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Esodo

Lunedì letterario del 23 luglio 2018

Quirico Domenico, Esodo. Storia del nuovo millennio. Neri Pozza 2016

Non può sfuggire al lettore della Bibbia un titolo come quello che Domenico Quirico dà al suo libro sulle migrazioni, che riprende quello del secondo libro del Pentateuco. Quello dei migranti del terzo millennio è effettivamente un «esodo», per certi versi simile a quello degli ebrei fuggiti dall’Egitto, per altri ben diverso. Non è tuttavia sul significato del termine che si attarda l’autore. Giornalista ed esperto di questioni africane e medio-orientali, Quirico ha ripercorso personalmente gli itinerari dell’attuale fenomeno migratorio, esplorandone i luoghi, le rotte e gli attori. Nel primo capitolo parte da quella che è spesso l’ultima tappa del viaggio e racconta la sua esperienza vissuta come giornalista, ma secondo le modalità di un migrante, a bordo di un barcone della morte partito dalla Tunisia e naufragato presso Lampedusa. Procedendo a ritroso va ad esplorare la città di Kayes in Mali, centro di raccolta di chi è partito dall’Africa Occidentale, per proseguire nel deserto dal Niger alla Libia. Racconta ancora del califfato, della Siria e della Turchia, con la città di Mersin da cui partono navi per l’Europa, della rotta balcanica con al città di Horgos tra Serbia e Ungheria, per arrivare fino a Calais, sul canale della manica. Il capitolo conclusivo racconta invece della città di Melilla, enclave spagnola in Marocco, che rappresenta una sorta di Europa in Africa, meta ambita da molti migranti africani. La descrizione delle rotte dell’immigrazione è intercalata da capitoli che raccontano fallimenti, viaggi non riusciti e rientri forzati,  episodi di naufragi di vite umane di cui è difficile tenere memoria, o luoghi in Italia come Mineo e Roma dove l’organizzazione dell’accoglienza suscita problemi e proteste.

 

Il testo non si configura come un’analisi scientifica del fenomeno migratorio fatta di dati ed argomenti volti a sostenere una tesi. Lo sguardo è chiaramente quello di un testimone che riporta storie, descrizioni di luoghi, di volti, di angosce e paure che hanno tutta la forza e l’incontestabilità della testimonianza, per l’appunto. Tuttavia attraverso i capitoli del libro possiamo recuperare diversi elementi che portano avanti una tesi piuttosto chiara, a favore di un’accoglienza dei migranti, in primis per un necessario ed umano ascolto del grido che proviene da loro, ed in secundis perché secondo Quirico il fenomeno è inarrestabile e contrastarlo con la chiusura è impossibile, oltre che ingiusto. Proviamo quindi a mettere in luce alcuni degli elementi che ci sembra di poter evidenziare.

Innanzi tutto c’è una riflessione sulle cause: perché si parte? L’autore rifugge una spiegazione univoca, e se da un lato descrive luoghi di guerra, e situazioni di disperazione dovute a povertà, sul cui retroscena la responsabilità storica dell’Occidente è palese, dall’altro presenta una serie di vite mosse dalla semplice speranza di un futuro migliore, non necessariamente per sfuggire alla morte: «Ho fatto il viaggio per l’arrogante volontà di capire perché un popolo di ragazzi rischia la vita  per sbarcare da noi, per afferrare l’Europa. Non dovremmo usare più per loro la parola clandestini: inganna, svia, dovremmo restaurare l’antica cara nostra parola di migranti. Perché non è soltanto e soprattutto la miseria che li muove. Certo l’hanno mangiata da sempre, ma in Tunisia non c’è la fame. È altro che li spinge, una forza che da sempre ha smosso i giovani a muoversi, a cambiare a sognare, cercano un’altra vita e basta, vogliono cambiare e provare. Sanno che l’Europa sarà altro, fatica, disperazione, umiliazione e povertà (…) ma partono lo stesso, perché siamo noi lo spazio vuoto che vogliono attraversare». (p. 30)

D’altra parte la riflessione sulle cause del viaggio si accompagna a quella sull’inevitabilità del viaggio. Secondo l’autore il vero dramma del terzo millennio (da cui il sottotitolo) non è tanto il problema su cui si attarda l’Occidente dell’accoglienza (o tristemente il rifiuto) del migrante, ma piuttosto quello della desolazione lasciata da chi parte: ampie parti del mondo assistono ad una desertificazione umana che ingenera un circolo vizioso per cui lo svuotamento produce ulteriore fuga. Di questa Grande Migrazione l’autore sollecita una presa di coscienza, perché è questa che determina il cambiamento del mondo. «C’è da far posto a un popolo nuovo, milioni di persone; non hanno bandiera e passaporto, lo hanno distrutto quando sono partiti». (p.44) Il disastro provocato da dittature, fanatismi e guerre produce un popolo enorme che fugge e che non si fermerà davanti a niente, pertanto il respingimento fatto nell’immediato non è praticabile a lungo termine, come la soluzione dei campi profughi che può essere solo temporanea. La stessa identità dei componenti di questo popolo è stata ridefinita dal Viaggio a cui hanno sopravvissuto, per cui non si può parlare più di cittadini riconducibili a un determinato stato, ma sono persone «nuove» ed è impossibile pensare di bloccarle.

