Missione urbana

Missione urbana

(M. Volf)

Miroslav Volf, Contro la marea, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU

Quando nel 1997 visitai un sobborgo di Baltimora chiamato Sandtown, il ricordo più vivo che conservo è quello di un fastidioso e stridente contrasto. Ricordo un intero agglomerato di case abbandonate, ognuna somigliante a un grande teschio, con il vuoto buio che veniva fuori dalle porte e dalle finestre rotte e la vita che beffardamente l’aveva abbandonata. Nel mezzo di questi ruderi, comunque, c’era una strada brulicante di vita. Le case erano state riparate e dipinte con brillanti colori, i vicini chiacchieravano fra di loro, i bambini stavano giocando per le strade. Era come se in questo posto una sorta di risurrezione avesse rivestito le ossa secche della morte urbana con una pulsante carne di vita. Al cuore di questa improbabile trasformazione vi era una piccola compagnia di cristiani. Si chiamava New Song Community (Comunità del Canto Nuovo).

To live in Peace (2002) è un’opera che racconta la storia di questa comunità e offre una spiegazione per la sua missione all’interno della città. L’autore, Mark Gornik, rispondendo a una chiamata proveniente da Dio, è stato tra i primi ad andare ad abitare a Sandtown. Il libro dà un’eloquente testimonianza di vita, prendendo come modello l’amore di Cristo che si dona, ispirato dallo Spirito di vita, con vite che qui trasformano un panorama urbano senza speranza in un luogo del Dio della pace.

Per leggere in maniera appropriata questo libro, andate direttamente al quinto capitolo, dal titolo «Cantare un nuovo canto». Questo capitolo, con la storia della graduale risurrezione di Sandtown, è il cuore del libro. Senza di esso le importanti riflessioni teologiche e sociologiche che precedono e seguono non possono essere pienamente comprese. Ispirato dall’opera pioneristica di John Perkins sullo sviluppo delle comunità (le sue famose tre “R”: Ricollocazione, Riconciliazione e Redistribuzione), Gornik e Allan Tibbles si sono mossi nel vicinato non armati di qualche «piano o programma», ma solo con la convinzione che «la chiesa di Dio è la comunità riconciliata che porta giustizia nei punti di più grande sofferenza del mondo».

Iniziarono ad andare in giro nella comunità sin da quando, secondo una testimonianza che parlava «della capacità di grazia di Sandtown», si sentirono accolti. Da allora, come afferma Gornik, tutto dipese non tanto dallo sforzo di quei pochi che andarono ad abitare a Sandtown, quanto da quello dei molti che non l’avevano abbandonata «durante i tempi duri». Dapprima sorse una comunità ecclesiale, poi le case arrivarono a prezzi abbordabili per tutti, poi ancora il drastico miglioramento del sistema educativo e sanitario locale. Infine fu messa in piedi un’efficiente strategia per l’occupazione. Gli obbiettivi sono facili da enumerare, ma ogni passo raggiunto con successo ha richiesto un miracolo di coraggio e tenacia.

Ho finito il libro colpito e provocato in molte maniere. In primo luogo è una sfida personale. Gornik e Tibbles non hanno scelto di perseguire il confort del servizio cristiano in ambienti della classe media. Al contrario, hanno deciso di ricollocarsi in un posto desolato e senza speranza. Per Tibbles questa era una sfida molto speciale: è quadriplegico, sposato, e padre di due ragazze. Ciò che mi ha colpito non era soltanto la robusta santità dei due uomini, ma come se ne rivestivano con leggerezza, senza sforzo o autocelebrazione.

In secondo luogo, è una sfida ecclesiale. Nonostante la retorica del servizio reso al mondo, le chiese spesso soccombono alla tentazione di vivere in primo luogo per se stesse, far crescere i loro numeri, incrementare i loro programmi, costruire nuovi edifici. Per la New Song Community, la chiesa significa essere per gli altri, con gli altri, specialmente con i più bisognosi. «I ministeri di giustizia e riconciliazione non sono aggiunte che stanno fuori dal campo della chiesa», ma sono «costitutivi della vita ecclesiale unita a Cristo».

La terza sfida concerne il carattere del servizio. Troppo spesso tutti aiutiamo i bisognosi in una maniera tale da umiliarli. Anche il discutere di “potenziamento” è un qualcosa che ti lascia un sapore amaro di condiscendenza. Il libro To live in Peace è tinto di profondo rispetto per la dignità dei bisognosi. Non sono gli “altri” per cui deve essere fatto qualcosa, ancor meno gli ignoranti che devono essere istruiti o gli indisciplinati che devono essere disciplinati. Sono membri di famiglia che sono incappati in tempi difficili e devono essere  incoraggiati e aiutati.

In quarto luogo, la sfida di collegare la fede con la vita. Gornik argomenta ripetutamente contro l’idea di affrontare il problema delle periferie con progetti preconfezionati che, o derivino dalla fede o siano informati da tesi secolari (sebbene il libro faccia un grande uso di suggestioni teologiche e sociologiche). Al contrario, suggerisce una duplice strategia: 1. mantenere l’attenzione sul punto verso cui è necessario che la comunità si muova (lo shalom della nuova creazione di Dio) e sul sentiero su cui bisogna camminare (l’amore di Cristo che si dona) e 2. concentrarsi «sul fare fedelmente mille piccole cose in un periodo di diversi anni».

Infine, il libro è una sfida per chi pensa a iniziative basate sulla fede. Gornik sa che la chiesa ha risorse significative e uniche per rivolgersi ai bisogni delle periferie; il suo libro è una spiegazione di queste risorse. Tuttavia avverte che l’attuale enfasi sulle iniziative basate sulla fede personalizza eccessivamente la povertà e il cambiamento sociale e non dà attenzione sia «ai bisogni di infrastrutture e capitali» sia alla dimensione strutturale della povertà. Gornik si rifiuta di essere preso da false alternative tipo l’attenzione per le persone o per le strutture. Se le comunità devono vivere in pace bisogna indirizzarsi su entrambe, e perciò sia la chiesa sia i governi hanno un ruolo da giocare.

La saggezza cristiana, l’impegno e il coraggio inscritti nel libro di Gornik e incarnati nella New Song Community sono straordinari. Spero che tutti possano cogliere qualcosa dalla visione di Gornik: «Guidati dalla convinzione che Cristo crocifisso crea spazio per l’abbraccio degli altri e che lo Spirito del Cristo risorto porta nuova vita», le chiese possono e devono servire «a portare avanti lo shalom nelle periferie cittadine».

