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Difendere o curare la fede? 

(Giacomo Carlo Di Gaetano)

Della seconda opzione “difendere la fede” abbiamo già un’idea: secoli di cristianesimo hanno fatto dell’apologetica sia una disciplina accademica rispettata sia un passaggio da cui non si può prescindere quando si vuole anche solo condividere il vangelo. Ne dovrebbero sapere qualcosa gli studenti universitari cristiani che, nello sforzo di condividere il vangelo “da studente a studente”, si trovano spesso nella necessità di rispondere a sfide che insinuano la falsità o l’irrilevanza di alcuni tratti della fede.

Sulla prima opzione, “curare la fede”, al contrario, siamo più incerti. Che cosa potrebbe mai significare? Il percorso è accidentato anche per il fatto che quando si parla di “fede” si corre il rischio di mescolare piani diversi: da quello antropologico dell’atto del credere, comune a tutte le culture e indifferente agli “oggetti di fede”, a quello epistemologico in cui  ci si interroga se una credenza, vera, possa mai essere giustificata e razionale, sino a quello più propriamente teologico espresso nella famosa formula latina del credo quia absurdum e che, secondo tutte le tradizioni cristiane sarebbe, insieme alla salvezza che ottiene, un “dono” (Ef 2).

Forse, per tentare di aprirci un varco nella giunga delle definizioni della fede al cui rigoglio hanno contribuito tutte le più grandi intelligenze della storia del cristianesimo (da Agostino a Calvino, passando per Tommaso e giungendo a Kierkegaard, Barth etc.), potrebbe venirci incontro la distinzione di scuola tra la fede nella sua accezione soggettiva, nel senso di “credere che”, scenario questo implicante assenso, fiducia, adesione, etc. (fides quae) e la fede nella sua accezione oggettiva, sinonimo di contenuti cognitivamente delineabili (dogmi, dottrine o più semplicemente proposizioni teologiche) – fides qua.

Ebbene, a prima vista, sulla scorta di questa distinzione, non avremmo dubbi nel destinare alle mani della “cura” la prima accezione di fede.

Un altro passo opportuno nel cercare di dimostrare la necessità della cura per la fede è quello di identificare quali possano essere le possibili malattie. A questo proposito si potrebbe dire che, in prima approssimazione, le aree o i contesti all’interno dei quali sembrano presentarsi le patologie del credere siano sostanzialmente due: una ad extra e l’altra ad infra.

Una fede malata potrebbe manifestarsi nel modo in cui essa tenta di comunicare i suoi contenuti all’esterno, a chi credente non è (da fede e a fede).
Nella stagione del “nuovo ateismo” i campioni di questo movimento, dai contorni e dalle fattezze più anglosassoni – bisogna dirlo – sostenevano che la religione, e il cristianesimo in particolare, fa male alle persone e alle società. Questa pregiudiziale ha fatto scorrere fiumi di inchiostro apologetico per dimostrare il contrario, vale a dire che il cristianesimo non fa male alla gente.
Tuttavia gli apologeti più acuti hanno saputo cogliere in questa insinuazione un segnale, un indizio sul fatto che dall’altra parte della barricata della fede il malessere non sorgeva solo e unicamente da posizioni ateistiche o agnostiche pregiudiziali. No, il malessere poteva sorgere per le posture e le forme del credere.

L’impennata e la diffusione negli ultimi vent’anni dell’interazione social ha drammaticamente dimostrato che l’intuizione era vera. Nei blog, nelle chat e nelle discussioni tematiche è ormai consuetudine assistere a virulente contrapposizioni condite da hate speech, tutte in nome di una conclamata volontà di difendere il cristianesimo contro una serie di nemici più o meno immaginari.

E poi c’è stata l’era trumpiana, con il motore della galassia evangelicale (ricorriamo volutamente un termine che non ci piace), vale a dire l’evangelismo nordamericano, che è si è letteralmente ingrippato nell’incapacità di gestire il rapporto tra fede e politica, nella risorgente questione razziale e nell’ossessione per i peccati sessuali, etc.

E poi c’è stata la pandemia, con il corollario di NO MASK, NO VAX, restrizioni alla libertà, con una punta di anticristo, microchip e compagnia cantando.

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C’è qualche cosa che non va nella fede … e abbiamo solo guardato in casa nostra; non ci permettiamo di gettare lo sguardo nelle tradizioni altrui (cattolicesimo, mondo ortodosso, protestantesimo storico che si usa definire liberale), per tema di non cadere nel rimprovero del Maestro sul fuscello e la trave!

