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Natale sì, Natale no! La storia infinita

Giacomo Carlo Di Gaetano
Francesco Schiano
Valerio Bernardi


Christianity Today, il 10 dicembre 2024 ha pubblicato un articolo dal titolo «In Italy, Evangelicals Wage a Quiet War on Christmas» (In Italia, gli evangelici portano avanti una guerra silenziosa contro il Natale) in cui riportava l’opinione di qualche italiano contrario alla celebraizone del natale e di alcuni missionari che vivono in Italia.

Stimolati dall’articolo ci siamo posti, come redazione del DiRS, tre domande alle quali abbiamo cercato di rispondere

  1. Gli evangelici in Italia, oggi, celebrano il Natale?

Giacomo Carlo Di Gaetano
(Edizioni GBU, filosofo)

Non ho dati statistici per dare una risposta certa a questa domanda; me la potrei cavare dicendo che l’approccio degli evangelici italiani alla celebrazione del Natale è legato alla loro carta d’identità, alla loro età. Sarebbe abbastanza veritiero affermare che le generazioni più avanti nell’età tendono ad avere un approccio negativo alla festività mentre i giovani hanno completamente mutato il loro approccio.

Qualcosa però mi dice che se c’è una situazione in evoluzione e la celebrazione del Natale si va sempre più diffondendo non solo al livello della percezione dei singoli evangelici o delle famiglie (nel passato accadeva anche questo: celebrazioni casalinghe e negazione pubblica) ma anche al livello delle comunità locali le ragioni non sono unicamente anagrafiche.

Per spiegare quella che è una mia percezione posso far riferimento alla mia esperienza personale. Sono cresciuto in una famiglia in cui non si celebrava il Natale. Il periodo dell’anno era stigmatizzato con riferimenti all’ipocrisia del nominalismo, all’idolatria e al rifiuto di tutti quegli elementi tradizionali che infarciscono la ricorrenza.

Tuttavia non si era indifferenti all’elemento “festa” insito nel periodo dell’anno. Era infatti il periodo in cui si organizzavano eventi di chiesa come campeggi, periodi di formazione e tante altre iniziative. Per molti giovani evangelici, che non avevano festeggiato il Natale, il ritorno a scuola, dopo le festività natalizie, era vissuto con lo stesso sentimento di soddisfazione dei colleghi che invece avevano in qualche modo preso parte alle festività.

Questo elemento della festa relativa al periodo dell’anno è anche una chiave per comprendere il mutamento di approccio che io stesso ho vissuto e del quale magari potrò parlare in risposta alla terza domanda.

 

Francesco Schiano
(Staff GBU, storico)

Che io sappia non esistono statistiche, e personalmente non ho abbastanza elementi per provare una stima basata sulla mia percezione, ma conosco tanti evangelici che celebrano il Natale e tanti evangelici che non lo fanno.

Le denominazioni che contano più chiese in Italia (ADI, Pentecostali “liberi” e Assemblee dei Fratelli) hanno una posizione tradizionale di rifiuto della festa, che viene ritenuta non biblica e costruita con elementi tratti da antichi culti pagani, ma anche all’interno di queste denominazione c’è sempre stato chi ha celebrato il Natale. Altre denominazioni non hanno mai avuto nessuna ostilità nei confronti del Natale e in generale gli evangelici in Italia hanno sempre considerato questa festa come una grande opportunità evangelistica.

 

Valerio Bernardi
(Storico e filosofo, Edizioni GBU)

Mi pare che quando si parla di evangelici in Italia e di un mondo piccolo vanno fatte delle differenziazioni. Se parliamo di evangelici includendo anche le chiese cosiddette storiche (Valdesi, Metodisti, Battisti) dobbiamo subito dire che il Natale è stato sempre parte integrante delle festività celebrate da parte di questi ultimi. Se parliamo di chiese libere o di stampo pentecostale bisogna dire che vi è stato negli anni un rifiuto del Natale, dovuto a diversi fattori che andrebbero analizzati con attenzione e che non vanno dimenticati.

