Un “Padre Nostro” a misura d’uomo? (1)

Ha fatto scalpore, in questo mese di Novembre 2019, la notizia della volontà di Papa Francesco di modificare la sesta richiesta del Padre Nostro: da “non indurci in tentazione” a “non lasciarci cadere in tentazione” (tra i tanti, si veda queto articolo di Famiglia Cristiana).

Ecco di seguito la lettura che ne danno Pablo e José Martinez
Leggi anche l’opinione di John Stott

Abba Padre. Teologia e psicologia della preghiera,
Edizioni
GBU 1998,
ISBN: 888827006X,
p. 304,
€ 13,43

 

 

 

 

(pp. 296–310)
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SESTA RICHIESTA
“E NON INDURCI IN TENTAZIONE, MA LIBERACI DAL MALE”

Il perdono divino, sollecitato nella richiesta precedente, non basta per risolvere totalmente il problema spirituale causato dal peccato. A che cosa servirebbe che Dio ci per­donasse una, cento, mille volte, se dovessimo sempre ine­vitabilmente soccombere all’impulso delle nostre ten­denze peccaminose? Al perdono di Dio si deve unire la sua protezione affinché non siamo costantemente vittime delle forze del male. A questa necessità risponde la sesta e ultima richiesta, articolata in due parti, che troviamo nel Padre Nostro. Se la precedente ci dà pace dopo le cadute della giornata, quest’ultima ci infonde incoraggiamento per affrontare i rischi morali del nuovo giorno. Ogni cre­dente può dire con Lutero: “Con la quinta richiesta vado a letto, con la sesta mi alzo”. (p. 296)

 

Non indurci in tentazione
Il verbo “tentare”, nell’Antico Testamento (ebraico nasah) e nel Nuovo Testamento (greco peirazo), significa, in generale, mettere alla prova. Questa azione poteva — e può — avere un fine salutare: irrobustire la fede e dimostrare la sua au­tenticità. Fu quello il caso di Abramo, che Dio “tentò” o mise alla prova chiedendogli di offrire suo figlio Isacco in sacrificio (Gen 22). Analogo era il fine delle difficoltà che Israele dovette affrontare nel periodo in cui errò nel de­serto (Dt 8,2) o il problema della convivenza con po­poli pagani in Palestina (Gdc 2,22; 3,1.4). Anche quando mise Giobbe alla prova, l’intenzione di Dio era per il bene.

Lo stesso significato positivo ha la tentazione in alcuni testi del Nuovo Testamento (I Pt 1,6; 4,12), perché l’e­sperienza della prova, in fondo, deve essere motivo di gioia (Gc 1,2.3.12). Mettere alla prova entra nel pro­gramma di Dio. Il suo Figlio unigenito “fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato” (Mt 4,1), e la stessa via devono seguire oggi i figli di Dio in Cristo, poi­ché “un discepolo non è superiore al maestro, né un servo superiore al suo signore” (Mt. 10,24). Come affermava Tertulliano, “nessuno che non sia passato per la tenta­zione può entrare nel regno dei cieli”.1

Questo elemento di prova nell’esperienza cristiana non è dovuto al fatto che Dio si compiace per la sofferenza dei suoi figli. “Non è volentieri che egli umilia e affligge i figli dell’uomo” (Lam 3,33). Ma sa che non ci sono succedanei che permettano di prescindere da quell’elemento, essen­ziale per il rafforzamento spirituale. L’albero si radica tanto più solidamente quanto più forte è il vento che lo sferza. Il nostro organismo fisico accresce la sua capacità immunolo­gica quando soffre l’attacco di virus o di altri agenti pato­geni. Qualcosa di simile succede nella vita spirituale. Come abbiamo già detto, la prova ha effetti vivificanti.

