La pace come ideale regolativo

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Sono passati più di duecento anni da quando il filosofo Emmanuel Kant, nella Critica della Ragion pura, nell’Appendice alla Dialettica trascendentale, dopo aver delimitato “criticamente” il campo del sapere che poi va a sostanziare la scienza, cercò di fare i conti con le “idee” della ragione. Le idee, prodotto intellettivo dalla natura sfuggente e che possono richiamare, ineludibilmente, altre dimensioni dell’esistente, non hanno il crisma di ciò che può condurre alla costituzione di un sapere, come i concetti; tuttavia, sono lì, influenzano, condizionano

Tra esse ce n’è una che è forse più ineludibile di tutte, l’idea di Dio!

Ecco allora che Kant scopre, per queste idee, un altro ruolo, un’altra funzione, quello della regolazione. Non portano a niente, però aiutano a mettere ordine e sistematicità in ciò che conosciamo, che veniamo a conoscere, ci spingono verso un focus, un obiettivo. Regolano il nostro sapere non dogmaticamente ma come impulso, come direzione.

Può tutto questo armamentario concettuale, qui delineato in maniera certamente superficiale, essere trasportato dal campo del sapere, dove Kant lo concepì, ad altri campi, a quello della morale (dove Kant immaginava ben altro), a quello della politica, a quello del vivere associato degli uomini, al tema della pace e della guerra?

Forse non sono il primo a fare questa comparazione ma penso che l’ideale regolativo di kantiana ascendenza possa ben esprimere il posto concettuale che potrebbe occupare il tema della pace in questo momento (scrivo all’indomani della grande manifestazione del 5 novembre a Roma organizzata da Europe for peace).
Il tentativo nasce dal tormento reale e non superficiale che chiunque, e in particolare anche un cristiano che vuole essere sensibile alla globalità del pensiero biblico (noi lo chiamiamo “il consiglio di Dio, At 20:27) avverte e prova nei confronti della guerra in Ucraina. Le condizioni storiche e geopolitiche acuiscono il tormento intellettuale. Sono pochi i paragoni possibili per l’aggressione della Federazione russa. Forse, con molti distinguo, e andando indietro negli anni, se teniamo conto di ciò che è accaduto dal 1991, anno della disgregazione della vecchia Unione sovietica, una crisi che avrebbe potuto avere uno sviluppo simile (ma che non lo ha avuto) si registrò trent’anni prima, nel caso dei missili sovietici a Cuba (anni ’60).

Oggi siamo di fronte a una situazione anomala; i profili relativi alla giustizia sono abbastanza netti: c’è il diritto internazionale, c’è l’autodeterminazione dei popoli, anche a difendersi, c’è lo scontro tra “democrazie” e “autocrazie” tra regimi di libertà (come quello nel quale il sottoscritto può scrivere quello che sta scrivendo, professare la propria fede – si ricordi: la libertà di culto è la madre di tutte le libertà occidentali!) e regimi che reprimono le libertà, guarda caso, anche la libertà di religione, soprattutto quando la religione viene assunta a stampella ideologica della guerra.

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Ma i profili relativi alla pace non sono così netti. La pace è al più un desideratum aleatorio affidato, da chi sul campo dirige le operazioni – di guerra, a un fatalistico domani che verrà, se verrà, considerato lo spettro dell’olocausto nucleare. Può essere utile al riguardo leggere l’ultimo libro di Massimo Rubboli (qui di fianco la cover)

Ed è qui che l’ideale regolativo kantiano potrebbe aiutare. La pace è e deve essere un ideale. Negativamente questo significa che la pace appare senza alcunché di definibile e percettibile: dove potremmo noi rilevare percezioni di pace che andrebbero a sostanziare un concetto, un sapere e delle azioni concrete di pace? Mosca dovrebbe essere il primo posto in cui rilevare queste percezioni, ma assolutamente nulla. E altrove? Si fa a fatica a precipitare la pace dal campo dell’ideale a quello del sapere, dalle idee al concetto.

Positivamente, però, è possibile che questo ideale giunga a regolare il pensiero e l’azione già qui e ora. Quali percorsi questo ideale sta illuminando? La piazza di ieri mi pare un piccolo sussulto che mette in circolo delle vibrazioni. Esse concernono le opinioni pubbliche; sono piazze, non sono ambasciate e diplomazie e tuttavia tante volte nella storia (vedi guerra in Vietnam) le opinioni pubbliche hanno scoperto dei possibili percorsi diplomatici.

La pace come ideale regolativo potrebbe anche mettere d’accordo i sostenitori dell’appoggio (anche militare) a Kiev e i sostenitori del “fermiamo le armi” ora (posizione questa che vive tutta nell’ideale); sì perché il primo, l’appoggio militare, ben si colloca in un tempo e in uno spazio determinato, sempre all’insegna dell’ideale regolativo della pace. C’è un tempo in cui è stato necessario dire no, questo non deve accadere. Che cosa sarebbe accaduto a febbraio, infatti, se l’Ucraina non avesse vissuto quella straordinaria primavera di “resistenza”?

Ma se la pace è un ideale che regola i nostri passi oggi, concretamente, allora lo spazio per la guerra (è triste parlare così) è e deve essere uno spazio e un tempo determinato. Ma il tempo e lo spazio non lo decide la guerra stessa ma lo decide l’ideale regolativo della pace. Abbiamo provato la guerra di resistenza, abbiamo vinto tutti con il popolo ucraino; adesso, facendoci condizionare dall’ideale, bisogna regolare i passi in modo diverso.

Che i governi occidentali, soprattutto europei, trovino lo scatto per creare al loro interno delle task force per la pace, piccoli gruppi di lavoro che mettano insieme magari governanti e opposizioni (altro ideale!), i quali a loro volta si interfaccino a livello continentale e planetario, che bussino alle case dei due belligeranti chiedendo loro di fornire uomini per discutere e ragionare di confini, di territori, di popolazioni, di sicurezza, di deterrenza…. Forse già la volontà di interrompere la fornitura di armi all’Ucraina potrebbe essere un qualcosa da mettere sul piatto delle trattative da intraprendere sul percorso dell’ideale della pace che regola.

È utopistico pensare tutto ciò? Certo, “utopia” e “ideale” non sono la stessa cosa, ma entrambi provengono da quel campo della “realtà” in cui non ci sono certezze, dogmi e ideologie. È il campo dell’umano, della voglia di vivere, in pace, cercando di creare lo spazio per quello che conta veramente.

E che cosa conta veramente, in questo scorcio segnato da una pandemia che ancora non ci lascia, da una crisi climatica che ha mostrato tutta la sua ferocia nella scomparsa delle stagioni, di una crisi economica e migratoria che si infiamma giorno dopo giorno?

Che cosa dobbiamo sperare (altro interrogativo kantiano)?

Nella mente di un cristiano evangelico quello che conta veramente è la possibilità di poter dire agli altri esseri umani che viviamo nell’ultimo tratto della storia quello segnato dalla morte e dalla risurrezione di Gesù Cristo; c’è una buona notizia da far circolare, da far comprendere, da incarnare per mostrare modelli di vita segnati dalla pace, quella che Gesù dà e non quella che il mondo dà (sono le parole dello stesso maestro di Nazaret, Gv 14:27).

Possiamo dire, che la pace non è un fine in sé per l’essere umano? È ancora Kant che ci mette in guardia da un ottimismo superficiale facendo appello a tutta la forza della parte pratica della ragione, allorquando si confronterà con il tema del “male radicale” presente nel mondo degli uomini, e di cui la guerra non è altro che l’espressione più parossistica. No, la pace non è un fine in sé; semmai la pace è un mezzo per altro fine. Con essa, per esempio, gli uomini possono fiorire (M. Volf), e con essa i cristiani possono mettere mano al supporto necessario della buona notizia che hanno tra le mani, la sua proclamazione.

