Blind Milton
Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo saggio epistolare-narrativo composto da Filippo Falcone per scopi didattici, ma che ci dà uno spaccato (relativo) della ricchezza e della complessità dell’opera di John Milton, soprattutto in relazione al suo capolavoro Paradise Lost.
Vi scrivo, cara Elizabeth, con l’aiuto di Deborah. Se vorrete essere mia sposa, sarà bene che conosciate la mia storia…
La mia prima moglie mi ha lasciato, se n’è andata dopo un mese, e io, quando è tornata, l’ho ripresa con me, lei e suo padre. Non potevo fare altrimenti. Mary, Mary Powell! Suo padre aveva un debito con il mio. Gli diede Mary per saldarlo. Mio padre era uno “scrivener” – prestava denaro a interesse. Non pensatelo persona da poco, interessata soltanto al vil denaro. A casa nostra si respirava musica – mio padre suonava e componeva, alla maniera di Händel – e a casa nostra si respirava letteratura – grazie alle fortune paterne, ho potuto dedicarmi agli ozi letterari. Che sorpresa veder tornare Mary e suo padre. Loro, reazionari, realisti, qui a cercare un tetto in una casa repubblicana! I muri di questa casa sono confini di libertà. Al diritto divino dei re, questi muri oppongono la legge, al re, il popolo inglese. Carlo I ha perduto ogni legittimità. Combatteva contro il suo stesso popolo. Del suo stesso popolo ha versato il sangue. L’autorità è data per il bene, non per uccidere! Libertà, sì. Eppure, l’amore mi ha costretto. Mary e suo padre hanno vissuto qui con me fino al 1652, fino alla nascita di Deborah. Mary è morta di parto. Io le ho voluto bene, nonostante tutto, ma per tutto il tempo sapevo dentro di me che non c’era tra noi quell’unione di spirito e di intenti, quella comunione profonda che si traduce nella capacità di dare e trovare significato l’uno nell’altra attraverso la parola. Ne ho parlato in 4 trattati sul divorzio. Ho recuperato quello che aveva scritto al riguardo il riformatore Martin Bucero. Lo ricordate Bucero? Era stato in Inghilterra con Edoardo VI e aveva contribuito a introdurre la Riforma qui da noi. Ho scritto 5 trattati sul divorzio, dicevo. Sì, perché lo scopo per cui il matrimonio è stato dato è che l’uomo e la donna non siano soli. A volte, però, si può essere presenti fisicamente, ma sentirsi profondamente soli. Con Mary è stato così. Poi ho conosciuto Katherine. Ci siamo sposati nel 1656. Quanto l’ho amata, la mia Kate, la mia “late espousèd saint”!
E quante cose sono successe nel frattempo! Le due guerre civili, il regicidio! Ci ho scritto. Prima i trattati antiprelatizi. Cinque. Mi sono schierato con i presbiteriani, contro il sistema episcopale. Ogni chiesa locale dovrebbe avere le proprie guide, i propri presbiteri, senza che si formi una sovrastruttura e una gerarchia. È anche questa una questione di libertà. Sono sempre stato un anticlericale, sapete. Come voi, d’altronde. Credo di non sbagliare. Siete Battista Generale! Come voi, sono contro qualunque sistema di controllo degli uomini sugli uomini. Non mi sfugge, però, che “presbitero” non è che la forma estesa del vecchio “prete”. Anche il presbitero può comportarsi da tiranno e soggiogare le persone. Beh, poi ci fu la prima guerra civile. C’è la tirannia della chiesa e c’è la tirannia del re.
