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Il mondo visto dalla croce

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Il mondo visto dalla croce

Matteo 27:27–56
È noto che i Vangeli prediligono una prospettiva peculiare non solo per l’intera vicenda terrena di Gesù, Colui che all’unanimità poi confessano come Figlio di Dio e Messia. Ma anche per il racconto dell’evento che occupa buona parte dei Vangeli, vale a dire il racconto della Passione.

L’evento che annualmente la cristianità ricorda sotto la rubrica di Pasqua non ha poi smesso di alimentare una storia degli effetti che percorre la letteratura, le arti, fino al cinema (come non ricordare The Passion di Mel Gibson).

Il Vangelo di Matteo è interessato a presentare il dramma di Gesù nei suoi collegamenti con l’AT, (Salmo 22 e 69 e altre reminiscenze). Il dramma che Gesù vive non è il dramma di un malcapitato le cui ambizioni si scontrano con la cruda realtà della politica e con la forza di occupazione romana. Una vicenda tutt’al più da elencare in sterili e anonimi annali di qualche storico dell’antichità giudaica. Anche se, a giudicare dall’importanza che vi attribuisce il principale di tali storici, Giuseppe Flavio, la crocifissione di Gesù non aveva neanche il blasone della rilevanza nella storia politica e sociale della Giudea di quel tempo (si veda il famoso Testimonium Flavianum, Antichità 18.63). Nell’ottica di Matteo sul Golgota si riflette un tema dell’AT, quello del giusto, ingiustamente sofferente, che nella sua sofferenza si identifica con la causa di YHWH. Questa condizione motiva l’azione giustificante di Dio; e sarà questa, l’azione giustificante di Dio per e in Cristo, la prospettiva che rappresenterà il cuore della riflessione successiva degli apostoli. Ma anche il filo rosso che avvolge la narrazione matteana, se si allarga la prospettiva dal racconto della passione fino a includere tutto il Vangelo. Se n’era ben accorta Dorothy Sayers incentrando la sua pieces teatrale proprio sul Vangelo di Matteo (The man born to be a King, 1942). Questa prospettiva globale e neotestamentaria sull’evento enfatizza il suo valore salvifico e universale.

E tuttavia, non è necessario attendere tutta la riflessione apostolica posteriore, o percorrere in lungo e in largo tutto il Nuovo Testamento; la si può intuire nello scorrere della narrazione. D’altronde, sono noti i tentativi della predicazione cristiana di cogliere “tutto” negli stessi scarni resoconti del Golgota. Si pensi, per esempio, alla tradizione omiletica sulle Sette parole di Gesù alla croce, un elenco che viene fuori dall’affiancamento di tutte e quattro le narrazioni:

1) Padre, perdona loro … (Lc 23:34). 2) Oggi sarai con me in paradiso … (Lc 23:43). 3) Donna, ecco tuo figlio … (Gv 19:26–27). 4) Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato … (Mt 27:46; Mc 15:34). 5) Ho sete … (Gv 19:28). 6) È compiuto .. (Gv 19:30). 7) Padre nelle tue mani rimetto … (Lc23:46).

Per questa Pasqua 2024, segnata da guerre e imbarbarimento della vita planetaria (si pensi agli appuntamenti elettorali dei prossimi mesi che potrebbero cambiare il volto dell’intero vivere associato dell’umanità) proponiamo tre piccole istantanee che emergono dalla combinazione dei dialoghi e di alcuni particolari del racconto di Matteo. Queste istantanee potrebbero ben essere il risultato di uno sguardo che si eleva non di molto rispetto allo spazio visivo dei protagonisti, quel tanto che basta per capire come si vede il mondo dalla croce.

Il mondo visto dalla croce

  1. Nelle ingiurie si rivela il rifiuto del mondo
  2. Nel grido di Gesù si rivela la logica della sostituzione
  3. Nella constatazione del centurione si rivela l’arrivo di un mondo nuovo

 

  1. Nelle ingiurie si rivela il rifiuto del mondo

I vari personaggi che parlano appartengono principalmente a tre gruppi sociali: le forze di occupazione; il potere religioso e l’opinione pubblica. È possibile però intravedere un quarto soggetto la cui prospettiva fa capolino nelle frasi di diversi attori: è il potere diabolico

Le ingiurie si concentrano nello spazio temporale dell’agonia di Gesù. Esse fanno leva sulla presunta e millantata potenza di Gesù, una potenza che era stata allusa da Gesù sia nei fatti sia nelle parole (distruggi e salvato, confidato e affermato). Le ingiurie chiedono una instanziazione di questa potenza: è ora il momento della sua manifestazione. Sono ingiurie perché colui che potrebbe rovesciare la situazione non fa niente in quanto, questa è l’insinuazione, non può fare proprio niente! Ma per il loro tramite si esprime la molteplicità dei volti del mondo materiale e soprannaturale che ha rifiutato e continua a rifiutare il Figlio di Dio.