Ecco abbiamo bisogno della pace come un ideale che regoli i nostri passi ora, perché abbiamo questo compito, urgente, per le popolazioni dell’Ucraina e della Russia, ma anche per quelle che vivono a Washington, a Berlino, come a Roma!

Ma voi, carissimi, non dimenticate quest’unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. 9 Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento (2 Pt 3:18)

La scelta eversiva che bloccò l’Italia. Riflessioni di un evangelico a 100 anni dalla Marcia su Roma

di Valerio Bernardi

Il 28 ottobre di quest’anno ricorre un centenario che gli italiani forse vorrebbero dimenticare: quello della Marcia su Roma, l’avvenimento con cui Benito Mussolini ed il Partito Nazionale Fascista salirono al potere in Italia, trasformando lo Stato liberale in una dittatura che avrà una durata ventennale e che trascinò l’Italia in un vortice di catastrofi politiche e morali che vanno dall’avventura coloniale tardiva in Etiopia, all’approvazione delle leggi razziali fino alla partecipazione, a fianco di Germania e Giappone, nel Secondo conflitto mondiale.

Cosa è stata la Marcia su Roma? Si è trattato di un evento eversivo che ha voluto forzare l’apparato istituzionale liberale (logorato dal primo conflitto mondiale) ed ha portato al potere un partito che non aveva ricevuto la maggioranza dei suffragi del popolo italiano. La Marcia su Roma in sé e per sé sarebbe stata del tutto inefficace se l’apparato militare e la Corona non avessero di fatto avallato il tentativo non firmando lo stato d’assedio della città di Roma che avrebbe permesso all’esercito di arrestare i rivoltosi e di reprimere il tentativo.

Gli storici oggi si chiedono se quanto accaduto si potesse evitare e si potesse prevedere. Per alcuni, come Emilio Gentile, la Marcia su Roma era figlia del clima di violenza scoppiata in Italia nel Primo dopoguerra ed era pertanto inevitabile, anche se non bisogna vedere Mussolini ed il Partito Fascista come i “salvatori” del Paese, quanto come coloro che già avevano in mente di costruire uno stato dittatoriale che limitasse anche le libertà personali e i diritti democratici dei cittadini. Altri come De Bernardi e Fornaro ritengono che l’evento si poteva evitare arrivando a compromessi maggiori sia da parte dei partiti di sinistra che da parte dei liberali. Tutti però sono concordi che quell’atto di “spavalderia” istituzionale ha rotto il fragile equilibrio democratico che con fatica si era costruito nella nostra Nazione e che aveva permesso ad un Paese sicuramente povero ed arretrato di garantire le libertà individuali.

Cosa ha significatoUna lunga marcia verso la libertà per gli evangelici italiani la salita al potere di Mussolini e del Partito Fascista? All’inizio sarebbe potuto sembrare che non ci sarebbero stati effetti particolari e che, anzi il “solido” anticlericalismo del futuro Duce (che aveva scritto un libro dedicato a Jan Hus proprio in chiave anticattolica) e la ricerca di un Uomo nuovo, una sorta di Nuova Nascita per l’uomo contemporaneo (ben esplicitato dal quadro del futurista Balla messo come immagine di questo scritto) potessero essere condizioni per una sorta di alleanza e, forse, per una non interferenza con gli affari religiosi. Del resto, non bisogna dimenticarlo, lo Stato italiano, almeno sino a quel momento, aveva avuto, nelle istituzioni, una certa simpatia per il mondo evangelico, proprio per il suo anticlericalismo dovuto a quanto successo nel momento dell’unificazione. Anche le istituzioni erano state piuttosto aperte nei confronti delle religioni minoritarie, tanto, ad esempio, di aver permesso la presenza di cappellani di altre religioni all’interno dell’esercito che era impegnato nel primo conflitto mondiale.

Le previsioni non si avverarono. Mussolini sapeva benissimo che per poter mantenere il potere doveva scendere a patti con la Chiesa Cattolica a danno sicuramente delle altre confessioni. Fu così che nel 1929 (solo 7 anni dopo la Marcia) Mussolini firmò i Patti Lateranensi, “riappacificandosi” con la Chiesa Cattolica e dichiarando solennemente di trovarsi in uno Stato Cattolico di tipo confessionale. Alle altre confessioni spettò la legge sui culti ammessi che, come alcuni sapranno, è ancora oggi in vigore per alcune confessioni e che, di fatto, prevedeva anche la sorveglianza da parte delle forze di pubblica sicurezza delle attività religiose.

Se la legge sui culti ammessi poteva apparire innocua, non lo saranno i provvedimenti successivi: ci riferiamo alla circolare Buffarini Guidi che di fatto permise la persecuzione dei Pentecostali italiani per motivi di “tutela della razza”. Questa circolare sarà abolita solamente nel 1955 dallo Stato italiano, con grande ritardo rispetto alla garanzie costituzionali (di come se ne è usciti ce ne ha parlato Giancarlo Rinaldi in Una lunga marcia verso la libertà che le edizioni Gbu propongono in offerta per l’occasione). Accanto ad essa non va dimenticata l’approvazione delle leggi razziali che permise la persecuzione degli Ebrei anche in Italia con tragici risultati. Ci furono dopo il 1936 diversi provvedimenti contro le missioni evangeliche straniere ritenute nemiche della patria.

Per questo motivo gli evangelici subirono una battuta d’arresto durante questo periodo in cui subirono delle vere e proprie persecuzioni e dovettero aspettare gli anni 1950 per riuscire a riprendere in parte le forze grazie anche ai massicci aiuti provenienti dai fratelli delle chiese anglo-sassoni.

Ricordare la marcia su Roma a cent’anni, quindi, per tutti noi, deve significare riflettere profondamente su quali possano essere stati gli errori che furono fatti all’epoca, su come un clima di violenza (assolutamente contrario alla predicazione del Vangelo) abbia potuto portare ad un evento che si è rivelato catastrofico, a non dover dimenticare che la proclamazione del Vangelo è una predicazione che vuole la liberazione dell’uomo e che è contro qualsiasi forma di idolatria anche quella legata al culto della personalità, al pensare che, oltre Gesù, ci possa essere un uomo della “Provvidenza” che, in un periodo di crisi, possa portare soluzioni limitando la libertà dell’individuo, quella delle comunità che su auto-organizzano e perseguitando persone di origine diversa.

(Valerio Bernardi – DIRS GBU)

Il duplice ascolto in tempo di guerra 2

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Ascoltare il mondo

Nell’ascoltare la Parola, la prima anta del dittico stottiano (vedi qui), non siamo riusciti a identificare una teologia “evangelica” della guerra; e come si potrebbe? Saremmo presuntuosi, vista la lunga tradizione della riflessione cristiana sulla “guerra giusta”, che è sempre una teoria di guerra, che poco deve al dettato biblico nel suo insieme, a meno di non cadere nelle trappole ermenutiche di alcune tradizioni teologiche che non hanno il senso della progressione della rivelazione biblica tanto da prefigurare una riproposizione teonomica dell’AT, oppure immaginano una sospensione della legge di Cristo.

Già, perché dal nostro sguardo gettato nella Bibbia nell’intento di ascoltarla in tempo di guerra, non abbiamo potuto ignorare l’imponente figura del Figlio di Dio incarnato (incomparabile, lo definiva sempre John Stott in un altro suo libro). E’ lui, il Figlio di Dio incarnato, inchiodato e innalzato, e confessato dai cristiani come Signore di questo mondo, a rappresentare il contributo biblico essenziale in ogni tempo, anche in tempi di guerra: Gesù Cristo Regna!

