Credere in Dio è come credere in Babbo Natale?

Credere in Dio è come credere in Babbo natale?
(G.C. Di Gaetano)

La domanda è quasi d’obbligo in clima natalizio. Ma è anche un classico, dopo la stagione del nuovo ateismo (Hitchens & Co, non dimenticando l’italiano Odifreddi). In quegli anni, infatti, un filosofo dallo spessore indiscutibile come Maurizio Ferraris scriveva un gustoso libretto dal titolo Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede, Bompiani, Milano, 2006.
L’argomentazione e la mossa concettuale non sono nuove e per esse si possono scomodare precedenti sicuramente più blasonati (Kant, Hume, etc.) anche se questi non pensavano a Babbo Natale. Il problema concerne la corrispondenza reale delle credenze, in questo caso della credenza teistica: Dio esiste? Di fatto, questa è l’insinuazione, visto che non riusciamo a dimostrare la realtà di un essere supremo che chiamiamo Dio, allora una delle spiegazioni della credenza che intratteniamo su di un tale essere sta nel paragonarla a quella in Babbo Natale, della cui non esistenza siamo tutti convinti. Anzi, visto che quest’ultima credenza è legata alle fasi fanciullesche dello sviluppo di un normale bambino “cristiano”, per estensione, è probabile che la credenza nell’esistenza di Dio sia il sintomo di una condizione non adulta dell’umanità.
Anche in questo caso, se volessimo versioni più raffinate di questa spiegazione eziologica della fede in Dio potremmo scomodare i famosi maestri del sospetto (come li definì Paul Ricoeur), Marx, Fuerbach e Freud i quali, ognuno per suo conto, provarono a spiegare la ragione ultima di questa credenza (Dio esiste).

Eppure, dopo tanti sforzi, magari sollecitati dal confronto natalizio con chi ci crede in Babbo Natale (i bambini), se per caso, in questo clima natalizio ci sentiamo rimandati all’altra credenza, quella nell’esistenza di Dio, allora ci toccherà ammettere e riconoscere che essa è ancora ben presente in buona parte dell’umanità. Peter Berger, dopo aver ragionato a lungo sulla secolarizzazione intesa come rimozione o scomparsa del riferimento a Dio nella società postmoderna, ha dovuto ricredersi e, verso la fine della sua vita, ha dovuto parlare di de–secolarizzazione del mondo per spiegare il fatto che le credenze religiose, tra cui quelle teistiche, lungi dall’essere scomparse hanno dato vita a nuovi fenomeni sociali.


Tornando alla nostra ipotesi di partenza (credere in Dio è come credere in Babbo Natale?) dobbiamo segnalare la controdeduzione di coloro che vogliono ribadire la differenza (ontologica?) dei due oggetti di fede (Dio e Babbo Natale): non possiamo sradicare dalla condizione umana una simile credenza (in Dio). La tradizione apologetica cristiana lo aveva detto e vede confermato questo dato. La credenza teistica non è né insensata né irrazionale. Si direbbe che è una credenza di fondo, che appartiene a quel grappolo di credenze che per essere professate, e condivise, non necessitano del ricorse a evidenze. Ne abbiamo tante, solo se ci pensiamo e se ci atteniamo a un ragionevole criterio di “evidenza”.

Viviamo poi tempi in cui questa credenza è stata caricata di valenze che esulano dallo stretto campo d’indagine filosofica e teologica; ci sono infatti pesanti tare sociologiche che arricchiscono il bouquet di ciò che si può credere, credendo nell’esistenza di Dio: dall’armamentario sacrale della spiritualità cattolica (dal presepe al rosario), fino alla rarefatta atmosfera dei “valori cristiani” che contrapponiamo a tutte le forme di presunte invasioni culturali.

Tuttavia resta il tema da cui siamo partiti, quello della referenza reale dell’oggetto di fede: in che cosa crede chi dice di credere?

Due risposte, che sono altrettante domande.

La prima risposta si interroga su quale sia il concetto di “realtà” con il quale stiamo operando? Si deve soprattutto al filosofo Ludwig Wittgenstein l’espressione di una simile cautela. Il concetto di realtà a cui ci hanno abituato le scienze esatte può riassumere e definire in sé tutta la realtà di cui possiamo parlare? Certo, sappiamo che non troveremo mai un indirizzo corrispondente a una località geografica a cui inviare una lettera a Santa Klaus, e dunque sappiamo che i regali sotto l’albero non li mette un signore in barba bianca e cappello rosso.