Tra il 1649 e il 1652 ho scritto trattati politici. Cinque anche quelli. Io contro Salmasius, Saumaise, come lo chiamano i suoi connazionali francesi. Con i miei trattati ho dimostrato, superando le sue argomentazioni, che anche il re è soggetto alla legge e che un re votato alla distruzione del suo popolo è destituito di ogni autorità, di ogni delega nell’esercizio dell’autorità. Il regicidio era giustificato! Ho difeso prima i presbiteriani e il parlamento, poi gli indipendentisti e il New Model Army di Cromwell. Dopo il regicidio, Cromwell ha assunto la guida della Repubblica e mi ha chiesto di essere il suo Secretary for Foreign Tongues. Tutto questo mentre ero cieco! Dal 1652 sono completamente cieco. Non vedo più nulla. Sarà colpa delle tante ore passate a leggere, studiare e scrivere a lume di candela. Ma sono in buona compagnia. Con me ci sono tutti coloro che, come Omero e Tiresia, non vedendo, videro veramente. Mi dispiace solo per Deborah, che mi deve mungere come si munge una vacca ogni mattina, trascrivendo ogni mia parola sotto dettatura!
Katherine è stata un dono del cielo. Si è presa cura di me. Ah, se l’ha fatto! Quanta premura e quanta grazia in lei. Eppure, una sensazione di vuoto, di incompiutezza, mi ha accompagnato ogni momento. Non fraintendetemi. L’amore di Katherine è stato per me alimento prezioso. C’era tuttavia in me un senso profondo di scopo irrealizzato. Neppure l’agone pubblico lo poteva fugare – mi è stata data una voce, sì, e io non ho potuto rimanere in silenzio. Come gli antichi profeti, ho dovuto parlare al popolo e ho dovuto farlo nella lingua della gente, in inglese, in prosa. Sedici trattati in tutto. La prosa è la mia mano sinistra, sapete. La mia destra è la poesia. Mi viene naturale, la poesia. L’ho dovuta però accantonare per lasciare spazio alla sinistra. La contingenza lo richiedeva. Di qui il mio senso di lacerazione, di incompiutezza. Aveva bisogno di esprimersi la mia mano destra, una vocazione la mia, la chiamata di una vita rimasta frustrata così a lungo: scrivere il grande poema epico nazionale! Come La Commedia di Dante, come La Liberata di Tasso! Fino a ieri, l’unica valvola di sfogo sono stati una ventina di sonetti. Ora che le aspirazioni repubblicane sono sfumate e Cromwell non c’è più – ma badate bene che il nostro Lord protettore stava assomigliando sempre più a quel re da cui ci aveva liberati – ora che le aspirazioni repubblicane sono svanite, dicevo, non c’è più spazio per quella voce profetica. È il tempo che una voce universale parli della condizione dell’uomo e del disegno di Dio per la storia – e non soltanto la storia di questa nazione che credevamo eletta, bensì la storia dell’umanità. All’inizio avevo pensato a soggetti come re Artù, King Alfred… l’intento era celebrare la mia Inghilterra, il suo posto nel disegno provvidenziale di Dio, ma ora mi è chiaro che la libertà cui aspiravamo e che abbiamo cercato di afferrare attraverso le armi della politica e della legge deve nascere prima nel cuore dell’uomo. Ecco allora il mio soggetto, il soggetto del grande poema che sin dai tempi del mio viaggio in Italia e sin dai tempi di Cambridge sentivo di dover scrivere…
Era il 1658, 5 anni or sono, quando finalmente iniziai a scrivere. Avevo atteso così a lungo. Lo dico nel mio Sonetto 19. L’avete letto? Era come se Dio stesse giocando con me. Mi aveva dato un talento, il talento della poesia, e mi chiedeva di non nasconderlo. Mi chiedeva di metterlo a disposizione di tutti, di metterlo a frutto, senza però accenderlo con la sua luce, senza concedermi l’opportunità di usarlo. Ma Dio può chiedere conto di come abbiamo usato i nostri talenti mentre ne toglie la sostanza che li alimenta? Mi sentivo come Dante, nel mezzo del cammin di mia vita, la mia luce doppiamente spenta in un mondo di tenebre. Ora so che Dio non stava giocando con me. Dovevo soltanto attendere e imparare la pazienza, imparare ad affidarmi e dismettere il giogo del mio io, della mia superbia, per prendere su di me un giogo leggero, un giogo di grazia. Ora so che può servirlo anche chi resta fermo e attende.
