tempi della mia infanzia, vale a dire se fosse appropriato cantare quel canto in chiesa. Alcuni infatti volevano che in chiesa si cantasse un altro canto, “Lord give me just a cabin in the corner of gloryland tr. lett. Signore dammi solo un posticino in un angolo della gloria”. Mi rendo conto che tutto questo è un po’ pittoresco, ma si trattava di un disaccordo teologico sul fatto se i cristiani dovessero aspirare alla ricchezza anche in cielo.

Da allora, qualcosa è cambiato per molti evangelici. Siamo diventati agiati e siamo ora di comodo e abbiamo dimenticato tutto del cielo – a parte forse pensarlo come un luogo di pace in cui andare quando si muore. Ma raramente cantiamo ancora di esso e non ho più ascoltato un sermone sul cielo nel corso degli anni. Non ricordo quando è stata l’ultima volta. So per certo che non l’ho ascoltato da molto tempo.

Oggi, naturalmente, poiché la nostra nuova condizione di benessere ci ha dato la capacità di rendere questo mondo un posto migliore per chiunque e specialmente per i poveri e gli svataggiati, e poiché ci ha dato anche la capacità di preoccuparci dell’ambiente, va tutto bene. Ma in questo processo, per come si è verificato o si sta verificando (tra gli evangelici) temo che abbiamo perso nell’insieme ogni interesse per il cielo, eccetto quando muore qualcuno. Ma la speranza per il cielo, per la “cittadinanza celeste”, l’aspirazione al cielo è ampiamente scomparsa dalle chiese così come dalle case degli evangelici. Dove sono i canti che parlano del cielo? Una volta erano frequenti nelle chiese o nelle radio evangeliche, nella devozione e nei “sermoni”.

Certo, anche oggi potrei cantare e citare strofe e inni relativi al cielo. Autori evangelici hanno interi DVD/CD di canti sui cieli nei quali una serie di pastori e altri ancora parlano di ciò che significano per loro i cieli per il fatto che hanno da poco perso qualche loro caro o perché sanno che i loro giorni sulla terra sono contati. Ma questo mi pare un pallido tentativo di ravvivare l’interesse per il cielo.

Quando ero bambino mio padre, il pastore della chiesa e anche colui che intonava gli inni, avrebbe fatto cantare “When We All Get to Heaven” e poi subito dopo “But Until Then, My Heart Will Go on Singing”. Questa enfasi sul cielo era così forte nel cristianesimo in cui sono cresciuto da aver dovuto combattere per molto tempo per riconoscere come mio anche il cristianesimo che virtualmente ignora il cielo. E mentre invecchio e qualche mio caro parente muore per vecchiaia o per malattia (cancro, infarto, ictus) la mia mente torna indietro a quella enfasi sul cielo considerato come la nostra vera casa, “una patria più dolce del sole”.

Sì, lo ammetto, mi sono allontanato da tutto questo per molto tempo, considerandolo un pensiero grossolano, poco sofisticato a causa della sua enfasi sull’eternità che si colloca oltre questo mondo, ma nella mia “seconda ingenuità” (o terza o quarta) lo sto riconsiderando. Come evangelici abbiamo forse oscillato verso l’altra, opposta direzione in cui siamo così radicati in questo mondo, pienamente a nostro agio da dare semplicemente per scontato il cielo? Forse così va bene, ma ho qualche dubio, data la grande enfasi che la Bibbia pone sul cielo come la nostra vera patria.

Martin Lutero credeva fermamente che Gesù sarebbe tornato durante la sua vita. Egli attendeva sempre il ritorno di Cristo. Pensava di vivere nei biblici “ultimi tempi”. Ma quando qualcuno gli chiedeva che cosa avrebbe fatto durante la giornata dal momento che sapeva che Gesù poteva tornare all’indomani, si pensa che rispondesse: “Pianto un albero”. In altre parole, una forte convinzione a proposito del cielo e del ritorno di Gesù Cristo non porta le nostre menti completamente fuori da questo mondo al punto da divenire “così celestiali da non essere puà dei buoni terrestri” .

(Roger E. Olson, 1 Aprile 2020)
Tradotto con permesso