Io appartengo ad una Chiesa di origine americana che non ha mai avuto una preclusione nel festeggiamento del Natale, pur appartenendo all’ambito libero. Natale veniva visto come un’occasione di festeggiamenti familiari, ma anche di riflessione sull’incarnazione. Sin da piccolo (e questo è successo anche ai miei genitori) uno dei momenti centrali che doveva servire anche di testimonianza della propria fede era la preparazione, da parte dei bambini e dei ragazzi, di recite natalizie che dovevano testimoniare soprattutto del Vangelo. E’ ancora tradizione cantare nel periodo dell’Avvento e nei dodici giorni delle festività canti natalizi durante il culto e la cosa è accettata con gioia dalla comunità.


  1. C’è stato indubbiamente un tempo in cui l’approccio generale alle feste comandate o del calendario liturgico era negativo e ostile. Per quali ragioni?

 

Giacomo Carlo Di Gaetano

Se volessi continuare la narrazione personale, non potrei negare che l’approccio negativo al Natale esisteva ed era molto presente. Tuttavia, mi sento di fare un sottile ma importante distinguo. Non era un approccio che oggi definirei “teologico” del tipo cattolici vs evangelici o protestanti. Tutti, anche i miei genitori, erano consapevoli del fatto che il Natale veniva regolarmente celebrato nei paesi protestanti e molti evangelici che conoscevamo non facevano mistero di esprimere un parere negativo sulla chiusura degli evangelici italiani.

Ciò che spingeva a prendere la distanza era il peso ossessivo delle tradizioni, vale a dire quell’insieme di elementi della cultura popolare intrecciati con elementi della narrazione biblica e della tradizione liturgica della chiesa cattolica. Era quell’insieme asfissiante che suscitava la repulsione per credenti che volevano parlare e testimoniare della libertà in Cristo. Si sentiva poi ripetere spesso quel refrain che poi diventerà sempre più appannaggio di tanti esponenti della Chiesa cattolica fino a raggiungere la finestra dell’Angelus di Piazza San Pietro, vale a dire l’invettiva contro il consumismo che si esprimeva, e si esprime, durante le festività.
I riferimenti alla data storica della nascita così come altri elementi più dottrinari (p.es. gli apostoli non hanno ordinato simili celebrazioni; per non dire nulla di altre sottigliezze dottrinali che pure distinguono la comprensione evangelica del Natale rispetto a quella del cattolicesimo) erano sfumati, rispetto all’appello a far nascere Gesù nel proprio cuore, ritornello tipico di ogni risveglio evangelico.

 

Francesco Schiano

Quando ho vissuto in Inghilterra, e ho conosciuto dall’interno la chiesa Anglicana, ho avuto modo di osservare la mia cultura evangelica italiana dall’esterno. Quell’esperienza mi ha fatto riflettere su quanto l’identità evangelica italiana si sia costruita in opposizione alla cultura cattolica.

Ci sono ragioni ovvie e motivazioni valide per spiegare questo fenomeno. Basti pensare all’ostilità del cattolicesimo nei confronti delle chiese evangeliche, che nell’atteggiamento di parroci e famiglie è sopravvissuto per decenni al Concilio Vaticano II; oppure al fatto che la chiesa evangelica italiana, storicamente, è stata composta in larga parte da ex-cattolici,  che sentivano l’esigenza di dimostrare una rottura chiara ed evidente con il loro passato, soprattutto con lo scopo di testimoniare la loro fede in Gesù.

Per queste e altre ragioni, alcune caratteristiche della cultura evangelica italiana si fondano sul principio “se lo fanno i cattolici, e non è nella Bibbia, noi non lo facciamo”. Il Natale, così come il Carnevale e la Pasqua cristiana, rientrava in questa categoria di azioni religiose non contemplate dalla Bibbia e presenti nel cattolicesimo.