  1. Tertulliano, De baptismo, 20, a cura di B. Luiselli, Torino, Paravia 1968. (p. 297)

 

Su questo Giacomo si esprime con parole molto significative quando, riferendosi all’uomo che sopporta la prova, di­chiara: “Riceverà la corona della vita” (Giac. 1,12). La frase non deve farci pensare unicamente a una bene­dizione escatologica, ma a una vita di pienezza spirituale risultante dalla prova, beneficio che segue immediata­mente al trionfo sulla tentazione.

Anche Paolo era cosciente di questa realtà, e se Gia­como considerava “beato” o fortunato chi subisce e vince la tentazione (Gc 1,12), Paolo vedeva nelle tri­bolazioni — sempre causa di prova — un motivo per gloriarsi (Rom 5,3-5; 2 Cor 12,9.10). Con più ragione di Nietzsche, il credente può dire: “Tutto quello che non mi distrugge mi rafforza”, con la particolarità che nessuna prova è abbastanza forte per distruggerlo (1 Cor 10,13).

Ma la prova porta sempre con sé un rischio, una possi­bilità di fallimento. Adamo non ne uscì vittorioso; e nep­pure Israele, in molte occasioni. È innumerevole il nu­mero dei credenti, prima e dopo Cristo, che sono stati sconfitti dalla tentazione. È dunque ovvio che ogni volta che siamo tentati corriamo il pericolo di soffrire un grave danno morale. Per questo è necessario chiedere: “Non in­durci in tentazione”.

Ma la richiesta porta con sé una difficoltà teologica. È Dio che cí pone in situazioni che minacciano la nostra in­tegrità spirituale? È lui, in ultima istanza, il “tentatore”? Spesso nell’Antico Testamento si attribuisce a Dio la causa di tutto quello che avviene (p.es. Is 45,7; Am 3,6): il fine è quello dí esaltare la sua sovranità. Per quello, probabil­mente, furono redatte delle preghiere in cui si invoca Dio come se fosse lui l’autore dell’incitazione al peccato. Joa­chim Jeremias cita un’antichissima preghiera vespertina ri­tenuta ben nota al tempo di Gesù:

“Non condurre il mio passo in potere del peccato e non portarmi in potere della colpa e non in potere della tentazione, e non in potere dello scandalo.” (p. 298)

 

Subito dopo dà la sua spiegazione esegetica: “Tanto l’accostamento di peccato–colpa–tentazione–scandalo quanto l’espressione ‘portare in potere’ mostrano che la preghiera serale ebraica non pensa ad un’azione personale di Dio, bensì ad una sua volontà permissiva (per usare l’espressione tecnica grammaticale: il causativo ha qui una sfumatura permissiva)”.2 Si può dire la stessa cosa della richiesta del Padre Nostro.

Nel considerare questo problema dobbiamo tener pre­sente l’insieme dei riferimenti biblici. Da lì si deduce che in alcuni casi è Dio stesso che, con fini sommamente profi­cui, dispone qualche tipo di prova per i suoi figli. È il suo Spirito che ci porta al “deserto” della tentazione. Ma non è sempre così. Indipendentemente dalla occasionale inizia­tiva di Dio, la maggior parte delle nostre tentazioni deriva dalla nostra propria concupiscenza (epithymía — Gc 1,13.14), o da incitazione satanica nata dall’impegno di­struttivo del maligno. Queste sono le più pericolose, poi­ché non corrispondono a un proposito positivo, ma al­l’esatto opposto.