Possiamo poi fare una puntata nella storia per renderci conto che la necessità di “curare” la fede è un’esigenza riaffiorante continuamente nella storia del cristianesimo.

Pensiamo per un attimo ai tanti mea culpa che le chiese cristiane hanno espresso all’indomani della shoah; il cristianesimo che ha partorito l’olocausto (non solo quello dei cristiani nazionalsocialisti) è un esempio lampante di un credere malato che ha condotto a una prassi (lo sterminio degli ebrei) non solo atea e incredula o miscredente ma addirittura diabolica (si ricordi, … anche i demoni credono …). Sì, tutto ciò che ha portato i “cristiani”, tutti i cristiani, incluso i “nati di nuovo”(born again o wiedergeboren), a chiedere perdono e a rivedere e ripensare che cosa, nel loro credere, ha portato a un così clamoroso autogol, è una dimostrazione che la fede, il credere può essere malato in forme più o meno gravi e dunque bisognoso di cura.

Fin qui abbiamo parlato del contesto ad extra in cui si può manifestare una fede bisognosa di cura. Dovremmo parlare dello scenario ad infra, vale a dire dell’enorme bisogno di cura che la fede ha quando la usiamo come moneta di scambio – la intendeva più o meno così Paolo quando scriveva la famosa Lettera ai Romani ai cristiani della capitale dell’Impero – tra persone, gruppi, chiese, organizzazioni che sostengono di avere una fede “comune”. Oggi trovarsi d’accordo su un qualcosa su cui costruire è un’impresa con difficoltà accresciuta a cui non bastano le panacee delle formule organizzative: alleanze, coalizioni, comunioni, accordi, etc. Se solo pensassimo alla tematica della tutela sanitaria, scopriremmo che la divisione su questo punto è trasversale a tutte le famiglie evangeliche.

Esiste dunque una fede da curare; essa si manifesta all’esterno, e ci fa fare brutta figura, quando non ci fa passare per ipocriti; e si manifesta all’interno, rendendo instabile e scivoloso qualsiasi terreno comune.

Veniamo allora al discorso delle patologie che sarebbero dunque tutte dalla parte dei soggetti, individuali o collettivi, chiese, denominazioni/confesisoni, tradizioni teologiche ma anche semplici opinionisti dietro una tastiera che declamano la propria fede sui social. Cerchiamo di delineare tipologie di patologie della fede, di stilare una casistica.

Il dubbio è sicuramente un antico male che serpeggia nelle pieghe del credere. Fa capolino qua e là anche nei documenti della rivelazione ebraico-cristiana. A volte è associato alla sofferenza (Giobbe?) altre volte al consumarsi del tempo e allo sterilizzarsi delle aspettative (2 Pietro). Il dubbio, anch’esso, ha molte facce. C’è un dubbio amico della fede, che stimola il credere affinché giunga a certezze. Cartesio lo aveva reso metodico; Pascal lo trasforma in una scommessa. Ma non è questo il dubbio che rende la fede da curare. Tutt’al più la rende onesta!
Una fede da curare, perché contagiata dal dubbio, è forse una fede che non riesce a scorgere più la trascendenza del suo oggetto di fede. Se razionalmente e proposizionalmente questa fede può articolare il suo credo nella sovranità di Dio, nella presenza dello Spirito, dall’altro lato si si insinua il sospetto se sia questo il modo giusto di rapportarsi a ciò o a chi si crede.
E siccome gli oggetti di fede non sono disponibili (le qualità di Dio sono invisibili, ricorda Paolo in Romani e bisognose di un lavoro di decifrazione), ecco che il dubbio si imbarca in progetti di gestione di ciò che non si vede e non si dispone. Se lo Spirito una volta è stato spettacolare e se può esserlo ancora, magari solo qualche volta, allora bisogna costruire per lui delle strade che lo obblighino a essere sempre disponibile! Questa è l’altra faccia della medaglia di una fede malata di dubbio: il tentativo di curarla con iniezioni di professionalismo religioso.