C’è la guerra? Ahimè; ma i cristiani parlano e voglinoo incarnare la vita nuova del vangelo, di Gesù Cristo.

Ma come, e dove? Se si va nelle zone di guerra ci sarebbe solo un’opzione, l’azione umanitaria e sanitaria (ricordate Desmond Doss, l’obiettore di coscienza di Hacksaw Ridge?). Già questo non sarebbe mica niente.
Ma al mondo non c’è solo la sanità e la dimensione umanitaria e, dunque, nuovamente, come incarniamo la voce di Gesù Cristo nel fragore della battaglia?

Sicuramente l’intreccio tra abbassamento e innalzamento del Figlio di Dio rappresenta la porta d’ingresso; viviamo in un mondo in cui il Figlio di Dio regna ma lo fa con armi non di questo mondo.
Sicuramente la diplomazia, le politiche non violente, l’integrazione e il multiculturalismo (perché non una soluzione del genere nel Donbass? Una soluzione a la Quebec?) stanno tutte dalla parte di un’adesione, anche inconsapevole al Regno di giustizia e di pace di Gesù Cristo (inconsapevole: esistono i cristiani anonimi in questo campo? una versione secolare degli operatori di pace del Sermone sul Monte?).

A un cristiano non dovrebbero interessare le argomentazioni di chi, pur riconoscendo la responsabilità della Russia nella drammatica invasione dell’Ucraina, cerca di trovare ragioni o spiegazioni nel comportamento della Nato o nel delirio di onnipotenza del padrone della nuova Russia.

Personalmente non mi convince la prima ipotesi, alla quale si potrebbe rispondere con un’argomentazione simmetrica che porta ad azzerare le posizioni ideologiche che si contrappongono: se è sbagliato che la Nato si avvicini alla Russia, perché sarebbe giusto che la Russia si avvicini alla Nato?; trovo abbastanza inquietante la seconda ipotesi – quella dell’espansione di una sorta di impero zarista (non lo nego: sono schierato; ma spero di dimostrare che le ragioni dello schieramento non sono politiche; speriamo!).

A un cristiano dovrebbe invece interessare una domanda cristologica: che ne è di Gesù Cristo e del suo Vangelo nel mondo in cui viviamo? A San Paolo, come a Denver, a Londra come a Rostov, passando per Kiev e Varsavia; a Kabul come a Pechino, Tokio e Melbourne, e naturalmente Mosca.

E’ una domanda geopolitica che discende direttamente dalla preghiera che Paolo insegna a Timoteo: bisogna pregare per i governanti (per Zelesky, Putin e compagnia cantando) affinche, così sostiene il grande apostolo:
possiamo condurre una vita tranquilla e quieta in tutta pietà e dignità. 3 Questo è buono e gradito davanti a Dio, nostro Salvatore, 4 il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità. 5 Infatti c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo, 6 che ha dato se stesso come prezzo di riscatto per tutti; questa è la testimonianza resa a suo tempo, 7 e della quale io fui costituito predicatore e apostolo (io dico il vero, non mento), per istruire gli stranieri nella fede e nella verità (1 Tm 2).

Qui ce n’è per tutti, anche per coloro che pensano che la dignità possa equivalere al quietismo consumistico delle società occidentali. Ce n’è per tutti perché la valutazione dei regni di questo mondo non è geo-politica ma geo-teologica. Che ne è di Gesù Cristo nelle varie terre del globo terracqueo?

Negli ultimi tempi in alcuni circoli evangelici si è parlato molto di un risveglio dell’Europa di un revive Europa affinché questa terra venga strappata al secolarismo che l’attanaglia. Ma pensiamo per un attimo a questo anelito, e pensiamolo in chiave cristologica: che cosa significa?
Significa forse che l’Europa deve tornare ai fasti (ne­­-fasti) del Sacro Romano Impero? Che deve iscrivere nelle proprie carte d’identità, per forza, di essere una terra cristiana? E magari legiferare contro la corruzione del genere umano a partire da gay etc… Ma a questo punto si capisce bene dove si va a parare; le abbiamo sentite queste cose, negli ultimi tempi, dalle parti di Mosca.

Oppure forse vorrà dire avere la libertà di professare la verità del Vangelo, magari a un angolo di Hyde Park, oppure con le pittoresche tende evangelistiche nei polverosi paesi del sud Italia come avveniva negli anni ’70, ’80. Noi che siamo figli di una generazione che quando parlava di Gesù Cristo poteva ancora suscitare la veemenza di qualche parroco o vescovo di Santa Romana Chiesa, sappiamo che cosa significa interpretare cristologicamente una terra: significa desiderare di avere la libertà di parlare di Gesù Cristo.

E non è forse l’Europa, la perenne incompiuta, uno degli ultimi posti in cui poter parlare liberamente di Gesù Cristo a una popolazione secolarizzata, anzi, poterlo fare proprio in ragione del secolarismo laicista? Neanche negli USA di Trump o nel Brasile di Bolsonaro, figuriamoci nella Russia di Putin (nell’Ucraina di Zelesky forse sì?) si poteva fare una cosa del genere, negli ultimi tempi, senza rischiare di essere confusi con i fautori dello slogan Dio-Patria e Famiglia che è una sorta di anti-vangelo.

Se è corretta questa prospettiva geo-teologica cristologica, allora a doversi svegliare sono altre terre e non l’Europa!

Che bello vivere in un posto in cui è possibile usufruire della libertà di religione e di culto. E, se posso dire la mia anche in campo politico, sono contento di vivere in un posto in cui governi non sanno che pesci prendere: tra l’alternativa dell’olocausto nucleare e la necessità di trovare un modo per fermare la guerra. Questa è la realtà; se l’Europa scovolasse da una parte o dall’altra sarebbe in entrambi i casi un errore.

Eccolo qui, a mio giudizio, il suono che vogliamo ascoltare quando ascoltiamo il mondo: vogliamo la libertà di professare il Signore Gesù Cristo; e non c’importa se intorno a noi proliferano le manifestazioni dei peccati sessuali (vs. Kirill): per questo c’è il Vangelo!

La libertà di religione una volta si diceva che era la madre di tutte le libertà! Ecco che cosa deve interessare un cristiano, soprattutto evangelico e in particolare italiano. E’ questo criterio che ci dice da che parte stare. Non ci sono sé non ci sono ma!
Chi ha ascoltato e vissuto le epoche della cortina di ferro, chi ha ascoltato Paul Ricoeur raccontare dei suoi viaggi in incognito per incontrare personalità della cultura, ma anche delle fedi a Praga, sotto la statua di Jan Hus (ma guarda), non ha dubbi quando intravede gli spettri di quella odiosa restrizione della libertà di religione e di culto.

Ma bisogna combattere per la libertà di religione?
E’ difficile rispondere a questa domanda. Sicuramente Gesù Cristo non vuole i cappellani militari e la benedizione dei cannoni. No, questo no; di questo sono convinto!

Nella nostra storia risorgimentale abbiamo molti esempi di cristiani che nel considerarsi cittadini del cielo, hanno seguito Garibaldi per costruire una patria … in cui professare la propria fede; o hanno appoggiato Cavour (in Crimea sic!). E non si pensi che gli orchi ostili erano solo i cattolici: si pensi ai Padri Pellegrini, a quello che lasciavano in Inghilterra e a quello che rimuovevano nel Nuovo Mondo. O si pensi alla riflessione di un Roger Williams contro la Sanguinaria dottrina della persecuzione per causa di coscienza.

Forse, come in molti altri campi, piuttosto che cercare risposte globali possiamo rivolgerci alle coscienze dei singoli. Sappiamo che in tutti gli eserciti del mondo (penso a quelli occidentali) ci sono molti cristiani che esprimono la loro esperienza di fede con il linguaggio della nuova nascita (born again). Che cosa dire loro?

