Tre domande a Giancarlo Rinaldi sul Concilio di Nicea

In questi giorni (a partire dal 20 maggio) si celebrano i 1700 dal Concilio di Nicea del 325. Abbiamo pensato di porre tre domande sull’argomento al prof. Giancarlo Rinaldi, uno dei massimi esperti di storia del cristianesimo antico nel mondo evangelico ed autore di diversi testi che sono stati pubblicati dalle edizioni GBU. Tra le tante pubblicazioni per l’occasione ricordiamo Cristianesimi nell’antichità, dove si parla anche di questo argomento.

Che importanza ha avuto per il cristianesimo questo Concilio?
L’importanza o, meglio, un aspetto della sua importanza si può evincere già dall’aggettivo ‘ecumenico’ che caratterizza l’evento. Il senso della parola ora è ben diverso da quello che si percepiva allora, agli inizi del secolo quarto. Per noi oggi ‘ecumenico’ è ciò che riguarda, in modo generico, il dialogo tra le confessioni religiose, specialmente quelle di matrice cristiana, finalizzato a una migliore comprensione reciproca o anche a realizzare esperienze liturgiche in comune. Allora, all’epoca del concilio, ecumenico era epiteto che si attagliava all’imperatore romano: non si trattava di un semplice governatore provinciale o di un modesto re, ma del sovrano di quella che si riteneva fosse l’ecumene intera, cioè tutta la terra. Certo, anche i re di Persia ventavano la stessa prerogativa ma i testi che riguardano l’evento che celebriamo sono occidentali, cioè di quell’impero romano che proprio con Costantino si avviava ad essere ‘bizantino’. Il concilio fu ecumenico proprio perché fu Costantino imperatore a convocarlo e non, come era avvenuto precedentemente con i sinodi da vescovi sia pur competenti di vaste aree geografiche. Non voglio entrare nel gran problema relativo alla sincerità della ‘conversione’ di Costantino: quale storico potrebbe sindacare nei meandri dell’anima umana e, per giunta, dopo tanti e tanti secoli? Sta comunque di fatto che Costantino era allora, e sempre rimase, pontifex maximus, cioè capo di tutte le associazioni religiose dell’Impero romano; in tale veste egli aveva a cuore la pace religiosa ed era una realtà di fatto che dopo le due disposizioni imperiali che concedevano legittimazione al culto cristiano (311 Galerio; 313 Costantino e Licinio) nelle chiese non si contarono più i dissidi e le controversie. Spesso i temi teologici facevano da maschera per rivalità personali o regionali. Il nostro concilio fu convocato e celebrato nel 325 per dirimere la controversia sorta a sèguito della predicazione di Ario, un presbitero di Alessandria d’Egitto che riduceva la consistenza divina della persona di Gesù fino a farne, secondo alcuni suoi seguaci, una semplice creatura sia pur la prima e la più alta. Ario fu condannato a Nicea, ma già nei suoi ultimi anni Costantino, che morì nel 337, si pentì delle deliberazioni di quell’assise e avviò una politica di riavvicinamento con Ario. L’uno e l’altro morirono grosso modo nello stesso torno di tempo, ma l’arianesimo salì al trono con il figlio di Costantino che si chiamava Costanzo II. Toccò poi a un altro concilio ecumenico, quello di Costantinopoli del 381, ritornare sul tema e ribadire la dottrina trinitaria.