La presunzione e l’arroganza sono al contrario manifestazioni di una fede che ha scambiato il trascendente per una certezza positiva. Le dottrine complesse, i passaggi poco chiari, niente impensierisce il credente presuntuoso. La lettura del testo biblico non rivela la presenza di hard sayings; la composizione del creduto è simile alla composizione di un composto chimico: una molecola di pessimismo, tre di escatologismo di tutti i tipi, un po’ di demonologia, il tutto diluito in una soluzione di analisi pseudo–sociali ed economiche (big pharma, massoneria, piani segreti del vaticano per riportarci a Roma, etc.). Il credente presuntuoso è un alchmista quanto a capacità di maneggiare la Bibbia, la teologia e la tradizione. Ma non ha dubbi.
Solo che in questo caso la certezza raggiunta non è l’antidoto alla patologia precedente (il dubbio spirituale); piuttosto una patologia di altra natura. La cosa singolare è che la fede presuntuosa si contrappone alla scienza ma fa suo l’impianto epistemologico del peggiore scientismo. Lo si vede nelle forme estreme di creazionismo: la terra giovane e altre curiose certezze hanno il valore di postulati scientifici in quanto “fondati” su comparazioni punto a punto tra un versetto e la dimostrazione scientifica. Che Dio abbia creato non è più un articolo di fede (per fede intendiamo che … Ebrei 11) ma una certezza scientificamente dimostrabile!

Il dogmatismo; questa è forse la patologia dei credenti giovani, instancabili, belli e dedicati totalmente e fedelmente a una tradizione teologica. Ne conoscono i simboli, ne rivisitano le pagine gloriose, magari nascondendo quelle meno presentabili come i conflitti e l’intolleranza (tutte le tradizioni teologiche divengono intolleranti non riuscendo a gestire la dissidenza interna). Nel dogmatismo il fondamento della fede non è Gesù Cristo ma una scatola che lo contiene e fatta di credi e confessioni dell’anno x piuttosto che dell’anno y. Se la seconda patologia ama i social e i post delle bacheche, questa ama i mezzi scintillanti della tecnologia web. Sfondi scuri fanno emergere divi del pulpito che ci raccontano come bisogna essere centered, ma nel frattempo ci stanno rifilando una tradizione dogmatica. Perché la fede che cerca un qualificativo tratto da una tradizione teologica, che si esprime vantando un’identità teologica è una fede malata e da curare. Già solo il discorso su dove si poggia l’atto del credere sarebbe sufficiente per una diagnosi allarmata. Ma c’è il problema più serio di come lo spazio della fede comune risulti ingombrato dalla necessità di gestire le differenze delle fedi dogmatiche. In genere la soluzione si trova sul piano della gestione delle influenze, del “potere”. Esiste nella galassia evangelica un problema relativo al “potere”; lo denunciavano a Città del Capo gli ideatori del Terzo Congresso di Losanna, tra le tre gravi forme di idolatria dell’evangelismo mondiale.

Potrebbero esserci altre patologie; ne segnaliamo un’altra, molto particolare. Dal clima velenoso che si respira nei social, frequentato con incursioni più o meno “spirituali” da parte di “credenti” di varia provenienza, potrebbe sorgere facilmente un’obiezione, che potrebbe anche essere una sorta di diagnosi per quest’altra patologia: e voi che parlate di fede da curare, chi siete? non è forse da curare la vostra fede che appare liberal, soggetta al politically correct, tiepida, che flirta con posizioni progressiste, etc?

Quando si parla di social e si parla NEI social, difficilmente si esce dalla palude “del chi sono io e chi sei tu”; e forse anche questa è una manifestazione precipua di una fede da curare. A nulla serve l’esibizione di titoli, percorsi accreditanti, etc. Allora accogliamo la sfida e collochiamoci anche noi tra coloro che hanno una fede da curare.
Come rispondiamo? Certo, una fede che si esprime con proposizioni ipotetiche, che sembra corteggiare piuttosto che rimproverare, accarezzare piuttosto che scuotere … è sicuramente una fede che fa pensare, o meglio preoccupare.

Si potrebbe dire, però, che di tutte le patologie elencate abbiamo parlato della modalità di espressione della fede. Bisogna decidere se la fede da curare nella sua espressione sia un epifenomeno  una fede che abbia rinunciato a posizioni “di fede” forti. Ma questo sarebbe tutto da dimostrare. E chi scrive non crede che una fede da curare, che sia del tipo dubbiosa o arrogante o dogmatica abbia di per sé rinunciato o abdicato a fondamenti indispensabili affinché quella fede sia una fede cristiana.
Tuttavia aggiungiamo anche quest’altra patologia: la chiameremo una fede liberal.

Come se ne esce? E quali rimedi?