1a L’ingiuria che proviene dal potere (v. 37) Al di sopra del capo gli posero scritto il motivo della condanna: Questo è Gesù, il re dei Giudei.

L’iscrizione romana rivelava la condanna (insurrezione), e ironizzava sulle aspettative giudaiche. Finché c’era Roma, questa era la fine che facevano tutti i presunti Re. La targa riprendeva però la medesima convinzione espressa dai Magi al capitolo 2 del Vangelo. Questi personaggi, muovendosi da una direzione opposta a quella dei Romani che venivano da Occidente, vale a dire, partendo dall’Oriente, giunsero a Betlemme proprio in cerca del Re dei Giudei che è nato (2:2). Già in quella circostanza si era profilato uno scontro tra Gesù, allora un bambino e il potere; in quel caso quello di Erode.

Abbiamo dunque una prima mappa della reazione del potere o dei potenti:
– i Romani animati da una visione del potere che non ammetteva deroghe. La lex aveva il primato sulla considerazione della persona e delle circostanze (si pensi ai dubbi di Pilato).
– I Magi, rappresentanti forse di un potere che faceva leva su altri elementi e stimolati da un potere sovrannaturale (la stella) si erano resi disponibili a confrontarsi con la novità.
– In mezzo c’erano i Giudei che nella loro ostinazione complicano, a loro svantaggio, la situazione: parlano addirittura del Re d’Israele (v. 42).

Non è difficile discernere quale avrebbe dovuto essere l’approccio corretto del potere, allora come in tutti i tempi. Ancora oggi il potere non sa quale posizione assumere nei confronti del vangelo.

1b L’ingiuria che proviene dal mondo della religione (v. 40) Tu distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci

Il tempio era un altro fuoco spaziale del dramma che si stava vivendo. L’ingiuria è religiosa in quanto si interessa al cuore del “potere religioso”. Veicolava una falsa accusa: Gesù aveva sicuramente preannunciato la fine del tempio, ne aveva denunciato l’uso distorto (una casa di ladri piuttosto che, una casa di preghiera, cap. 21) ma non aveva mai manifestato intenti iconoclastici. I suoi discepoli, all’indomani della risurrezione, avranno il tempio come luogo privilegiato per esporre la nuova via. Gesù aveva in mente il ruolo globale del tempio, non solo per i Giudei o per gli antichi Israeliti (tabernacolo). Doveva essere il luogo in cui avrebbero dovuto ritrovarsi e rivolgersi tutte le esperienze dell’umanità, dove Dio incontrava gli uomini (Dt 12; Is 66).

In quel preciso momento, mentre lo ingiuriavano, egli stava sostituendo, senza toccare una pietra del tempio, il ruolo di quel santuario, la sua fisionomia: l’ora è venuta, aveva detto alla samaritana, in cui l’adorazione e l’incontro con Dio non sarebbero state più geo–localizzate; sarebbe stato il suo corpo, quello sì, distrutto e ricomposto in tre giorni (Gv 2:19) il nuovo luogo dell’incontro.

Ma in quel momento il mondo della religione non era interessato a riforme e scatti in avanti; era intento a difendere le proprie prerogative, in una mortale e sempre ricorrente alleanza con il potere.
Il mondo della religione ha interesse a perpetrarsi e a difendere i propri simboli. Ed è per questo che rifiuta la croce o al più la rende consona alle sue prerogative. Si pensi al ruolo delle tradizioni pasquali come messo in luce dagli studi di antropologia e di etnologia.

1c L’ingiuria che proviene dal demonio (v. 40) Se sei Figlio di Dio. (v. 43) Si è confidato in Dio: lo liberi ora, se lo gradisce, poiché ha detto: “Sono Figlio di Dio”.