Nel 1658, dicevo, l’attesa è finita, il tempo di mettere a frutto il mio talento è arrivato, eccome se è arrivato, nel momento in cui ero più debole, in cui ogni fiducia e visione pareva svanita. Proprio allora, nel buio interiore, iniziò a farsi spazio una luce.
Quella luce ha preso un corpo, fatto di segni, di parole. I versi che condivido con voi sono ciò che ho di più caro. Del manoscritto del mio poema vi faccio dono e vogliate ora accompagnarmi in questo cammino. Parla di me e parla di voi.
Paradiso Perduto I.1-26
Della prima disobbedienza dell’uomo, e del frutto
dell’albero proibito, il cui gusto fatale condusse
la morte nel mondo, e con ogni dolore la perdita
dell’Eden, fin quando non giunga più grande
un Uomo a risanarci riconquistando il seggio benedetto,
canta, Musa Celeste, che sopra la vetta segreta
dell’Oreb o del Sinai donasti ispirazione a quel pastore
che per primo insegnò alla stirpe eletta
come in principio sorsero i cieli e la terra dal Caos;
o se il colle di Sion maggiormente ti aggrada,
e il ruscello di Siloe che scorreva rapido
presso l’oracolo di Dio, da questi luoghi
offri, ti prego, aiuto al canto avventuroso
che in alto volo aspira a sollevarsi
sopr’il Monte Aonio, e si propone cose
mai tentate in passato in prosa o in rima.
E soprattutto, o Spirito, che sempre preferisci
più d’ogni tempio un cuore retto e puro,
poiché tu sai, istruiscimi; tu che fin dall’inizio
fosti presente e con ali possenti spalancate
come colomba covasti quell’abisso immane
e lo rendesti pregno: ciò che in me è oscuro illumina,
e ciò che è basso innalzalo e sostienilo;
che dalle vette di questo grande argomento
io possa confermare la Provvidenza Eterna,
e la giustezza delle vie di Dio rivelare agli uomini.
Cantare agli uomini della provvidenza di Dio e giustificare le sue vie. Una chiamata troppo alta per me, per l’uomo, tanto alta quanto la distanza tra l’uomo e Dio. Ma a questo fui chiamato, proprio io, avvolto da un duplice buio, buio fisico, il buio della mia cecità, e buio spirituale. Fui chiamato a cose mai tentate prima, in prosa o in rima, per parafrasare Ariosto, cose incommensurabilmente alte, io così basso. Occorreva librarsi oltre il monte Aonio, o Elicona, se preferite, il monte delle muse. Non bastava Calliope, musa della poesia, né poteva soddisfare la fonte di Aganippe presso cui le nove (muse) trovano sollazzo. Era necessaria una luce più alta, un’ispirazione che provenisse da un monte altro, il monte Sion, e da altra fonte, che da quel monte scaturisce, la fonte di Siloe. Ci voleva la musa di Tasso, Urania, musa celeste, colei che ispirò Mosè, il pastore d’Oreb, a narrare la creazione. Lei c’era, lei che, come una colomba, aveva covato la massa informe tratta dal caos, lei che in forma di colomba sarebbe discesa sul Figlio. Proprio il Figlio è quel monte, quella luce, quell’acqua che la musa celeste comunica. Avrete capito che sto parlando dello Spirito di Dio. Soltanto lo Spirito poteva fugare le mie tenebre interiori con la luce del Figlio. Soltanto lo Spirito poteva trarmi dai bassifondi del mio cuore ed elevarmi fino al cielo di Dio.
Prima, però, mi trascinò fin negli abissi dell’inferno per rendere visibili ai miei occhi velati le mie tenebre interiori. Volli qui dare voce a Satana, come non era mai stato fatto prima in letteratura. Lo volli fare perché volevo incarnare nel mio poema la verità che avevo illustrato nell’Areopagitica, il mio trattato sulla tolleranza e contro la censura. La libertà non è tale finché non è libertà di scegliere tra molteplici alternative. La libertà di scegliere soltanto il bene non è affatto libertà, ma necessità. Là dove, di contro, sia il bene sia il male fossero presentati all’uomo e al lettore, ecco che la scelta si sarebbe dimostrata realmente autentica, realmente libera. Satana, dunque, non soltanto poteva parlare, ma doveva parlare, qualora volessimo restituire all’uomo libertà, e doveva farlo estesamente e in modo persuasivo.