Forse possiamo ripetere l’invito al ravvedimento di Giovanni Battista

Lo interrogarono pure dei soldati, dicendo: «E noi, che dobbiamo fare?» Ed egli a loro: «Non fate estorsioni, non opprimete nessuno con false denuncie, e contentatevi della vostra paga

Chissà se dalle parti di Bucha o a Mariupol, qualcuno si è ricordato o si sta ricordando di queste parole e non si è macchiato, e non si sta macchiando, le mani di sangue.

Una voce da Kiev, la testimonianza di del teologo ucraino Fyodor Raychynets

Fyodor Raychynets è un pastore ed un teologo battista a Kiev ed è capo Dipartimento dell’Evangelical Theological Seminary situato nei sobborghi a nord di Kiev, a circa 20 km dal centro. Fyodor posta quotidianamente aggiornamenti e riflessioni sulla sua pagina Facebook, che terminano, dopo una riflessione sulla situazione della guerra, con una preghiera in Ucraino. Il 13 marzo è stato intervistato dal teologo Miroslav Volf ed ha rilasciato la sua testimonianza su quanto sta accadendo. Riportiamo alcuni dei brani significativi di questa intervista che può essere ascoltata e letta integralmente sul sito del podcast, curato dallo Yale Center for Faith and Culture, al seguente link, https://podcasts.apple.com/us/podcast/a-voice-from-kyiv-fyodor-raychynets-faithful/id1505076294?i=1000554072619. Attualmente Fyodor continua a pubblicare un post ogni giorno su FB per aggiornare sulle sue impressioni sul conflitto da credente e da cittadino dell’Ucraina. Non necessariamente dobbiamo essere in accordo con tutto quello che afferma (comunione “aperta” o spiccato nazionalismo in alcune affermazioni, giustificato dalle circostanze probabilmente), ma la sua rimane una forte testimonianza che merita di essere letta.

Alla domanda sulla situazione bellica del luogo in cui si trova ha così risposto:

[…] Oggi è stato particolarmente straziante perché il nostro seminario è stato colpito. Un missile lo ha colpito e poi è esploso. Il raggio dell’esplosione è stato di circa 30-50 metri. Pertanto tutte le finestre si sono rotte. E così ci sono un sacco di vetri rotti tutti attorno, mattoni rotti, alberi divelti. […]. Per dirlo con un’espressione: si tratta di una scena apocalittica, capisci? Se vorresti vedere un film con una scena apocalittica, lo potresti fare qui ora.

Una testimonianza particolare è stata quella della celebrazione della Cena del Signore aperta durante la guerra e con i soldati di cui il teologo ucraino dice:

“Sono stato invitato giovedì pomeriggio a servire ai militari la Cena del Signore. E siamo andati andati lì ed è stata un’esperienza travolgente per me, perché nei Balcani, ho iniziato a credere in ciò che chiamiamo una Cena del Signore aperta: dove ognuno è il benvenuto, e quando c’è qualcosa di scandaloso nella Cena del Signore, lì c’è l’evento. Perché ci sono sempre persone che non dovrebbero essere lì secondo la nostra prospettiva teologica o il nostro credo teologico e così via. Quando siamo andati lì e ogni volta che mi sono trovato in questo tipo di situazione in cui servo la Cena del Signore, dico sempre alle persone, chiunque esse siano e di qualunque chiesa siano od anche a coloro che non appartengono a nessuna chiesa che io verrò a loro con il pane e dirò “Questo è il corpo di Cristo rotto per te” e devono solo dire “Amen”. E penso che ogni volta che dicono “Amen” sono d’accordo. Quel corpo di Cristo è stato spezzato anche per loro. E dovunque è accaduto, specialmente ieri, quando, servendo la Cena del Signore la stavo spiegando, c’è sempre una persona che non ha alcun tipo di formazione religiosa. E quando la servivamo loro lì, commentavamo quello che facevamo. Abbiamo semplicemente detto. “Questo è come facciamo. Siamo venuti a voi e diciamo “Questo è il sangue di Cristo sparso per voi”. E quando la persona (non credente) ha detto “Amen” è stata un’esperienza toccante. Credo che siamo soltanto stati uno strumento in questo tipo di situazione. E c’è una più grande invisibile presenza della grazia di Dio che può fare qualcosa che noi non possiamo fare. Per me in questa situazione, è più importante fare questo salto di fede, un passo verso la fede. E farlo quando le persone lo chiedono. E poiché ci dicono che vogliono prendere parte alla Cena del Signore prima della battaglia non diciamo che lo faremo.

Sulle responsabilità di Putin e della Russia per il conflitto Fyodor ha così commentato:

“Oggi ero veramente dispiaciuto nel leggere le notizie dalla Russia che 700 rettori, o presidenti delle Università russe, hanno firmato una lettera per appoggiare la guerra di Putin. Pertanto ovviamente non è solo un problema di Putin. E’ un problema di portata più ampia. Quando gli intellettuali appoggiano questo tipo di aggressione, abbiamo un problema serio. Non soltanto con quello che potremmo chiamare un dittatore da bunker. Voglio dire una persona che si è chiusa in un bunker che ha quindi perso il senso della realtà. Ha perso contatto con il mondo. Ma guardando alcune riprese video, quando i giornalisti escono per le strade di Mosca e San Pietroburgo, e questi sono i luoghi dove la maggior parte dell’élite culturale risiede, e chiedono alle persone cosa pensano della guerra in Ucraina, le loro risposte sono molto deludenti per noi. Perché ci dicono chiaramente che non vi è soltanto una persona ossessionata. Questa persona ha l’appoggio per questo tipo di aggressione. Ed è storicamente radicato, perché gli Ucraini sono stati sempre stati una spina nel fianco dei Russi per la loro libera volontà. Noi amiamo la libertà. Amiamo questa libertà che ci porta al caos. Il caos politico, o qualsiasi caos, è come siamo noi. Questo sono gli Ucraini. E questo amore della libertà, questo amore per la democrazia, è quello che ci ha portato a eleggere un clown come nostro Presidente! Questa è una cosa che dà molto fastidio ai Russi. E penso che ci sia, voglio esprimerlo in questa maniera, che ci sia un Putin collettivo. […] Non si tratta soltanto di una persona ossessionata. Perché la nostra élite sta cercando di contattare la loro élite e di dire: “La gente andasse per le strade. Dite che siete contrari a questa guerra crudele, che siete contro questo amore che uccide il fratello e contro la guerra” e così via. […] Possiamo dire che il problema è che i Russi hanno un re nelle loro teste. E il problema degli Ucraina è che non hanno nessun re nelle loro teste. E questo per dirla in breve. Perché, quando pensassimo che il nostro presidente sta diventando un imperatore, lo cacceremo immediatamente, come abbiamo fatto nel 2014. E pertanto nella nostra situazione, non possiamo avere Putin.”

Volf ha poi chiesto al Raychinets un parere sulla posizione della Chiesa Ortodossa a proposito del conflitto.