 

L’articolo è tratto dal libro Contro la marea, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU

La maledizione di Cam

Nelle ultime settimane sono apparsi numerosi pronunciamenti a fronte dell’ennesimo e tragico rigurgito della tematica razziale negli Stati Uniti; questa volta l’eco della morte di Gerge Floyd ha avuto un riverbero mondiale e non ancora accenna ad assopirsi l’onda sonora che si è propagata da Minneapolis. Ci sembra opportuno richiamare a un senso di realismo e di coraggio tutti coloro che parlano di questo triste fenomeno. La famosa e lugbre “malediazione di Cam” è una macchia nella storia delle teologia evangelica e atlantica. Essa poi trova la sua peculiare collocazione in precisi filoni della riflessione teologica dell’ortodossia protestante e attraversa, restando indenne, anche la stagione dei risvegli, infettando tutto. Dobbiamo essere coraggiosi e compiere questa operazione verità. Anche quando ci appelliamo agli esempi di lotta allo schiavismo, non dimentichiamo che spesso queste donne e questi uomini avevano dall’altra parte i propri “fratelli” in fede. Praticamente uno scandalo.
Questi pochi accenni di Alister McGrath nel suo affresco della storia protestante ed evangelica che va dalla Riforma
ai giorni nostri sono secondo noi sufficienti a tenere alta la guardia contro letture storiche infondate che rendono ipocriti gli appelli contro il dramma del razzismo (Giacomo Carlo Di Gaetano).

di A.E. McGrath
(tratto da La Riforma protestante e le sue idee sovversive)

Il tema della schiavitù è stato al cuore di uno dei più im­portanti e difficili dibattiti interni al protestantesimo ameri­cano nel XIX secolo. Si rivelò enormemente divisivo, provo­cò tensioni politiche e portò alcune denominazioni sull’or­lo dello scisma. Al cuore del dibattito si pone un fondamen­tale problema d’interpretazione biblica. La Bibbia legittima va la schiavitù? La maggior parte dei protestanti nell’Ameri­ca dell’anteguerra presumeva di sì. La maledizione pronun­ciata da Noè su Cam (Gen 9:25) non giustificava forse tale pratica?[1] La Bibbia non condannava la schiavitù; si limita­va a regolamentarla. Desta poca sorpresa che Jefferson Da­vis (1808–1889), presidente degli Stati Confederati d’Ame­rica, potesse dichiarare che la schiavitù era «sancita nella Bib­bia, sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, dalla Genesi fino all’Apocalisse».

Alla fine del XVIII secolo l’abolizionismo aveva guada­gnato terreno in Inghilterra, supportato in non piccola mi­sura dalla crescente opposizione protestante a tale pratica. William Wilberforce fu una voce particolarmente significa­tiva e influente nel dibattito[2]. Non era forse vero che tut­ti gli individui sono stati creati a immagine di Dio? L’idea che qualcuno potesse essere trattato alla stregua di un “og­getto”, nei primi decenni del XIX secolo, risultava sempre più inaccettabile.

Negli Stati Uniti emerse un’importante contrapposizio­ne. Negli anni che seguirono la rivoluzione americana gli Sta­ti del nord fecero dei passi per abolire la schiavitù, mentre nu­meri sempre maggiori di proprietari di schiavi, come Benja­min Franklin, cambiarono le loro posizioni in proposito. Il se­condo grande risveglio, che riaccese il fervore religioso in gran parte della nazione vide una nuova pressione religiosa per l’a­bolizione. L’Oberlin College, nell’Ohio, fu fondato come isti­tuzione abolizionista. Nel sud gli abolizionisti si separaro­no dal metodismo canonico per costituire la Free Methodi­st Church. I cristiani afroamericani erano una voce partico­larmente significativa, che sollecitava le chiese a leggere l’An­tico Testamento alla luce del Nuovo e ad abolire la schiavitù.
La posizione dominante nel sud, però, era fortemente in favore della schiavitù e si usava la Bibbia per difendere que­sta posizione su cui ci si era arroccati. Teologicamente le argo­mentazioni utilizzate dai gruppi favorevoli alla schiavitù co­stituiscono un’accattivante esemplificazione (e una condan­na) di come sia possibile utilizzare la Bibbia per sostenere una certa tesi, leggendo il testo entro una rigida griglia interpreta­tiva che impone al testo delle conclusioni predefinite[3].

La sconfitta della Confederazione nella guerra civile portò inevitabilmente all’abolizione della schiavitù in tutta l’Unio­ne. Continua però inesorabilmente a sussistere una domanda, che incombe cupamente sul protestantesimo. Molti accredi­tati intellettuali e statisti protestanti del XIX secolo, compreso il rispettato teologo di Princeton Charles B. Hodge, si espres­sero in favore della schiavitù su basi bibliche, spesso bollando gli abolizionisti come progressisti liberali che non prendevano la Bibbia sul serio. Non potrebbero gli stessi errori essere nuo­vamente commessi, stavolta su altri temi?[4]

 

A.E McGrath,
La Riforma protestante e le sue idee sovversive. Una storia dal XVI al XXI secolo
Edizioni GBU, 2017

Alister E. McGrath è professore di Teologia storica presso l’Università di Oxford. È autore di numerosi volumi che
affrontano temi di teologia storica e di apologetica. Molti dei suoi libri sono pubblicati in italiano. Le Edizioni
GBU hanno pubblicato di McGrath Gesù chi è e perché è importante saperlo (1997).

 

[1] Sull’interpretazione del testo, specie nell’America del XIX secolo, vedi S.R. Haynes, Noah’s Curse: The Biblical Justification of American Slavery, Oxford University Press, Oxford, 2004.

[2] E. Metaxas, Amazing Grace: William Wilberforce and the Heroic Cam­paign to End Slavery, Harper San Francisco, San Francisco, 2007.

[3] W.M. Swartley, Slavery, Sabbath, War, and Women: Case Issues in Bib­lical Interpretation, Herald Press, Scottdale, 1983.

[4] Per un’ottima analisi del problema vedi K.W. Giles: “The Biblical Ar­gument for Slavery: Can the Bible Mislead? A Case Study in Hermeneu­tics”, Evangelical Quarterly 66 (1994), pp. 3–17.