“È questa la regione, è questo il suolo e il clima”,
disse allora l’Arcangelo perduto, “è questa sede che
abbiamo guadagnato contro il cielo, questo dolente buio
contro la luce celeste? Ebbene, sia pure così
se ora colui che è sovrano può dire e decidere
che cosa sia il giusto; e più lontani siamo
da lui e meglio è, da lui che ci uguagliava per ragione
e che la forza ha ormai reso supremo
sopra i suoi uguali. Addio, campi felici,
dove la gioia regna eternamente! E a voi salute, orrori,
mondo infernale; e tu, profondissimo inferno, ricevi
il nuovo possidente: uno che tempi o luoghi
mai potranno mutare la sua mente. La mente è il proprio luogo,
e può in sé fare un cielo dell’inferno, un inferno del cielo.
Che cosa importa dove, se rimango me stesso; e che altro
Dovrei essere allora se non tutto, e inferiore soltanto
a lui che il tuono ha reso il più potente? Qui almeno
saremo liberi; poiché l’Altissimo non ha edificato
questo luogo per poi dovercelo anche invidiare,
non ne saremo cacciati: vi regneremo sicuri, e a mio giudizio
regnare è una degna ambizione, anche sopra l’inferno:
meglio regnare all’inferno che servire in cielo.
Dalla luce al buio. Fin nel buio dell’inferno lo seguii. Poiché Dio era la luce, Satana avrebbe accolto il buio. Il buio sarebbe stato il suo spazio, spazio esterno e interiore a un tempo. Dio non era più grande di lui per intelletto; soltanto per forza. Con la forza li aveva scacciati. Li aveva repressi dopo averli oppressi perché non sottomessi alla sua legge! Un tiranno! Ecco cos’era Dio. Un tiranno! Ora Satana all’inferno poteva essere finalmente libero, lungi da colui che ne limitava la libertà. Poco importava il luogo. La mente era infatti il proprio luogo, indipendentemente da qualsivoglia luogo fisico. Ricordo di averlo scritto sul libro degli ospiti di un esule protestante napoletano a Ginevra. Camillo Cardoini era il suo nome. Scrissi che, lasciando l’Inghilterra per recarmi in Italia, avevo cambiato luogo, ma non la mente. Era il 1639. La persona può essere libera quand’anche in prigione, se è libera nella mente. La persona può essere prigioniera quand’anche in cielo, se è prigioniera nella mente. La mente è una fortezza che le condizioni esterne non possono espugnare, un paesaggio che le circostanze esterne non possono trasmutare. Al contrario, se la mente è cielo, può rendere cielo l’inferno. Se la mente è inferno, può rendere inferno il cielo tutt’attorno. Satana salutò con favore gli orrori del mondo infernale. Là, infatti, sarebbe stato libero da Dio. Là avrebbe potuto fare ciò che voleva. Là non avrebbe conosciuto restrizioni esterne. Là sarebbe stato al di sopra di tutto, al di sopra di tutti, il re. Ed era cosa di gran lunga migliore regnare all’inferno che servire in cielo! Era forse questa la vera libertà? La risposta la iscrissi nelle sue stesse parole. Il luogo e l’assenza di limiti esterni non cambiano la condizione interiore. Il re era schiavo, schiavo di sé stesso, prigioniero nella fortezza della sua mente, prigioniero del suo io. “Ovunque voli è l’inferno. Io stesso sono l’inferno” (libro IV), lo sentii dire. Tutti adoriamo qualcuno o qualcosa. Chi adora Dio è libero. Chi adora ciò che è altro da Dio adora una proiezione di sé stesso ed è schiavo di sé stesso. Proprio l’io era il dio sul cui altare Satana aveva ed avrebbe sacrificato tutto e tutti. La tirannia di Dio altro non era che il limite posto al suo io. Quel limite poteva essere imposto per legge o scelto per amore. Regnare all’inferno era allora elevarsi al di sopra delle altre creature. Significava alimentare la creatura mostruosa e famelica dell’io. Servire in cielo era di contro dimorare nell’amore, amare e conoscere nell’amore il limite alla propria libertà individuale. Satana aveva scelto la prima strada, la via dell’egocentrismo, della tirannide e, in definitiva, della solitudine.