Ma, e questa è la prima risposta, che altro non è se non una contro–domanda: dobbiamo per froza ragionare intorno all’esistenza di Dio negli stessi termini in cui parliamo di una realtà definita e circoscritta dal naturalismo filosofico? Attenzione, il naturalismo filosofico è cosa ben diversa dal naturalismo metodologico, quell’approccio al sapere che si confà alle nostre capacità cognitive, magari anche ricorrendo all’ipotesi di metodo secondo la quale Dio possa non esistere, mentre mettiamo l’occhio al microscopio per scrutare il microcosmo (a tal fine si consiglia la lettura di Nicola Berretta, Fede relazionale, Edizioni GBU, 2019).
Ma, ancora, è questa l’unica accezione di realtà alla quale siamo confinati?

L’altra risposta, pur prendendo in carico l’accezione naturalistica della realtà e di ciò che è reale (all’interno delle coordinate dello spazio e del tempo), contro–domanda se ci sia preclusa qualsiasi possibilità di argomentare intorno all’esistenza di Dio. Sebbene sappiamo che non potremo mai giungere a una conclusione condivisa, in quanto, come diceva Alvin Plantinga, siamo in possesso di buoni argomenti che dimostrano l’esistenza di Dio ma anche di buoni argomenti che ne dimostrano la non esistenza (a-teologia), ciò non depone a favore dell’assimilazione di Dio allo status di  Babbo Natale.

Al di là dei tentativi ontologici, cosmologici, evidenzialisti, probabilistici (non dimostro l’esistenza di Dio ma giungo alla conclusione che la sua esistenza sia più probabile della sua non esistenza), cumulativi (le evidenze a favore sono cumulativamente più grandi di quelle a sfavore), questa riflessione vorrebbe suggerire che una via per ragionare intorno all’esistenza di Dio ci viene proprio con l’arrivo di  Babbo Natale.

Siamo a Natale, e il Natale cristiano intende ricordare la nascita di un uomo la cui realtà nessuno discute (a parte data e circostanze); l’affermano gli Ebrei, l’ammettono i Musulmani, vedendovi qualcosa di più di un semplice individuo; la confessano i cristiani che la identificano come la manifestazione di Dio in carne.

Ebbene credo che la via della memoria storica sia l’unica vera via che ci è lasciata per affermare l’esistenza di Dio. Ciò che inizia a Natale è un’esperienza storica che si chiude la domanica di Pasqua. E questa esperienza è documentata; esistono fonti e documenti. Gesù di Nazareth è esistito e nel leggere quelle fonti non possiamo ignorare il riferimento interno che fanno alla dimensione ulteriore dell’esistenza dell’uomo Gesù: la risurrezione, le testimonianze alla risurrezione sono ciò che differenzia il contenuto della credenza nell’esistenza di Dio dal contenuto di qualsiasi altra entità di ogni ordine e  grado di realtà. Paolo lo aveva intuito e lo afferma nella sua Lettera ai Corinzi.

Certo, postilla conclusiva, non disponiamo del resoconto di una tropue della CNN dall’interno del sepolcro, o, per restare a natale, della comparsa dei cori angelici nella notte di Betlemme né tanto meno della stella che conduce i sapienti di Oriente; ma siamo sicuri, in clima di negazionismo e di postverità, che anche un simile documento sarebbe stato necessario a fugare i dubbi dei complottisti?

È vero, la realtà storica della vita di Gesù come manifestazione della vita divina (1 Gv 1) non è una realtà storica “positiva” nel senso di un realismo naturalistico che influenza anche le scienze dello spirito di cui fa parte la storia. Il fervore apologetico non riuscità a replicare né Natale né Pasqua. Tant’è vero che ai credenti è promessa non la replica in laboratorio ma una nuova fase della storia (mi rivedrete tornare come mi vedete partire – Atti 1).