Basi per una famiglia sana 3

di Pablo Martinez
Basi per una famiglia sana 1
Basi per una famiglia sana 2

Con questo terzo e ultimo articolo arriviamo alla fine di una serie di riflessioni sulla famiglia. Fino ad ora abbiamo preso in considerazione come una famiglia sana non sia quella che non ha mai problemi, ma quella che sa superare le difficoltà – capacità di combattere – e sa esprimere l’amore, sia con gli atteggiamenti (fedeltà, fiducia, dedizione) sia con le parole. Parliamo ora del terzo modo possibile di esprimere l’amore nella vita familiare.

C) Le decisioni come espressione d’amore

Le decisioni sono il sigillo che contraddistingue i nostri atteggiamenti e parole. Per questo la presa di decisioni è un elemento essenziale dell’amore familiare. Potremmo parafrasare l’apostolo Paolo nel suo famoso inno in 1 Corinzi 13 e dire: «Se assumo gli atteggiamenti migliori e non mi mancano parole d’amore, ma non lo dimostro con le mie azioni e con le mie decisioni, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna». Le decisioni sono la dimostrazione dell’amore, specialmente quelle che implicano l’”essere accanto a”, l’accompagnare.

Osserviamo ancora la famiglia di Rut che è stata il nostro punto di riferimento in questo studio: “Orpa baciò sua suocera, ma Rut rimase stretta a lei” (Rut 1:14). Alcune versioni traducono “non si staccò da Naomi” o “si aggrappò a Naomi”, espressioni meravigliose che illustrano con grande forza poetica l’intensità del momento. Era il momento della verità. Le memorabili parole di Rut 1:16 – commentate precedentemente – sarebbero state di scarsa utilità se Rut avesse preso la stessa strada di Orpa. Quest’ultima si limitò ad esprimere dei sentimenti: “pianse”, ma lì finisce la sua dimostrazione d’amore. Rut, invece, prese la decisione di rimanere accanto a sua suocera fino alla morte. Era il sigillo che siglava le sue parole d’amore.

Vediamo un altro esempio in Naomi quando prende l’iniziativa in modo che Rut possa sposarsi. Non si limita a darle un consiglio vago, ma lei stessa fa passi concreti in modo che sua nuora e Boaz possano conoscersi e la istruisce in tutti i dettagli in modo che la relazione finisca in matrimonio (Rut 3:1-4). E cosa dovremmo dire di Boaz? In primo luogo, ebbe parole d’amore e di consolazione che Rut stessa riconobbe: «Possa io trovare grazia ai tuoi occhi, o mio signore, poiché tu mi hai consolata e hai parlato al cuore della tua serva…» (Rut 2:13). Ma le parole furono seguite dalla decisione: “Così Boaz prese Rut, che divenne sua moglie.” (Rut 4:13).

Ci sono alcuni momenti nella vita in cui atteggiamenti o parole non sono sufficienti. Li chiamiamo momenti decisivi proprio perché richiedono una decisione. Alla fine, l’amore si dimostra attraverso le decisioni prese nel corso degli anni. Nella vita familiare queste decisioni diventano una posa che si sedimenta gradualmente sul fondo del matrimonio. Questo residuo accumulato può essere positivo – quando le decisioni rafforzano l’amore – o portatore di tensioni e conflitti quando contraddicono l’amore.

Questi tre strumenti dell’amore – atteggiamenti, parole e decisioni – sono il mezzo che può trasformare una casa in un focolare. Ci sono milioni di case nel mondo, ma quante sono un focolare? Il focolare è caratterizzato dal calore – calore del focolare – che proviene da questa pratica dell’amore ed è una delle più grandi benedizioni che una persona può sperimentare in questa vita. È l’anticamera del paradiso. Non è un caso che Davide, in uno dei suoi salmi, affermi: “Dio fa abitare il solitario in una famiglia” (Sal 68:6). Una famiglia sana è il miglior dono che Dio può fare al “solitario”.

La crisi familiare come fonte di violenza

L’attuazione dell’amore familiare attraverso i mezzi esposti finora non è un’opzione, è un dovere. E non lo è solo per i credenti.  E’ in gioco il futuro della nostra società. Sono molti oggi i problemi sociali all’origine dei quali appare la rottura della famiglia. La violenza è forse il miglior esempio. In tutte le sue tristi varianti – violenza domestica, delinquenza giovanile o persino le guerre – troviamo un embrione di crisi familiare nella sua genesi.

Se studiamo la vita familiare di uomini sanguinari come Stalin o lo jugoslavo Milosevic, deceduto di recente, che portò il suo paese alle pagine più buie della violenza in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, scopriamo le radici della sua aggressività. Cosa ha vissuto quest’uomo nella sua vita familiare? In quale ambiente ha respirato la sua sensibilità infantile e giovanile? Il padre si suicidò quando lui aveva 21 anni; poco tempo dopo si suicidò sua madre; per completare una tale atmosfera di violenza e trauma, avvenne che in seguito pure suo zio si suicidò. Qualcuno si sorprende forse che un simile ambiente familiare contribuisca fortemente a forgiare un carattere estremamente duro e cinico? Il lettore conosce qualche grande despota che è cresciuto in un ambiente di tenerezza e amore familiare?

Vogliamo tuttavia soffermarci su un fenomeno in crescita: la violenza urbana giovanile sotto forma di teppismo gratuito, immotivato. L’aggressività di molti giovani oggi preoccupa politici, sociologi e giudici perché genera una violenza ingiustificata. Come qualcuno ha commentato, il vandalismo attuale dei giovani nelle città ci mostra “la violenza allo stato puro”, è semplicemente un distruggere per distruggere. Si cerca qualsiasi scusa – anche nella forma di una presunta festa – per far uscir fuori livelli di aggressività davvero allarmanti. Da dove viene tanta frustrazione, tanto bisogno di rompere tutto? Non possiamo semplificare l’argomento, ma in molti casi troviamo giovani a cui non è mancato nulla dal punto di vista materiale, hanno avuto tutto. Gli è mancata però la cosa più importante: un focolare. Hanno vissuto in case ricche di cose, ma molto povere di calore domestico. Che gran contrasto tra la loro prosperità materiale e la loro povertà affettiva! La Spagna si è lasciata alle spalle il sottosviluppo economico qualche anno fa, ma ciò che ne è seguito è ancora più difficile: il sottosviluppo affettivo e morale della vita familiare. Divorzio “a richiesta” – “questa persona non mi interessa più” -, individualismo ed egoismo, illimitate ambizioni professionali o economiche, ognuno che fa la propria vita, tutto questo porta praticamente a una convivenza familiare praticamente nulla; non c’è quasi nessuna comunicazione né dialogo, non ci sono momenti di condivisione, c’è mancanza di interesse per il mondo e il benessere dell’altro. Così, a poco a poco, il focolare diventa una pensione. Qui è radicata gran parte della frustrazione di molti giovani che, a sua volta, porta all’aggressività. Quanto tempo occorrerà ai politici affinché si rendano conto che il problema della violenza giovanile non è tanto una questione di scuole migliori, strutture sociali migliori, psicologi migliori, ma soprattutto di famiglie migliori? Investire in famiglie più sane è l’investimento più redditizio per un paese. L’unico “problema” è che i valori materiali non sono sufficienti per un tale investimento. La famiglia si arricchisce soprattutto con valori morali e spirituali. E questo non si acquista con denaro, viene dal cuore.