L’altra ingiuria colpisce l’identità di Gesù facendo uso di una delle citazioni del Salmo 22. Il suo affidarsi a Dio al punto da chiamare Dio PADRE. Questo gli viene rinfacciato. Si tratta di un’ingiuria chiaramente diabolica in quanto metteva in discussione l’identità di Gesù. Non aveva voluto dimostrare la sua figliolanza al comando del diavolo (cap. 4)? Ora questa presunta identità e il suo legame millantato venivano chiaramente smascherati.
Abbiamo qui una visione del divino alla mercé della voluttà umana (a parlare sono infatti uomini), che esprime un travisamento del messaggio della salvezza e per questo espressione del demoniaco. L’ingiuria procede in questi termini:

se salvi te stesso, noi ti crederemo (v. 42)
Avrebbe potuto essere vero? Che fede sarebbe stata quella di chi, semplicemente, prendendo atto del miracoloso, si piega? Con le bestie dell’Apocalisse accade qualcosa del genere: esse riscuotono il successo e vengono seguite grazie alla loro identità miracolosa, seducente (Ap capp. 12 e 13). Nell’ingiuria demoniaca c’è sempre una credenza parzialmente corretta. Nell’ipotetica fede degli oltraggiatori sarebbe mancata l’altra faccia della fede che salva, il ravvedimento. Gesù aveva annunciato il regno di Dio predicando la fede e il RAVVEDIMENTO.

La formula avrebbe dovuto essere ed è sempre: – Mi pento, credo che tu mi puoi salvare!

1d L’ingiuria che proviene dal mondo dagli uomini (v. 42) Ha salvato altri e non può salvare se stesso; (vv. 47 e 49)… Costui chiama Elia … lascia vediamo se Elia viene a salvarlo (vv. 47 e 49)

Se ai Romani interessa il potere, se ai capi sacerdoti interessa il tempio, se a Satana interessa il legame Padre/Figlio, agli uomini, a tutti gli uomini, possiamo dire a tutte le creature, tranne Satana, interessa la SALVEZZA, nelle sue varie forme.

Negli ultimi anni si parla di salvare il pianeta; di fronte agli ultimi eventi bellici si parla di salvare la pace. Si è anche parlato di salvare l’umanità … dal virus. Tutti scenari che richiamano il tema della salvezza. Ma quale salvezza? È in primo luogo una salvezza all’occidentale: una prospettiva di vita florida, la possibilità di coltivare ambizioni per sé e per i propri cari. Questa è la salvezza che abbiamo ricercato nel mezzo della pandemia e ora della guerra. Ma gli scenari di crisi rivelano che questa salvezza è insufficiente. Da Kiev a Gaza la gente non scappa solamente o non vuole solo scappare; prega! Ecco allora che il tema della salvezza nei termini biblici riaffiora sempre e nuovamente. I dissacratori dicono a Gesù sulla croce, ha salvato tanti! È vero ed era anche vero che uno lo aveva appena salvato o forse lo stava per salvare, il ladrone!

Ma qui il Salvatore non può salvare se stesso. In realtà non deve salvarsi; se salvasse se stesso, se lo facesse, allora non potrebbe salvare più nessun’altro. Non è spiegata, ma qui agisce potentemente, e per il tramite dell’ingiuria, la logica della sostituzione: uno si perde perché gli altri possano salvarsi. Ecco che nell’ingiuria del mondo degli uomini, che in continuazione chiede conto a Dio degli elementi che lo farebbero fiorire ma che gli mancano – la presenza del male – proprio nel silenzio mortale di Dio si delinea l’unica vera strada della salvezza biblica. Questa strada è indicata dal grido che mette a tacere le rimostranze del mondo che rifiuta.

 

  1. Nel grido di Gesù si rivela la logica della sostituzione (V, 46) Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato

La logica della sostituzione non può essere solo descritta. È accaduto altre volte che qualcuno si è sostituito ad altri (soprattutto in tempi di guerra – Salvo D’Acquisto). Bisogna penetrarla, la logica della sostituzione, e a questo serve il grido di Gesù. Il grido non esprime dolore fisico (non ce la faccio più) ma denuncia una condizione spirituale: l’abbandono. Quando Dio abbandona, giudica; il grido esprime il dolore per il giudizio di Dio Padre. Questo grido apre uno squarcio profondissimo, e incomprensibile per noi, nella vita intima di Dio: uno dei misteri più impenetrabili di tutti i vangeli! Come può essere che i due confidenti (v. 43), così intimamente uniti da non poterli distinguere, ora si trovino separati;

– uno, il Padre, chiamato solo in questa circostanza da Gesù con l’appellativo, Dio, che si separa
– l’altro, il Figlio, lasciato solo nella sua sofferenza.

Che cos’è che faceva orrore al Padre tanto da doversene distanziare? Si trattava di qualcosa che sicuramente, per poter essere gestito, per poter consentire e permettere la salvezza, andava trattato proprio a quella maniera. Gli apostoli, e noi con loro, troviamo la risposta nelle straordinarie parole che Isaia aveva riservato al Servo dell’Eterno, che doveva essere Israele, ma che alla fine è risultato essere un suo figlio illustre e giusto (Isaia 53:3sg.)

