Rendere ragione della speranza. Condurre una conversazione apologetica
Qualcuno ha definito l’apologetica come «la scienza e l’arte della persuasione»; questa definizione ha il merito di riunire i due principali rivoli lungo i quali si disperde l’impresa apologetica, in particolare quello della teorizzazione dei limiti, dei metodi e delle possibilità dell’apologetica che, nell’ambito delle discipline teologiche, definisce per l’apologetica i contorni di una vera e propria scienza; dall’altro lato il rivolo richiamante l’ambientazione reale e concreta della dinamica apologetica che emerge e si evidenzia nei contesti dialogici, dove è necessario una competenza comunicativa ed empatica (un’arte).
Alcuni hanno voluto distinguere questi due rivoli riservando il termine di apologetica al sapere teologico vero e proprio e riservando invece il termine apologia alla conversazione in cui si rende necessario “difendere” o argomentare della “speranza che è in noi” (1 Pt 3:15).
Il testo di Pietro fa da bussola per entrambe le possibilità, anche se, inserito com’è nel quadro neotestamentario, fa pendere la bilancia del senso dalla parte del contesto dialogico permettendoci di dire, con Avery Dulles nella sua Storia dell’apologetica, che all’epoca «l’apologetica era intrinseca alla presentazione del kerygma».
E infatti la tesi centrale del seminario è che apologetica ed evangelizzazione si richiamano a vicenda tanto da poter dire che «l’evangelizzazione senza l’apologetica presenta dei vuoti; l’apologetica senza l’evangelizzazione è cieca non raggiungendo il suo obiettivo!». L’annuncio della buona novella della salvezza operata da Dio in Gesù Cristo si articola in segmenti di rivelazione (il senso di “mistero” in Paolo) che “orecchio non ha mai udito” e verità oggettive e riconoscibili che necessitano di sostegno argomentativo; lo vediamo già nella prima predicazione cristiana quando gli apostoli, sia Pietro sia Paolo, a seconda dei contesti in cui proclamano il vangelo, fanno leva su segmenti di saperi che possono essere sottoposti a critica e obiezioni e da qui necessitano di essere difesi o necessitano del supporto di argomentazioni che ne facciano emergere la coerenza con e nel messaggio evangelico.
Si pensi alle tecniche di ricorso all’Antico Testamento per quanto concerne l’uditorio ebraico; o al contrario al ricorso a fonti pagane nel caso dell’uditorio ateniese (At 17).
Ma che cosa diventano quei segmenti argomentativi quando vengono estrapolati da un contesto evangelistico e sono trasformati in vere e proprie dimostrazioni razionali di verità e paradossi che solo l’ubbidienza della fede potrebbe accogliere?
L’evangelizzazione senza l’apologetica presenta dei vuoti; l’apologetica senza l’evangelizzazione è cieca non raggiungendo il suo obiettivo!
La formula iniziale (l’apologetica è la scienza e l’arte della persuasione) ha infine il merito di introdurre nel dibattito una categoria tipicamente neotestamentaria, vale a dire quella della persuasione, concetto molto presente soprattutto nel libro di Atti. Nella sua forma verbale il persaudere ci restituisce la condizione di possibilità di un discorso in cui si può richiamare l’interlocutore a convenire su fatti e dati oggettivi che a loro volta possono illuminare, anche se non spiegare totalmente, la speranza che è in noi, vale a dire Cristo, speranza della gloria.
Quali sono, se ci sono, le tappe dell’apologetica evangelistica o dell’evangelizzazione apologetica che pososno sgombrare il campo da dubbi o equivoci concernenti la fede cristiana? E come si distingue un’azione di persuasione da una manipolatrice? Può forse l’apologetica evangelistica contribuire all’individuazione delle tante fake news che circondano il mondo della fede?
[Paolo] dalla mattina alla sera annunziava loro il regno di Dio rendendo testimonianza e cercando di persuaderli per mezzo della legge di Mosè e per mezzo dei profeti, riguardo a Gesù (At 28:23–24)
(G.C. Di Gaetano)
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