La fede, nella migliore tradizione evangelica dovrebbe essere il luogo in cui si manifesta la grazia, posto che sia irrinunciabile l’assunto riformista: siamo salvati per grazia mediante la fede (sola fide). Che cosa accade se nel luogo in cui si dovrebbe incontrare la grazia, chi ci guarda scopre l’orgoglio identitario e la certezza positivista o anche il tentennamento e l’indecisione liberal? La fede dovrebbe essere, per noi evangelici, il luogo e lo spazio della rinuncia a se stessi e il posto in cui si canta, e si vive, Just As I am (Così qual sono) e Amazing grace (Stupenda grazia).

E la fede – come dicevamo sopra – è anche una moneta che ci scambiamo fra di noi: il Nuovo Testamento parla spesso della fede “che ci è comune”. Quale? Verrebbe da chiedersi, dopo aver passato in rassegna, anche solo superficialmente, la tassonomia delle patologie della fede da curare. C’è modo veramente di chiedersi che cosa unisce i cristiani che dicono di sottomettersi all’autorità della Bibbia.

La natura non strutturata di queste riflessioni porta necessariamente a essere intuitivi e destrutturati nella risposta. Fedeli a questa impostazione ci sembra opportuno rilanciare, a mo’ di sfida a tutti quanti noi, solo due dei tanti scenari che la Bibbia (entrambe le due parti) costruisce intorno alla fede che rivela grazia e riesce a far concordare.

Da un lato abbiamo l’immagine della fede come appoggio (Isaia 7: la fede fa sussistere). Questa immagine implica la coscienza netta e nitida di quale sia l’appoggio, dove ci si sta appoggiando, veramente (Paolo parlerà di fondamento). Per curare la fede dobbiamo sempre e nuovamente chiederci se nel nostro atto di abbandono intravediamo Gesù Cristo e la sua croce. È lì che siamo chiamati ad appoggiarci ed è questo dipendere da Cristo e dalla croce che dovrebbe essere visto all’esterno.

Dall’altro lato abbiamo un risvolto etico della fede. Paolo parla “dell’ubbidienza della fede” (Rom 1); l’espressione è complessa, non c’è dubbio. Ma è altrettanto indubbio che essa, lungi dal richiamare pastoie tridentine o inciuci tra fede e opere, evoca immancabilmente il piano etico. Dobbiamo ricordarci di Giacomo 2. La fede ha in sé un principio di ubbidienza e l’ubbidienza è un incipit per un’etica segnata dalla croce (l’ubbidienza del Figlio).

È indubbio dunque che una fede sana, che vuole sanificarsi, deve continuamente indagare la natura del proprio fondamento e interrogarsi sulle implicazioni etiche di ciò che crede. In che modo allora il nostro credere è cifra, indizio, di un qualcosa di migliore, di benedetto, al quale il primo a tendere, senza pensare di esservi giunto definitivamente è proprio il credente?

Forse potremmo concludere questa lunga galoppata, sperando di unire tutti nel desiderio di curarci quanto al nostro modo di credere, facendo nostre le parole di un fortunato interlocutore del nostro Maestro: Io credo, vieni in aiuto alla mia incredulità!

 

Asclepio e Mammona. Del virus e di come procedere

Tom Wright

Forse la domanda più vitale di tutte, e che dovrebbe essere in cima a tutte le conversazioni serie ai più alti livelli tra chiesa, stato e tutte le parti interessate [in questa pandemia], è come andremo avanti, quale che sarà la «nuova normalità». Alcune persone hanno espres­so la pia speranza che quando tutto ciò passerà avremo una società meno ostile e più gentile. Pagheremo le nostre infer­miere di più. Ci prepareremo a dare più tasse per sostenere il Servizio Sanitario, e daremo di più per aiutare il movimento degli hospice. Ci farà piacere così tanto godere dell’aria fresca, non inquinata dalle migliaia di auto e aeroplani, che vorremo viaggiare di meno, e passare più tempo con la famiglia e i vi­cini. Celebreremo i nostri servizi di protezione civile, i nostri corrieri e tutte le persone che hanno badato a noi.