Tuttavia l’indagine è possibile ed è possibile anche arrivare a qualche conclusione. La storia di Gesù, quella che si tornerà a raccontare in questi giorni, grazie anche a Babbo Natale, è l’unica cosa che ci resta per tornare a punzecchiare i nostri contemporanei, ricordando loro di aguzzare la vista e guardare meglio in ciò che si appresta a manifestarsi nella stalla di Betlemme.
Vogliamo discutere di esistenza di Dio: seguiamo la stella … e vediamo dove ci porta.

Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere. (Gv 1:18)

Torniamo alle fonti

Torniamo alle fonti

Se gli esperti hanno opinioni diverse su quali delle fonti siano più accurate, come possiamo fidarci delle nostre traduzioni della Bibbia?
Che cosa intendiamo quando oggi parliamo di Nuovo Testamento? Per i cristiani il concetto ha un significato che va oltre la particolare traduzione che hanno nelle loro mani, e si riferisce ai 27 libri o lettere scritti da una serie di autori diversi circa due millenni or sono. Dato che ci sono diverse differenze tra i documenti antichi e gli studiosi hanno prospettive diverse è legittima la domanda di come facciamo a sapere che il nostro Nuovo Testamento sia il Nuovo Testamento.

Che cos’è un manoscritto?
Il termine manoscritto fa riferimento a qualcosa che è stato scritto a mano. Tecnicamente ogni qualvolta scrivete a mano una parte della Bibbia state creando un altro manoscritto. Tuttavia, quando parliamo dei manoscritti del Nuovo Testamento stiamo di solito parlando di copie che furono vergate prima dell’invenzione della stampa o immediatamente dopo e che sono state copiate a partire da altre copie scritte esse stesse a mano.

Qual è la loro forma?
I manoscritti possono essere scritti su papiro, su pelli di animali o su carta. In genere i manoscritti papiracei non sono successivi al settimo secolo mentre quelli su carta non provengono da un’epoca precedente al decimo secolo. Molti manoscritti del Nuovo Testamento sono in forma di codice il che significa che sono costituiti di pagine cucite da un lato (come un libro). La forma più comune aveva cuciti insieme quattro fogli di papiro o di pelle per produrre un insieme di otto pagine, noto anche col nome di mazzetta. Le mazzette erano poi legate fra di loro da un lato per avere un codice costituito da più mazzette. Ci sono però alcuni manoscritti costituiti da un singolo foglio.

Quanti manoscritti ci sono?
Il numero dei manoscritti del Nuovo Testamento e difficile da determinare. Le pagine possono essere suddivise così che da un manoscritto se ne ottengono diversi, oppure i manoscritti possono essere distrutti o possono perdersi pur restando nella lista. C’è poi un dibattito se gli scritti riportati su pezzi di vasellame (ostraca), su mosaici o palazzi debbano essere considerati come fonti di evidenza accanto ai manoscritti. Anche se si giungesse a concordare sul numero dei manoscritti bisogna aggiungere che essi non sono tutti uguali in quanto alcuni sono manoscritti dell’intero Nuovo Testamento altri riportano piccoli frammenti. Un numero molto alto è costituito da lezionari che contenevano passaggi usati per il servizio della chiesa
A seconda del modo in cui si definisce un “manoscritto” possiamo dire che ci sono più o meno 5000 esemplari del Nuovo Testamento in greco ma questi non coprono uniformemente tutto il Nuovo Testamento. Abbiamo allora che se i manoscritti di Apocalisse sono stati contati in circa 300, si pensa che ce ne siano più di 1600 del capitolo 18 Giovanni. Ancora, un manoscritto potrebbe consistere solo di poche lettere pervenuteci o di centinaia di pagine complete. Il conto dei manoscritti deve tener conto di queste distinzioni.
La lista accademica ufficiale dei manoscritti greci del Nuovo Testamento è chiamata Kurzgefasste Liste (lista concisa) e la si può trovare a questo link (http://ntvmr.uni-muenster.de/liste). La lista è mantenuta dall’Institut für Neutestamentliche Textforschung di Münster, che è considerato il principale Centro di ricerca per le informazioni sui manoscritti del Nuovo Testamento.