Quella condizione, essere lì come oggetto dell’abbandono di Dio, non era per uno qualunque. Non era per un eroe: gli eroi dell’AT erano al più tipi di chi poteva veramente sostituirsi. Figuriamoci se poteva essere un profeta, seppur blasonato come Elia. No! Quella condizione la poteva occupare solo uno per il quale essa era inconcepibile, che non poteva stare lì. Giovanni Battista aveva chiamato Gesù Figlio dell’uomo, aveva profetizzato, cioè, che avrebbe esercitato il giudizio.

Ecco perché si parla di sostituzione e non semplicemente di un mettersi al posto di …. La sostituzione implica non solo che quel posto non gli spettava, perché era giusto; ma soprattutto implica che solo lui poteva prendere su di se quello che era sugli altri. Perché Lui, in quel posto non avrebbe mai dovuto starci! Pietro lo spiegherà bene: egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce! (2:24). Ecco la salvezza: qualcuno perde affinché tanti vincano. La sostituzione, infatti, apre un mondo nuovo.

 

  1. Nella constatazione del Centurione si rivela l’arrivo di un mondo nuovo (v. 54) «Veramente, costui era Figlio di Dio»

Guardando dalla croce, un Gesù che aveva bevuto fino all’ultima goccia del calice dell’ira di Dio, vede ora un mondo nuovo che si apre. Se prima i soldati si erano protesi verso Gesù per prenderlo in giro adesso, alla fine, uno di essi si inginocchia idealmente riconoscendo l’errore commesso (veramente) e riconoscendo la natura di Gesù che era fatta oggetto di insulti.

Per lui, per il Centurione, non è stato necessario che scendesse dalla croce. È bastato il modo in cui è morto, è bastato cogliere l’atmosfera e ciò che si stava palesando in quel momento per riconoscere che sì, qui c’era il Figlio di Dio. Riconoscere la natura di Gesù (Figlio di Dio) qui alla croce, vuol dire riconoscere il Figlio di Dio che porta i peccati e dunque rappresenta una chiara manifestazione della fede salvifica. Non una fede demoniaca (se ti salvi ti crediamo).

E per di più, a riconoscerlo ora era un pagano, un romano, non uno dei Giudei, per i quali Gesù era venuto. Ecco il mondo nuovo che si apre, il mondo della missione, della messe matura che non sarà più ora limitata al solo campo d’Israele, ma all’intero mondo (cap. 28).

Il Centurione è l’avanguardia di questo mondo nuovo, un mondo in cui il solo riconoscimento dell’identità di Gesù (chiunque confessa il nome del Signore sarà salvato) unito al ravvedimento metterà in moto il meccanismo della sostituzione. Il centurione ha preceduto tutti quanti noi.

 

Ecco allora, in conclusione, il quadro completo del mondo visto dalla croce:

  1. Nelle ingiurie si rivela il rifiuto del mondo
  2. Nel grido di Gesù si rivela la logica della sostituzione
  3. Nella constatazione del centurione si rivela l’arrivo di un mondo nuovo

 

 

#iorestoacasa

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Questo è l’altro hastag (oltre a #andràtuttobene) di questa Italia del XXI secolo costretta a casa per “contenere” la diffusione del contagio. È stato il primo, e quello più persistente, perché, come ci ricordano gli organi istituzionali, la pubblicità e tanti altri nel pieno dell’epidemia, si deve fare questo, restare a casa. Personaggi dello sport, dello spettacolo, istituzioni culturali, medici hanno rilanciato lo slogan. E pare che abbia funzionato, stia funzionando: gli italiani appaiono la nazione più ligia all’osservanza delle norme sul distanziamento sociale affinché l’aria che ci separa dal nostro prossimo non venga sfruttata da questo piccolo mostro per diffondersi.

Stare a casa: un problema di libertà e di razionalità
La riduzione delle prerogative delle libertà individuali di movimento, di assembramento (si pensi a quanti incontri – incluso quelli di natura religiosa, dalle messe ai culti evangelici – sono stati interdetti) e altre ancora che non sono state ridotte per necessità (le attività economiche essenziali), è sempre stato un tema della riflessione filosofica e politica dell’Occidente. Si sostiene che “l’uomo libero”, così come lo conosciamo noi, sia il frutto della confluenza di almeno tre tradizioni culturali: il pensiero greco, con la libertà considerata come determinazione della volontà e manifestazione di virtù; la quintessenza della rivelazione ebraico–cristiana, con la libertà della coscienza derivante dal coram deo e dall’imago dei; le acquisizioni illuministiche, con la libertà della ragione e del pensiero. Bene, se “l’uomo libero” è tutto ciò, non può accettare alcuna restrizione. Questa condizione è confuita nella mappa dei diritti (religiosi, civili, politici, etc.).
Si discute, lo abbiamo ascoltato spesso di questi tempi, se questo schema possa subire delle riduzioni in funzione delle nuove frontiere della cura quali la telemedicina, la mapatura digitale del contagio, etc.