Mi piacerebbe pensare che ciò fosse vero. Temo, però, che non appena le restrizioni saranno tolte ci sarà una corsa ad iniziare di nuovo le nostre faccende come possiamo e, a ogni modo, è anche giusto e opportuno che sia così. Nessuno che è disperato per il rischio di fallire ci penserà due volte a usa­re nuovamente l’auto o l’aereo, se ciò sarà d’aiuto. Ci è sta­to detto in tutto i modi possibi che gli effetti economici del lockdown sono già catastrofici e potrebbe andare ancora peg­gio. Il problema è quindi abbastanza simile alle decisioni tra­giche che i leader si trovano ad assumere in tempo di guer­ra: pensate a Churchill durante il Blitz, che doveva decidere se sacrificare quell’unità per la salvezza di quest’altra, e se man­dare messaggi in codice al nemico che avrebbe bombardato quelle case al posto di quegli edifici pubblici. Nel momento in cui scrivevo eravamo concentrati ancora sullo «stare in sicu­rezza», con costi enormi in termini di fallimenti, disoccupa­zione, e malessere sociale. Le grandi elargizioni per coloro che sono nel bisogno da parte del Governo avranno come risulta­to, prima o poi, quello di dover ripagare. È chiaro che se il di­battito sarà tra coloro che considerano la morte come il peg­giore dei risultati possibili e coloro che vedono invece la rovi­na economica come il peggiore di tutti gli eventi possibili, al­lora la conseguenza sarà un duro dialogo tra sordi.

Come nell’antico mondo pagano, anche oggi un’epide­mia fa sì che la gente si chieda: «Quali degli dei sono adira­ti? Come li possiamo placare?». Man mano che il secolari­smo contemporaneo sta sempre più rivelando la sua filigra­na pagana, è affascinante immaginare il nostro presente di­lemma come un conflitto tra Asclepio, il dio della guarigione, e Mammona, il dio del denaro. Mammona, naturalmente, chiedeva di solito sacrifici umani; ed è per questo motivo che i più poveri tra i poveri sono oggi i più a rischio nell’attuale emergenza sanitaria. Forse non è una cosa malvagia che ades­so sia il turno di Asclepio, sebbene Marte, il dio della guer­ra e Afrodite, la dea dell’amore erotico, non sono mai molto distanti. Sicuramente non si tornerà totalmente all’imperati­vo della guarigione, perché il nostro dio favorito, Mammona, ci ha richiamato all’altro versante, non vedendo l’ora di avere più sacrifici umani.

Se tutto questo viene affrontato in maniera puramente pragmatica, come se la macchina dello Stato fosse, appunto, una macchina e niente più, piuttosto che il saggio lavoro di mediazione tra esseri umani viventi, il risultato sarà prevedi­bile. Il debole andrà di nuovo al muro. Come succede di so­lito. Dopo la crisi finanziaria del 2008, le banche e i grandi affari, avendo accettato enormi quantità di denaro per il loro salvataggio, sono tornate rapidamente ai loro vecchi standard, mentre le parti più povere degli stati occidentali (Gran Breta­gna nel testo originale, ndt) sono diventate più povere e sono rimaste così. Qualcuno dovrebbe levarsi e declamare non una ramanzina ma il Salmo 72. Questa è la lista delle priorità che la chiesa dovrebbe articolare, non soltanto a parole ma con proposte pratiche da mettere in cima all’ordine del giorno:

«O Dio, da’ i tuoi giudizi al re e la tua giustizia al figlio del re… Portino i monti pace al popolo, e le colline giustizia! Egli garantirà il diritto ai miseri del popolo, salverà i figli del biso­gnoso, e annienterà l’oppressore![…]  [Il giusto governante] libererà il bisognoso che grida e il misero che non ha chi l’aiuti. Egli avrà compassione dell’infelice e del bisognoso e salverà l’anima dei poveri. Riscatterà le loro anime dall’oppressione e dalla violenza e il loro sangue sarà prezioso ai suoi occhi» (Sal 72:1–4; 12–14).

Tutto ciò potrebbe essere oggetto di derisione, quasi si trattasse di un pensiero velleitario. Ma questo è ciò che la chiesa nella sua massima espressione ha sempre creduto e in­segnato, e che la chiesa ha sempre praticato stando sul fronte.

Nei primi giorni della chiesa gli imperatori romani e i gover­natori locali non sapevano molto di che cosa fosse realmen­te il cristianesimo. Tuttavia sapevano che questo strano mo­vimento aveva persone chiamate “vescovi” che sottolineavano sempre i bisogni dei poveri. Non sarebbe bello che le persone oggi avessero la stessa impressione?