 Il Centro di ricerca di Tyndale ha una particolare prospettiva nei confronti del testo del Nuovo Testamento?
Come Istituto di ricerca evangelico non crediamo che la Bibbia appartenga esclusivamente ai cristiani. Per questo incoraggiamo tutti a leggere il NT e a tutti coloro che possono a fare ricerca sul suo testo. Come istituzione di ricerca abbiamo prodotto la nostra propria edizione del Nuovo Testamento nella sua lingua originale del greco koine, poiché abbiamo ritenuto di essere all’altezza di offrire un miglioramento nell’accuratezza rispetto alle edizioni precedenti (https://academic.tyndalehouse.com/thgnt). Tuttavia, riteniamo questa edizione, fondata sulle prove disponibili, una versione provvisoria. I curatori credono che il proprio compito sia come quello di un antico copista, vale a dire tramandare semplicemente e il più accuratamente possibile ciò che hanno ricevuto.

 Che cosa c’è ancora da studiare sui manoscritti?
Lo studio del comportamento degli scribi è ancora ai suoi esordi. Per molti importanti manoscritti ancora non sappiamo quanti scribi fossero coinvolti nel copiarli. In ogni epoca e per ogni manoscritto e tipo di manoscritto abbiamo bisogno di documentare il genere di errori di copiatura che venivano commesso. Spesso gli studiosi hanno lavorato solo con idee generali concernenti il tipo di errori. Queste idee generali devono essere sostituite da un sapere più accurato e preciso.

Possiamo fidarci del testo del Nuovo Testamento?
Se facciamo il paragone con altre opere letterarie dell’antichità possiamo dire che il Nuovo Testamento ha un corpo di manoscritti di supporto (o “attestazioni”) veramente enorme e ricco. Anche l’ultimo ben documentato libro del NT l’Apocalisse ha un livello di attestazione che per ogni altra opera proveniente dal periodo antico (all’incirca dall’VIII secolo a.C al V d.C) sarebbe considerato abbondante. I manoscritti greci che si sono pervenuti provengono da un ampio spettro di nazioni, condizioni storiche e giurisdizioni, inoltre la continua citazione del Nuovo Testamento il suo uso nella liturgia e la varietà di linguaggi in cui è stato tradotto significa che può essere esclusa la possibilità che dei libri fossero cambiati sostanzialmente dopo la loro composizione.

Gli studiosi di ogni orientamento hanno una sufficiente fiducia nella stesura del Nuovo Testamento tanto da compiere studi dettagliati sugli stili individuali e sul vocabolario dei suoi autori. È dunque importante per la chiesa avere esperti formati nella ricerca biblica che possano valutare nuove scoperte e trasmetterle agli altri – e queste ricerche possono avere qualche effetto su ciò che viene stampato nelle moderne traduzioni della Bibbia. Questi cambiamenti non porteranno però a una rivoluzione nel testo quanto piuttosto un raffinamento che solo i lettori attenti potranno cogliere. Tuttavia, l’importanza di questa ricerca non deve essere svalutata per il fatto che sia bassa la probabilità di cambiare le traduzioni moderne della Bibbia. Piuttosto, la ricerca deve essere considerata importante perché è lo stesso Nuovo Testamento a essere importante

Peter J. Williams è Principal di Tyndale House, un Centro di ricerca evangelico specializzato nelle scienze bibliche e di base a Cambridge, in Inghilterra (http://www.tyndale.cam.ac.uk/)

Vedi anche:
Possiamo fidarci dei documenti del Nuovo Testamento?, di F.F. Bruce, Edizioni GBU, 2016.

Rendere ragione della speranza. Condurre una conversazione apologetica

Qualcuno ha definito l’apologetica come «la scienza e l’arte della persuasione»; questa definizione ha il merito di riunire i due principali rivoli lungo i quali si disperde l’impresa apologetica, in particolare quello della teorizzazione dei limiti, dei metodi e delle possibilità dell’apologetica che, nell’ambito delle discipline teologiche, definisce per l’apologetica i contorni di una vera e propria scienza; dall’altro lato il rivolo richiamante l’ambientazione reale e concreta della dinamica apologetica che emerge e si evidenzia nei contesti dialogici, dove è necessario una competenza comunicativa ed empatica (un’arte).

Alcuni hanno voluto distinguere questi due rivoli riservando il termine di apologetica al sapere teologico vero e proprio e riservando invece il termine apologia alla conversazione in cui si rende necessario “difendere” o argomentare della “speranza che è in noi” (1 Pt 3:15).