In ogni caso, dobbiamo chiedere la protezione del Padre celeste, senza la quale difficilmente potremmo evi­tare la caduta. Non chiederemo di essere liberati dall’espe­rienza — inevitabile — della tentazione, ma di non soc­combere al suo potere. Questa era l’interpretazione data da Origene alla sesta richiesta del Padre Nostro, alla quale aggiungeva questa osservazione: “Chi cade in tentazione vi rimane dentro, perché, secondo me, rimane prigioniero nella sua trappola”.3 La cosa grave è che molte volte chi cade in quel modo si trova bene nella sua situazione. È en­trato nei domini del male e vi si installa. Come si può en­trare nel regno di Dio (Mt 19,23) e si può entrare nella vita (Mt. 19,17), così, coscientemente e deliberatamente, sí

  1. Jeremias, Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, pp. 137-138.
  2. Origene, De oratione, 29, 9, in Migne, Patrologia graeca, volli, pp. 413-562. (p. 299)

 

può entrare nel feudo del diavolo e della morte che sog­giace alla tentazione. Santos Sabugal ha ampliato questo pensiero con grande saggezza: “`Entrare nella tentazione’ è dunque un’espressione del tutto analoga a entrare nel regno… o ‘entrare nella vita’…poiché in tutti e tre i casi in­dica l’entrata all’interno dello spazio metaforico della ‘ten­tazione’ e del ‘regno’ o della ‘vita’. Ebbene, entrare in que­sti ultimi equivale a prendere definitivamente possesso di questa realtà salvifica; ‘entrare nella tentazione’ significa, a rigore, penetrare al suo interno per parteciparvi personal­mente o entrare in comunione con essa appropriandosene e possedendola; in altre parole: insediarsi temporanea­mente o definitivamente nella tentazione o rimanerne vit­tima”.4 Terribile tragedia! È urgente che invochiamo il Padre sollecitando il suo aiuto per liberarcene.

Sono molte le situazioni in cui dobbiamo rivolgerci a Dio con la sesta richiesta del Padre Nostro. Nel Nuovo Te­stamento ci sono indicazioni di un’ora escatologica di par­ticolare tribolazione (Mt 24,21) e tentazione (Ap 3,10). Caratteristiche di questa ora saranno la persecuzione del popolo di Dio e l’apostasia. Non staremo già vivendo ciò che precede quell’epoca drammatica? Mai prima tante e così potenti forze si erano unite contro Dio e il suo regno. Il mondo, soprattutto quello occidentale, diventa sempre più ateo e anticristiano. La fede e la morale cristiana sono oggetto di attacchi rinnovati, frontali o mascherati, o di spregio, calunnia e scherno.

Ma la tentazione non si limita a un momento determi­nato della storia né ad alcune forme concrete di opposi­zione alla testimonianza evangelica. È un’esperienza co­mune a tutti i tempi con una grandissima diversità di ma­nifestazioni. Lutero divideva le tentazioni in due grandi gruppi: quelle che ci vengono da sinistra e quelle che ci attaccano da destra. Il primo “ci spinge all’ira, all’odio, alla durezza, al disgusto, all’impazienza, quando ci troviamo

  1. S. Sabugal, Abba, p. 710. (p. 300)

 

nella malattia, nella povertà, nell’onta e ín tutto ciò che ci ferisce… L’altra prova è quella di destra, che spinge all’impurità, alla libidine, all’orgoglio, all’avarizia e alla vanagloria e a tutto ciò che ci piace, specie se si fanno delle concessioni alla propria volontà, si loda la sua pa¬rola, il suo consiglio e la sua opera, la si onora tenendola in alta considerazione. È la prova più rovinosa…”.5

Tra queste ultime forme di tentazione potremmo anche collocarne alcune in cui perfino i più “santi” possono facilmente cadere: l’orgoglio, l’invidia, l’intolleranza, la mancanza di amore, le smanie di potere e di autorità, l’ipocri¬sia che copre con l’apparenza esterna una grande miseria interiore. Questi peccati possono apparire — e spesso ap¬paiono — nell’ambito della comunità cristiana, nel campo del servizio del Signore. Per questo sono stati chiamati “peccati del santuario”. Chi rimane preso nella loro rete non solo soffre personalmente le conseguenze, ma causa dolore e grave danno intorno a sé.

