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Riforma in Italia, Riforma italiana, Riforma mancata

 

Le tre espressioni fanno riferimento a tre modi di pensare o di esprimere la relazione tra la nostra nazione e il movimento religioso della Riforma protestante del XVI secolo.

I tre termini si ritrovano continuamente negli studi storiografici, cioè in quegli studi che vanno ad analizzare il modo in cui gli storici raccontano il rapporto tra gli stati italiani del 1500 e la diffusione delle idee, prima luterane e poi degli altri riformatori.

Qui non possiamo rendere conto né dei dettagli di questi studi né delle principali linee assunte (utile può essere la lettura di alcuni testi, alcuni classici e ben informati, come: L. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento, Laterza; S. Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Claudiana; altri più specifici ma anche di facile lettura, S. Biagetti, Il mito della “Riforma italiana” nella storiografia dal XVI al XIX secolo, Franco Angeli) solo per citarne alcuni.

Tuttavia compiamo solo un superficiale sondaggio in questa storiografia per rilevare che un vero pullulare di interessi per il rapporto tra stati italiani e Riforma del 1500 si ebbe nel 1800, vale a dire nel secolo in cui si radica effettivamente una presenza evangelica in Italia, grazie anche al Risorgimento.

Ci sono diverse ragioni che potrebbero spiegare il rinnovato interesse ottocentesco, non solo degli evangelici, per il XVI secolo: si potrebbe pensare per esempio alle speculazioni di quegli intellettuali italiani (Bertrando Spaventa su tutti) che, grazie a una precisa filosofia della storia vedevano nel Risorgimento italiano il chiudersi di un cerchio iniziato con il Rinascimento, movimento culturale che dall’Italia aveva dato lustro all’Europa e che ora tornava a fare del bene alla nostra nazione, proprio nella stagione del Risorgimento. In questo circolo naturalmente c’era anche la Riforma, letta come un anello imprescindibile del Rinascimento grazie all’appello umanistico del ritorno alle fonti – ad fontes.

Certo, va ricordato, almeno per i lettori evangelici, il monito dello storico fiorentino Giorgio Spini (Risorgimento e protestanti) che aveva messo in guardia dal leggere la presenza evangelica e protestante nella nostra nazione come una presenza che manifesta due picchi: durante il XVI secolo e poi, dopo la stagione della controriforma, nel 1800 grazie alle correnti del Risveglio.

Tuttavia, pur essendo sensibili alla precauzione di Spini, non si può tacere il fatto che con l’avvio dell’evangelismo ottocentesco aumenta l’interesse per la stagione cinquecentesca.

Simone Maghenzani, dell’Università di Cambridge (che terrà una relazione al Convegno Nazionale GBU di questo anno – 2017) ha cercato di rendere conto di questo interesse (Storiografia protestante e Riforma italiana del ‘500 nell’età del Risorgimento) costruendo quattro modelli, anche per mettere ordine nella varietà di modi e di intenti con i quali gli evangelici italiani dell’800 guardavano al XVI secolo.

Il modello morale, che fa capo all’esaltazione della figura di Girolamo Savonarola, dal quale derivava anche il titolo del giornale evangelico stampato a Londra negli anni 40–50 dell’800, L’Eco di Savonarola. In questo modello si guardava soprattutto al rigorismo morale del frate fiorentino e alla sua lotta contro i soprusi della chiesa di Roma come una sorta di apertura di una via alla Riforma, una via che fosse però indipendente dal predominio delle proposte straniere (così com’erano concepite) di un Lutero o di un Calvino.

Il modello che conservava la memoria della persecuzione degli evangelici d’Italia del cinquecento. Si trattava di un modello che faceva capo alla Rivista cristiana diretta da Emilio Comba e che in qualche modo si poneva sulla scia della letteratura dei martiri protestanti inaugurata da opere famose internazionalmente quali il Book of Martyrs di J. Foxe (1563).