Il testo di Pietro fa da bussola per entrambe le possibilità, anche se, inserito com’è nel quadro neotestamentario, fa pendere la bilancia del senso dalla parte del contesto dialogico permettendoci di dire, con Avery Dulles nella sua Storia dell’apologetica, che all’epoca «l’apologetica era intrinseca alla presentazione del kerygma».

E infatti la tesi centrale del seminario è che apologetica ed evangelizzazione si richiamano a vicenda tanto da poter dire che «l’evangelizzazione senza l’apologetica presenta dei vuoti; l’apologetica senza l’evangelizzazione è cieca non raggiungendo il suo obiettivo!». L’annuncio della buona novella della salvezza operata da Dio in Gesù Cristo si articola in segmenti di rivelazione (il senso di “mistero” in Paolo) che “orecchio non ha mai udito” e verità oggettive e riconoscibili che necessitano di sostegno argomentativo; lo vediamo già nella prima predicazione cristiana quando gli apostoli, sia Pietro sia Paolo, a seconda dei contesti in cui proclamano il vangelo, fanno leva su segmenti di saperi che possono essere sottoposti a critica e obiezioni e da qui necessitano di essere difesi o necessitano del supporto di argomentazioni che ne facciano emergere la coerenza con e nel messaggio evangelico.

Si pensi alle tecniche di ricorso all’Antico Testamento per quanto concerne l’uditorio ebraico; o al contrario al ricorso a fonti pagane nel caso dell’uditorio ateniese (At 17).

Ma che cosa diventano quei segmenti argomentativi quando vengono estrapolati da un contesto evangelistico e sono trasformati in vere e proprie dimostrazioni razionali di verità e paradossi che solo l’ubbidienza della fede potrebbe accogliere?

L’evangelizzazione senza l’apologetica presenta dei vuoti; l’apologetica senza l’evangelizzazione è cieca non raggiungendo il suo obiettivo!

La formula iniziale (l’apologetica è la scienza e l’arte della persuasione) ha infine il merito di introdurre nel dibattito una categoria tipicamente neotestamentaria, vale a dire quella della persuasione, concetto molto presente soprattutto nel libro di Atti. Nella sua forma verbale il persaudere ci restituisce la condizione di possibilità di un discorso in cui si può richiamare l’interlocutore a convenire su fatti e dati oggettivi che a loro volta possono illuminare, anche se non spiegare totalmente, la speranza che è in noi, vale a dire Cristo, speranza della gloria.

Quali sono, se ci sono, le tappe dell’apologetica evangelistica o dell’evangelizzazione apologetica che pososno sgombrare il campo da dubbi o equivoci concernenti la fede cristiana? E come si distingue un’azione di persuasione da una manipolatrice? Può forse l’apologetica evangelistica contribuire all’individuazione delle tante fake news che circondano il mondo della fede?

[Paolo] dalla mattina alla sera annunziava loro il regno di Dio rendendo testimonianza e cercando di persuaderli per mezzo della legge di Mosè e per mezzo dei profeti, riguardo a Gesù (At 28:23–24)

(G.C. Di Gaetano)

Violenza monoteista?

La violenza è percepita oggi, almeno in Occidente, come uno dei maggiori problemi del mondo contemporaneo. L’opinione comune, che ne è angosciata e ossessivamente preoccupata, scopre con sorpresa mista a stupore che questa è in parte correlata alla religione. La religione, che nel secolo scorso era ritenuta piuttosto inoffensiva e particolarmente inefficace, è riemersa nel XXI secolo sotto le caratteristiche minacciose del jihadista. La famosa frase di Andre Malraux1 sul religioso XXI secolo, spesso citata con ironia, non fa più sorridere, ma rabbrividire. Nel tentativo di esorcizzare l’ansia cerchiamo di convincerci che la religione non c’entra niente con la violenza, che lo scatenarsi della violenza debba essere attribuito a estremisti canaglie che non hanno compreso nulla della religione che sostengono di servire. Ci affrettiamo a sostenere e ribadire in coro che la religione in questione è una religione di pace, come se l’incantesimo avesse il potere di realizzare quello che ci si augura … senza però che ci crediamo troppo.