 

Valerio Bernardi

Buona parte dell’ostilità deriva da un malinteso anticattolicesimo. Il non festeggiare le feste del calendario liturgico veniva visto come una sorta di liberazione. A questo poi si sovrapponevano delle letture delle celebrazioni natalizie, viste solo in un’ottica cattolica di cattolicesimo soprattutto popolare. Veniva frainteso, ad esempio, il significato di alcuni simboli natalizi come il presepe e non si comprendeva che vi era una tradizione natalizia che era propriamente evangelica.

Alcuni simboli come l’Albero o il Padre Buono che portava doni non erano propri del Cattolicesimo, ma venivano così letti. Si trattava di una interpretazione non del tutto appropriata e che derivava da una polemica piuttosto forte con un mondo religioso maggioritario che era sicuramente ostile.

Vi era poi (tra le buone intenzioni) l’idea che qualsiasi cosa non fosse nel Vangelo o nel testo biblico non meritasse attenzione e si pensava che le celebrazioni di qualsiasi tipo fossero un modo negativo di affrontare la vita. Il principio del Vangelo veniva quindi distinto dalle feste e dai noviluni (per usare un’espressione paolina) che con il Nuovo Patto venivano ad essere abolite.

In terzo, ed ultimo luogo, i più colti del mondo evangelico facevano notare una derivazione pagana e il tentativo di una celebrazione invernale che andava a contraddire lo stesso racconto evangelico della nascita. Queste ritengo siano state le maggiori ragioni che hanno portato a non festeggiare il Natale.


  1. Che cosa è cambiato oggi?

 

Giacomo Carlo Di Gaetano

Oggi, personalmente, a Natale, organizzo un momento di riflessione biblica in famiglia; cerco di farlo in particolare durante la cena della vigilia (lascito cattolico questo?); adotto anch’io alcuni simboli (l’albero; le luci, ma non il presepe, quello proprio non riesco ad elaborarlo).

Resta una continuità con il passato: l’atmosfera di festa e di sospensione con la novità che in questo clima oggi tento di riapporpriarmi del linguaggio del Natale. Tutto ciò che c’è di collegamento con la tradizione cattolica (saranno solo parole? ma sono sufficienti) viene riappropriato nell’intento di riportarlo alle dimensioni della Parola.

Anche la serata speciale che organizziamo ormai da molti anni come chiesa locale, “Il più grande dono” nel tentativo di comunicare il vangelo è in realtà un’occasione di riappropriazione della narrazione biblica del Natale.

Per riassumere il cambiamento che si è verificato mi sovviene il ricordo di una zia: lei mi chiese una volta come mai mio padre (convertitosi dal cattolicesimo all’età di 25 anni, in un paesino del sud) non celebrava il Natale, e il suo riferimento crucciato era al fatto che mio padre non accettava i dolci e le prelibatezze che lei preparava proprio per Natale, mentre io non avevo problemi a prendere quei dolci (che naturalmente erano buonissimi) e a non farmi problemi di alcun genere.
Le chiesi se per lei i dolci come altri elementi della tradizione popolare natalizia del mio paesino avessero ancora per lei lo stesso significato rispetto a quarant’anni prima quando lei e mio padre si confrontarono sui contenuti della fede e si allontanarono da un punto di vista religioso. Lei mi disse che no, tutte quelle tradizioni non avevano più l’aura sacrale degli anni ’50, non appartenevano più all’atmosfera che De Martino descriveva in Sud e magia.
Allora io gli risposi: questo è il motivo per cui io non ho problemi oggi a celebrare il Natale; è giunto il tempo in cui sia io sia tu abbiamo bisogno di riscoprire il Natale.

 

Francesco Schiano

Negli ultimi decenni è cambiata la composizione delle chiese evangeliche in Italia, perché gli ex-cattolici praticanti sono una minoranza; è cambiata la cultura italiana, perché il significato religioso del Natale è importante per molte meno persone; è cambiato il cattolicesimo, perché l’ostilità nei confronti degli evangelici è praticamente scomparsa. Di conseguenza è cambiato il modo che gli evangelici hanno di confrontarsi con il cattolicesimo, e sempre più chiese evangeliche celebrano apertamente il Natale.

