Articoli

Papa Francesco: bilancio provvisorio di un decennio

Nei social, nei blog, su riviste prestigiose, in tutti i media di una parte considerevole del pianeta è balzata la notizia della morte di Papa Francesco, avvenuta anche dopo una crisi di salute che lo aveva fiaccato nel fisico, ma sicuramente non nella mente.

Cosa può dire un evangelico a proposito? Può tentare di tracciare un bilancio, senza farsi prendere da falsi trionfalismi o da facili critiche ad un pontificato che ha delineato la vita della Chiesa cattolica per poco più di un decennio.

Per iniziare bisogna partire dall’inizio: Francesco era un vescovo argentino, dell’ordine della Compagnia di Gesù che ha cercato di stupire sin dalla scelta del suo nome e sicuramente è riuscito in questo. Essere argentino (il primo pontefice che veniva effettivamente dal Sud del mondo) significava tante cose: in primo luogo era parte di una Chiesa che era stata emergente ma, allo stesso tempo, per quanto concerne il Sud America sempre più in concorrenza con un evangelismo sempre più in espansione. La sua appartenenza nazionale gli aveva permesso di comprendere (molto più di altri pontefici) i problemi di ingiustizia, povertà e conflitti (sociali e politici) presenti nel mondo, soprattutto quello dell’emisfero Sud del pianeta che abitiamo. Lo stesso Bergoglio era figlio di migranti e non poteva assolutamente vedere che con grande disapprovazione tutte le politiche sovraniste che i moderni stati occidentali stavano applicando, marginalizzando sempre più coloro che avevano bisogno di aiuto rifugio. 

Un’altra caratteristica era la profonda conoscenza del mondo evangelico. Proprio per questo, poco tempo dopo il suo insediamento, è stato il primo pontefice a fare visita ad una chiesa evangelica pentecostale a Caserta, guidata dal pastore Giovanni Traettino che tanto scalpore fece nel 2014 e che era frutto di un’amicizia personale ben raccontata recentemente nel libro intervista di Alessandro Iovino. 

Francesco visiterà anche la Chiesa Valdese a Torino ma solo in un secondo momento e sarà in Svezia nel 2016 per la celebrazione del Cinquecentenario della Riforma. Bene fanno, quindi, coloro che ricordano che, nei rapporti ecumenici, Francesco è stato sostanzialmente più vicino alle Chiese Occidentali (quelle protestanti o evangeliche) piuttosto che a quelle ortodosse (cui si avvicinerà solo nel 2018 a Bari sperando anche in una risoluzione pacifica di conflitti soprattutto nel Medio Oriente) e che i suoi rapporti ecumenici sono stati più fatti di gesti simbolici (visite nelle Chiese sorelle) che di avvicinamenti dottrinali. Il suo aver vissuto per buona parte della sua vita lontano dalla Curia lo ha portato sicuramente a gesti importanti che andranno ricordati e valutati nella storia.

Dobbiamo poi ricordare che Francesco è stato il primo Papa proveniente dalla Compagnia di Gesù. Forse bisogna rammentare chi siano i Gesuiti: una Compagnia che, fondata da Ignazio di Loyola e da Francesco Saverio, serviva per far ritornare nella Chiesa gli eretici, per perfezionare l’istruzione dei chierici e dei laici e per evangelizzare i popoli lontani. Per fare questo la Compagnia di Gesù ha, nel corso dei secoli, usato una struttura teologica potente (ripresa dalla teologia medievale cattolica), ha incrementato la devozione popolare ed ha usato un linguaggio di “apertura” ma anche ambiguo e non sempre chiaro ed ha evangelizzato i popoli con tecniche originali e qualche volta di successo che prevedevano l’incontro inclusivo con le culture differenti sin dall’inizio del proprio agire nel mondo (i viaggi di in Cina di Matteo Ricci e le missione nel Guaranì sono esempi storici di tutto questo e lo è anche il fallimento della missione giapponese). 

Tutto questo ha portato Francesco a continuare la sua missione, anche ricordando con attenzione quanto concepito dalla Compagnia di Gesù: guardare con attenzione al mondo contemporaneo, “aprirsi” ad esso, senza però assolutamente abbandonare l’essenza della dottrina cattolica e rimanendo fortemente attaccato ad alcuni aspetti tradizionali (la forte devozione mariana o del Sacro Cuore di Gesù fanno parte del recupero della tradizione che è sempre stata cara ai Gesuiti). Ciò ha portato Francesco a fare affermazioni talvolta contraddittorie, ma che, se qualche volta hanno potuto creare confusione, servivano come tecnica di avvicinamento a parte dei credenti (e non) che vedevano nella Chiesa un ostacolo ad alcune delle loro richieste. 