In questo clima non sorprende che vengano mosse critiche alla religione stessa. Non è forse vero che essa si ritroverebbe alla radice delle violenze che hanno segnato la storia e che pre­occupano così tanto il tempo presente? Il bersaglio principale di queste critiche contemporanee è il monoteismo. Sorge un dubbio: è per cercare di non stigmatizzare l’Islam che le tre re­ligioni del Dio unico sono unite sotto la stessa riprovazione? Si noterà comunque che le critiche sono rivolte in gran parte, spesso esclusivamente, contro l’Antico Testamento e contro il Cristianesimo. Gli autori del recente rapporto della Commis­sione teologica cattolica internazionale2 sono stupiti, e giu­stamente, in quanto si rendono conto che l’obiettivo prin­cipale della critica contemporanea è la religione monoteista che ai nostri giorni sta compiendo i maggiori sforzi in vista di un dialogo di pace tra le principali religioni, e i cui fede­li, «in molte parti del mondo, sono colpiti da intimidazioni e violenze per la semplice ragione di appartenere [appunto] alla comunità cristiana». Il rapporto presenta alcune interessanti ipotesi sia relative al silenzio verso l’Ebraismo e l’Islam sia sul sorprendente accanimento contro il Cristianesimo.

Il motivo dichiarato della critica è di tipo logico: si pensa di aver trovato nella credenza in un Dio unico la causa del­la violenza. L’argomento è di una semplicità disarmante: se credi che il tuo Dio è l’unico vero, non considererai i segua­ci di altre religioni, o gli atei, come estranei, empi, persino come nemici da abbattere? Come potrebbe, chi non accetta altro Dio che il proprio, tollerare convinzioni e pratiche di­verse dalla propria?

Accuse antiche
Va detto che una simile accusa non è recente. Due brevi accenni permetteranno di apprezzare sia la conti­nuità dei rimproveri sia la peculiarità della critica attuale.

Nel secondo secolo della nostra era il filosofo Celso denun­ciava l’Ebraismo e il Cristianesimo come religioni che pro­muovevano la ribellione, che turbavano il vivere comunitario3 della società antica. Egli non attribuisce esplicitamente que­sto vizio al credere in un solo Dio, ma non riesce a spiegarsi perché i cristiani si rifiutino di immaginare che si possa ado­rare la stessa divinità chiamandola con nomi diversi: «Penso che sia indifferente, afferma, chiamare l’Altissimo Zeus, Zen, Adonai, Sabaoth, Amon come gli Egiziani, Papaeos come gli Sciti» (Origene, Contra Celsum, V, 41; SC 136, v. III, 1969, p. 123).

All’epoca dei Lumi, Voltaire, denunciava con la sua tipica ver­ve i massacri commessi in nome della religione. Nell’articolo “Religion” nel suo Dictionnaire Philosophique (1769), non ha tuttavia in mente il monoteismo come causa della violenza re­ligiosa, sebbene metta sul banco dei colpevoli Ebrei e Cristiani: «i maomettani, scrive, si sono sporcati degli stessi atti inumani ma raramente»

Le altre religioni sono totalmente sdoga­nate: «Per quanto riguarda le altre nazioni, non ne esiste nessu­na dall’inizio del mondo che abbia mai combattuto una guer­ra meramente di religione»5. Poche pagine dopo, menzionan­do esplicitamente il paganesimo, ripete: «La religione pagana ha sparso pochissimo sangue; mentre la nostra ne ha coperto la terra» (in it. p. 2639). Se non incrimina il monoteismo nel suo atto d’accusa è perché non considera la fede in un solo Dio come una specificità dell’Ebraismo e del Cristianesimo: «Fu a quell’epoca, quando il culto di un Dio supremo si era uni­versalmente affermato tra tutti i saggi in Asia, in Europa e in Africa che la religione cristiana ebbe origine» (in it. p. 2655). La stessa convinzione viene espressa a proposito dei Romani, nell’articolo “Dieu, dieux”:

«Questa adorazione di un Dio supremo è attestata da Romolo fino alla distruzione definitiva dell’impero, e della sua religio­ne. Malgrado tutte le follie del popolo che venerava dèi secon­dari e ridicoli, e malgrado gli epicurei che, in fondo, non ne riconoscevano nessuno, è assodato che i magistrati e i savi ado­rarono in ogni epoca un Dio sovrano»6.