A questo punto, forse ci chiediamo con una certa aria triste: “E per queste cose, chi è capace?” Ci invadono quindi frustrazione, impotenza o persino sensi di colpa. Questo ci porta necessariamente alla terza chiave, per i credenti la più importante perché diventa la chiave delle chiavi.

3. – L’architetto della famiglia è Dio

Nel nostro primo articolo abbiamo parlato di tre ruoli principali nella storia di Rut: le circostanze, la risposta della famiglia a queste circostanze e Dio. Senza Dio, la famiglia diventa come un edificio costruito sulla sabbia: manca di fondamenta. Il salmista esprime questa idea con una metafora analoga, quella dell’architetto: “Se Dio non costruisce la casa, coloro che la costruiscono lavorano invano … Inoltre, ti alzi presto la mattina e vai tardi a riposare …” (Sal. 127:1-2 ).

Si possono frequentare molti corsi per il matrimonio o di terapia familiare, si possono leggere tutti i libri disponibili su questi argomenti, ci si può sforzare al punto di “mangiare il pane del duro lavoro”, come dice il salmista (Sal 127:2). Tutto questo è buono in sé e lo raccomandiamo. Ma non è abbastanza per noi come cristiani. Manca qualcosa, la cosa più importante: la fede e fiducia in Dio, fondatore e architetto della famiglia. Egli ha i “piani” dell’edificio perché è stato Lui a progettare la famiglia. Noi siamo semplicemente i muratori, perciò abbiamo bisogno di ricorrere costantemente a Lui per poter costruire con saggezza. A nessun muratore capita di costruire a volontà e fare a meno della guida esperta dell’architetto. Neanche noi possiamo commettere una simile insensatezza nel delicato processo di edificazione del nostro matrimonio e della nostra famiglia.

In altre parole, la fede e l’amore sono come le due ali di un uccello, vanno insieme e non possono essere separate. L’amore è sostenuto dagli occhi della fede e la fede è attiva nell’amore. Questa è la realtà che scopriamo anche nel libro di Rut. Tutti i membri di quella famiglia avevano fede in un Dio personale. La frase di Boaz riferita a Dio – “sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti” (Rut 2:12) – esprime un concetto quasi materno di Dio. Osserviamo come fanno riferimento a Dio con il termine “Il Signore”, alludendo così al Dio dell’Alleanza, fedele e vicino. Alzare gli occhi al cielo in atteggiamento di fiducia e dipendenza da Dio è ciò che farà sì che la famiglia funzioni.

Potremmo menzionare molti modi con cui Dio “edifica la casa”; ma ci limiteremo ai due che sono molto evidenti nella famiglia di Naomi:

• Dio rinnova le nostre forze . La vita familiare comporta un’intensa battaglia quotidiana, e una lotta contro molti problemi diversi: materiali, emotivi, spirituali. Questo lottare logora e può portare scoraggiamento, stanchezza o, a volte, il desiderio di “abbandonare”. È in questi momenti che lo sguardo verso il cielo rinfresca e rinnova le forze. Gli occhi della fede ci avvicinano a Cristo, fonte di riposo dalle nostre “fatiche e oppressioni”, compresi i problemi familiari (Mt 11:28).

• Dio trasforma i deserti in oasi . Dio non si limita a darci riposo e rinnovate forze. Nella sua saggezza Egli risana, trasforma, cambia i problemi e le circostanze al fine di realizzare i suoi scopi per il nostro bene. Questo avviene perché Egli dirige i nostri passi tanto nella vita personale che in quella familiare: “I passi dell’uomo sono guidati dall’Eterno, quando Egli gradisce le sue vie … Io sono stato fanciullo ed ora sono divenuto vecchio, ma non ho mai visto il giusto abbandonato, né la sua progenie (famiglia) mendicare il pane.” (Sal 37:23, Sal 37:25). Sì, Dio trasforma la disperazione in speranza perché provvede sempre una via d’uscita, apre la strada dove non sembra che ci sia: «Ecco, io sto per fare una cosa nuova; essa sta per germogliare; … Sì, io aprirò una strada nel deserto, farò scorrere dei fiumi nella steppa.» (Is. 43:19). Questa capacità di Dio di trasformare le tragedie in storie significative è la lezione più straordinaria del libro di Rut; questa è stata l’esperienza di quelle due donne che, in mezzo a molte avversità e sofferenze, sono andate a “rifugiarsi sotto le ali del Signore”. In questa fiducia sta la chiave fondamentale per una famiglia sana.

Pablo Martínez Vila (2006)

Traduzione Laura Pia Vallese

Basi per una famiglia sana 2

di Pablo Martinez
Basi per una famiglia 1
Basi per una famiglia sana 3

Nella prima parte di questo tema abbiamo considerato la famiglia di Rut e Naomi nella Bibbia come un modello realistico di famiglia, lontano dagli ideali irraggiungibili che talvolta ci vengono proposti trionfalmente. Abbiamo visto come la capacità di superare le prove – saper soffrire – costituisca la prima prova di salute e forza della vita familiare. Analizzeremo ora il secondo ingrediente di una famiglia sana.