Qui si contrappongono privacy e benessere pubblico.

Eppure adesso siamo tutti confinati in casa. Questo è un retroeffetto del “male naturale” di cui stiamo facendo esperienza; di cui stanno facendo esperienza, in primo luogo, coloro che hanno subito delle perdite e coloro che sono in prima linea a combattere l’epidemia.

Senza volerlo, sicuramente senza desiderarlo, anche la stragrande maggioranza di tutti noi siamo partecipi e subiamo, sotto la forma della riduzione delle libertà della persona, il confronto con il male nella sua accezione naturale.

Perché accettiamo questa condizione?

Si tratta di una sorta di contributo globale che gli umani stanno rendendo alla razionalità di natura scientifica. Ci sottoponiamo a delle direttive e assumiamo dei comportamenti che sono suggeriti dalla ricerca scientifica da cui derivano le argomentazioni razionali per cui è meglio subire la riduzione delle nostre ibertà per quindici giorni o un mese, o anche più, piuttosto che dare il lasciapassare all’infezione  …
Irrazionale è oggi il comportamento e il pensiero che ammucchia, che non sa distanziare, che si accalca, che non è lucido, sanificante. Ed è strano pensare che proprio le aree geografiche che un tempo avevano indicato la strada maestra dell’igiene pubblica e del miglioramento delle condizioni di vita (l’Occidente), oggi sono le aree geografiche in cui il pensiero e i comportamenti ammucchianti sono più evidenti e più devastanti. La scienza, i virologi e gli epidemiologici, ci dicono che dobbiamo stare a casa, serrare l’uscio delle nostre porte affinché il contagio “passi oltre”. Con buona pace del pensiero complottista, no–vax, etc.

Stare a casa per scampare la distruzione
Se la razionalità scientifica è ciò che ci giustifica nell’adozione di comportamenti che limitano le nostre libertà individuali, forse la motivazione ultima è quella di assecondare la nostra percezione che ci suggerisce che in tal modo ci stiamo proteggendo. Lì fuori c’è qualcosa che si aggira e che è tremendo. Al netto di tutti i dibattiti che si fanno e si leggono il succo di questa epidemia e di ciò che la causa, il virus, è questo: in un’epoca così avanzata per quanto concerne i sistemi sanitari, il tasso di morte per patologie che si ritengono curabili è molto alto. Niente di simile era accaduto in passato. È perché sappiamo di poter curare (anche se non in maniera definitiva) chi si infetta, che ci spaventa la prospettiva di una diffusione del contagio che renderebbe impossibile curare tutti. Allora è meglio proteggerci. Abbiamo avuto una rivelazione: stiamo a casa, raduniamoci nei nostri nuclei familiari e segnaliamo all’esterno che noi non ci siamo contaminati. La protezione implica due versanti: quello esterno e quello interno. All’esterno bisogna segnalare che sì, abbiamo chiuso l’uscio prima dell’arrivo del distruttore, abbiamo assecondato la sapienza e la saggezza “tecnica”. All’interno bisogna “celebrare” questa salvezza: se stiamo in casa il contagio “passa oltre”, possiamo con grande umiliazione celebrare la nostra salvezza e prepararci a ri–partire.

Non ci vuole molto per comprendere che queste categorie (passare oltre, segnalare all’esterno, celebrare all’interno) sono le categorie di quella festività carica di simboli e frutto di strati di sgnificato complessissimi che è la PASQUA (pesach).

Straordinaria coincidenza: ci chiudiamo in casa perché là fuori c’è qualcosa che ci spaventa, una manifestazione subdolamente superlativa di tutta una serie di sciagure che abbiamo sperimentato, e nel frattempo il nostro calendario ci ricorda che è Pasqua (quella cristiana) e le nostre menti sono obbligate ad andare a Esodo 12 (la pasqua ebraica), da dove tutto è partito.
E lo scenario è straordinariamente simile o almeno possiede dei richiami simbolici molto forti:
– un popolo chiuso in casa, avvertito in merito #nessunodivoivarchilaportadicasasuafinoalmattino;
– qualcosa che là fuori si agira e può colpire;
– la speranza di essere risparmiati e di poter finalmente ripartire.

Ci sono alcune lezioni che si possono trarre da questa antica pagina biblica, sulla quale si sono esercitate le menti più acute dell’ebraismo e del cristianesimo, e non solo.
A questo punto sarebbe utile che si legga quel capitolo.