Un esempio, che illustra come questo sia un discorso che non riguarda solo il Natale, mi viene dalla mia chiesa locale, dove si discute spesso sull’opportunità di partecipare o meno a cerimonie religiose nelle chiese cattoliche. Se in passato alcuni membri della chiesa si erano inimicati l’intera famiglia non partecipando a battesimi, comunioni, matrimoni e funerali, oggi sono in pochi quelli che sentono il bisogno di distanziarsi in modo così netto da riti che si ritengono comunque teologicamente errati. Questo perché l’aspetto teologico è quasi del tutto irrilevante per chi si sottopone al rito e perché si ritiene possibile testimoniare della propria fede partecipando al rito ed esprimendo le proprie convinzioni con un approccio meno conflittuale.

Mi sembra giusto sottolineare che, al netto degli errori che sicuramente la Chiesa italiana ha commesso nella sua storia, resta costante il desiderio di testimoniare di Cristo “in tempo e fuori di tempo”.

 

Valerio Bernardi

Se guardo al mondo dei social e ad alcuni dei filmati o delle affermazioni che sono state fatte nell’articolo di Christianity Today direi nulla. Se, invece, analizzo la realtà devo concordare che, oggi, le chiese evangeliche sono sempre meno anticattoliche ed vi è sicuramente una tendenza a valorizzare anche il momento della festività come uno stare insieme e come una festa di comunione fraterna. Ritengo che ancora oggi il mondo evangelico sia ampiamente diviso sulla questione e che vi siano posizioni (molto poco meditate ed adeguate sulla situazione attuale) che somigliano ad un mondo fermo agli anni post-bellici in cui ancora gli evangelici non avevano adeguati spazi di libertà e si sentivano perseguitati e circondati.

Ritengo invece che le festività natalizie possano essere un’occasione. Negli ultimi decenni, pur se non in maniera ufficiale, ho introdotto proprio in questo periodo la possibilità di riflettere sulle narrazioni profetiche e dei Vangeli sulla nascita e sull’importanza di riflettere sul profondo significato dell’Incarnazione.

A mio parere, poi, sarebbe doveroso anche guardare alla tradizione evangelica e riflettere come per personaggi come Lutero e molti dei Riformatori il Natale rimanesse una festa importante, un momento in cui ricordare la nascita di Cristo che permette la salvezza del mondo. Un ritorno ad un autentico pensiero che si rifaccia al Vangelo ed ai Padri della Riforma, che comprenda che il mondo cattolico non è stato il solo a celebrare il Natale, dovrebbe essere un punto di partenza per una riappropriazione del Natale come festa religiosa che non passi semplicemente come uno dei momenti più consumistici dell’anno dove ci riempie la bocca di buone intenzioni, in maniera anche un po’ ipocrita.

Credere in Dio è come credere in Babbo Natale?

Credere in Dio è come credere in Babbo natale?
(G.C. Di Gaetano)

La domanda è quasi d’obbligo in clima natalizio. Ma è anche un classico, dopo la stagione del nuovo ateismo (Hitchens & Co, non dimenticando l’italiano Odifreddi). In quegli anni, infatti, un filosofo dallo spessore indiscutibile come Maurizio Ferraris scriveva un gustoso libretto dal titolo Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede, Bompiani, Milano, 2006.
L’argomentazione e la mossa concettuale non sono nuove e per esse si possono scomodare precedenti sicuramente più blasonati (Kant, Hume, etc.) anche se questi non pensavano a Babbo Natale. Il problema concerne la corrispondenza reale delle credenze, in questo caso della credenza teistica: Dio esiste? Di fatto, questa è l’insinuazione, visto che non riusciamo a dimostrare la realtà di un essere supremo che chiamiamo Dio, allora una delle spiegazioni della credenza che intratteniamo su di un tale essere sta nel paragonarla a quella in Babbo Natale, della cui non esistenza siamo tutti convinti. Anzi, visto che quest’ultima credenza è legata alle fasi fanciullesche dello sviluppo di un normale bambino “cristiano”, per estensione, è probabile che la credenza nell’esistenza di Dio sia il sintomo di una condizione non adulta dell’umanità.
Anche in questo caso, se volessimo versioni più raffinate di questa spiegazione eziologica della fede in Dio potremmo scomodare i famosi maestri del sospetto (come li definì Paul Ricoeur), Marx, Fuerbach e Freud i quali, ognuno per suo conto, provarono a spiegare la ragione ultima di questa credenza (Dio esiste).