2. Sa esprimere l’amore: capacità di amare

Il secondo indicatore di salute nella famiglia di Naomi era la sua capacità di mostrare amore. Nella famiglia sana, i membri hanno imparato a darsi l’un l’altro questo amore. Sottolineiamo la parola “esprimere” o “dimostrare” perché in ciò sta la chiave: non è sufficiente amare qualcuno; bisogna che questo amore gli arrivi, gli venga trasmesso. In realtà, nella stragrande maggioranza delle famiglie c’è l’amore. È difficile trovare, ad esempio, genitori che non amino i propri figli. Sembra quindi un principio molto elementare. Tuttavia, ci sono innumerevoli adulti che hanno problemi emotivi perché durante l’infanzia non hanno sentito l’amore dei loro genitori. Senza dubbio li amavano, ma non erano in grado di trasmettere loro questo amore in modo adeguato.

La domanda logica è quindi: come trasmettere l’amore all’interno della famiglia? Nel libro di Rut abbiamo scoperto alcuni modi pratici. In particolare, vediamo tre modi che costituiscono qualcosa come la spina dorsale dell’amore.

A) Con gli atteggiamenti

In primo luogo, l’amore pratico si manifesta attraverso gli atteggiamenti. È l’espressione non verbale dell’amore. È strettamente correlato al nostro modo di essere. Non è tanto quello che facciamo – le opere dell’amore – ma come siamo. Il nostro carattere trasuda atteggiamenti che possono essere di amore, ostilità o indifferenza. Gli atteggiamenti sono lo specchio profondo del nostro carattere e rivelano innegabilmente il contenuto del nostro cuore. L’apostolo Paolo diceva che “siamo lettere viventi” in cui gli altri leggono sempre. È con il nostro modo di essere che possiamo “onorare padre e madre”, il coniuge o i figli.

Nel libro di Rut troviamo diversi esempi di atteggiamenti che esprimono amore e che, a loro volta, alimentano l’amore in un’ammirevole risposta. In realtà, questi atteggiamenti formano un insieme inseparabile, come un grappolo. Sono interdipendenti e l’uno conduce all’altro. Ne sottolineiamo tre per la loro importanza per la stabilità familiare e perché, a nostro avviso, sono i più necessari nelle famiglie di oggi.

Fedeltà. L’impegno, che si rispecchia nella memorabile affermazione di Rut che è passata alla storia come una delle più grandi dichiarazioni di amore familiare: «Non chiedermi di lasciarti e separarmi da te; perché ovunque andrai, io andrò, e ovunque vivrai, io vivrò. Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio» (Rut 1:16). Può esserci una migliore dimostrazione di amore di questa fedeltà incondizionata? Questa è la migliore terapia contro l’ansia e l’insicurezza di tanti mariti o mogli che vivono intrappolati nell’incertezza del futuro della loro relazione coniugale. Oggi la fedeltà nel matrimonio, in particolare l’idea del matrimonio per tutta la vita, “finché morte non ci separi” è oggetto non solo di rifiuto, ma anche di presa in giro. Si preferisce la “monogamia consecutiva” (nell’espressione di un famoso politico spagnolo). Strazianti e significative sono le dichiarazioni di una famosa attrice francese: “Non so cosa si debba fare per tenere al proprio fianco l’uomo che si ama”. Qualcosa non va nella nostra società quando il patto più basilare, il patto matrimoniale, è preso tanto alla leggera. Una società non può funzionare bene quando i suoi membri non hanno la minima volontà di rispettare i patti e le promesse.

Fiducia. È una conseguenza della precedente: quando c’è fedeltà, i rapporti familiari sono caratterizzati da una profonda fiducia reciproca. Non c’è nulla da temere, non c’è motivo di essere insicuri. C’era un’ammirevole fiducia tra Naomi e Rut, tra Rut e Boaz e tra Naomi e Boaz. Tutti loro potevano fidarsi l’uno dell’altro perché avevano imparato a fidarsi di Dio: la fonte che alimenta la fiducia tra gli uomini è senza dubbio la fiducia in un Dio che dirige le nostre vite. Quanto sono illuminanti a questo proposito le parole di Boaz a Rut: “Ho saputo tutto ciò che hai fatto per tua suocera … sia davvero piena per te la ricompensa da parte del Signore, Dio d’Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti” (Rut 2:11-12).

Che triste contrasto con la situazione di molte famiglie oggi! La fiducia è stata sostituita dalla gelosia, a volte tanto forte da essere una delle principali cause di violenza domestica. La sfiducia reciproca è ciò che porta molti coniugi a problemi seri nella loro relazione. In casi estremi, si arriva ad assumere un detective per spiare e controllare i movimenti del coniuge. La gelosia non è segno d’amore, ma piuttosto il contrario: è espressione di mancanza di fiducia nel coniuge e anche in se stessi.


Abnegazione. 
Negare te stesso implica pensare all’altro, preoccuparsi per lui, dei suoi bisogni, del suo benessere. Il Signore Gesù ci ha mostrato molto bene questo concetto con la nota “regola d’oro”: “Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro” (Mt 7:12). In realtà, abnegazione è qualcosa di tanto semplice come “ama il tuo prossimo come te stesso”. Il primo posto, il più naturale, dove mettere in pratica questo comandamento è la famiglia. Dov’è la mia autorità morale di donarmi agli altri se trascuro la mia propria famiglia? Donarmi generosamente ai miei cari ha un grande ostacolo: l’egoismo. Questo è il peggior nemico dell’abnegazione. Il matrimonio non è adatto agli egoisti perché l’egoismo spegne a poco a poco la fiamma dell’amore.

L’abnegazione è una lezione di vita che viene appresa soprattutto in famiglia: il modello di padre e di madre e l’educazione che essi ci danno influenzeranno notevolmente le nostre relazioni da adulti. Ad esempio, un bambino viziato ha buone probabilità di essere un grande egoista, come dice bene la Bibbia: “Il ragazzo viziato farà vergogna a sua madre” (Pr. 29:15).

È curioso osservare come l’essere umano abbia sentito il bisogno di dedicare determinate date dell’anno per ricordare e rendere omaggio ai membri della famiglia: la festa del papà, la festa della mamma, la festa degli Innamorati, persino il Natale ci si presenta come il giorno della riunione familiare per antonomasia. Non abbiamo nulla contro tali celebrazioni, tranne per il fatto che sono attualmente fortemente commercializzate e soggette a un’eccessiva pressione pubblicitaria. Non è vero però che dietro la necessità di queste feste si possono nascondere dei sensi di colpa perché per il resto dell’anno siamo stati egoisti? Non abbiamo espresso adeguatamente l’amore all’interno della famiglia. Portare fiori e regali, avere parole gentili, gesti di affetto o tenerezza non dovrebbero essere azioni riservate solo a date specifiche. Ogni giorno dell’anno dovrebbe essere la festa del papà, della mamma o degli innamorati.

