Tre domande a Giancarlo Rinaldi: la Riforma protestante e i Padri della chiesa

  1. Prof. Rinaldi, quest’anno ricorre il 500° anniversario della Riforma protestante; dal suo punto di vista di studioso del cristianesimo antico, ci può dire quale è stato il rapporto della Riforma, e dei Riformatori, con la patristica?

 

Per rendersi conto della presenza presso i riformatori dell’eredità della patristica basterebbe pensare alle radici agostiniane della riscoperta della grazia da parte di Lutero; si valutino pure le numerose citazioni di testi della letteratura cristiana antica nelle opere dei riformatori. Quante volte, nel corso della controversia con i cattolici, oltre a pagine della Bibbia veniva invocato l’argumentum patristicum cioè il parere esegetico di quegli antichi cristiani atto a dirimere la vertenza. Anche un riformatore di generazioni successive come John Wesley era innamorato della letteratura patristica nella quale ravvisava una rielaborazione rispettosa della tradizione neotestamentaria. Tutto ciò fino all’età di Costantino nel corso della quale, a motivo di un mutato rapporto tra le comunità e il potere, si avviò un processo di secolarizzazione che segnò, nella realtà dei fatti, un voltare alle spalle non solo all’insegnamento evangelico, ma anche a quello dei maestri cristiani dei primi tre secoli.

 

2. Ritiene che ci sia ancora spazio per la lezione che proviene dallo studio dei Padri della chiesa, nel mondo di oggi, sia per i cristiani, sia per chi cristiano non si professa?

Decisamente sì. Quanto ai cristiani che basano la propria fede sulle Scritture va ricordato che queste ci sono pervenute grazie all’opera di studio, trascrizione, conservazione di scrittori di età patristica. Senza questi anelli intermedi non avremmo tra le nostre mani la Bibbia così come oggi possiamo apprezzarla. Si pensi anche alla maniera d’intendere le Scritture. L’esegesi biblica è l’anima dell’antica letteratura cristiana. Il nostro modo d’intendere la Bibbia, letteralista allegorista tipologico che sia, deriva, con le opportune modificazioni, dal lavoro degli antichi. Possiamo dire che senza memoria del passato non avremmo piena consapevolezza del presente e neanche una chiara prospettiva per quanto riguarda il futuro.

Un pensiero sull’ecumenismo: direi che la forma più corretta di ecumenismo per un cristiano evangelico sia il ritorno alle radici ‘patristiche’, cioè lo studio e la valorizzazione dei testi degli antichi cristiani. Nella marcia in questa direzione può trovarsi il profumo dell’unità, piuttosto che in celebrazioni verticistiche e ingessate.

Anche per chi prescinde completamente da una scelta di fede lo studio del mondo degli antichi cristiani e della loro produzione letteraria è indispensabile affinché una Cultura possa pienamente definirsi tale. La storia romana non è altro, nella sua fase d’età imperiale, che la vicenda della conversione della cultura antica dalla paideia classica a quella cristiana. Ci piaccia o meno, è un dato di fatto che la storia dell’esegesi del libro di Daniele è alla basa della riflessione su fede e potere politico (poi diremo: su chiesa e impero) dall’età dei Maccabei (II sec. aC) fino all’alto medioevo.

Non è neanche il caso di parlare di arti figurative. Queste, per lunghissimo tratto, dall’età severiana al Rinascimento si nutrono di motivi tratti non solo dal Nuovo Testamento ma anche dalla letteratura agiografica e dalla memoria storiografica degli antichi cristiani. La teologia degli antichi cristiani è affidata al simbolismo dell’arte, tanto pittorica quanto nelle sculture del sarcofago antico.