Un terzo elemento, riguarda la riflessione sul Mediterraneo. «Il Mediterraneo è molto più grande delle sue coste. Aggrega tutto ciò che sta intorno, lo aggrega a questo gigantesco continente unitario che lega Europa, Asia e Africa». (p. 53) L’autore osserva come nel corso della storia il Mediterraneo sia stato talora mezzo di comunicazione, talora barriera, con un alternarsi di guerre, dominazioni e scontri che in qualche modo tornano a ripetersi. La vicenda del califfato di Daesh (a cui l’autore ha dedicato un libro), viene letta alla luce di una rivendicazione sunnita di un ritorno alla dominazione degli Abbasidi di sette secoli fa, e come una eco di conflitti tra Islam ed Occidente che tende a ripetersi. Da un lato torna l’idea di un’inevitabilità del viaggio, dall’altro l’autore sembra suggerire che non si è voluto imparare molto dalla storia.

Lo sguardo di Quirico, trascritto da una scrittura particolarmente gradevole, non è quello freddo e distaccato dell’analista o del ricercatore oggettivo che fornisce dati ed analisi ed accumula prove ed argomenti in favore di una tesi; è quello piuttosto del testimone, partecipe e coinvolto, che mischia citazioni di frasi di giovani migranti su un barcone, di bambine in mezzo ad una strada, di padri che hanno perso figli in mare, o di passeurs (scafisti) a riflessioni sul fenomeno migratorio, e descrizioni di luoghi o volti, quasi romanzate. Certo una tesi emerge, ed è quella di un invito ad  ascoltare il grido che proviene dai protagonisti primi del Viaggio verso l’Occidente, ma questa consiste più nel lanciare una serie di riflessioni provocatorie con denunce, con fatti che hanno tutta la forza espressiva di una testimonianza, che non con l’imposizione di un’argomentazione rigorosa fondata su analisi e dati. Un contributo importante alla riflessione sull’immigrazione che, tanto per l’accoglienza quanto per l’elaborazione di una politica migratoria seria, deve riguardare chi si professa cristiano.

(Stefano Molino, DiRS–GBU)

 

Tre domande a Giacomo Carlo Di Gaetano sulle migrazioni

  1. Le migrazioni di massa sono un fenomeno che è entrato con forza, a tutti i livelli, nella visione e nella percezione del mondo degli occidentali e anche degli italiani. Quali considerazioni si possono fare in questo momento?

 

Il carattere di eccezionalità dei fenomeni migratori e le reazioni che suscita rivela a mio giudizio due fatti: il primo è di ordine oggettivo ed ha a che fare con i numeri. Sebbene ci siano stati sempre fenomeni di migrazioni, quella a cui stiamo assistendo negli ultimi decenni è una escalation destinata a trasformare il volto di molte aree del pianeta. Fenomeni climatici, fattori economici, condizioni sociali, guerre, crisi demografiche, l’interconnessione mediatica globale e altro ancora hanno spinto e stanno spingendo una consistente fetta della popolazione mondiale a mettersi in movimento. È un fatto oggettivo.

Il secondo punto da rilevare è che un fenomeno antropologico ricorrente susciti, nei luoghi e nelle aree di approdo o semplicemente di transito dei flussi migratori, forme di percezione e di reazione tanto scomposte quanto più è grande la capacità psicosociale ma anche strutturale di queste aree di gestione e di risposta virtuosa al fenomeno. Mi riferisco all’Occidente, vale a dire alla parte più sviluppata del pianeta e in particolare all’Europa. In simili contesti antropici i soggetti che, su tutta la scala sociale, sarebbero deputati e comunque sono destinati a gestire il fenomeno delle migrazioni si rivelano come soggetti che hanno subito una sorta di mutazione che ha rimosso il loro vissuto e la loro storia. Tutte le popolazioni europee infatti hanno nella loro breve memoria storica la traccia delle proprie migrazioni. Migrazioni che, a parte la parentesi della Seconda Guerra Mondiale, sono state quasi esclusivamente di ordine economico.

Gli europei sono stati i migranti economici della storia degli ultimi cento anni.