B) Con le parole

Secondo, l’amore si trasmette con le parole. È l’espressione verbale dell’amore. Non è sufficiente avere buoni atteggiamenti come quelli descritti. Le parole sono il complemento necessario che viene per condire il buon cibo che è l’amore. “Quanto fa bene una parola detta a tempo giusto!” ci ricorda l’autore del libro dei Proverbi (Pr. 15:23). O anche “Una parola detta al tempo giusto è come dei pomi d’oro su un vassoio d’argento.” (Pr. 25:11).

Per me, una delle caratteristiche del libro di Rut che più fa riflettere è la ricchezza dei dialoghi tra i suoi protagonisti. Mi affascina osservare le dinamiche della comunicazione all’interno di quella famiglia. Quante ore trascorreranno Naomi e Rut a parlare, ascoltarsi, confortarsi o semplicemente soffrire insieme in silenzio! La comunicazione entra in gioco costantemente e spontaneamente. Quant’è bella e incoraggiante è la scena in cui Rut torna a casa da Naomi dopo aver spigolato tutto il giorno (Rut 2:19-23) e racconta a sua suocera in dettaglio le sue esperienze della giornata, con la spontaneità quasi tipica di un ragazza! Questo è successo perché in una famiglia sana il dialogo nasce naturalmente. La comunicazione è espressione di salute nella famiglia e, a sua volta, le aggiunge altra salute.

Parlare, ascoltare, dialogare è uno dei modi più pratici di amarsi gli uni gli altri. Sfortunatamente, anche il fenomeno inverso è vero: la mancanza di comunicazione esprime egoismo e genera isolamento e separazione all’interno della famiglia. Non è un caso che una delle cause più frequenti di rottura del matrimonio sia la mancanza di dialogo. Accade anche tra genitori e figli. Una famiglia in cui nessuno parla, in cui nessuno ascolta, dove non ci sono piccoli spazi di tempo per la condivisione reciproca, è come una pianta che a poco a poco si secca. Quante famiglie oggi sono come piante che languiscono per mancanza d’acqua, l’acqua vitale della comunicazione! Frasi come “stai sempre nel tuo mondo”, “quando ti parlo, sembri assente”, “con i miei genitori non posso parlare perché non hanno tempo di ascoltarmi” sono frequenti lamentele al giorno d’oggi.

Perché l’espressione verbale dell’amore è così importante? La risposta a questa domanda ci porta a un aspetto unico della comunicazione umana che non troviamo negli animali. Questi certamente comunicano tra loro, soprattutto alcune specie; i delfini, ad esempio, hanno dei modi di comunicare davvero sorprendenti. Anche negli uccelli vediamo un certo tipo di codice acustico o di linguaggio. Ma non è la comunicazione umana. In che modo la comunicazione di un delfino o di un usignolo differisce dalla comunicazione di una moglie con suo figlio o suo marito? L’unicità della comunicazione umana è data dalla capacità di ascoltareGli animali possono udire, ma l’essere umano è l’unico in grado di ascoltare. L’udire è un atto meccanico e involontario; ascoltare, al contrario, è un atto riflessivo che implica la volontà, il desiderio di farlo. Non posso fare a meno di sentire, ma posso fare a meno di ascoltare. Perciò, nella misura in cui ascolto il mio prossimo – marito, figlio, ecc. – gli esprimo interesse, dedizione, in una parola, amore. Questa capacità di riflessione e ascolto – ascolto riflessivo – unica nell’essere umano è frutto dell’immagine di Dio in noi e uno dei modi più sublimi di amare.


Vorrei offrire ai miei lettori due consigli pratici sotto forma di piccole abitudini. Mettendoli in pratica si può arricchire la comunicazione familiare in modo sorprendente:


1.- In primo luogo, spegnere la televisione al momento di mangiare. Il semplice atto di spegnere la televisione durante il pasto fornisce un quadro prezioso e insostituibile per il dialogo familiare. La tavola è a momenti l’ultima roccaforte della comunicazione tra i coniugi o con i figli. Gli effetti sul benessere familiare possono essere davvero sorprendenti.


2.- La seconda raccomandazione è più per i genitori: cercare piccoli frammenti di tempo per stare con e essere lì per i figli. Li chiameremo momenti di dedizione familiare. Sono momenti per stare con loro, parlare, ascoltarli, scoprire i loro bisogni, le loro gioie, i loro dolori, mettersi nel loro mondo. Periodi brevi di 20 o 30 minuti tre volte a settimana possono bastare, ma devono essere momenti di dedizione esclusiva. Non è sufficiente “stare con”, è necessario “essere lì per”. Questa vicinanza emotiva dei genitori produce notevoli cambiamenti nell’ambiente familiare e nel comportamento dei figli. È anche il modo migliore per prevenire adolescenze burrascose.

Possiamo applicare lo stesso suggerimento alla relazione tra coniugi: queste piccole oasi di reciproca dedizione saranno fondamentali per mantenere vivo il rapporto matrimoniale. Chi lo ha messo in pratica ha riconosciuto inoltre che è il miglior antidoto alla routine e alla noia, grandi nemici della relazione coniugale.

Pablo Martínez Vila (2005)

Traduzione di Laura Pia Vallese

Opere di Pablo Martinez tradotte e pubblicate in italiano

Abba Padre. Teologia e psicologia della preghiera (1998)
La spina nella carne. Come trovare forza e speranza nella sofferenza (2011)
Inseguendo l’arcobaleno. Oltre il dolore, il lutto e le separazioni (2014)

Basi per una famiglia sana 1

di Pablo Martinez
Basi per una famiglia sana 2
Basi per una famiglia sana 3

Come credenti oggi viviamo bloccati tra due poli estremi riguardo alla famiglia. Da una parte c’è il modello del mondo occidentale, per molti simbolo di progresso e di modernità. Coloro che propugnano questo modello «nuovo» screditano, se non addirittura ridicolizzano, la famiglia tradizionale, quella costituita da padre, madre e figli, inclusi a volte anche i nonni. La presentano come una realtà passata di moda e la chiamano «patriarcale» perché in tal modo suona ancora più obsoleta (l’uso e la manipolazione delle parole è molto importante nel campo dell’etica). La posizione assunta è che nel pieno del secolo XXI «la famiglia patriarcale» è stata superata da concetti molto più «progressisti». Si tratta di modelli in cui si glorifica l’indipendenza di ognuno nel fare «quello che pare e piace » in ogni momento, guidati da un’etica fatta da ognuno a gusto del consumatore.