“[…] Il patriarca Kirill sta appoggiando apertamente Putin. Infatti conosco alcuni miei amici, del Consiglio Ecumenico delle Chiese, che mi hanno inviato notizie di alcuni tentativi di contattare il Patriarca e di chiedergli a voce, almeno a voce, la sua posizione. Se fosse pro o contro la guerra e che rendesse chiara la sua posizione. Bene, c’è stato silenzio, Ma come sai, il silenzio in tempi di crisi morale non è un segnale positivo. Ma facciamo un altro esempio: in Ucraina, abbiamo tre rami della Chiesa Ortodossa. In realtà ora ne abbiamo due, ma c’è una piccola parte che è un terzo ramo della Chiesa Ortodossa. Ma ce n’è una che chiamiamo Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca. Queste parti avevano una chiarissima posizione sulla guerra. E’ comprensibile, perché sarebbe la fine della Chiesa in Ucraina. Ma dall’altro lato, abbiamo la parte russa che resta in silenzio. Ma ciò che ci ha preoccupato come evangelici è che non soltanto la Chiesa Ortodossa è silente, ma che i leader più importanti delle chiese evangeliche sono rimasti in silenzio. E questo ci ha dato molto fastidio. Come diciamo in Ucraina, la guerra non è iniziata 18 giorni fa, ma 8 anni fa. E per tutti questi 8 anni, hanno appoggiato Putin nella ambizione imperiale di ingoiarsi l’Ucraina. Ma ciò che ci preoccupa anche è  che l’Ucraina non è il suo obiettivo finale. E questo l’Europa non l’ha colto ed è un peccato.”

L’intervista si conclude con un’esortazione all’Occidente di agire per fermare il conflitto in qualsiasi maniera. Ecco cosa viene affermato.

“[…] nella parte occidentale del mondo, nelle democrazie liberali, il pubblico dovrebbe costringere i governi a fare qualcosa.  E l’unico messaggio che vorrei comunicare che vorrei comunicare è, in primo luogo, che non dovrebbero avere paura di Putin, perché gli ucraini hanno fatto scoprire che la seconda forza militare del mondo non è la seconda forza militare del mondo. E’ soltanto un bluff, il grande bluff di Putin. Pensavano che in due tre giorni avrebbero occupato l’Ucraina. Che avrebbero occupato Kiev, Se avessero ucciso il nostro presidente, avrebbero cambiato il governo e controllerebbero l’Ucraina. Ora siamo al diciottesimo giorno in cui ci confrontiamo con questa superpotenza militare e non è così forte come ci si è stato detto. Questa è la prima cosa. La Nato può vedere che non è così forte come pensavano. La seconda cosa è che non si fermerà in Ucraina. Questo chiediamo, quando preghiamo l’Occidente “Chiudete i nostri cieli”, ci piacerebbe che lo facessero per aiutarci. Ma vi è qualcosa che ci lascia delusi dall’Occidente. Il fatto che sono con noi, che hanno compassione. Che ci aiuterebbero realmente, ma che non lo fanno. Non so cosa non va con la politica in questo mondo.”

In una situazione di guerra, la fede è messa sempre alla prova. Alla domanda di come si vive la fede in una situazione di conflitto reale, di come quotidianamente un teologo vive durante un periodo di guerra, questa è stata la risposta.

“Ho lottato con la mia fede nel mio percorso teologico e pastorale. Perché per me, è stato sempre importante nella teologia, nella nostra convinzione, di essere sincero. […] E’ una sfida sostenere una fede nella situazione dove c’è la sensazione che non puoi controllare nulla di ciò che sta accadendo. Non puoi cambiare nulla. Non puoi avere alcuna influenza sulla situazione che la cambierebbe nella maniera che tu vorresti. […] Ma dall’altro lato, penso che in quella situazione, quando tu non hai il controllo di nulla, quando giaci nel tuo letto e non sai se il luogo dove tu starai stanotte rimarrà in piedi sino alla mattina, e quando la mattina sei stanco e non vuoi fare nulla, vuoi stare solo seduto in un luogo sicuro, e non pensi minimamente di uscire. Quando però ti ricordi di queste persone e ti ricordi dei loro bisogni, e ricevi delle telefonate su cosa hanno bisogno e confidi nel Signore, allora dici “andrò”. E se morissi, almeno morirò per la giusta causa. Stavo cercando di aiutare qualcuno. Non è così semplice come può apparire […] La tua fede è sfidata dall’affermazione di un soldato che dice: “Tu vai lì sotto la tua propria responsabilità”. E’ così. Ed allora non sai se andare o rimanere. O hai paure di andare, o rischi la tua vita e tu vai perché qualcuno ha bisogno della tua presenza. E non si tratta dei tuoi parenti. Queste sono persone che non hai conosciuto se non qualche giorno, e forse non avevi idea della loro esistenza sino a ieri, ma ci sono dei legami con queste persone. E non le puoi abbandonare. Non puoi tradirle. Tu sei un pastore, E si sa, che non è l’unica storia, perché molti pastori hanno lasciato Kiev sin dall’inizio della guerra. Non so se torneranno, come possano guardare negli occhi la gente quando l’hanno abbandonato in questa situazione miserabile. […] Questa è la fede che ti sfida ogni giorno. “Ok. Puoi andare o restare sicuro”. Ho centinaia di esempi che posso citare. Un mio amico in Inghilterra, dice: “So che non lo farai. So che non mi ascolterai, ma vorrei che ti trasvestissi da donna e lasciassi il tuo paese.” Lo sai che come uomo non posso lasciarlo. Ho amici negli Stati Uniti che hanno trovato avvocati che mi vorrebbero aiutare ad immigrare dal paese, ed ho amici in Canada e dovunque che hanno detto: “Fyodor, scappa. Salvati”. E anche questo sfida la tua fede. Ma ti dà anche noia. Questi inviti ti ossessionano. Va semplicemente in un posto sicuro. Potresti essere utile altrove, non soltanto qui. Pertanto non c’è una grande fede. Questa è una sfida. C’è la sfida quotidiana di quando i soldati di avvertono, quanto la gente ti avvisa, quando tua madre ti chiama e ti dice. “Cosa? Sei pazzo? Cosa fai ancora lì? Vieni a casa. E’ sicuro qui. Tuo figlio ti sta aspettando”. E così sei messo alla prova. La tua fede è messa alla prova, non soltanto dalle circostanze, ma anche dalla situazione, anche dai tuoi amati. Da coloro che ti sono più vicini. Mi ricordo della parola di Gesù sul fatto che proprio i tuoi familiari ti daranno più grattacapi e così via. Così questa è la maniera in cui leggo il Vangelo. Leggo il Vangelo di Gesù quando è venuto fuori dal deserto e che quello non era la fine della sua tentazione. Era solo l’inizio. E che sarebbe stato tentato da coloro che gli sarebbero stati più vicini, da coloro che gli sarebbero stati accanto. Lo avrebbero tentato a non vivere nella maniera in cui viveva, a non prendere il sentiero che aveva preso e così via. Così la mia fede è messa alla prova, dalla situazione, ma anche dai miei parenti e dai miei amici sparsi nel mondo.”

Per aggiornare questa testimonianza pubblichiamo, tradotti, anche due degli ultimi post che Fyodor Raychynets ha pubblicato sul conflitto su Facebook.