Più importante tuttavia delle forme di peccato cui può spingerci la tentazione, è la natura stessa di quest’ultima. Equivale sempre a un confronto tremendo. Da un lato, si erge il nostro io, avido di autonomia, di benessere e pia¬cere. Dall’altro, c’è Dio con le richieste morali della sua santa legge, che esigono fiducia e la nostra obbedienza, qualunque ne sia il prezzo.

In quel confronto possiamo arrivare all’audacia, ridi¬cola quanto impertinente, di “tentare Dio”, di pretendere che la sua volontà e la sua azione si sottomettano ai nostri desideri, in generale peccaminosi. Dio cessa di essere sog¬getto per trasformarsi in oggetto di prova malevola. Paz¬zia! Così dovettero riconoscere gli israeliti che in varie occasioni tentarono Dio nel deserto assediandolo con le loro lamentele e le loro richieste capricciose (Es 17,7; Nm 14,22.23; Sal. 78,18.41 e 56; Sal 95,9). Ma questa pretesa fallisce sempre. Non potrebbe essere diversamente.

  1. M. Lutero, Il Padre Nostro…, pp. 72,73. (p. 301)

 

Dío non può cessare di essere Dio. Davanti al Creatore, la creatura può adottare solo una posizione: quella della sot­tomissione. Ma non la sottomissione forzata dí uno schiavo, bensì quella di un figlio che con fiducia e con gioia si mette nelle mani del Padre saggio, giusto e miseri­cordioso.

Allontanare l’uomo da quella sottomissione è la finalità di ogni tentazione satanica. Così apparve evidente nel­l’Eden, e nel deserto della Giudea dove fu portato Gesù. In tutti e due gli esempi si mette in rilievo la sottigliezza della tentazione. Nel primo osserviamo una deformazione della verità che poteva far pensare a un’arbítrio da parte di Dio. Perché doveva riservare esclusivamente per sé, senza condividerla con le sue creature umane, fatte a sua immagine, la conoscenza del bene e del male? Non è per­ché Dio non voleva rivali simili a sé? E non minore fu la sottigliezza nella triplice tentazione di Gesù, anche se i modi di questa furono notevolmente diversi. Il diavolo in­cita il Figlio di Dio a compiere azioni che di per sé erano assolutamente lecite: soddisfare la sua fame col pane, ac­creditare la sua filialità divina con un miracolo spettaco­lare e conquistare il mondo servendosi della via più breve e meno costosa. Ma le tre proposte sataniche erano con­trarie ai piani di Dio.

La verità è che non sempre quel che è lecito è conve­niente (1 Cor 6,12). Le cose buone in sé, come il pane, di­ventano peccaminose se ci portano a non essere leali verso Dio. Questo ancora una volta riporta alla nostra mente la pericolosità di certe benedizioni. Per esempio, la facilità con cui un successo, dovuto alla grazia divina, ci gonfia di vanagloria; lo zelo per la verità ci rende eccessi­vamente intolleranti; l’onorevole posizione di ministri di Dio ci solleva a detestabili livelli di autoritarismo; il pos­sesso della verità inculca in noi la falsa idea che il nostro dogmatismo è fedeltà e che non ci sono interpretazioni valide della verità oltre la nostra (da quel dogmatismo alla pretesa — più o meno inconscia — di infallibilità c’è solo un passo). In tutti questi casi si è caduti in una tentazione  (p. 302)

 

sottile nata proprio nell’ambito dell’esperienza della fede. L’aforisma “la corruzione del meglio è il peggio” esprime una verità tanto evidente quanto triste.

Nessuno è al sicuro dalle tentazioni, né da quelle più evidenti e violente né da quelle più soavi e mascherate. Paolo conosceva molto bene il motivo della sua parola am­monitrice: “Chi pensa di stare in piedi, guardi di non ca­dere” (I Cor. 10,12). Di fronte a un avvertimento così so­lenne, non sarà di troppo fare nostra la supplica del salmi­sta: “Chi conosce i suoi errori? Purificami da quelli che mi sono occulti. Trattieni inoltre il tuo servo dai peccati volon­tari e fa’ che non prendano il sopravvento su di me; allora sarò integro e puro da grandi trasgressioni” (Sal 19,12.13).