Queste sono state le basi del suo Pontificato. Un Pontefice autorevole, in un tempo di crisi (anche della Chiesa Cattolica) che ha cercato di guidare la Chiesa da Papa. Francesco ha scritto poche encicliche (solo quattro) che non hanno apportato sostanziali cambiamenti dell’impalcatura dottrinale della Chiesa, anche se si sono interrogate ed hanno delineato un chiaro profilo del Pontefice, aperto verso l’altro, ma, allo stesso tempo custode geloso di alcune idee secolari della Chiesa. Basta esaminare l’ultima enciclica, la Dixit Nos, pubblicata nell’Ottobre 2024 per comprendere appieno il senso del Pontificato di Francesco. Ci si interroga sull’importanza del cuore e dei sentimenti nella vita comune e, allo stesso tempo, si richiama attenzione alla venerazione delle immagini del cuore di Gesù che dovrebbe indirizzare l’umanità verso il meglio. Appare chiaro questo doppio richiamo ad un rinnovamento degli animi nel mondo contemporaneo, sulla base di una delle solide dottrine portate avanti dalla Compagnia di Gesù (la venerazione del Suo Cuore che lascia perplessi alcuni protestanti). 

Il defunto Papa ha scritto più Motu Proprio di qualsiasi altro Pontefice in questo secolo. Questi scritti mostrano quindi una guida sicura ed assoluta della Chiesa, perché si tratta di iniziative che non prevedono la collegialità, sebbene Francesco spesso la richiamasse.

Il Pontefice era ben conscio di condurre e gestire una Chiesa universale e per questo ha sempre respinto qualsiasi tentativo di cristianesimo di tipo nazionalista e si è sempre prodigato a favore della pace, anche nella difficile situazione in cui ci troviamo oggi, con diversi conflitti aperti. Se le parole sull’Ucraina e su Gaza sono quelle che i media ricordano sempre con maggiore attenzione (e che non sempre hanno fatto vedere un Pontefice lucido nel gioco della geopolitica, ma pur sempre attaccato al valore fondamentale della pace per tutti i popoli), non va dimenticato che Francesco aveva ben presente anche gli altri conflitti che non sempre vengono ricordati dai nostri media. L’universalismo della Chiesa, ben rappresentata da un pontefice colto, ma proveniente veramente dal popolo, che aveva una chiara idea di come il messaggio di Cristo dovesse essere universale e non collegato ad alcuna fazione, era ben manifestato nel compito del Pontefice che è rimasto un fedele figlio della propria Chiesa, sia per l’alto concetto che aveva del suo compito di Vicario di Cristo, sia perché ha cercato di arginare le forze meno positive anche con un certa forza (si vedano i suoi provvedimenti restrittivi nella reintroduzione del Latino negli uffici sacri).

Come ogni Pontefice (più di Benedetto XVI, con la stessa forza, ma in maniera diametralmente opposta rispetto Giovanni Paolo II) e come ogni persona di spessore dell’universo cattolico, i gesti molto spesso hanno contato più delle parole e questo probabilmente è un qualcosa che per un evangelico (così collegato al ministero della Parola) rimane sempre difficile da comprendere e probabilmente ha portato anche a grandi equivoci da parte di noi evangelici. 

A conclusione di questo testo ci sentiamo di dire che il Pontificato di Francesco è stato assolutamente significativo con moltissimi gesti distensivi e di apertura, ma che, allo stesso tempo, ha ribadito la struttura gerarchica e forte dell’universo cattolico, con uno sguardo sincero verso i “deboli” del mondo e verso i problemi attuali che affrontiamo. Guardare a questo decennio come periodo su cui riflettere con attenzione al Cattolicesimo per coglierne gli aspetti di apertura e di comunanza di intenti continuando a ribadire le differenze dei due universi (quello evangelico e quello cattolico) è quello che a nostro parere rimane e che deve condurre la valutazione di quello che è stato un importante Pontefice, assolutamente sincero nella sua fede e ben conscio di quello che era.