Pertanto, cosa significa tutto ciò in un mondo in cui alcu­ni di noi si trovano rinchiusi per un leggero fastidio mentre altri stanno ancora affollando i campi profughi nelle città del terzo mondo in cui il «distanziamento sociale» è facile quan­to andare sulla luna? Dobbiamo pensare globalmente e agire localmente ma, nel fare entrambe le cose, lavorare con guide delle chiese di tutto il mondo per cercare politiche che pre­vengano una folle corsa al profitto con il diavolo che si prende gli ultimi. Naturalmente, nel mezzo di tutto ciò, occorre raf­forzare l’Organizzazione Mondiale della Sanità e insistere che tutti i paesi del mondo seguano scrupolosamente le sue poli­tiche e i suoi protocolli. Ci sono, senza dubbio, alcuni quesi­ti importanti che devono essere posti alle superpotenze mon­diali che hanno usato la crisi attuale come occasione per dare spettacolo e fare altri giochi politici. Si sente il rumore delle trasmissioni elettroniche, mente i canali di «fake news» stan­no facendo gli straordinari.

In tutto questo quadro, torno al tema del lamento. Non è forse un caso che il Salmo 72, che contiene il programma messianico che pone i poveri e i bisognosi in cima alla lista, sia seguito immediatamente dal Salmo 73, che si lamenta che il ricco e il potente si stanno comportando nella maniera soli­ta. Forse questo è come siamo costretti a vivere: intravedendo ciò che dovrebbe essere e lottando contro la maniera in cui le cose sono realmente. Tuttavia, l’unica maniera di vivere con queste cose è pregare di mantenere la visione e la realtà l’una al fianco dell’altra in quanto gemiamo con il gemito di tutta la creazione, e come lo Spirito geme con noi in maniera tale che la nuova creazione possa sorgere. Ciò che ci occorre adesso è qualcuno che faccia in questo momento di grande sfida quel­lo che Giuseppe fece alla corte di faraone; analizzare la situa­zione e ipotizzare una prospettiva per orientarsi verso di essa. Ci servono subito uomini di stato, leadership sagge, con gui­de cristiane in preghiera che prendano il posto l’uno accanto all’altro, per pensare alle sfide che affronteremo nei prossimi mesi sia avendo una visione sia realistticamente. Potrebbe es­sere che nei giorni a venire vedremo segni di nuove, reali pos­sibilità, nuove maniere di operare che rigenereranno vecchi sistemi e ne inventeranno di nuovi e migliori, che potremo quindi riconoscere come segni della nuova creazione che stia­mo aspettando. O forse, semplicemente, torneremo al «tutto come prima», alle vecchie polemiche, alle solite stantie e su­perficiali analisi e soluzioni.

Se ci sediamo solo e aspettiamo per vedere, e incrociamo le nostre braccia perché le nostre chiese sono chiuse o perché è chiuso il nostro club di golf o la nostra azienda ha sospeso le attività, allora probabilmente le solite forze riprenderanno il controllo. Mammona è una divinità molto potente. I no­stri leader sanno cosa fare per calmarlo. Se fallisce lei, c’è sem­pre Marte, il dio della guerra. Possa il Signore salvarci dai suoi artigli. Se dobbiamo scappare da queste forze oscure, allora dobbiamo essere vigili di fronte ai pericoli e prendere le no­stre iniziative attivamente e in preghiera. Se nel giardino ven­gono piantati dei fiori è poco probabile che crescano dei rovi.

Non sta a me dire ai leader della chiesa (anglicana), per non parlare dei leader di altre comunità di fede, il modo in cui dovrebbero pianificare i prossimi mesi, cosa dovrebbero fare per fare pressione sui governi. Tuttavia quelli tra noi che guar­dano e aspettano e pregano per le nostre guide nella chiesa e nello Stato devono usare questo tempo di lamento come un tempo di preghiera e speranza. Quello per cui speriamo è an­che una saggia e intraprendente leadership umana che, come quella di Giuseppe in Egitto, porterà politiche nuove e di risa­namento e azione nell’ampio e ferito mondo di Dio:

«Manda la tua luce e la tua verità, perché mi guidino, mi con­ducano al tuo santo monte e alle tue dimore. Allora mi avvici­nerò all’altare di Dio al Dio della mia gioia e della mia esul­tanza; e ti celebrerò con la cetra, o Dio, Dio mio! Perché ti ab­batti, anima mia? Perché ti agiti in me? Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio» (Sal 43:3–5).

Tratto dal libro Dio la pandemia e noi. Implicazioni teologiche e conseguenze pratiche, Edizioni GBU, 2020. Ora in edizione ebook.