“Kiev. 42° giorno di guerra. Quando ho iniziato a scrivere post quotidiani qui, sapevo che sarebbe arrivato un giorno in cui non avrei voluto scrivere nulla, e ci sono stati diversi giorni del genere, ma gli eventi che accadevano intorno a me tutto il tempo, hanno portato qualcosa di nuovo su cui volevo riflettere , primo per me stesso, e ovviamente da condividere con gli amici… Oggi è uno di quei giorni… Durante la mia permanenza nei Balcani, mi sono ricordata di una semplice verità che credo sia stata detta o da Mesho Selimovich (che mi piaceva leggere), o da Ivo Andric (unico scrittore balcanico a ricevere il premio Nobel per la letteratura): “Ciò che non è scritto, non esiste” e poi da qualche parte ho letto o sentito che “una stupida matita è meglio di qualsiasi ricordo umano”. Ciò ha cambiato il mio atteggiamento nel sistemare gli eventi della vita su carta. […] Ora è diventato più sicuro muoversi, quando si sta a Kiev, e speriamo presto sarà altrettanto sicuro muoversi nella zona, ma la stanchezza è arrivata non fisica, ma emotiva…. ed è stanchezza non tanto per quello che è stato fatto, ma per quello che si è visto e sentito…Stanchezza, vuoto e riluttanza a dire, scrivere qualsiasi cosa… non perché non c’è niente da dire o scrivere… e perché dalle tue stesse parole, e quelle degli altri non lo rendono più facile… nessuna parola o silenzio può aiutare… non ci sono parole per esprimere tutto, ma è impossibile rimanere in silenzio al riguardo… sperando che passi anche questo… devo solo continuare a imparare con esso ora vivi in qualche modo…La guerra è quando è difficile trovare parole adeguate per descrivere ciò che si prova, si vive, ed è ancora più difficile rimanere in silenzio al riguardo…”

“Kiev. 45° giorno di guerra in Ucraina. Un altro Shabbat senza shalom… invece di shalom qualche allarme interiore poco chiaro dal silenzio che è presente nella zona… anche questo è il primo sabato che non facciamo comunioni a militari e cappellani. La scorsa settimana è stata emotivamente molto controversa e instabile… Durante questa settimana, abbiamo visto i risultati dei bombardamenti di massa, visitando Buca, Borodianka, Gostomel, Irpinov e altro ancora. Le cose che sentiamo da un mese.. che ho visto e mi ha terrorizzato per la portata della distruzione… La settimana è iniziata con buone notizie sulla liberazione della regione di Kiev e si è conclusa con cattive notizie da Kramatorsk… bombardamenti con bombe alla stazione dove si trovavano cittadini pacifici (per lo più donne con bambini), mentre cercavano di evacuare…Quanti altri hanno bisogno del mondo di Buca, Borodyanok, Gostomel, Irpinov, Kramatorskiv per capire finalmente che il linguaggio non riguarda da tempo la guerra, ma un crimine di massa contro l’umanità nel XXI secolo?  Conosci la stanchezza delle buone azioni utili? È una sorta di simbolo di stanchezza fisica, emotiva e morale… questa stanchezza è il risultato di una certa consapevolezza da 40 giorni che la scala del disastro umanitario e del bisogno è così enorme, e il tuo aiuto e la tua buona azione sono così miserabili, e non sei in grado di cambiare nulla in questa evidente sproporzione…Stanco di affrontare emozioni che ancora non sai come affrontare tutti i giorni… Stanco delle domande morali a cui non avevi mai pensato prima, e devi ammettere ormai che non hai le risposte a queste domande… stanco del numero di domande a Dio che ti riecheggiano… Stanco di voler fare qualcosa solo per distrarti dalle emozioni e dai pensieri che ti feriscono..

Dio salvi l’Ucraina, prenditi cura dei suoi difensori, del suo popolo che soffre, dai fuoco a tutti coloro che sono rimasti feriti in questa guerra e non sono in grado di affrontare la dolorosa perdita… Donaci la pace desiderata, non solo la pace, ma una pace giusta…

E tutto il resto amici, se Dio vuole, dopo la vittoria…

(testo tradotto e curato da Valerio Bernardi)

Il “duplice ascolto” in tempo di guerra

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Si deve l’espressione “duplice ascolto” a John Stott, il reverendo evangelico anglicano che ha influenzato enormemente il movimento evangelico del ‘900. Con questa espressione egli voleva indicare la necessità che i cristiani si ponessero nella condizione di un ascolto duplice nei confronti della Bibbia e nei confronti del mondo in cui vivono; questo al fine di far si che la loro testimonianza fosse a un tempo biblicamente fondata e autenticamente rilevante per le donne e gli uomini di oggi. Stott non era il primo ad aver indicato questa duplicità della sensibilità cristiana. Qualcun altro prima di lui (forse Oscar Culmann) aveva usato l’immagine del cristiano con la Bibbia in una mano e con il giornale sotto il braccio.

Queste immagini sono suggestive e rimandano a un tempo in cui i cristiani, in pieno benessere economico e sociale, si chiedono in che modo la loro testimonianza può essere radicale, può fare la differenza. A me paiono immagini che si collocano perfettamente in un tempo di pace in cui meditare, quietamente, e leggere il giornale, sono attività che possono essere svolte senza molti patemi d’animo. La parola d’ordine è influenzare, essere presenti, contare!

Ma, mi chiedo, proprio nei giorni in cui fanno il giro del web le immagini di Bucha, in Ucraina, esiste una versione del “duplice ascolto” per i tempi di guerra?

Che cosa potremmo ascoltare dalla Bibbia, affinché la nostra testimonianza possa essere rilevante anche mentre il rombo assordante della guerra è ciò che ascoltiamo, al giorno d’oggi?
Proviamoci.

Ascoltare la Bibbia/parola di Dio

Da dove cominciare? Un po’ come per altre questioni (penso alle migrazioni), viene il dubbio: si comincia dall’AT, con le sue definizioni di nazione (Gen 10), di popolo eletto (Gen 12), con le legislazioni precipue sui confini (Torah), con i racconti di guerre di conquista (Giosuè), di atti eroici (quante volte avete ascoltato il riferimento a Davide e Golia, per narrare il conflitto russo-ucraino)? Con i racconti del coinvolgimento divino (Il Signore degli eserciti) e del mondo soprannaturale?

O si comincia con il NT, e in quale punto? Con il testo/pretesto manifesto del pacifismo (la parola di Gesù a Pietro sulla spada che ferisce e fa perire e dunque da riporre nel fodero); con l’insegnamento sulla radice ultima della forza legittima di Romani 13 (da cui la tradizione della guerra “giusta”); dalla visione del potere umano come di un potere bestiale (Apocalisse) e, di contro, dalla visione dell’autorità che indicò Gesù ai discepoli (le nazioni hanno chi li governa … ma così non sia fra di voi)?

Come sempre, abbiamo bisogno di chiavi di lettura globali che, pur partendo da precisi punti (possono anche essere dei singoli versi …) siano in grado di permetterci la ricostruzione di una cornice di senso per l’intero insegnamento biblico, in presenza della guerra. Questa operazione è legittima e sembra sia il compito di precise discipline teologiche come la teologia sistematica e, ancor più, la teologia biblica. Premesso che queste discipline si mantengano libere dall’ossequio a tradizioni teologiche preconfezionate (teologia riformata, dispensazionalismo, etc.); tradizioni che rivelano una particolare fragilità proprio quando si confrontano con il tema della guerra (basta leggere la storia delle teologie evangeliche per rendersi conto della loro fragilità nei confronti del tema della guerra).

Se dunque abbiamo bisogno di chiavi di lettura globali, qui mi permetto di indicarne due.

  1. Nell’etica del NT appare preponderante la dimensione soggettiva e individuale delle relazioni (basti pensare al frutto dello Spirito e ai frutti della carne di Galati 5; al Sermone sul Monte). A differenza dell’AT, dove emerge una dimensione più collettiva (c’è un soggetto “popolo”). Questo naturalmente non significa che nell’AT non sia presente un messaggio per l’individuo e che nel NT sia assente la dimensione collettiva.
  2. Emerge una prospettiva diacronica: le cose di Dio si muovono nella storia, c’è un percorso, una direzione (Oscar Cullmann in Cristo e il tempo e in altri lavori ce lo ha mirabilmente insegnato), c’è una storia della redenzione. C’è un’epoca di altri tempi, con la promessa e l’annuncio, della salvezza e del giudizio, c’è un presente carico di realizzazione ma anche gravido di futuro; c’è un già e non ancora; c’è un eschaton, un tempo ultimo, il nostro, nel quale si intravede però, e ancora, una fase ultimissima.