«Famiglie con composizione a scelta». Al riguardo sono molto esemplificative le dichiarazioni di una ex ministra del governo spagnolo e scrittrice, Carmen Alborch: «Vivendo da sola, i tuoi rapporti sono totalmente liberi e in questo modo guadagnano in qualità e profondità. Puoi vivere da sola e mantenere una relazione stabile con un signore o signora, un’amicizia profonda con qualcuno; può darsi che il tuo partner viva nella stessa città oppure no, che vi vediate molto o poco, sempre o mai, con figli o senza figli, tutto è possibile, siamo liberi» (sic). Fece queste affermazioni dopo aver ridicolizzato la fedeltà matrimoniale e squalificato l’idea dell’amore per sempre come mito. Di certo queste dichiarazioni costituiscono una vera e propria testimonianza di religione secolare – un vero credo laico. E poi accusano i cristiani di fare proselitismo!

In questo modo, ognuno organizza la famiglia a modo suo come meglio gli conviene: non importa che ci sia solo la madre o due padri o due madri. L’unica cosa che importa è la libertà di «costruirmela a modo mio perché ho il diritto di essere felice » (dichiarazione testuale). Ciò che conta di più è essere felici, intendendo per felicità la mancanza di problemi o la non-perdita della propria indipendenza.

«Famiglie Disneyland». Fin qui abbiamo visto il triste estremo della società attuale. Tuttavia, alcuni cristiani cadono nell’estremo opposto, forse in risposta a questa ideologia tanto contraria alla volontà di Dio per la famiglia. E’ “l’oscillazione del pendolo” che nasce più per reazione che per riflessione. Ci presentano un modello di famiglia perfetto, impeccabile. Una famiglia sana – sono convinti – non ha mai problemi, è quella in cui i familiari non litigano mai e non alzano la voce, dove ci sono sempre sorrisi e buonumore, in una parola, il paradiso in terra! Questo modello di famiglia sembra uscire più da Disneyland che dagli insegnamenti biblici. Inoltre, però, è fonte di frustrazione per quelli che cercano di raggiungere un tale livello «super-spirituale» (o forse dovremmo dire «pseudo-spirituale»). Attenzione ai libri o alle conferenze che enfatizzano questa impostazione trionfalista perché non riflette il realismo della Bibbia riguardo alla vita di famiglia.

Verso un modello realistico di famiglia
Il modello biblico di famiglia è un modello realistico: non esistono famiglie perfette
. Sin dal principio della storia, in particolare dalla Caduta e l’entrata del peccato nel mondo, la famiglia è stata oggetto di forti tensioni e problemi. Ricordiamo come le prime manifestazioni del peccato compaiano proprio nei rapporti familiari: Adamo, in uno sfoggio di irresponsabilità, si lava le mani da qualsiasi colpa e addita sua moglie Eva: «La donna che tu mi hai messa accanto, è lei che mi ha dato…». In verità questo schema di comportamento si ripete continuamente in molti matrimoni, dove si è incapaci di assumersi i propri errori o le proprie responsabilità. Sono sempre io ad avere ragione; la colpa è sempre dell’altro. A questo primo attrito tra coniugi fa seguito il dramma della morte di Abele per mano di suo fratello Caino, spaventoso atto di violenza familiare, preludio della violenza domestica tanto tristemente di moda oggi.Non possiamo fingere né auto-ingannarci. Da quando l’uomo è uomo, la famiglia è stata lo scenario di alcune delle pagine più sanguinose dei rapporti umani. Perché? La risposta ci arriva da un fondamento importante del nostro studio: la famiglia è uno dei bersagli favoriti del diavolo. Lo è sempre stata. La sua strategia – dividere, ingannare e fare violenza – compare ancora costantemente nelle famiglie della Bibbia. Sorprende che nelle famiglie scelte da Dio per compiere i suoi propositi ci siano tante tensioni e che il peccato o gli errori non abbiano mai scarseggiato al suo interno. Così fu per la famiglia di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, per non parlare del grande re Davide, un modello in così tante aree, ma un disastro nella sua vita familiare. Davide ha fallito a tal punto come padre e capofamiglia che verso la fine della vita lo riconobbe con umiltà e confessò con le sue ultime parole: « Così è stabile la mia casa davanti a Dio » (2 Samuele 23:5). Però, che sollievo, che gran consolazione sapere che Dio usa le famiglie in pezzi per raggiungere i suoi obiettivi. Non importa se vieni da una famiglia problematica o se non hai mai potuto godere della stabilità di una casa nella pace. Ci incoraggia scoprire che nella genealogia del Signor Gesù compaiono famiglie che erano ben lontane dalla perfezione, c’era persino una prostituta. Dio, nella sua grazia, si avvale di vasi di argilla persino per gli scopi più eccelsi.

Abbiamo, quindi, il credente che lotta per scoprire la volontà di Dio per la famiglia in mezzo a forti pressioni. Questo ci porta alla domanda cruciale: Esiste una teologia pratica della famiglia che possa darci una mano oggi? Quali sono le caratteristiche bibliche di una famiglia sana?

Caratteristiche di una famiglia sana
Dicevamo prima che non c’è nessuna famiglia nella Bibbia che non abbia vissuto problemi o lotte. Ho scelto come modello la famiglia di Naomi e Rut perché in essa compaiono gli elementi chiave per una famiglia sana. Prima di passare ad esaminarli, tuttavia, osserviamo che nella storia della famiglia di Rut ci sono tre ingredienti che compaiono uno dopo l’altro:

• La sofferenza: le circostanze che non possiamo cambiare, quello che ci accade.
• L’amore: la reazione della famiglia a queste circostanze. E’ la parte che tocca a noi: come agiamo di fronte a quello che ci succede.

• Il ristabilimento: la risposta e le concessioni di Dio. Egli, nella sua misteriosa provvidenza, interviene in tutta la storia familiare.

Questi tre elementi si ripetono in milioni di famiglie. E’ per questo che la storia di Naomi e Rut è un classico il cui studio contiene un insegnamento perfetto per le famiglie di oggi.

Alla luce del libro di Rut, una famiglia sana ha tre caratteristiche. Nel presente articolo prenderemo in considerazione solo la prima e lasceremo gli altri due aspetti per i mesi a venire.