La violenza che Voltaire non imputa al monoteismo in sé l’at­tribuisce a ciò che egli chiama teologia. Nell’articolo Religion si oppone a due forme di culto. Nella prima, che considera in­nocua e definisce «religione dello Stato»7, i ministri di culto, gli iman [sic], i preti e i pastori mantengono lo status civile e inse­gnano la morale della gente sotto il controllo delle autorità ci­vili (in it. p. 2661). La seconda, la «religione teologica» è, dice, «l’origine di tutte le idiozie e di tutti i disordini immaginabili; è la madre del fanatismo e della discordia civile; è la nemica del genere umano» (idem).

Il monoteismo è chiamato in causa
La discussione sul monoteismo in quanto tale appare esse­re uno dei tratti specifici che caratterizzano maggiormen­te8 il dibattito contemporaneo.

Questo processo al monotei­smo, ampiamente avviato già negli anni ’90 del ‘900, è sta­to aperto dalle pubblicazioni di autori le cui competenze di base sono esterne al campo della teologia, come ad esem­pio l’egittologo Jan Assmann, in Germania, il sociologo del­la religione Rodney Stark o la specialista di letteratura inglese del diciassettesimo secolo, Regina Schwartz, negli Stati Uni­ti. Una volta avviata, la controversia ha raggiunto logicamen­te il campo della teologia, lo studio dell’Antico Testamento ovviamente, ma anche il Nuovo Testamento e la sistemati­ca, senza dimenticare la storia, grandemente sollecitata. Dal momento che il dibattito investe la società nel suo comples­so, non si riescono a contare gli autori, provenienti da tutti gli ambienti, che hanno voluto a tutti i costi dare il loro con­tributo. …

 

Il dibattito biblico

In teologia non si è persa l’opportunità di cogliere il problema per affrontare nuovamente la questione del monoteismo. Nel­lo studio dell’Antico Testamento il monoteismo è stato, fin dall’avvento della moderna critica biblica, uno dei temi cru­ciali nell’analisi della religione d’Israele. A partire dallo sche­ma evolutivo, che ha visto nel monoteismo il culmine di un progresso religioso, si è cercato di individuare nei testi bibli­ci le tracce di questa evoluzione. Quando apparve il monotei­smo nella storia di Israele? Al tempo di Mosè? Con la riforma di Giosia? Durante l’esilio? Dopo l’esilio? Quali furono le tap­pe che precedettero tale evoluzione? Quali sono stati i fattori interni o esterni che hanno causato o facilitato l’emergere del fenomeno nella storia religiosa dell’umanità? La presunta data di edizione dei testi biblici e loro successive edizioni ha pesato fortemente nell’elaborazione degli schemi proposti, rischian­do di finire sempre in un circolo vizioso a causa del metodo: se il monoteismo appare in un testo ritenuto tardo, si conclu­derà che la dottrina è tarda e, al contrario, se un testo afferma un’idea di tipo monoteista, si dedurrà che tale testo non può essere altro che tardo. …

Il dibattito così avviato può suggerire le seguenti conclusioni.

1) Sembra innegabile che il discorso dell’unico Dio comporti un rischio, almeno latente, di violenza. Non stiamo cercando di determinare se le religioni monoteiste debbano essere rite­nute responsabili di maggiore violenza delle altre. La violen­za colpisce tutte le opere umane, inclusa la religione, per una serie molto ampia di motivi. Ci si limita qui a riconoscere l’e­sistenza di uno specifico fattore di violenza legato alla fede in un unico Dio.

2) Tentare di svincolare il monoteismo dalla violenza di cui è accusato, promuovendo una particolare definizione di mono­teismo, un monoteismo cosiddetto aperto, inclusivo, ponde­rato, compiuto, etc., è un’operazione che non corrisponde né alla testimonianza biblica, di cui saremmo costretti a rifiuta­re una parte notevole né alle credenze rappresentative più co­stanti e caratteristiche delle tre religioni monoteiste. Certa­mente Dio si pone sempre al di là delle nostre rappresentazio­ni umane, ma la rivelazione che la Scrittura pretende di por­tare è ben presentata come l’unica via di verità su Dio …

3) Nella violenza di cui può essere giustamente accusato il Cristianesimo, il legame col potere politico ha avuto un ruolo decisivo …