Non solo dalla superbia insolente dobbiamo essere preservati, ma da ogni zoppicamento e caduta nel male. Per questo qualche volta dobbiamo chiedere: “Non in­durci in tentazione”.

Questa richiesta però non deve essere ispirata solo dalla gravità del pericolo. Deve nascere dal cuore con ac­centi di fiducia trionfale. A un santo timore si deve unire la certezza che Dio risponderà favorevolmente a chi in­voca il suo aiuto. La sua risposta è garantita dal ministero di intercessione di Cristo, che, davanti alle tentazioni dei suol, prega per loro perché la loro fede non venga a man­care (Lc 22,32; Rom 8,34). L’efficacia della sua interces­sione è assicurata non solo per la suprema autorità che le è stata data nel cielo e sulla terra (Mt 28,18), ma anche per la comprensione e la compassione di colui che fu ten­tato come noi in ogni cosa (Eb 4,15). “Poiché egli stesso ha sofferto la tentazione… può venire in aiuto di quelli che sono tentati” (Eb 2,18).

Il suo aiuto ci giunge attraverso l’azione dello Spirito Santo, suo vicario, al quale Gesù stesso diede il nome di Paracleto (Gv 14,16sg.; 16,13-15), cioè colui che sta a fianco per aiutare guidando, consigliando e rafforzando. Dalla sua azione lo spirito del credente riceve forza (2 Tm 1,7) per riuscire a essere “più che vincitore” in tutte le prove “in virtù di colui che ci ha amati” (Rom 8,37) (p. 303)

 

In questo modo si compie l’incoraggiante promessa fatta co­noscere da Paolo: “Nessuna tentazione vi ha colti, che non sia stata umana; però Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscirne, affinché la possiate soppor­tare” (1 Cor 10,13).

Se dovessimo riassumere quanto esposto, diremmo che la nostra esperienza della tentazione presenta un duplice aspetto, con un contrasto tanto vivo quanto quello offerto dal paragone tra Adamo e Cristo. In Adamo — siamo suoi discendenti — e come Adamo, siamo tentati e ca­diamo. In Cristo, attraverso Cristo e come Cristo siamo tentati e vinceremo. Sempre? Sempre che Cristo ci riem­pia del suo Spirito.

Ma liberaci dal male

Il termine “male” (greco ponerós) può avere due signifi­catí: il male o il diavolo e il malvagio, il maligno. En­trambi compaiono spesso nel Nuovo Testamento. Alcune volte ponerós equivale a male morale, ad azione ingiusta, colpa, delitto. La parola ha questo significato nella do­manda di Pilato: “Che male ha fatto?” (con riferimendo a Gesù) (Mt 27,23). Altre volte il termine è un aggettivo unito a qualche nome. Così leggiamo di uomini malvagi (2 Tm 3,13), di tempi malvagi (Ef 5,16) di un mondo [o se­colo] malvagio (Gal 1,4). Dal punto di vista morale, tutto quello che ci sta intorno è malvagio. Tutto esercita un’in­fluenza dannosa della quale dobbiàmo essere liberati.

Ma nella Bibbia si menziona anche un cuore malvagio (Ebr. 3,12). È per natura il cuore di ogni essere umano. Il male non si trova solo all’esterno; sta anche dentro di noi. Se mi dispongo a parlare di uomini malvagi, devo comin­ciare parlando di quell’uomo malvagio che sono io. È inu­tile che cerchiamo di nascondere o di dissimulare la no­stra vera identità. Juan Ramón Jiménez iniziava una delle sue poesie con questa frase. “Io non sono io…”. È ovvio che le sue parole non devono essere interpretate alla lettera. (p. 304)

 