1.- Sa superare i problemi: capacità di lotta.

2.- Sa esprimere l’amore nelle sue varie sfaccettature: capacità di trasmettere amore.

3.- Sa avere fiducia in Dio come artefice della propria vita familiare.

1.- Sa superare i problemi: capacità di lotta
In una famiglia sana i suoi membri si sforzano di superare i problemi e le avversità. A volte si tratta di conflitti interni prodotti dagli attriti propri della convivenza. Non ci stancheremo mai di sottolineare che la salute di un matrimonio non si misura dal molto o poco che i coniugi litigano ma dal tempo che ci mettono a riconciliarsi. La nostra capacità di affrontare le divergenze e risolverle in modo maturo è molto più importante di una pace apparente frutto di una convivenza superficiale.

In altri casi, l’attacco viene da fuori sotto forma di disgrazie: una malattia, un incidente, la disoccupazione, difficoltà economiche, un figlio difficile sono eventi che mettono alla prova l’unità della famiglia. Sia che i problemi siano interni sia che provengano dall’esterno a mo’ di tragedia, la risposta sana consiste nell’affrontare tali circostanze con serenità e cercare delle vie d’uscita con decisione. La famiglia immatura, al contrario, crolla alla prima avvisaglia di pericolo quando sorgono tali attriti o calamità, è incapace di cercare vie d’uscita e cade in uno dei due errori più frequenti: i rimproveri reciproci, la ricerca di capri espiatori – di colpevoli – negli altri membri della famiglia, o un’autocommiserazione paralizzante: «Io non mi merito questo; come mi ha trattato male la vita; non me ne va mai una giusta».

Il libro di Rut illustra molto bene questo principio. In un primo tempo, Rut 1, troviamo una famiglia distrutta dal dolore. Al trauma dell’emigrazione in terra straniera a causa della fame, si aggiunge la morte inaspettata dei tre uomini, il marito e i due figli. Così, Naomi rimane sola, vedova, con le sue due nuore in una terra straniera. Ricordiamo che una vedova in quella società si trovava in una situazione di grave emarginazione, indifesa e vulnerabile dal punto di vista sociale.

Questa tappa iniziale fu tanto dura che arriva a esclamare: «Non mi chiamate Naomi, bensì Mara – che significa “amara”- «poiché l’Onnipotente m’ha riempita d’amarezza. 21 Io partii nell’abbondanza, e il SIGNORE mi riconduce spoglia di tutto» (Rut 1:20-21). «La mia condizione è più amara della vostra…» (ND Rut 1:13). Non c’è da stupirsi che questa donna pia si lamenti apertamente verso Dio. Esprimere i propri sentimenti fa parte della fede, non la contraddice, ed è conforme a molti grandi servi di Dio che in momenti di tribolazione aprirono il cuore verso colui «i cui occhi sono sui giusti, e i cui orecchi sono attenti al loro grido» (Sal 34:15). In nessun momento Dio riprende Naomi; al contrario, le era molto vicino e controllava e guidava gli eventi per portarli a buon fine.

Dunque, la capacità di lotta richiede un requisito: saper soffrire. Paolo comincia la sua formidabile descrizione dell’amore in 1 Cor. 13  con queste precise parole: «L’amore è paziente». Sarà un caso che abbia messo questa caratteristica al primo posto? No, assolutamente. L’amore maturo ha come caratteristica fondamentale il saper sopportare, la capacità di lottare e affrontare i problemi che, in modo inevitabile, colpiranno la vita familiare. Abbiamo bisogno, ciononostante, di sottolineare che l’«essere paziente» non è un invito al masochismo. L’idea non è che il coniuge debba sopportare senza discutere e all’infinito tutto quello che riceve; per esempio, maltrattamenti e violenza ripetuta, questa sarebbe un’interpretazione distorta, più propria dello stoicismo che della fede cristiana.

Per poter comprendere l’amore come «paziente» abbiamo bisogno di ricorrere a un altro  concetto biblico essenziale e che occupa anch’esso un posto centrale nella vita familiare: la perseveranza. In senso biblico essere perseverante è molto lontano dal fatalismo e dalla passività di fronte al dolore. La perseveranza è prima di tutto «grandezza d’animo» (makrotimia). Questo è il senso che ha in Ebrei 12:1 quando siamo esortati a correre con perseveranza la corsa della fede. L’esempio supremo di perseveranza ce lo diede il Signor Gesù « uomo dei dolori e conoscitore della sofferenza».

Perchè falliscono tanti matrimoni e si rompono tante famiglie ai nostri giorni? Perchè tanti figli litigano con i genitori e i fratelli tra di loro? Non possiamo semplificare un argomento così difficile e delicato. Come psichiatria professionista conosco la complessità dei conflitti coniugali e familiari. Ho però la profonda convinzione che molti di questi conflitti si risolverebbero, indipendentemente dalle loro cause, se i coniugi – entrambi – fossero maggiormente disposti ad «essere pazienti» nel senso di cercare attivamente vie d’uscita ai propri problemi. Per questo bisogna essere perseveranti l’uno con l’altro, cosa che non abbonda nella nostra società edonista che glorifica il benessere individuale – «ho il diritto di essere felice» – e disprezza la lotta e il sacrificio nei rapporti personali. Molti oggigiorno applicano alle loro relazioni il principio del «minimo sforzo diviso in due». Questo modo di pensare e di vivere è agli antipodi dei principi biblici. Noi credenti dobbiamo verificare fino a che punto stiamo privando i nostri rapporti familiari di questo requisito primario dell’amore, l’«essere paziente». Forse basterebbe aggiungere piccole dosi di amore paziente e perseveranza per prevenire molte crisi in famiglia e nei matrimoni. Qui risiede una delle chiavi per correre qualsiasi gara di fondo – e la vita familiare lo è – con costanza. Si ottiene molto di più con qualche goccia di miele che con barili di fiele. Di qui l’importanza del secondo requisito, saper esprimere l’amore, che esamineremo nella seconda parte di questo articolo.

Traduzione di Laura Pia Vallese

Opere di Pablo Martinez tradotte e pubblicate in italiano

Abba Padre. Teologia e psicologia della preghiera (1998)
La spina nella carne. Come trovare forza e speranza nella sofferenza (2011)
Inseguendo l’arcobaleno. Oltre il dolore, il lutto e le separazioni (2014)