 

                                                                                                                                                  Valerio Bernardi – DIRS GBU

Hans Küng, il teologo che mise in discussione il Papato

di Valerio Bernardi

Si è spento a 93 anni qualche giorno fa il teologo Hans Küng, uno dei più famosi e noti anche al grande pubblico per alcune delle sue posizioni che hanno fatto storia. Diversi anni fa, quando sono stato per motivi di studio a Tubinga, ho avuto il piacere di conoscerlo e con me è stata una persona affabile, assolutamente preparata e disponibile a parlare con un giovane studioso che stava preparando il suo lavoro di tesi in un campo che sicuramente era anche di suo interesse. Per me fu un piacere ed un onore ed il suo Istituto di Teologia ecumenica era anche il mio rifugio perché scoprii che per i teologi cattolici l’italiano era la lingua franca e, pertanto, quando volevo riposare la mia mente era il luogo adatto per andare a fare una chiacchierata con i suoi collaboratori.

Perché Küng è stato un teologo importante e cosa dovrebbe interessare ad un evangelico del suo pensiero oggi, ad ormai quasi sessant’anni dal Concilio Vaticano II? In questo breve articolo indicherò alcune piste su cui vale la pena seguire il pensatore svizzero e solleverò anche alcune perplessità e disaccordi.

Küng fu tra i più giovani osservatori del Concilio Vaticano II e il suo pensiero mutò notevolmente in quel periodo, rendendolo uno dei maggiori pensatori dell’ala progressista cattolica. La sua opera più significativa dopo il Concilio fu quella che concerneva il concetto di Chiesa. Contrapponendosi a Ratzinger che, più o meno nello stesso periodo ritornava ad un concetto di Chiesa dove la gerarchia assumeva un ruolo fondamentale e l’aspetto sacramentale rimaneva importante, il trattato sulla chiesa del teologo svizzero invece sottolineava, riprendendo la Lumen Gentium (il decreto conciliare sulla Chiesa prodotto dal Concilio Vaticano II), che la Chiesa era una comunità che rappresentava il popolo di Dio, dove il sacerdozio era conferito a tutti, il Magistero era essenzialmente al servizio dei fedeli e lo stesso Papa (pur rimanendo convinto del ministero e del primato pietrino) non era il depositario della successione apostolica, ma semplicemente il ministro e servo del Popolo di Dio che egli rappresentava. Cristo per lui era l’unico mediatore e il Papa non aveva questo potere. Nonostante queste affermazioni coloccassero Küng dalla parte dell’ala più avanzata del cattolicesimo, rimaneva nell’alveo della Chiesa per diversi motivi: il primo era il forte radicamento nella Tradizione (che rimaneva una delle fonti di ispirazione della Chiesa), l’altra era quella  dell’idea del primato pietrino e la permanenza di un’idea sacramentale della Chiesa, benché già si accennasse allo “scandalo” di un cristianesimo separato e non nascondesse una vocazione ecumenica, in cui sperava in una sorta di Parlamento delle Chiese per risolvere i problemi anche di tipo dottrinale.

Una tale concezione “naturalmente” porterà al suo libro-dossier del 1970 (Infallibile?) dove verrà messo in discussione il dogma dell’infallibilità del Papa, che, come si sa, era stato proclamato tale da Pio IX nel 1870, proprio mentre l’esercito italiano si impossessava della città di Roma. La messa in discussione dell’infallibilità papale sembrava un altro segnale di volontà di ammodernare la Chiesa Cattolica e il discorso di Küng sembrava essere un tentativo di applicazione di alcuni dei decreti del Concilio Vaticano II. Nonostante ciò fu sospeso a divinis e gli fu tolta la possibilità di insegnare nella facoltà di teologia cattolica di Tubinga, la stessa dove era stato anche preside. Questo tentativo di disciplinamento e di messa a tacere del pensatore svizzero, divenne il suo trampolino di lancio nel mondo dei media. Infatti, la sua attività di insegnante non terminò ed ottenne di diventare direttore dell’Istituto di Teologia Ecumenica della stessa università, all’interno della Facoltà Protestante, ma, allo stesso tempo indipendente da essa: insomma, il suo Istituto, era una sorta di “Svizzera” (il suo paese di nascita) all’interno del panorama teologico.

