La maledizione di Cam
Nelle ultime settimane sono apparsi numerosi pronunciamenti a fronte dell’ennesimo e tragico rigurgito della tematica razziale negli Stati Uniti; questa volta l’eco della morte di Gerge Floyd ha avuto un riverbero mondiale e non ancora accenna ad assopirsi l’onda sonora che si è propagata da Minneapolis. Ci sembra opportuno richiamare a un senso di realismo e di coraggio tutti coloro che parlano di questo triste fenomeno. La famosa e lugbre “malediazione di Cam” è una macchia nella storia delle teologia evangelica e atlantica. Essa poi trova la sua peculiare collocazione in precisi filoni della riflessione teologica dell’ortodossia protestante e attraversa, restando indenne, anche la stagione dei risvegli, infettando tutto. Dobbiamo essere coraggiosi e compiere questa operazione verità. Anche quando ci appelliamo agli esempi di lotta allo schiavismo, non dimentichiamo che spesso queste donne e questi uomini avevano dall’altra parte i propri “fratelli” in fede. Praticamente uno scandalo.
Questi pochi accenni di Alister McGrath nel suo affresco della storia protestante ed evangelica che va dalla Riforma ai giorni nostri sono secondo noi sufficienti a tenere alta la guardia contro letture storiche infondate che rendono ipocriti gli appelli contro il dramma del razzismo (Giacomo Carlo Di Gaetano).
di A.E. McGrath
(tratto da La Riforma protestante e le sue idee sovversive)
Il tema della schiavitù è stato al cuore di uno dei più importanti e difficili dibattiti interni al protestantesimo americano nel XIX secolo. Si rivelò enormemente divisivo, provocò tensioni politiche e portò alcune denominazioni sull’orlo dello scisma. Al cuore del dibattito si pone un fondamentale problema d’interpretazione biblica. La Bibbia legittima va la schiavitù? La maggior parte dei protestanti nell’America dell’anteguerra presumeva di sì. La maledizione pronunciata da Noè su Cam (Gen 9:25) non giustificava forse tale pratica?[1] La Bibbia non condannava la schiavitù; si limitava a regolamentarla. Desta poca sorpresa che Jefferson Davis (1808–1889), presidente degli Stati Confederati d’America, potesse dichiarare che la schiavitù era «sancita nella Bibbia, sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, dalla Genesi fino all’Apocalisse».
Alla fine del XVIII secolo l’abolizionismo aveva guadagnato terreno in Inghilterra, supportato in non piccola misura dalla crescente opposizione protestante a tale pratica. William Wilberforce fu una voce particolarmente significativa e influente nel dibattito[2]. Non era forse vero che tutti gli individui sono stati creati a immagine di Dio? L’idea che qualcuno potesse essere trattato alla stregua di un “oggetto”, nei primi decenni del XIX secolo, risultava sempre più inaccettabile.
Negli Stati Uniti emerse un’importante contrapposizione. Negli anni che seguirono la rivoluzione americana gli Stati del nord fecero dei passi per abolire la schiavitù, mentre numeri sempre maggiori di proprietari di schiavi, come Benjamin Franklin, cambiarono le loro posizioni in proposito. Il secondo grande risveglio, che riaccese il fervore religioso in gran parte della nazione vide una nuova pressione religiosa per l’abolizione. L’Oberlin College, nell’Ohio, fu fondato come istituzione abolizionista. Nel sud gli abolizionisti si separarono dal metodismo canonico per costituire la Free Methodist Church. I cristiani afroamericani erano una voce particolarmente significativa, che sollecitava le chiese a leggere l’Antico Testamento alla luce del Nuovo e ad abolire la schiavitù.
La posizione dominante nel sud, però, era fortemente in favore della schiavitù e si usava la Bibbia per difendere questa posizione su cui ci si era arroccati. Teologicamente le argomentazioni utilizzate dai gruppi favorevoli alla schiavitù costituiscono un’accattivante esemplificazione (e una condanna) di come sia possibile utilizzare la Bibbia per sostenere una certa tesi, leggendo il testo entro una rigida griglia interpretativa che impone al testo delle conclusioni predefinite[3].
La sconfitta della Confederazione nella guerra civile portò inevitabilmente all’abolizione della schiavitù in tutta l’Unione. Continua però inesorabilmente a sussistere una domanda, che incombe cupamente sul protestantesimo. Molti accreditati intellettuali e statisti protestanti del XIX secolo, compreso il rispettato teologo di Princeton Charles B. Hodge, si espressero in favore della schiavitù su basi bibliche, spesso bollando gli abolizionisti come progressisti liberali che non prendevano la Bibbia sul serio. Non potrebbero gli stessi errori essere nuovamente commessi, stavolta su altri temi?[4]
A.E McGrath,
La Riforma protestante e le sue idee sovversive. Una storia dal XVI al XXI secolo
Edizioni GBU, 2017
Alister E. McGrath è professore di Teologia storica presso l’Università di Oxford. È autore di numerosi volumi che
affrontano temi di teologia storica e di apologetica. Molti dei suoi libri sono pubblicati in italiano. Le Edizioni
GBU hanno pubblicato di McGrath Gesù chi è e perché è importante saperlo (1997).
[1] Sull’interpretazione del testo, specie nell’America del XIX secolo, vedi S.R. Haynes, Noah’s Curse: The Biblical Justification of American Slavery, Oxford University Press, Oxford, 2004.
[2] E. Metaxas, Amazing Grace: William Wilberforce and the Heroic Campaign to End Slavery, Harper San Francisco, San Francisco, 2007.
[3] W.M. Swartley, Slavery, Sabbath, War, and Women: Case Issues in Biblical Interpretation, Herald Press, Scottdale, 1983.
[4] Per un’ottima analisi del problema vedi K.W. Giles: “The Biblical Argument for Slavery: Can the Bible Mislead? A Case Study in Hermeneutics”, Evangelical Quarterly 66 (1994), pp. 3–17.