Il popolo ritrova compattezza
Sicuramente non è un elemento principale del racconto; tuttavia il contesto generale non lo nasconde. Dio chiama Mosè e gli dà delle istruzioni; Mosè le comunica al popolo, questo le accetta, le mette in pratica [il popolo s’inchinò e adorò (v. 27)].Niente più divisioni e fazioni,come nel capitolo 5, quando il popolo si era trovato a fronteggiare la reazione del regime di faraone. Ora non c’è più l’insinuazione contro Mosè, (chi ti ha costituito sopra di noi) e neanche le fazioni. Il momento era cruciale, delicato, gravido di conseguenze (promessa della liberazione, ma minaccia di cadere vittima della decima piaga).
Questa compattezza viene conseguita mediante la ricomposizione dei nuclei famigliari, anche quelli allargati. Ci si frammenta, ci si stringe l’uno all’altro in famiglia (dove non si rispettano le misure di distanziamento sociale – 1 metro), in un certo senso ci si separa, per poi sentirsi partecipi di uno stesso destino. Nell’Italia del XXI secolo questa dinamica è stata sicuramente incarnata dalla figura del Presidente della Repubblica. Il Presidente Sergio Mattarella, con i suoi sapienti e centellinati interventi è riuscito a farci sentire tutti partecipi di una stessa vicenda nel mentre la sua voce arrivava a milioni di famiglie ognuna chiusa nel suo isolamento. Non così la politica! E poi c’è Zoom, con cui una miriade di formazioni sociali prende vita davanti a telecamere e mouse. C’è vita dietro le porte chiuse alla piaga; e, se sapientemente vissuta, quasta frammentazione può produrre compattezza in un popolo. Mettiamo pure il tricolore sul balcone.
Ma la pandemia, lo si è detto, non conosce confini; serve a poco se in Italia ci si separa in famiglie e si riscopre nello stesso tempo la coscienza collettiva. Le schermaglie europee e la diversità di approcci (dall’Inghilterra prima, per finire poi alla Svezia), se non addirittra il doppogioco dei regimi autoritari (quanti morti in Cina?) e la leggerezza dei Trump sono tutte cose che fanno comprendere che è il genere umano a dover ritrovare una sua compattezza.
Intorno a che cosa però? Questo è difficile dirlo. Un certo umanesimo cristiano ha ben ragione a segnalare che ciò su cui bisogna ritrovare compattezza è la stessa idea di uomo. Uscirà fuori un nuovo uomo da questa pandemia?
Per il momento abbiamo la riduzione a uno dell’attenzione dell’umanità. Più della metà della popolazione mondiale è rinchiusa in casa. E l’attenzione di tutti è focalizzata su un unico tema, un unico punto: COVID–19! La maledizione che ha colpito la terra a causa di una mescolanza di specie (dai pipistrelli agli umani, passando per i serpenti) ha reso gli uomini UNO (quanto meno nella paura; non sappiamo se anche nella speranza).
La lezione dell’Esodo è che la possibilità di ripensarsi daccapo era data dal fatto che la presenza di Dio era divenuta tangibile ed era una presenza sinistra: circolava la terribile profezia sulla morte dei primogeniti e per questa ragione bisognava prepararsi adeguatamente. La presenza di Dio era  minacciosa. Altro che chiese aperte e/o chiuse … a Pasqua!

Salvati per servire
La Pasqua, nella sua prima celebrazione, fu una festa che esaltò la precarietà e il movimento, a differenza di ciò che diverrà in seguito la stessa festa: un banchetto senza patemi d’animo. Alle origini, la precarietà era segnata dalla presenza delle erbe amare e del pane non lievitato e il movimento era percepito come reale e con una duplice dinamica: quello che dava il nome all’evento, il passare oltre della piaga e quello della possibile ri–partenza del popolo.
Il secondo movimento, quello della ripartenza, merita la nostra attenzione. Si trattava di un movimento di liberazione. Nella Bibbia ci sono molti esempi di interventi di Dio che chiama i fedeli a uscire: Abraamo, Lot; gli esuli di Babilonia e gli abitanti della Babilonia apocalittica. In genere si tratta di uscire o avendo la testa a ciò che si attende ed è oggetto della chiamata – e della fede (la terra per Abraamo) oppure si esce perché si è spaventati per la rovina del posto in cui ci si trova (Lot; la Citta di Distruzione de Il Pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan).

