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La morte del papa-teologo. L’opinione di un evangelico.

di Valerio Bernardi

Nelle testate giornalistiche di fine e inizio anno, almeno in Italia, le notizie che hanno maggiormente spiccato sono quelle della morte di due personaggi celebri: Pelé e Benedetto XVI.

Lasciando momentaneamente da parte il tentativo di un bilancio sul primo, cercherò di tracciare un breve profilo valutativo di quello che è stato il primo Papa emerito della storia: Joseph Ratzinger/Benedetto XVI. Tentare di tracciare un bilancio del suo operato significa cercare di tracciare un bilancio del cattolicesimo post-conciliare e risulta impresa ardua. Partirò da due episodi significativi per me e, penso, rappresentativi di quello che ha fatto Papa Benedetto XVI.

Ho avuto la possibilità di sentire Ratzinger, quando era cardinale e rivestiva, sotto Giovanni Paolo II, la carica di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (ovvero era il capo dell’ex Sant’Uffizio e tribunale dell’Inquisizione) qui a Bari in una conferenza intitolata Unità e pluralità nella Chiesa. Sicuramente durante il suo eloquio si poteva dedurre che si trovava di fronte ad un teologo profondamente erudito e ben a conoscenza dei meccanismi della Chiesa in cui militava, ma, a me, giovane evangelico faceva sorgere diversi dubbi soprattutto quando, di fatto, negava la possibilità di qualsiasi pensiero dissenziente nei confronti del Magistero della Chiesa, ribadendo l’importanza del suo ruolo e della Curia nello stabilire quali fossero le basi della fede cattolica. Si trattava del Ratzinger che, appena qualche mese prima, aveva condannato in maniera ferma i Teologi della liberazione dell’America Latina, sostenendo che (forse anche giustamente) non ci poteva essere una conciliazione tra Marx ed il Magistero della Chiesa, ma, allo stesso tempo, ignorando le opzioni da cui era nata quella teologia e la questione della povertà che è sempre stata e deve sempre essere al centro del dibattito cristiano sin dai tempi biblici.

Il secondo ricordo, più vicino nel tempo, riguarda le sue dimissioni. Nella scuola dove insegno, nonostante la maggior parte dei ragazzi non sia normalmente interessata a questioni religiose e siano molto critici nei confronti della Chiesa Cattolica, le dimissioni di un Papa ha suscitato scalpore. Per questo motivo gli studenti hanno deciso di dedicare una loro assemblea di Istituto alla questione e, tramite la loro docente di religione, sono riusciti ad invitare Don Nicola Bux, un importante esponente del clero vicino a Comunione e Liberazione e collaboratore del Pontefice mentre era cardinale e Prefetto del Sant’Uffizio. Nonostante le varie dicerie sulla questione delle dimissioni (incapacità di governare la Chiesa, scandalo della pedofilia etc. etc.) Bux ha dato forse una delle migliori spiegazioni dell’accaduto: Ratzinger vedeva declinare la sua salute e, in tutta coscienza, non se la sentiva di continuare a governare senza vigore la Chiesa Cattolica.

Questi due episodi, a parte la lettura di diversi suoi testi e discorsi sono quelli che mi rimarranno impressi quando, anche in futuro, ricorderò Ratzinger. Ovviamente ci sono tante altre cose da poter discutere e voglio qui ricordarne qualcuna.

In primo luogo, Ratzinger è stato un teologo tedesco, formatosi in Baviera e docente alla facoltà teologica cattolica di Tubinga, uno dei più prestigiosi atenei tedeschi, dove è stato collega per diversi anni di Hans Küng, condividendone le posizioni progressiste almeno sino alla metà degli anni 1970, quando soffermandosi negli studi sul ruolo della Chiesa ha iniziato a reinterpretare alcune delle cose ribadite dal Concilio Vaticano II, si è allontanato dalle posizioni di critica nei confronti del Magistero e del ruolo del Pontefice ed ha ribadito un concetto di chiesa sacramentale che rimane uno dei pilastri del Cattolicesimo. La sua conversione non è stata repentina né frutto di un cambio di casacca per questioni squisitamente politiche (anche se è vero che ciò gli ha permesso di far carriera nella Curia), quanto un autentico timore dello sfaldamento della Chiesa Cattolica.