La condizione attuale in cui i flussi migratori sono percepiti in un certo modo è dunque frutto di una clamorosa ed egoistica rimozione: «L’europeo medio, civilizzato, avendo il pane, un impiego, un tetto, in un quartiere relativamente sicuro, sente crescere dentro di sé l’odio allorquando perde le sue sicurezze e vede degradarsi pericolosamente l’ambiente in cui vive» (E.N.). Questo modo di guardare alle migrazioni diviene preponderante e annulla l’altra grande prospettiva della cultura europea a partire dalla quale i fenomeni migratori possono essere considerati, vissuti e gestiti, mi riferisco alla prospettiva “cristiana”.

 

  1. Esiste una prospettiva cristiana sulle migrazioni?

Per fornire una risposta a questa domanda bisogna prima di tutto verificare se il fenomeno migratorio che appare a prima vista abbastanza omogeneo (quale che sia la ragione dei soggetti che si mettono in movimento) necessita di una risposta essa stessa omogenea. Personalmente non credo che la risposta sia omogenea. Ritengo al contrario che la reazione alle migrazioni debba ruotare intorno a due fuochi ben precisi che sicuramente hanno aree di sovrapposizione ma che nella loro essenza sono da distinguere. La loro distinzione permetterà di individuare e circoscrivere una prospettiva cristiana sulle migrazioni.

Questi due fuochi sono l’ACCOGLIENZA e la CONVIVENZA.

I cristiani hanno sicuramente da dire qualcosa in entrambi gli scenari; tuttavia ritengo che il fuoco di elezione e di espressione di una prospettiva cristiana sia in particolare il primo, quello dell’ACCOGLIENZA. Nel campo della convivenza il cristiano deve tener conto che la società in generale non ha il qualificativo di “cristiana”, in quanto è abitata da soggetti che possiedono una visione del mondo diversa dalla sua (atei, cristiani con diversità confessionali, altre religioni) e questo fa sì che il tema della convivenza divenga un tema principalmente politico, frutto di mediazioni e compromessi. Non così nel campo dell’accoglienza. È qui che la prospettiva cristiana si staglia in tutta la sua chiarezza e nettezza, rivelando la peccaminosa contraddizione di un’Europa che si dice di essere cristiana “nel nome” e vive con nervosismo quando non con ipocrisia il fenomeno delle migrazioni.

La distinzione Accoglienza/Convivenza serve anche a un altro scopo: quello di identificare quale sia il punto di partenza di una visione cristiana dei flussi migratori. Qui la prospettiva cristiana sulle migrazioni deve risolvere dei preliminari problemi ermeneutici. Bisogna costruire una prospettiva cristiana dei flussi migratori partendo dalle scritture ebraiche e da tutto il bagaglio di insegnamenti legati alla terminologia sullo straniero, al rapporto tra legislazione, culto ed esigenze morali dell’antico Israele? Oppure bisogna partire dal punto in cui l’azione di Dio testimoniata nella Bibbia giunge al suo culmine nella persona e nel ministero del Gesù Cristo? Il quadrilatero di possibilità ermeneutiche e sociali che si crea (Accoglienza / Convivenza vs AT / NT) assume diverse conformazioni. Se partissimo dal NT e ci focalizzassimo sull’ACCOGLIENZA, questo quadrilatero assumere una disposizione tale da rappresentare una risposta cristiana efficace in un momento come quello attuale in cui, all’indomani delle disposizioni del nostro Governo a firma di Orlando – Minniti e di fronte ai primi drammatici passi compiuti dal nuovo Governo e dal ministero a guida Matteo Salvini, il tema delle migrazioni pare essere entrato in un vicolo socio–politico molto particolare.

 

  1. In che modo dunque articolare una visione cristiana delle migrazioni che ponga al centro l’ACCOGLIENZA, e solo in secondo piano l‘altro aspetto, quello della CONVIVENZA?

È indubbio che ponendo come primo tempo della risposta cristiana il tema dell’accoglienza ci si accorge della limitatezza e incompiutezza delle prospettive veterotestamentarie. Per quanto si possano fare molteplici distinzioni, è evidente che lo scenario veterotestamentario, in tutte le fasi della storia dell’antico Israele testimoniata nelle Scritture ebraiche, mirava all’omogeneità sociale a partire dall’omogeneità religiosa. È evidente che con Gesù lo scenario cambia completamente, anche nel modo di attingere dal bagaglio veterotestamentario. Il tema dell’accoglienza riceve un impulso incredibile nella considerazione del fatto che lo stesso protagonista della nuova era, Gesù, è in buona sostanza un migrante alle prese con problemi appunto di accoglienza (Gv 1). L’identità cristiana di coloro che si rifanno a Gesù deve tener conto anche di questa nota.