Gli evangelici di solito mettono in secondo piano la storia del cristianesimo antico? Perché anche per noi invece è importante un evento come questo?
Dobbiamo distinguere tra gli evangelici italiani e tutti gli altri. In Inghilterra, ad esempio, la chiesa anglicana e metodista hanno studiato a fondo la ‘patristica’ e non si contano i contributi a stampa, sovente pregevolissimi, che costoro hanno prodotto. Lo stesso può dirsi anche dei luterani in Germania. In Italia le cose stanno diversamente e i motivi sono diversi. All’epoca della grande evangelizzazione post unitaria un profluvio di sacerdoti cattolici convertiti alla fede evangelica utilizzò le competenze acquisite negli anni di studio in seminario per dimostrare che non soltanto la Bibbia condannava quel sistema teologico e organizzativo dal quale erano fuggiti: la chiesa di Roma. I loro libri sono ora una rarità editoriale ma chi ha la fortuna di possederli e poterli leggere apprezza una erudizione non comune specialmente nel campo della storia dell’esegesi biblica. Passata questa stagione ‘eroica’ la Chiesa Valdese, che aveva una struttura e un organo formativo più rilevante, perse il suo interesse per la patristica o, per meglio dire, se ne avvalsa sobriamente e quanto bastava prevalentemente per finalità apologetiche. La grande stagione della prevalenza (altri direbbero ‘egemonia’) della teologia barthiana nella Facoltà Valdese o nei pulpiti diede il colpo di grazia all’attenzione sugli studi di patristica e, pertanto, di storia della chiesa antica nella sia pur cospicua e ammirevole attività dei valdesi, e ciò a livello formativo come divulgativo, editoriale come multimediale. L’esempio più eloquente, a mio avviso, di questa perdita d’interesse e dei limiti di un ‘monopolio’ di un indirizzo teologico su tutto il resto è costituito dalla vicenda di Fausto Salvoni, un dottissimo sacerdote cattolico che negli anni del dopoguerra pagò un durissimo prezzo di emarginazione per la sua conversione all’evangelo e il suo allontanamento da quella chiesa di Roma nella quale aveva esercitato un cospicuo magistero. Salvoni avrebbe potuto egregiamente arricchire il panorama degli studi evangelici in Italia con la sua competenza e grande capacità di divulgazione a più livelli, ma così non avvenne e, con la Facoltà di via Cossa, anche l’intero evangelismo italiano perse una risorsa: Salvoni lavorò in modo piuttosto isolato a Milano grazie al sostegno di una Chiesa di Cristo del Texas. Peccato!

Il Credo Niceno è definito talvolta come una grande operazione di mediazione culturale? Vogliamo soffermarci su questo aspetto?
Certamente la definizione è esatta. Il pensiero religioso all’epoca non era distinto da quello politico e, anche, filosofico. Era ancora di là da venire la ‘laicizzazione’ che avrebbe separato la sfera della religione da quella della politica e, ancora, la riflessione della fede e sulla fede dalla ratio del cogitare filosofico. La dottrina di Gesù e su Gesù aveva esordito sulle colline della Galilea in un ambiente profondamente giudaico. Ma già la sua prima registrazione scritta, intendo tutti i ventisette libri del Nuovo Testamento, attesta una sua ‘traduzione’ nella lingua greca. E lingua significa anche universo di pensiero. Il grande storico luterano Adolf von Harnack parlava di ellenizzazione del cristianesimo ravvisando in questo fenomeno quasi un’alterazione del genuino e originale messaggio gesuano. Mi permetto di dissentire dalla severità di questo giudizio: la traduzione di qualsiasi messaggio è azione indispensabile in qualsiasi esperienza di comunicazione. Ogni missionario che non riduca il suo ruolo a quello di un colonizzatore sa bene di cosa parlo. Con l’ascesa della cristianità avviata dalla svolta costantiniana si rese irrinunciabile un lavoro di accomodamento del messaggio di Gesù nelle categorie linguistiche e culturali della cultura allora prevalente: la filosofia greca. Questo fu il lavoro degli apologeti del secolo secondo e, successivamente, dei teologi del quarto; l’impresa s’accrebbe e si approfondì durante quest’ultimo secolo che, ricordiamolo, vide nel 380 quell’editto di Tessalonica che imponeva la fede cristiana (così come professata dai vescovi di Roma e di Alessandria) quale religione dell’Impero. Vinta la battaglia politica, bisognava vincere quella culturale. E la teologia sempre più imparò ad avvalersi del lessico filosofico greco: persona, sostanza, ipostasi, trinità e così via furono concetti che attestano questo gigantesco sforzo di mediazione culturale. La chiesa imparò a parlare con la lingua dei filosofi. Che pensare di oggi, quando questa lingua ai nostri giovani suona obsoleta e incomprensibile? Sarebbe necessaria un’altra impresa di mediazione culturale per salvare l’essenza del cristianesimo (e qui ricorro ancora a un’espressione cara ad Harnack) con vesti linguistiche e concettuali più chiare, aggiornate e adeguate. Ce la faremo? La domanda si traduce immediatamente in un oggetto di preghiera, in considerazione della difficoltà del compito.