In questo caso, in Esodo 12, ma anche un po’ – almeno lo speriamo – per il coronavirus, ci sono alcune differenze. Sicuramente c’era l’indicazione positiva di ciò che aspetta il popolo. È un nuovo inizio e questo nuovo inizio implicava responsabilità: Mosè aveva più volte detto al faraone che dovevano andare a servire il loro Dio. Da ciò deriva l’immagine dell’ebreo attrezzato ed equipaggiato per partire, agile perché senza il pane già lievitato e tutto teso al futuro. Pietro l’apostolo nella sua prima Lettera raccoglierà questa dimensione della Pasqua e la volgerà interamente in termini spirituali e non più fisici e materiali

Perciò, dopo aver predisposto la vostra mente all’azione, state sobri, e abbiate piena speranza nella grazia che vi sarà recata al momento della rivelazione di Gesù Cristo. Come figli ubbidienti, non conformatevi alle passioni del tempo passato, quando eravate nell’ignoranza; ma come colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta, poiché sta scritto: «Siate santi, perché io sono santo» (1 Pt 1:13).

In questo periodo si sente evocare spesso, pensando alla ripartenza in più fasi, il dopoguerra e lo straordinario miracolo italiano del boom economico. Il rimando e l’evocazione non possono essere più adeguati. Ma ci sono anche delle lezioni da imparare. Che ne è stato della società nata dai sacrifici e dalle sofferenze della Seconda Guerra Mondiale? Il capo della popolazione si è rialzato per cercare nuovi valori oppure ha dato inizio a un ciclo di decadimento alla fine del quale ci troviamo con il trionfo degli egoismi a tutti i livelli, fino alla messa in crisi dell’idea che ha garantito la pace per settant’anni, l’idea dell’Europa? L’immagine di un popolo che dopo aver chiuso le porte alla piaga, che è passata–oltre, si mette in cammino per adorare, per celebrare e su questa strada, sicuramente non facile, incontra un Dio (al Sinai) che si dispone ad accompagnarlo con le sue leggi e la sua volontà è un’immagine che deve far riflettere tutti quanti noi. Quale Dio abbiamo incontrato nel dopoguerra miracoloso? E dove ci ha portati? Abbiamo bisogno, come Italiani, di riflettere seriamente dove andremo, quando riapriremo le nostre porte, avendo una macherina in mano. Già, perché non dimentichiamolo: il virus è ancora in mezzo a noi.

Il ruolo del sangue sugli stipiti
Ma c’è un altro elemento della notte di Pasqua che non è un elemento dinamico, ma statico. Non concerne il partire ma lo stare a casa. Il popolo resta in Egitto e poi può partire grazie al sangue dell’agnello spruzzato sugli stipiti delle porte chiuse. Israele poteva restare in mezzo all’Egitto a una sola condizione: se si fosse messo al riparo del sangue dell’agnello.

Chi mastica un po’ di teologia sa bene che qui ci sono due enormi problemi: la natura e le ragioni ultime della distruzione che passa per le città d’Egitto e fuori dalle porte degli schiavi ebrei e, in secondo luogo, il ruolo e il simbolo del sangue. Il primo grosso problema è un classico dell’apologetica che si è riacceso anche in questi tempi: che relazione c’è tra Dio e l’epidemia? [Si guardi all’ultimo libretto di John Lennox, Dov’è Dio nella pandemia? (Adi Media); e anche a R. Nicole, Il Dio della Bibbia è un Dio violento?, GBU, 2018)
Il secondo è un tema che ha da sempre occupato lo spazio che unisce teologia e antropologia (da Girard alla nuova prospettiva su Paolo, passando per la querelle su espiazione e/o propiziazione) [Per questo tema si veda John Stott, La croce di Cristo, Edizioni GBU].

Ogni qual volta viene ripetuto il racconto della festività pasquale sia nella Bibbia ebraica sia nel Nuovo Testamento un elemento permane, a scapito di altri che cambiano: il riferimento al sangue. Quando i cristiani guardano alla Pasqua non possono fare a meno di intravedere il ruolo del sangue

Per fede celebrò la Pasqua e fece l’aspersione del sangue affinché lo sterminatore dei primogeniti non toccasse quelli degli Israeliti. (Eb 11:28)


La presenza del sangue in Esodo 12 fa capire chiaramente che anche gli Ebrei erano in pericolo. Non erano diversi dagli Egiziani. Questo è straordinario. Ma come, non aveva detto Dio a Mosè che era per amore dei padri che li liberava? Sicuramente; questo era vero. Ma la loro liberazione non era semplicemente un fatto etnico. E non era neanche una necessità metafisica, nel senso che “dovevano” essere salvati, punto e basta.
Spesso il popolo d’Israele, e in seguito anche le chiese cristiane, nella loro lunga storia, hanno nutrito questo sentimento, appoggiandosi solo su una parte della verità, l’elezione. Ma nella Bibbia l’opera di Dio non si confina solo a una decisione unilaterale divina; necessita anche della soluzione [divina] del problema che sta alla base stessa dell’elezione. Israele era stato scelto perché Dio compisse la promessa fatta al rappresentante del genere umano (Adamo in Genesi 3), ma anche la promessa fatta ad Abramo della benedizione di tutte le famiglie della terra (Genesi 12). Dio non elegge solo; Dio redime e spinge a servire. E lo strumento che la Bibbia indica come scelto da Dio è lo “spargimento di sague”: nell’antichità in maniera visibile (i sacrifici animali); a un certo punto della storia in maniera personale e irripetibile (la morte di Gesù in croce); oggi in maniera simbolica (le rappresentazioni “eucaristiche”). Qui, più che spiegare (per esempio l’associazione tra sangue e vita), forse conviene lasciare la parola direttamente ai testi biblici che sono più eloquenti:

In lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, il perdono dei peccati secondo le ricchezze della sua grazia, (Ef 1:7)

eletti secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, a ubbidire e a essere cosparsi del sangue di Gesù Cristo: grazia e pace vi siano moltiplicate. (1 Pt 1:2)

Il sangue aveva poi, nell’antico racconto di Esodo, un valore semiotico. Era un segnale per il Signore. Non aveva un potere in sé, non veicolava alcuna grazia. Esso parlava:

diceva che in quella casa era stato immolato un agnello,
che c’era gente che aveva ubbidito e si era sottomessa alla volontà del Signore;
gente che chiedeva a Dio di mantenere la sua promessa e di passare oltre;
gente che era pronta a partire per seguire il Signore.

Essi cantavano un cantico nuovo, dicendo: «Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai acquistato a Dio, con il tuo sangue, gente di ogni tribù, lingua, popolo e nazione (Ap 5:9)

Il sangue era una protezione, uno scudo, un riparo. Dio avrebbe fatto giustizia di tutti gli dei dell’Egitto (v. 12) e questo naturalmente significava che la sua giustizia si sarebbe abbattuta su coloro che adoravano tali dei, sugli idolatri. Un peccato gravissimo, l’idolatria, che portò faraone a pensare che non esistesse nessuno al di fuori di se stesso. L’idolatra contrappone se stesso all’unico vero Dio. Per questo Dio fa giustizia e punisce gli idolatri. Qui abbiamo una rivelazione senza infingimenti di Dio, una rivelazione che ci spinge a chiedergli come possiamo essere protetti. Non siamo in una disgrazia naturale nella quale credenti e non credenti sono presi insieme, soffrono insieme (come con il coronavirus). No qui siamo alla presenza dell’ultima e più grave realtà dell’essere umano: il giudizio di Dio. Per carità, evitiamo le geremiadi che tendono a localizzare e temporalizzare il giudizio in questa o quella sciagura. Ricordiamoci di Giobbe … e dei suoi amici!

Il sangue di una vittima ci mette al riparo: dice a Dio che deva passare oltre; qualcuno ha pagato.

Tanto più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira (Rom 5:9)

Nel racconto dell’Esodo il sangue fu spruzzato sulle parti più esterne di ciò che rappresentava il rifugio della famiglia raccolta, la porta, gli architravi; poi veniva spruzzato sulla parte esteriore dell’altare del luogo santissimo ebraico. Ciò che per primo, fisicamente, incontrava la realtà esterna veniva santificato dal sangue. Con l’arrivo della vittima per eccellenza, con l’Agnello di Dio che è stato immolato, la purificazione con il sangue sarà più in profondità, e finirà. Niente più sacrifici.

avviciniamoci con cuore sincero e con piena certezza di fede, avendo i cuori aspersi di quell’aspersione che li purifica da una cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. (Eb 10,22)

Gesù, il mediatore del nuovo patto e al sangue dell’aspersione che parla meglio del sangue d’Abele (Eb 12:24)

Restiamo a casa e limitiamo le nostre libertà.
Restiamo a casa perché intuiamo che ci dobbiamo proteggere.
Restiamo a casa e presagiamo la ripartenza, magari tutti uniti.
Restiamo a casa e intuiamo che dvremmo ripartire con il piede giusto (e la mascherina in mano)
Restiamo a casa e scopriamo che per la stessa nostra esistenza dobbiamo qualcosa a qualcuno.

In Esodo 12 gli antichi Israeliti sapevano che il sangue di un agnello li avrebbe fatti scampare. Già, l’agnello!

Un agnello per la vita di un uomo (Abramo e Isacco nel sacrificio evitato, Genesi 22).
Un agnello per una famiglia (Esodo 12).
Un agnello (una vittima) per un popolo (il Giorno delle Espiazioni ebraico, Levitico 16).
Un agnello per il mondo: “Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Giovanni 1:29)