Bisogna provare a combinare i due piani: per esempio, la dimensione del soggetto, preponderante nel NT, è annunciata nelle pieghe del percorso storico veterotestamentario (amore per Dio e amore per il prossimo), e soprattutto perché a un certo punto si guarda a un Soggetto per eccellenza, il Messia, all’uomo nato per diventare Re, come articolava Dorothy Sayers nella sua lettura del Vangelo di Matteo, enfatizzando, nella vicenda terrena di Gesù, lo scontro con il potere violento e guerrafondaio: all’inizio (cap. 2, Erode, i magi, la famiglia sacra e la strage degli innocenti), e alla fine (cap. 27, sei tu il re dei giudei? Il mio regno non è di questo mondo ..).

Ecco, è la natura del Soggetto per eccellenza, il Messia, confessato come il Signore dalla comunità delle origini a essere forse la chiave di volta per un ascolto attento della Parola, in tempo di guerra, che coniughi dimensione diacronica e concentrazione sull’individuo.

Seguiamo questa pista.

Nella proposizione del suo nome (Salvatore del popolo) e dei suoi titoli, Figlio dell’uomo, tra gli altri, Gesù riassume in sé la partecipazione alle vicende umane tipica dell’AT, dove si parlava del Signore degli Eserciti, e ne rivela la direzione ultima nonché la sua modalità d’azione (Principe della pace). Lì, nell’AT, lo vedevamo presentarsi come un guerriero (a Mosè, a Giosuè), come ombra dietro ai monarchi espansionisti Davide e Salomone. Ma non va dimenticato, tra l’altro, che il Signore degli Eserciti non era tale solo all’esterno ma lo era anche all’interno, per il suo popolo, che non risparmiava quando legava la sua identità a fattori etnici e nazionalistici e se non allontanava l’idolatria, la vera madre di tutte le guerre.
Questi temi rappresenteranno una costante nella predicazione di Gesù e nel conflitto con le autorità politiche e religiose del suo tempo.

Un tempo, dunque, Dio era Dio degli eserciti non perché e semplicemente era al comando di uno specifico esercito contro altri eserciti; ribadiamolo: poteva anche sbaragliarlo, il suo esercito, in presenza di una contaminazione (la disfatta di Ai nel libro di Giosuè), poteva anche mandarlo in esilio se non rispettava l’orfano e la vedova (tra l’altro). Il Dio degli eserciti e padre di una nazione insegnava, già in un’epoca di brutalità efferate, e che non conosceva le convenzioni internazionali – che tra l’altro non vengono rispettate neanche oggi – che bisognava prepararsi ad amare anche i nemici, che bisognava andare a Ninive a predicare appunto ai nemici (Giona).

Il Dio degli eserciti non era nazionalista ma universalista, aveva di mira il dominio del mondo: si pensi alla figura del Figlio d’uomo di Daniele 13!

Ma questa è proprio l’istanza del Messia, di Gesù, il dominio del mondo, la sottomissione dei poteri mondani e di quelli ultra-mondani e sub-mondani (Ap. 4) non però mediante un esercito ma mediante la “spada” della Parola. Gesù, dunque, e non altri soggetti collettivi come per esempio la chiesa, è il Soggetto che, ereditando le istanze antiche diviene, suo malgrado e in ragione della portata universale del suo dominio, nemico degli imperi e della guerra: dell’Impero romano, subito, ma poi di tutti gli altri che si sono succeduti nella storia, a Oriente come a Occidente, fino agli estremi di queste latitudini. Fossero essi sacri e romani, Wasp, pagani o impregnati di ideologia religiose, del Sol levante o del Jiiad o della Grande Russia…

E infatti è il vangelo di Gesù Cristo e non la cristianità, la realtà che si è sparsa nel mondo e che rappresenta l’unica “forza” che trasformando gli individui può condizionarne le vicende geopolitiche. Con la seconda, la cristianità, sono arrivati le crociate, i conquistadores, e la Compagnia delle indie …. Non avevano a che fare con Gesù e con il vangelo, nonostante gli stendardi con la croce. Con il primo, con il vangelo, al contrario, è arrivato in tutto il mondo il frutto dello Spirito Santo, la testimonianza silenziosa ma feconda dei cristiani del giorno dopo giorno, di coloro che sono stati luce e sale nelle pieghe della storia, nella prosperità economica (à la John Stott) ma anche nei conflitti, come nelle guerre.

E attraverso di loro che si palesa quella strana parola della Lettera agli Ebrei (cap 2) in cui si indica Gesù come il vero Signore della storia, anche se sotto segni contrari:

Avendogli sottoposto tutte le cose, Dio non ha lasciato nulla che non gli sia soggetto. Al presente però non vediamo ancora che tutte le cose gli siano sottoposte; però vediamo colui che è stato fatto di poco inferiore agli angeli, cioè Gesù, coronato di gloria e di onore a motivo della morte che ha sofferto, affinché, per la grazia di Dio, gustasse la morte per tutti.

Cerchiamo nella Bibbia (la vogliamo ascoltare) un punto di sintesi di una riflessione sulla guerra e scopriamo che sia la figura di Gesù a essere questo punto di sintesi. Gesù è colui che sta di fronte al tema della guerra russo–ucraina (ricordiamoci che dobbiamo ancora ascoltare il mondo, e lo faremo prossimamente). In che modo allora è coinvolto Gesù nel conflitto? Sicuramente non nei grotteschi balbettii delle chiese con i loro impasti di criptopaganesimo (con tutto il rispetto per la venerazione di madonne, icone e segreti mariani), oppure con le formule stereotipate e sterili di organismi vari (con tutto il rispetto per Consigli ecumenici e Alleanze di vario genere).

Gesù è coinvolto nel conflitto, a mio giudizio, in due forse tre modi:
– nei furgoni e nelle carovane che portano aiuti (in quelle religiose come in quelle laiche e secolari);

– Gesù è coinvolto nella testimonianza da fede a fede tra la gente, tra le persone, come unico conforto nella vita e nella morte grazie alla comunicazione del vangelo che, è certo, i credenti in Gesù Cristo stanno facendo anche ora, nell’ora più buia; negli scantinati, come facevano nell’ormai distrutta Facoltà Battista di Irpin;

– Gesù è presente in un grido che guarda all’eschaton, un grido, forse, millenarista, sì, perché no? Abbiamo visto la tua azione nell’umiltà, nella croce, Signore, l’abbiamo confessata e vogliamo incarnarla; ma, ti preghiamo, facci vedere, almeno per un tempo, che cosa avrebbe potuto essere la terra se avesse regnato il Figlio di Dio; è vero che il lupo potrebbe sedersi accanto all’agnello? Che dalle spade si potrebbero costruire vomeri? Questo desideriamo vederlo, nel mentre assistiamo alla macelleria della guerra.

Ma se di fronte alla guerra la Bibbia si suggerisce di guardare “cristologicamente” e se il Cristo che conosciamo, confessiamo e imitiamo è quello della croce, che ci chiede, oggi, di esprimerlo in questi termini (la croce e la non violenza), pur avendo la consapevolezza della sua potenza e nutrendo la speranza di vederlo in azione, allora si pone necessariamente una riflessione per il giorno d’oggi. Come combinare la croce con il giornale e con i report che vengono dal campo di battaglia?