Eppure, dopo tanti sforzi, magari sollecitati dal confronto natalizio con chi ci crede in Babbo Natale (i bambini), se per caso, in questo clima natalizio ci sentiamo rimandati all’altra credenza, quella nell’esistenza di Dio, allora ci toccherà ammettere e riconoscere che essa è ancora ben presente in buona parte dell’umanità. Peter Berger, dopo aver ragionato a lungo sulla secolarizzazione intesa come rimozione o scomparsa del riferimento a Dio nella società postmoderna, ha dovuto ricredersi e, verso la fine della sua vita, ha dovuto parlare di de–secolarizzazione del mondo per spiegare il fatto che le credenze religiose, tra cui quelle teistiche, lungi dall’essere scomparse hanno dato vita a nuovi fenomeni sociali.


Tornando alla nostra ipotesi di partenza (credere in Dio è come credere in Babbo Natale?) dobbiamo segnalare la controdeduzione di coloro che vogliono ribadire la differenza (ontologica?) dei due oggetti di fede (Dio e Babbo Natale): non possiamo sradicare dalla condizione umana una simile credenza (in Dio). La tradizione apologetica cristiana lo aveva detto e vede confermato questo dato. La credenza teistica non è né insensata né irrazionale. Si direbbe che è una credenza di fondo, che appartiene a quel grappolo di credenze che per essere professate, e condivise, non necessitano del ricorse a evidenze. Ne abbiamo tante, solo se ci pensiamo e se ci atteniamo a un ragionevole criterio di “evidenza”.

Viviamo poi tempi in cui questa credenza è stata caricata di valenze che esulano dallo stretto campo d’indagine filosofica e teologica; ci sono infatti pesanti tare sociologiche che arricchiscono il bouquet di ciò che si può credere, credendo nell’esistenza di Dio: dall’armamentario sacrale della spiritualità cattolica (dal presepe al rosario), fino alla rarefatta atmosfera dei “valori cristiani” che contrapponiamo a tutte le forme di presunte invasioni culturali.

Tuttavia resta il tema da cui siamo partiti, quello della referenza reale dell’oggetto di fede: in che cosa crede chi dice di credere?

Due risposte, che sono altrettante domande.

La prima risposta si interroga su quale sia il concetto di “realtà” con il quale stiamo operando? Si deve soprattutto al filosofo Ludwig Wittgenstein l’espressione di una simile cautela. Il concetto di realtà a cui ci hanno abituato le scienze esatte può riassumere e definire in sé tutta la realtà di cui possiamo parlare? Certo, sappiamo che non troveremo mai un indirizzo corrispondente a una località geografica a cui inviare una lettera a Santa Klaus, e dunque sappiamo che i regali sotto l’albero non li mette un signore in barba bianca e cappello rosso.

Ma, e questa è la prima risposta, che altro non è se non una contro–domanda: dobbiamo per froza ragionare intorno all’esistenza di Dio negli stessi termini in cui parliamo di una realtà definita e circoscritta dal naturalismo filosofico? Attenzione, il naturalismo filosofico è cosa ben diversa dal naturalismo metodologico, quell’approccio al sapere che si confà alle nostre capacità cognitive, magari anche ricorrendo all’ipotesi di metodo secondo la quale Dio possa non esistere, mentre mettiamo l’occhio al microscopio per scrutare il microcosmo (a tal fine si consiglia la lettura di Nicola Berretta, Fede relazionale, Edizioni GBU, 2019).
Ma, ancora, è questa l’unica accezione di realtà alla quale siamo confinati?