Quel che segue, di contenuto profondo, fa vedere quanto sia problematica l’anima umana, dolorosamente divisa. Ma sono molte le persone che, nella loro ansia di discolparsi delle loro azioni e inclinazioni cattive, negano di essere quello che realmente sono. Vana chimera! Io sono io con tutto il mio carico di umanità caduta, con le mie passioni e debolezze, con il mio egoismo e il mio or­goglio, le mie arrabbiature e i miei risentimenti, con la mia tendenza a ciò che è terreno e non a ciò che è celeste. La verità è che Dio ha messo in me una natura nuova, un nuovo io; ma sopravvive il vecchio io, causa di gran parte dei miei mali. Per questo devo pregare: “Da questo io, che aborrisco, liberami, Signore”.

Esaminiamo ora la seconda parte della richiesta, tradu­cendo ponerós con “il maligno”, cioè Satana. Questa era la traduzione preferita dai padri orientali della chiesa a partire da Origene.

Fu il diavolo che tentò Gesù, che chiese potere per va­gliare gli apostoli come grano (Lc 22,31), che spinse Giuda al tradimento (Lc 22,3) e che indusse Anania e Saffira a mentire (At 5,3), è il diavolo che cerca di se­durre il credente per portarlo fuori strada (2 Cor 11,3), che “va attorno come un leone ruggente cercando chi possa divorare” (1 Pt 5,8). Egli è il grande avversario, causa di innumerevoli tentazioni.

Quando calpestiamo il terreno della demonologia dob­biamo essere prudenti. Non possiamo ravvivare le fantasie medioevali con le loro stravaganti immagini del diavolo. Non è neppure sensato vedere demoni da tutte le parti e attribuire all’intervento di Satana fatti (per esempio ma­lattie) che hanno cause puramente naturali. La puerilità e l’esagerazione favoriscono lo scetticismo di coloro che tacciano di ridicolo qualsiasi idea di un diavolo reale.

D’altra parte sarebbe un errore interpretare tutti i testi biblici che si riferiscono al diavolo e ai suoi accoliti come pura mitologia. Anche prescindendo dall’interpretazione letterale che, in buona esegesi, deve essere data a molti racconti biblici, particolarmente a quelli riguardanti esorcismi (p. 305)

 

sembrano innegabili molti fenomeni difficili da spiegare se si respinge totalmente l’esistenza dí poteri spi­rituali invisibili che intervengono nella vita degli umani. Il successo di diverse forme di occultismo nei paesi occiden­tali, con adepti di tutte le classi sociali e culturali, non può essere etichettato come “snobismo”. Il fatto che non solo l’occultismo, ma anche il satanismo, con i suol riti e i suoi orripilanti sacrifici (alcuni con vittime umane) si diffondano in modo incredibile in paesi civili, fa pensare che tali fenomeni siano causati da radici profonde che pe­netrano in terreni misteriosi al di là della persona stessa e del gruppo sociale al quale appartiene.

Il mistero è chiarito dalla Sacra Scrittura e il sommario di quello che essa insegna ce lo offre Paolo quando scrive: “Il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, avversari umani, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luo­ghi celesti” (Ef 6,12), sottomessi al “principe della po­tenza dell’aria, di quello spirito che opera oggi negli uo­mini ribelli” (Ef 2,2), “il principe di questo mondo” (Gv 16,11).

Nessuno dovrebbe ignorare sprezzantemente la rivela­zione biblica. Mai come nel nostro secolo l’umanità è ap­parsa con tratti demoniaci così sorprendenti. L’ingiustizia, la brutalità e la violenza sono giunti a tali estremi che è difficile vedervi solo l’orribile capacità dell’uomo per il male. In certi momenti sembrano sovrumane le forze che lottano per la distruzione umana, sia nell’ambito fisico sia in quello morale. L’unica spiegazione plausibile, malgrado le negazioni e le beffe degli scettici, è che dietro a tutti í mali che tormentano il mondo ci sia “il maligno”.