Vidi Satana convocare una grande assemblea. Tutti i demoni convennero nel “pandemonium” – ho coniato apposta la parola. Dà l’idea vero? Pan – tutti – demonium – i demoni. Mi piace giocare con le parole. Il poema è pieno di giochi etimologici. Anche nel sonetto 19 ce n’era uno. L’avete riconosciuto? When I consider how my light is spent / ere half my days in this dark world and wide. Il mio tempo è trascorso e la mia luce è spenta! Il mio paesaggio interiore non era dissimile dalle tenebre del pandemonium. Satana vi aveva convocato una grande assemblea, dicevo. Immaginatevi un vortice di angeli caduti osannanti il loro nuovo padrone. Satana li informò di un nuovo mondo abitato da creature perfette e meravigliose, come lo erano stati loro. Era la loro occasione: cercare di frustrare il nuovo disegno di Dio! Il loro campione, Satana, avrebbe fatto il lungo viaggio fino al nuovo mondo e avrebbe indotto le nuove creature di Dio a ribellarsi al despota celeste.
La mia penna lo seguì oltre le porte d’inferno, custodite da due mostruose allegorie, peccato e morte. Là fuori, fuori dalle porte d’inferno, vidi Satana attraversare in volo il caos. Io con lui nel buio dell’inferno, io con lui nel caos: il mio inferno, il mio caos. Fino alle porte del cielo volò. Oltre quelle porte solo luce, una luce che irradiava tutt’attorno. Satana non poteva sopportarla, anzi, la odiava, perché insieme a quella luce tornava il ricordo di ciò che un tempo era stato, della gioia che aveva conosciuto, dell’amore che aveva rifiutato per volgere il suo sguardo a sé stesso. Il dolore che quella luce portava con sé per il bene e l’amore perduto poteva essere esorcizzato soltanto da un odio maggiore, unicamente scendendo sempre più in profondità nella spirale dell’io. “Maledetto” non il limite e il divieto, “ma maledetto il suo amore”, esclamò Satana.
Conosciuto il buio e il caos, quella luce celeste salutai, luce sempiterna, inattingibile, in cui Dio dimora, effluvio della sua essenza. Il libro III del poema apre una finestra sull’eternità e sul Figlio che sceglie di donarsi per la nuova creazione. Decisi di non introdurre la nuova creazione fino al libro IV. Dopo aver percorso in lungo e in largo gli spazi, Satana giunse alle soglie della terra e si posò su un albero con il sembiante di un cormorano. È attraverso i suoi occhi che vedrete per la prima volta Adamo ed Eva, i nostri progenitori. Attraverso gli occhi della caduta ne conosciamo la perfezione e la bellezza. Sì, ancora una volta Satana si trovò colto nello scarto tra il suo buio e la luce di Dio, ora evidente nell’abisso che separava l’immagine di Dio impressa nella creatura umana e quell’immagine in lui deturpata. Che apparizione sublime quelle creature! Imponderabile. Ineffabile. Inedita. I boccoli dell’uomo dorati cadevano fino alle spalle. Mossi come le onde del mare i di lei fulgenti capelli e rossi scendevano incontrollati lungo la sua schiena. Formidabile in virtù e intelletto, lui. Magnificente in pensiero e grazia, lei. Liberi entrambi, sommamente liberi, l’uomo e la donna, uniti in un chiasmo, in Dio. I confini della loro libertà erano i confini del giardino, confini tracciati da un singolo divieto di non mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male. Tale divieto non ne limitava la libertà, ma la generava, rappresentando la possibilità di scegliere finanche contro Dio.