Quali sono le principali motivazioni derivanti dall’opzione ermeneutica neotestamentaria e cristocentrica che motivano all’accoglienza?

Una ragione fenomenologica: i fenomeni delle migrazioni mettono in scena, drammaticamente, quella che deve essere l’identità ultima della chiesa cristiana, vale a dire quella di un popolo di stranieri e di pellegrini (1 Pt 1) che devono vivere il rapporto con il mondo in una maniera particolare. Se i cristiani non lo sanno, o lo hanno dimenticato, che guardino i migranti! Scopriranno così che cosa devono essere. È stato sostenuto che l’intervento delle chiese verso i migranti è sui generis, è diverso da quello delle agenzie umanitarie o delle politiche statali e comunitarie. Infatti nell’accogliere i cristiani e le chiese non trasformano l’identità dei migranti ma trasformano la propria identità, tornano essi stessi alla loro condizione originaria di “stranieri e pellegrini”.

 

Una ragione teologica. Sebbene i cristiani prendano il loro nome e le loro movenze da Cristo, nel campo dell’accoglienza essi sono invitati dallo stesso Maestro a volgere lo sguardo ancora più in alto, al Padre che è nei cieli (Mt 5:43–48). La ragione teologica è dunque nel senso stretto del termine una ragione che attiene al modo in cui Dio gestisce gli affari umani, di tutti gli uomini. E Gesù sottolinea, prendendo ad esempio il campo morale, che il Padre “fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”. Nella nuova comunità dei discepoli questo approccio TEO–logico diverrà ecclesiologico: nessuna distinzione tra stranieri e residenti. In mezzo, tra il governo sovrano di Dio e l’esperienza della comunità dei fedeli che hanno in comune la stessa fede, c’è la dimensione sociale delle nostre esistenze. I cristiani devono ACCOGLIERE imitando Dio e sperando di entrare in una fratellanza di fede in cui diveniamo indifferenziati quanto alla fede, come mostrano le visioni escatologiche della stanza del trono di Dio (Ap 4––5). Segnaliamo solo: è nella ragione TEO–logica che trova collocazione anche il tema dell’imago Dei: accogliamo, dobbiamo accogliere perché condividiamo l’immagine di Dio.

 

La ragione del vangelo. Le estremità della terra sono la meta di passaggio della comunità degli stranieri e dei pellegrini che è la chiesa di Gesù Cristo; oltre c’è il cielo, è quella la meta (Eb 11). Ma non si va in cielo senza passare per le estremità della terra. E lì ci sono coloro che sono diversi da noi, in toto, nel senso delle culture. E noi stiamo vivendo il fenomeno straordinario e affascinante delle estremità della terra che si muovono. Non sono state raggiunte, ora sono loro che ci raggiungono. Un discepolo di Gesù Cristo non potrà non sentire in se stesso l’impeto del Grande Mandato (Mt 28) e l’indicazione operativa del risorto (At 1:8): comunicare il vangelo! Ma la comunicazione del Vangelo è uno sbocco della dinamica accogliente, come tutti i fenomeni comunicativi in cui qualcuno racconta qualcosa a qualcun altro.

 

Che cosa accadrebbe se i cristiani vivessero totalmente e integralmente L’ACCOGLIENZA? Che la stessa CONVIVENZA ne sarebbe condizionata. E allora come cristiani, nel momento in cui si insedia un governo che cavalca la paura dei migranti e vuole “rimandarli a casa”, dobbiamo chiedere ed esigere di essere noi stessi e dunque non solo desiderare ma voler ACCOGLIERE, essere messi nella condizione di farlo.

 

Ultimo pensiero: una mossa ermeneutica che affronta il tema delle migrazioni a partire dal Nuovo Testamento, che si focalizza sul fuoco dell’ACCOGLIENZA, può essere un modo di esprimere la nostra identità di cristiani EVANGELICI! L’accoglienza, attenendo alla parte più profonda dell’identità cristiana, è un’attività diffusa e capillare che investe le famiglie e i singoli nella preghiera casalinga come nell’amicizia e nell’apertura delle proprie comunità. Certo possono esserci progetti strutturali (penso per esempio ai Corridoi umanitari; alle agenzie delle chiese). Ma sta di fatto che una popolazione che si definisce “cristiana” (e, permettete di ricordarlo, è cristiano–cattolica) non accoglie, nonostante la loro massima autorità (Papa Francesco) predichi chiaramente l’accoglienza.

Come cristiani evangelici possiamo fare la differenza dimostrando che quello che ci muove veramente è il desiderio di CONDIVIDERE GESÙ DA MIGRANTE A MIGRANTE!