Questo lo ha gradualmente portato a divenire uno dei maggiori teologi dell’ala conservatrice della Chiesa Cattolica, condannando qualsiasi tentativo di andare al di fuori di schemi tradizionali. Allo stesso tempo, però, Ratzinger è stato colui che ha cercato di dialogare con il mondo secolarizzato occidentale. Lo ha fatto in diverse occasioni ed è entrato in dialogo sia con Habermas in Germania che con Flores d’Arcais in Italia. I suoi tentativi erano portati avanti anche da quello che, a mio parere, rimane il più importante documento ufficiale da lui scritto (anche se non ufficialmente) che è l’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et Ratio. In tale scritto il teologo tedesco è entrato in dialogo con il pensiero contemporaneo, cercando di ribadire un concetto di razionalità diverso da quello voluto dall’Illuminismo occidentale. La proposta è risultata interessante anche se il costante richiamo alla tradizione tomista come una sorta di “filosofia” ufficiale della Chiesa, appare limitante e forse troppo ristretta per un pensiero come quello evangelico che si è lasciato indietro l’impalcatura realista del periodo medievale.

Le testate giornalistiche italiane (in particolare Repubblica che non ha mai brillato per le sue competenze in campo religioso) continuano a ricordare il famoso discorso di Ratisbona fatto da Pontefice e lo ricollegano ad una sorta di antislamismo. Se è vero che Benedetto XVI in un passaggio di quel famoso discorso faceva riferimento all’Islam ed al fatto che tale religione non ricorresse alla ragione e non chiedesse alla fede l’uso dell’intelletto, è vero che l’intero discorso era una serrata critica al pensiero occidentale contemporaneo che era ricollegato in particolar modo al Protestantesimo e ad una linea di pensiero che partiva da Lutero ed arrivava fino a Kant in cui Dio era stato abbandonato a favore dell’uomo. Ratzinger (che in altri discorsi ha avuto parole di elogio per Lutero) ribadiva una vecchia linea di pensiero che riportava la responsabilità della secolarizzazione dell’Occidente alla Riforma Protestante, vista sempre con rispetto dal pensatore tedesco, ma anche guardata con una certa diffidenza.

Questo è, a grandi linee (se vogliamo anche in maniera sin troppo sintetica) il percorso di un grande personaggio per la Chiesa Cattolica. Cosa possiamo dire noi da evangelici? Intanto come spesso accade, a prescindere dal credere o meno nei rapporti ecumenici e di dialogo con la Chiesa Cattolica, il pensiero di Benedetto XVI va trattato con rispetto e lo si deve leggere con attenzione anche nei suoi tentativi divulgativi della fede che non sono mancati (non dimentichiamo che da Pontefice ha scritto delle monografie dedicate alla figura di Gesù, sicuramente discutibili in alcune conclusioni, ma molto interessanti perché si tratta, anche in questo caso, della prima volta che un Pontefice affermava di aver scritto libri da studioso e non da Capo della Chiesa). Leggendo i suoi testi è chiaro che le sue tesi rimangono pienamente all’interno della tradizione cattolica e, per questo, la sua concezione di Chiesa, il suo cedere in alcuni momenti al culto mariano, la sua idea di Magistero sono, da un punto di vista evangelico criticabili. Vanno però apprezzati il suo tentativo di dialogo con la società contemporanea, l’idea di render ragione della propria fede, quella di voler divulgare il suo pensiero. E, in ultimo, rimarrà sicuramente nella memoria dei posteri il suo atto più rivoluzionario: le sue dimissioni. Benché tradizionalista, Benedetto XVI ha rotto con una tradizione millenaria ed ha mutato l’idea di pontificato proprio abbandonando il soglio pontificio ed ammettendo che non si può dirigere una Chiesa in tarda età ed in condizioni precarie di salute. Probabilmente questo sarà uno dei suoi lasciti più significativi, oltre quelli della sua opera.

(Valerio Bernardi – Dirs GBU)