Küng seppe a quel punto usare a suo vantaggio le sue grandi doti di comunicatore e divenne probabilmente il più noto teologo del mondo occidentale, cui veniva chiesto, soprattutto nell’Europa continentale un parere su tutte le questioni che concernevano la fede. Egli ha scritto per diversi dei quotidiani europei più prestigiosi (i suoi articoli sono spesso apparsi, in traduzione, in Italia su “Repubblica”). Anche alcuni dei suoi libri furono scritti in maniera tale da essere capiti da non addetti ai lavori. Proprio per questo motivo può essere considerato, a suo modo, anche un apologeta, avendo difeso in alcune delle sue opere divulgative l’esistenza di Dio e l’opera di Cristo. Lo stile in questi casi era quello delle tesi che potevano affascinare un pubblico che non era avvezzo alla cultura teologica e biblica ed erano scritti con un linguaggio chiaro e semplice ed immediato, senza per questo cadere nella banalità.

Il confronto con la cultura occidentale è sempre stata una delle costanti del pensiero di Küng (la sua dissertazione di dottorato era un serrato confronto della teologia cattolica con il pensiero di Hegel) e una delle sue opere più celebri (recentemente ripubblicata in italiano in una nuova edizione) è Esiste Dio? In questo testo il pensatore svizzero si confronta con il pensiero filosofico e scientifico moderno e cerca di mostrare come si possa dare una risposta all’incipiente atesimo. Al contrario dell’“ortodossia” cattolica, che si rifà normalmente alle tradizionali prove dell’esistenza di Dio messe a punto dalla teologia medievale, il suo testo si confronta con la modernità e contrappone in un excursus di circa 1000 pagine il modello pascaliano della scommessa (che è strettamente collegato alla plausibilità della fede) a quello cartesiano (ritenuto sin troppo razionale e portante direttamente all’ateismo). L’analisi di Küng è molto dettagliata e di grande interesse mostra la sua apertura verso il mondo moderno. Il testo ha il suo fascino (non ha caso è stato ripubblicato recentemente in una nuova edizione in italiano) e rimane un valido tentativo di confrontarsi con la contemporaneità, anche se non tiene del tutto conto del dibattitto post-moderno.

Nell’ultimo periodo il teologo svizzero si è dedicato non solo ai rapporti ecumenici tra Chiese, ma anche al dialogo interreligioso. Sue sono state le iniziative di un parlamento delle religioni che potesse contribuire alla pace nel mondo. L’iniziativa in questo caso non ha riscontrato grande successo anche se ha permesso la produzione di testi sulla conoscenza delle religioni ed in particolare dell’Islam di grande accuratezza, come sempre avveniva nella sua opera. Il dialogo interreligioso non è mai stato una novità nel mondo cattolico ed era sicuramente influenzato anche dall’inclusivismo di alcune posizioni teologiche che si sono sviluppate nel cattolicesimo olandese e tedesco della seconda parte del XX secolo.

Con la sua morte, pertanto, è venuto a mancare uno dei grandi teologi della tradizione liberale tedesca che, sin dal XIX secolo, si sono aperti al mondo moderno, hanno cercato di dialogare con il mondo nel senso più ampio del termine ed hanno anche cercato di produrre dei cambiamenti all’interno della struttura della chiesa cui appartenevano.

Cosa possiamo dire di questo teologo da un punto di vista evangelico? In primo luogo, quando si legge Küng, lo si deve sempre considerare nell’ambito del cattolicesimo: nonostante i chiari avvicinamenti al mondo protestante (soprattutto nella concezione di una chiesa come comunità di credenti), il suo attaccamento alla interpretazione della Tradizione della Chiesa, un certa concezione che va verso il sacramentale dell’istituzione ecclesiastica ed una gerarchia che, anche se al servizio, rimane tale (soprattutto se affiancata dai teologi) lo hanno fatto rimanere nella Chiesa cattolica, la cui continuità storica non è stata mai da lui messa in discussione. Le sue posizioni progressiste sono state sempre molto interessanti ma, allo stesso, la sua teologia non ha mai fatto un largo uso del testo biblico, pur conoscendolo (si vedano il suo libro sulla chiesa o le sue tesi su Gesù). Il suo attaccamento alla tradizione tedesca lo ha fatto sempre essere collegato al campo della teologia liberale.

Nonostante questi “limiti” la sua capacità di divulgazione lo ha reso probabilmente soprattutto nel ventennio che è andato dal 1970 al 1990, il teologo più conosciuto nel mondo. La sua profonda cultura (attestata dalle sue opere da studioso sempre molto accurate ed anche molto analitiche) sicuramente rimane un lato da apprezzare e che mancherà all’attuale panorama teologico mondiale. Küng ha avuto una capacità da cui varrebbe la pena imparare: quella di dialogare non solo con la Chiesa, ma anche (e forse soprattutto) con il mondo esterno.

Valerio Bernardi – DIRS GBU