La sopraffazione presto si tramutò in Satana in invidia e odio profondo, invidia e odio inclini a distruggere ciò che Satana non avrebbe mai più potuto avere.
Forse avrete già letto il Masque presso il Ludlow Castle che vi ho mandato di recente. Come Comus, il mostro del Masque, faceva con la casta Lady, custodita dalla luce interiore nell’inaccessibile libertà della sua virtù, così Satana spiò i nostri progenitori mentre, mano nella mano, passeggiavano in Eden e poi ancora mentre, su un manto verdeggiante e tra alberi che facevano da riparo e chiostro sponsale, si unirono, riflettendo di Dio l’immagine e la somiglianza, l’unità nella pluralità. Dio inviò Raffaele per mettere in guardia Adamo ed Eva. I due, conoscendo soltanto amore, non potevano presagire che il male li spiasse alla porta e che potesse materializzarsi nel giardino.
Nel libro VI gettai uno sguardo analettico alla battaglia in cielo tra gli angeli di Dio e gli angeli caduti, poi sconfitti e gettati all’inferno. Avrete sentito parlare del nuovo cannone a polvere da sparo. Vi alludo descrivendo la battaglia celeste. Una grande innovazione tecnologica, si intende, ma letteralmente una diavoleria!
Nel libro VII, su richiesta di Adamo, Raffaele venne a riferire come e perché il mondo e le creature che vi avrebbero preso dimora furono da principio creati a seguito dell’espulsione di Satana e dei suoi angeli dal cielo.
Il libro VIII costituisce un passaggio esistenziale. Adamo parlò con Raffaele. Un tentativo il suo di elaborare il proprio essere nel mondo. Diversamente da qualunque altra creatura umana dopo di lui, fu formato già adulto, dotato di coscienza di sé. Ricordò allora quei primi attimi di vita. Rifletté sul significato dell’esistenza, sull’identità, sul mondo attorno a sé e il suo posto in quel mondo. Già Eva, nel libro IV, aveva iniziato a prendere coscienza di sé riconoscendosi in quello che chiamai “liquid plain”, un lago. Riflessa nell’acqua vide per la prima volta la propria immagine. Subito balzò indietro e lo stesso fece quella. Poi tornò a specchiarsi e così l’immagine. Feci fare alle parole quello che fecero Eva e la sua immagine attraverso un chiasmo: “It started back; but pleased I soon returned, Pleased it returned as soon”. In questo movimento volli riflettere in senso prolettico il movimento dello sguardo di Eva, uno sguardo che già rivolto a Dio e alla sua immagine impressa nell’uomo si sarebbe rivolto a sé stessa.
Nel libro IX si consuma la rovina dei nostri progenitori, come la chiamai in Of Education, il mio trattato sull’istruzione. Una separazione prelude alla caduta. Eva rivendicò la sua indipendenza da Adamo. Forte della sua perfezione, della sua libertà e della sua virtù, insistette con lui che si separassero per ottimizzare il lavoro nel giardino, per risultare più efficienti. Adamo, consapevole della minaccia che si stava stringendo attorno a loro, cercò di mettere in guardia Eva. Pose l’accento sul valore del sostegno reciproco. Come la Lady del Masque, anche Eva era custodita dalla recta ratio, ragione illuminata dalla luce interiore. Nulla poteva violarla. Tuttavia, cosa sarebbe successo se la ragione fosse stata mal informata? Adamo non dubitava di lei. Piuttosto, non voleva sottostimare la sordida arte di un nemico sconosciuto da cui era stato messo in guardia dal messaggero celeste. La loro separazione fisica avrebbe fatto da sfondo a una separazione morale e spirituale. La minaccia non tardò a fare capolino. Stanca per il lavoro, Eva si assopì. Satana le si avvicinò e le sussurrò all’orecchio parole, suscitando immagini oniriche. Al suo risveglio, un serpente le si fece incontro in posizione eretta e dotato di parola. Sapiente. Eminentemente sapiente. Si rivolse a Eva, ora sola, informando la suggestione del sogno con una cascata di allusioni sensoriali. Facendo appello ai sensi, volle fiaccare ed eludere le resistenze della ragione. Il serpente stesso aveva mangiato del frutto dell’albero proibito e non era morto. “Sapience”, a un tempo sapore e conoscenza. Mangiando, Eva avrebbe acquisito sapienza! L’evidenza era lì, davanti a lei, il serpente. Forse le parole di Dio andavano intese diversamente. Certo quel frutto era desiderabile. Dio certo non voleva negare alla creatura maggiore conoscenza. Qualora ci fosse qualche scarto tra lei e Adamo, certo tale gnosi l’avrebbe colmato. Tese la mano, colse il frutto, ne mangiò.