Il modello che tentava l’inserimento stretto e sistematico della sfortunata vicenda italiana nel più ampio ecumene protestante europeo, come dimostrato tra l’altro da quella che sarà definita la “riforma dei profughi” con riferimento ai tanti italiani, che fuggiti dall’Italia, daranno il loro prezioso e originale contributo sia alle correnti ortodosse del protestantesimo europeo e mondiale sia a quelle eterodosse.

Infine Maghenzani cita il modello (nel suo elenco è il secondo) che tentava di rintracciare nella stagione del cinquecento un filone di riforma indipendente, sì legato al fenomeno europeo, ma non da esso dipendente. Piero Guicciardini e Teodorico Pietrocola Rossetti, nel mentre ammassavano testi della Riforma del ‘500 in quello che è poi divenuto il Fondo Guicciardini (già Libreria religiosa) della Biblioteca Nazionale di Firenze, distinguevano in quella vicenda e in quel materiale la presenza di una riforma indigena, italiana: «L’Italia nostra ebbe in ogni tempo de’ riformatori della Chiesa Romana e de’ cristiani secondo l’Evangelo» (p. 135).

La mappa costruita da Maghenzani è così ricca e impegnativa da poter dire che non è possibile, al di là della ricerca storica vera e propria, non è possibile, per le celebrazioni ma anche per la possibilità di attingere energie spirituali dalla stagione della Riforma del ‘500, prescindere da un confronto serrato e umile con il filtro ottocentesco. Lungi dall’oscurare la triste stagione della “riforma mancata” (cito qui l’evento storico) il filtro ottocentesco la illumina e la arricchisce delle potenzialità che quella stagione ha ancora per il presente e per il futuro della nostra nazione.

Per esempio quel filtro può farci comprendere perché è necessario distinguere e identificare i vantaggi, ma anche e soprattutto le debolezze, di una possibile «Riforma in Italia», un’operazione in cui sembra non ci possa essere un’autentica diffusione del vangelo senza il ricorso alle categorie elaborate dal confessionalismo (Schilling) soprattutto riformato del 500 (e del ‘600); il filtro dell’800, solo se sappiamo ascoltare le voci di un Mapei, di un Rossetti o di un Mazzarella, et al., ci suggerisce di elaborare una testimonianza che sia incarnata nelle peculiarità della nostra nazione, riconoscendo nel contempo che anche le espressioni più alte della Riforma segnano un debito culturale nei confronti della storia e dei contesti di nascita e di sviluppo.

Il filtro ottocentesco potrebbe quindi stimolarci anche a comprendere la peculiarità di una Riforma italiana che sappia anche miscelare, come di fatto è accaduto da almeno duecento anni, tra le varie anime della Riforma, valorizzando la ricchezza della Riforma radicale, per esempio, di contro alla compostezza e rigidità, ma anche ambiguità, della Riforma magisteriale.

In conclusione, avendo colto le sfumature che separano i due concetti della “Riforma in Italia” e della “Riforma italiana”, il filtro ottocentesco potrebbe anche aiutarci a comprendere che la

Riforma mancata, lungi dall’essere un qualcosa che è svanito per sempre o, peggio ancora, un qualcosa da realizzare emulando semplicisticamente ciò che storicamente non può ripetersi (non ci sarà mai un Lutero in Italia che affigga 95 tesi né un Calvino redivivus), può al contrario essere un’opportunità e un compito.

Nelle parole di Teodorico Pietrocola Rossetti, oggi incarnate dai tanti rivoli della predicazione evangelica ed evangelistica di qualsiasi denominazione, ma originariamente rivolte al filosofo hegeliano Raffaele Mariano:

«… mi accorgo che voi considerate il Cristianesimo come una riforma dello scibile e della società umana; ma il Vangelo non parla di codesta riforma, sibbene di quel rinnovamento interno dianzi accennato, e dopo ciò, tutto è possibile …».

 

(G.C. Di Gaetano)