Noi protestanti italiani abbiamo una congenita diffidenza nei riguardi della patristica che facciamo coincidere, sbagliando e di molto, con l’insegnamento tradizionale della Chiesa Cattolico Romana. Così, per reazione al cattolicesimo, ci manteniamo lontani dallo studio di quella meravigliosa primavera cristiana e dai suoi frutti succosi. Nei primi decenni dell’evangelizzazione dell’Italia dopo l’Unità vi furono numerosi convertiti dalle fila del cattolicesimo, ex sacerdoti o ex monaci, che avevano una profonda conoscenza della letteratura patristica e della storia del cristianesimo antico. La utilizzavano, con dovizia di citazioni testuali, proprio per dimostrare la fondatezza della loro esperienza e delle loro scelte esegetiche. Tutto ciò poi gradualmente si perse e, tranne rarissime eccezioni, si sviluppò la persuasione del tutto errata di potersi collegare direttamente alla Bibbia ignorando quei secoli che da questa ci separano: la luciferina tentazione dell’uomo di chiamarsi fuori dalla propria storia e di credersi un assoluto giudicante. Oggi in Italia nella formazione del corpo pastorale (tanto in chiese ‘storiche’ quanto ‘evangeliche’), la riflessione sui secoli che si frappongono tra la stesura del Nuovo Testamento e la Riforma è assente oppure affidata alla buona volontà di chi vuol provvedervi da solo. Eppure la nostra esegesi moderna non nasce dal niente ma, naturalmente, s’innesta in quella del passato, anche quando non ne siamo consapevoli; e lo stesso dicasi delle grandi questioni teologiche.

Altra osservazione: spesso nelle comunità crediamo di dover affrontare problemi peculiari solo dei nostri giorni. Sbagliato! La quasi totalità delle controversie, dei problemi, delle situazioni che dobbiamo affrontare sono solo la riproposizione di situazioni e dottrine antiche. Una conoscenza della storia del cristianesimo dei primi secoli ci aiuterebbe a inquadrare più serenamente questi elementi di turbamento e di far tesoro della lezione offertaci dagli antichi che dovettero porre rimedi.

 

  1. Come riassumerebbe, da storico e da credente, la stagione della patristica?

Bisognerebbe distinguere stagioni diverse nella produzione letteraria degli antichi cristiani. In ogni caso la ‘patristica’ (che comunque è vocabolo che ha un sapore piuttosto confessionale) viene solitamente a comprendere tutto quanto scritto nei primi otto secoli.

Noi oggi preferiamo parlare di letteratura cristiana antica piuttosto che di patristica poiché quest’ultimo termine sembra implicare una scelta di tipo confessionale che ha distinto alcuni testi in autorevoli in quanto ortodossi e altri deprecabili in quanto eretici. Ora nella storia delle chiese antiche il processo di separazione dell’eresia dall’ortodossia fu il frutto di una riflessione lunga, elaborata e sofferta. Si pensi a importantissimi autori che non sono entrato nel novero di quelli che noi potremmo definire “padri” della chiesa. Autori di altissimo profilo come Origene, tra i greci, e Tertulliano, tra i latini.

Sarebbe possibile anche introdurre una distinzione diacronica, cioè attenta allo sviluppo attraverso gli anni tanto del pensiero cristiano quanto della vita concreta delle comunità. Così scopriamo che la letteratura cristiana precostantiniana (i primi tre secoli) ha un suo carattere, prevalentemente apologetico e di chiarificazione di alcuni temi dottrinali, mentre quella postcostantiniana è prevalentemente interessata alla riflessione sui grandi temi teologici dibattuti ai concili (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia, etc.). Molto diverso, inoltre, è l’atteggiamento verso il potere: lealista ma eroico nella prima età, cortigiano e intollerante nella seconda. Nella letteratura cristiana antica della chiesa secolarizzata postcostantiniana è l’esperienza monastica che richiama alla purezza dei costumi e orienta verso la perfezione cristiana.

Farei osservare che nella letteratura cristiana dei primi secoli non troviamo manuali di teologia sistematica bensì un’infinità di testi di esegesi biblica, come commentari continuativi, omelie, domande e risposte, e così via. Proprio così: per gli antichi cristiani la teologia coincideva con l’esegesi biblica! E questo è un primo grande insegnamento che dovremmo fare proprio.

Mi consentirete un ricordo personale. Nei primi tempi dopo la mia conversione alla fede cristiana evangelica, quando mi trovavo ad affrontare questioni esegetiche che il solo ricorso alla Scrittura non sembrava dirimere adeguatamente, ricorrevo spesso alla consultazione dei testi patristici e, con mia meraviglia, rilevavo come le posizioni di quegli antichi cristiani convalidassero non gli insegnamenti della Chiesa di Roma bensì quelli che avevo fatto propri a sèguito della mia conversione.

 

Giancarlo Rinaldi ha insegnato Storia del Cristianesimo presso l’Università degli Studi di Napoli
L’Orientale. Si è interessato in particolare al rapporto tra cristianesimo e paganesimo con particolare
attenzione alla percezione del secondo nei confronti della diffusione della fede cristiana.

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