L’influenza di un avversario così sinistro non colpisce solo il mondo, separato da Dio. Arriva anche al popolo di Dio. Si manifesta nell’esperienza di ogni cristiano. L’es­sere figli di Dio non impedisce al diavolo di assediarci. Ri­cordiamo le parole di Gesù raccolte da Luca (Lc 22,31). I suoi discepoli possono essere violentemente vagliati dal maligno.  (p. 306)

 

Come Lutero ci ha insegnato a cantare, Satana “armato di furor e inique frodi, mai cessa di tramar”.

La furia di Satana appare evidente nella persecuzione, nelle grandi perdite, in tribolazioni dure, ín malattie dolo­rose, nella morte di persone molto amate, nell’angoscia dell’abbandono o della solitudine. Di fronte all’assalto di queste afflizioni, quanto bisogno abbiamo di gridare a Dio perché la nostra fede non venga meno! Ma la fede, rafforzata nella prova, resiste vittoriosamente alle mag­giori avversità. Helmut Sauter, nel suo commento illu­strato del Padre Nostro, riferisce l’esperienza di un gio­vane rabbino che fuggiva su un canotto, con la moglie e il figlioletto, dall’inquisizione spagnola. Nella traversata morirono il bambino e sua madre. Alzando le mani al cielo, l’ebreo si rivolge a Dio con una preghiera patetica: “Dio d’Israele, sono qui, fuggendo per poterti servire senza essere molestato, per obbedire ai tuoi comanda­menti e santificare il tuo nome. Ma tu hai fatto tutto per­ché io non creda in te. Se pensi di ottenere di allonta­narmi dalla tua via, ti dico, Dio e Padre mio, che non ci riuscirai. Puoi uccidermi, togliermi quanto ho di meglio e di più caro al mondo. Puoi tormentarmi fino alla morte, ma io crederò sempre in te, ti amerò [anche tuo mal­grado!]”.6 Possiamo criticare la teologia di quest’uomo, ma dobbiamo ammirare la vittoria della sua fede in una esperienza di tentazione in cui probabilmente molti di noi sarebbero naufragati.

Ma non sempre il diavolo attacca con la ferocia del leone. A volte lo fa come lupo travestito da pecora o come astuto serpente che sa adattarsi a tutti i terreni, a tutte le situazioni, usando in ciascun caso la tattica più conve­niente. La mente demoniaca sa combinare magistralmente tutti i fattori e tutte le circostanze che nella vita di una persona concorrono a farne la sua presa. Un dispiacere, un disinganno, un’esperienza molto frustrante, un’ora dí

  1. H. Sauter, Vater Unser, Innsbruck—Wien, Tyrolia Verlag p. 77. (p. 307)

 

scoraggiamento, di solitudine o depressione, un momento di perplessità davanti ai problemi teologici posti dalla sof­ferenza con l’apparente assenza di Dio, il fatto che i mal­vagi prosperino e che molti credenti siano penalizzati, sono tutti materiali eccellenti di cui il diavolo si serve per aumentare la carica esplosiva al momento dell’attacco. Giunto il momento opportuno, sussurra all’orecchio del­l’anima: “Vivi la tua vita; non essere ingenuo. Hai il di­ritto di goderne con tutto quello che essa ti offre e ti da­rebbe se tu non fossi accecato dai tuoi pregiudizi morali e religiosi, per i tuoi puerili ideali romantici sulla giustizia, l’amore, la lealtà, la coscienza… È ora che tu smetta di re­primerti. Hai perso gli anni migliori della tua vita; ma ne rimane ancora molta davanti a te. Deciditi prima che sia troppo tardi”. Chi non ha sentito qualche volta questa voce? Voce soave, con accenti di logica, ma è la voce del “padre della menzogna”, di quello che è “omicida fin dal principio” (Giov. 8,44). Quanto è importante che in quei momenti di maggior vulnerabilità, seguendo l’ammoni­mento del Maestro, vegliamo e preghiamo per non cadere in tentazione (Mt 26,41)!