Giunse allora Adamo. Lo spazio fisico che coprì per raggiungerla si era trasformato in un baratro interiore incommensurabile. Più cercava di avvicinarsi a lei con la parola, più aumentava la distanza, l’abisso incolmabile, tra loro. Un muro li separava, un muro fatto di egocentrismo, egoismo, volontà di potenza, nudità, vergogna. Tra Dio ed Eva, Adamo scelse Eva. Scelse di condividere il suo destino, di non abbandonarla. Mangiò a sua volta il frutto dell’albero. Credeva di ritrovarla, ma la perse doppiamente. Le mani che si erano intrecciate nel giardino si chiusero a formare pugni. Dio parlò loro, chiedendo dove fossero. Una frattura impossibile da comporre li divideva ora da Dio e l’uno dall’altra. Bramarono fuggire, salvare sé stessi a spese dell’altro, ma nulla poteva salvarli dalla voragine interiore. L’odio, il buio, l’oppressione, l’avidità, la gelosia, l’invidia, la stanchezza, il tormento, l’io avevano preso il posto dell’amore, della pace, della gioia, del riposo, del dono di sé, di Dio. Le passioni avevano rovesciato la ragione, viceré di Dio, assumendo il controllo della mente. Si scoprirono per la prima volta nudi, la loro nudità fisica correlativo di una nudità non percepita attraverso i sensi. Anche il giardino cominciò a mutare a immagine dell’inferno interiore. Tutto era perduto.
Fu allora che videro avanzare verso di loro nel giardino una figura divina e di figlio d’uomo a un tempo. Vedendoli nudi, la figura assunse forma di servo. Con pelli di animali li coprì. Ma, molto più che la nudità esteriore, rivestì quella interiore con la propria giustizia. L’Eden interiore perduto tornò a fiorire, ravvivato dal perdono e dall’amore di chi li aveva raggiunti nello spazio interiore in cui si erano smarriti, dalla grazia di chi aveva assorbito in sé la loro ingiustizia e la loro vergogna. Ne scaturì il perdono. Le mani tornarono a ricongiungersi. I nostri progenitori dovettero lasciare l’Eden, sì, ma portavano ora con sé un paradiso interiore di gran lunga migliore di quel giardino. I confini d’Eden che avevano contenuto la loro perfezione erano ora superati dall’esperienza, esperienza di perdita del paradiso, ora riscattata dalla grazia. Nell’amore ora desiderio e dovere si strinsero in un abbraccio. Nell’amore l’uomo e la donna conobbero la vera libertà, la libertà interiore, e si scoprirono liberi di amare. La distanza che li separava l’uno dall’altra era stata pienamente colmata. Adamo sarebbe stato la casa di Eva, Eva di Adamo, in Dio. Davanti a loro si spalancava il mondo intero e con esso la possibilità di fare dell’inferno un paradiso. Fu così che, mano nella mano, l’uomo e la donna si incamminarono verso l’orizzonte.
Questa, cara Elizabeth, in questa epoca buia di Restaurazione, è la mia storia e, se lo vorrete, la vostra.
Vostro,
John Milton
Filippo Falcone