L’altra risposta, pur prendendo in carico l’accezione naturalistica della realtà e di ciò che è reale (all’interno delle coordinate dello spazio e del tempo), contro–domanda se ci sia preclusa qualsiasi possibilità di argomentare intorno all’esistenza di Dio. Sebbene sappiamo che non potremo mai giungere a una conclusione condivisa, in quanto, come diceva Alvin Plantinga, siamo in possesso di buoni argomenti che dimostrano l’esistenza di Dio ma anche di buoni argomenti che ne dimostrano la non esistenza (a-teologia), ciò non depone a favore dell’assimilazione di Dio allo status di  Babbo Natale.

Al di là dei tentativi ontologici, cosmologici, evidenzialisti, probabilistici (non dimostro l’esistenza di Dio ma giungo alla conclusione che la sua esistenza sia più probabile della sua non esistenza), cumulativi (le evidenze a favore sono cumulativamente più grandi di quelle a sfavore), questa riflessione vorrebbe suggerire che una via per ragionare intorno all’esistenza di Dio ci viene proprio con l’arrivo di  Babbo Natale.

Siamo a Natale, e il Natale cristiano intende ricordare la nascita di un uomo la cui realtà nessuno discute (a parte data e circostanze); l’affermano gli Ebrei, l’ammettono i Musulmani, vedendovi qualcosa di più di un semplice individuo; la confessano i cristiani che la identificano come la manifestazione di Dio in carne.

Ebbene credo che la via della memoria storica sia l’unica vera via che ci è lasciata per affermare l’esistenza di Dio. Ciò che inizia a Natale è un’esperienza storica che si chiude la domanica di Pasqua. E questa esperienza è documentata; esistono fonti e documenti. Gesù di Nazareth è esistito e nel leggere quelle fonti non possiamo ignorare il riferimento interno che fanno alla dimensione ulteriore dell’esistenza dell’uomo Gesù: la risurrezione, le testimonianze alla risurrezione sono ciò che differenzia il contenuto della credenza nell’esistenza di Dio dal contenuto di qualsiasi altra entità di ogni ordine e  grado di realtà. Paolo lo aveva intuito e lo afferma nella sua Lettera ai Corinzi.

Certo, postilla conclusiva, non disponiamo del resoconto di una tropue della CNN dall’interno del sepolcro, o, per restare a natale, della comparsa dei cori angelici nella notte di Betlemme né tanto meno della stella che conduce i sapienti di Oriente; ma siamo sicuri, in clima di negazionismo e di postverità, che anche un simile documento sarebbe stato necessario a fugare i dubbi dei complottisti?

È vero, la realtà storica della vita di Gesù come manifestazione della vita divina (1 Gv 1) non è una realtà storica “positiva” nel senso di un realismo naturalistico che influenza anche le scienze dello spirito di cui fa parte la storia. Il fervore apologetico non riuscità a replicare né Natale né Pasqua. Tant’è vero che ai credenti è promessa non la replica in laboratorio ma una nuova fase della storia (mi rivedrete tornare come mi vedete partire – Atti 1).

Tuttavia l’indagine è possibile ed è possibile anche arrivare a qualche conclusione. La storia di Gesù, quella che si tornerà a raccontare in questi giorni, grazie anche a Babbo Natale, è l’unica cosa che ci resta per tornare a punzecchiare i nostri contemporanei, ricordando loro di aguzzare la vista e guardare meglio in ciò che si appresta a manifestarsi nella stalla di Betlemme.
Vogliamo discutere di esistenza di Dio: seguiamo la stella … e vediamo dove ci porta.

Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere. (Gv 1:18)