Probabilmente il grande Nemico conosce i suoi limiti. Nel libro di Giobbe ci vengono mostrati i limiti ai quali si vede sottoposto dalla sovranità di Dio. Ma, se non può farci affondare, farà tutto il possibile per annullarci spiri­tualmente. Può rassegnarsi all’idea che continuiamo a es­sere cristiani, ma cercherà con tutti i mezzi di fare di noi dei credenti tiepidi, letargici, dominati dall’autocompiaci­mento, quando non da uno spirito genuinamente fari­saico, lontani da qualsiasi atteggiamento serio di impegno al servizio di Cristo; se possibile inattivi, ma in ogni caso privi di intensità spirituale.

Il “maligno” è terribilmente sagace quanto instanca­bile. Certamente è temibile. Anche nel suo famoso inno della Riforma, Lutero fa riferimento al potere demoniaco e dichiara: “Nessun quaggiù lo può domar”. Ma questa realtà, oscura e scoraggiante, non dovrebbe oscurarne un’altra, superiore, splendida. Se il diavolo è potente, Dio, nostro Padre, è onnipotente.  (p. 308)

 

È Signore sovrano nei cieli e sulla terra. Inoltre, Dio ha fatto irruzione nella sto­ria. Incarnato in Cristo, venne al mondo “per distruggere le opere del diavolo” (I Giov. 3,8). Satana è il “forte”, ma Cristo è “il più forte” che lo vince e lo spoglia (Mt. 12,24-29). Qualcosa di questa sconfitta si intravede nella visione descritta da Gesù ai suoi discepoli. “Io vedevo Sa­tana cadere dal cielo come folgore” (Lc 10,18). Ma il trionfo di Gesù si sarebbe consumato gloriosamente nella sua morte e nella sua risurrezione. La croce, che sembrava il trionfo definitivo di Satana, fu l’arma che ferì grave­mente il suo capo, come simbolicamente era stato antici­pato poco dopo la caduta di Adamo (Gen 3,15). La glo­ria di questa vittoria su Satana sarebbe stata accresciuta la domenica di Pasqua quando Cristo risorse vincitore della morte. Questo è l’ultimo grande nemico (1 Cor 15,26) che dipende dal potere del diavolo (Eb 2,14), ma è un nemico sconfitto come lo stesso diavolo. Per questo, quando nel Padre Nostro chiediamo “liberaci dal mali­gno”, noi invochiamo un beneficio garantito dalla grande vittoria di Gesù. Di conseguenza la nostra richiesta deve essere impregnata di fiducia. Il vecchio “serpente” seb­bene irrimediabilmente ferito al capo, continuerà a pic­chiare i santi del Signore con i suoi colpi dí coda; ma il suo potere e il tempo della sua azione sono limitati. Si av­vicina il giorno ín cui si compirà la promessa apostolica: “Il Dio della pace stritolerà presto Satana sotto í vostri piedi” (Rom 16,20).

Nel frattempo, dovremo lottare per non essere sconfitti da lui. Dovremo “vegliare e pregare” per non cadere in tentazione. Spesso il segreto della vittoria sarà la fuga dalle situazioni propizie alla sconfitta (1 Tm 6,11 e con­testo). E sempre pericolosa la presunzione di chi si ritiene al sicuro da qualsiasi caduta. Anche il più santo può ca­dere (1 Cor 10,12). Ma una fede umile, che si nutre delle promesse di Dio e che è radicata nei trionfi della croce e nella risurrezione di Cristo, può vincere il maligno e i suoi alleati (I Gv 2,14b; 5,4). (p. 309)

 

Con questa fede il credente, quando prega: “Liberaci dal male” (o dal maligno), può aggiungere, con speranza e con gioia: “Ci libererai!”. (p. 310)

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