Ascoltare il mondo … segue

 

 

Sotto la protezione della Madre di Dio

di Massimo Rubboli

L’uso di simboli religiosi tradizionali da parte del patriarca Kirill della Chiesa ortodossa russa nella guerra contro l’Ucraìna non costituisce una novità. Già nell’agosto 2009, Kirill donò un’icona della Vergine Maria all’equipaggio di un sottomarino nucleare nella base navale di Severodvinsk. Una settimana dopo l’invasione russa, durante una funzione religiosa che si è tenuta nella Chiesa del Salvatore a Mosca, Kirill ha donato una copia dell’icona di “Nostra Signora di Augustówa Viktor Zolotov, capo della Guardia nazionale russa, dicendo: “Possa questa immagine ispirare i giovani soldati che prestano giuramento e che si apprestano a difendere la Patria”. Zolotov ha risposto: “Crediamo che questa immagine proteggerà l’esercito russo e accelererà la nostra vittoria. […] le cose non vanno così velocemente come vorremmo” (1). L’icona, che rappresenta la presunta apparizione della Madonna ai sodati russi durante la II guerra mondiale, è conservata nella grande Cattedrale delle Forze armate russe, vicino a Mosca, dedicata nel 2000; qui si trovano anche affreschi che celebrano le recenti guerre in Georgia e in Siria e l’annessione della Crimea del 2014.

Il 25 marzo, festa dell’Annunciazione, a Roma il papa e a Fatima il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere, hanno consacrato al Cuore immacolato di Maria i popoli della Russia e dell’Ucraìna. Nella basilica vaticana, il pontefice vescovo di Roma ha consacrato alla Madonna l’umanità e, in particolare, i popoli di Russia e Ucraìna:

Santa Madre di Dio, mentre stavi sotto la croce, Gesù, vedendo il discepolo accanto a te, ti ha detto: «Ecco tuo figlio» (Gv. 19: 26): così ti ha affidato ciascuno di noi. Poi al discepolo, a ognuno di noi, ha detto: «Ecco tua madre» (v. 27). Madre, desideriamo adesso accoglierti nella nostra vita e nella nostra storia. In quest’ora l’umanità, sfinita e stravolta, sta sotto la croce con te. E ha bisogno di affidarsi a te, di consacrarsi a Cristo attraverso di te. Il popolo ucraino e il popolo russo, che ti venerano con amore, ricorrono a te, mentre il tuo Cuore palpita per loro e per tutti i popoli falcidiati dalla guerra, dalla fame, dall’ingiustizia e dalla miseria.
Noi, dunque, Madre di Dio e nostra, solennemente affidiamo e consacriamo al tuo Cuore immacolato noi stessi, la Chiesa e l’umanità intera, in modo speciale la Russia e l’Ucraina. (2)

Pochi giorni prima, il settimanale cattolico “Famiglia cristiana” aveva fatto notare polemicamente che esiste una “differenza abissale fra il gesto del patriarca e quello che ci accingiamo a compiere nella nostra chiesa. Noi, infatti, non affideremo all’intercessione di Maria solo uno dei due popoli in conflitto, ma entrambi, consapevoli del fatto che entrambi sono vittime di una guerra sempre ingiusta, come affermato da papa Francesco”.(3)

Il gesto del papa è certamente stato motivato dalle migliori intenzioni, ma da una prospettiva storica solleva più di una perplessità sulla sua opportunità in questo contesto bellico.

Il rito di consacrazione fa riferimento alle presunte apparizioni della Vergine Maria a tre giovanissimi pastori (Giacinta Marto, Francesco Marto e Lúcia dos Santos) nel villaggio di Fatima tra la primavera del 1916 e l’autunno del 1917. Tra le profezie e richieste ricevute dai pastorelli, una riguardava la consacrazione della Russia (in quel tempo nel mezzo della Rivoluzione) al Cuore immacolato di Maria affinché si convertisse.

Questo evento viene letto in modo diverso nelle due tradizioni cristiane: in quella cattolica, come una risposta alla minaccia del comunismo ateo; in  quella ortodossa, alla luce di un millennio di lotte (non solo dottrinali!) tra il cristianesimo orientale e quello occidentale, come una possibile nuova aggressione. Infatti, alla rottura formale della comunione tra la Chiesa latina e i quattro patriarcati storici della Chiesa orientale nel 1054, seguirono una serie di scontri che culminarono nel saccheggio di Costantinopoli da parte dell’esercito crociato nel 1204. Nell’immaginario identitario della cultura ortodossa, la Chiesa cattolica e l’Occidente hanno continuato ad essere percepiti come aggressori e conquistatori.

Inoltre, la “consacrazione” prevede un coinvolgimento e assenso personale di chi viene consacrato che in questo caso sono mancati.

Poi, per quanto riguarda il dogma cattolico dell’Immacolata Concezione, che risale al 1854, bisogna ricordare che non è condiviso dalle chiese ortodosse, che non ne accettano il presupposto teologico, cioè la dottrina agostiniana del Peccato originale. Quindi, consacrare due paesi a stragrande maggioranza ortodossa al Cuore immacolato di Maria rischia di alimentare i timori della parte più conservatrice del mondo ortodosso di uno sconfinamento della Chiesa cattolica.

Ancor più, da parte ortodossa questo gesto può essere interpretato come un’affermazione dell’autorità spirituale universale del papa. Infatti, quando il pontefice affida e raccomanda due paesi alla Beata Vergine Maria, lo fa in virtù delle sue prerogative di pastore universale della Chiesa e Vicario di Cristo. Perciò, il patriarca della Chiesa ortodossa russa, che considera il papa non come suo superiore ma come uguale, sarà indubbiamente infastidito da questa intrusione nel mondo russo (Russkij mir), sul quale esercita una giurisdizione esclusiva. Inevitabilmente, ciò raffredderà o congelerà i rapporti tra le due chiese, che sembravano avere intrapreso un nuovo cammino dopo l’incontro all’aeroporto dell’Avana il 12 febbraio 2016.

Chi prevedeva che un prossimo incontro tra Francesco e Kirill avrebbe fatto compiere un altro passo al dialogo ecumenico sarà certamente deluso. Ma non è da escludere un nuovo gesto del papa che, approfittando delle discordie interne alla Chiesa ortodossa russa acuite da questa guerra, potrebbe nominare un  vescovo della Chiesa greco-cattolica russa in comunione con Roma, la cui sede è vacante da oltre mezzo secolo.

Massimo Rubboli
(si veda il suo Instant Book La guerra santa di Putin e Kirill, Edizioni GBU)

 

NOTE

(1) Putin’s war in Ukraine is blessed by Church icon, says Kremlin boss, “The Times”, 14 marzo 2022, thetimes.co.uk/article/bdd711f0-a39f-11ec-9909-6547dd4945b7?shareToken=45095f78b5e3ae786e0cc1c52fc641da (visto il 15/3/2022).

(2) Atto di Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, https://www.vatican.va/content/francesco/it/prayers/documents/20220325-atto-consacrazione-cuoredimaria.html (visto il 27/3/2022).
Cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, Art. 9: Credo “la santa Chiesa Cattolica”. Par. 6: Maria – Madre di Cristo, Madre della Chiesa, I. La maternità di Maria verso la Chiesa, § 975 “Noi crediamo che la santissima Madre di Dio, nuova Eva, Madre della Chiesa, continua in cielo il suo ruolo materno verso le membra di Cristo”.

(3) Pino Lorizio, Maria, madre di tutti e non icona guerriera, “Famiglia cristiana”, 18 marzo 2022, https://www.famigliacristiana.it/articolo/maria-madre-di-tutti-e-non-icona-guerriera.aspx (visto il 19/3/2022).

 

 

 

 

Di nuovo la guerra

di Elena Ammirabile

“La Russia cambia il mondo” questo è il titolo del secondo fascicolo di Limes del 2022 arrivato alla sua terza ristampa. Il 24 Febbraio del 2022 il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin annuncia un’operazione militare nel Donbass in difesa delle autoproclamate repubbliche indipendentiste, inizia così una guerra di cui oggi  a un mese di distanza, non riusciamo a vedere la fine.

Questa non è l’unica guerra o conflitto armato in corso, l’ACLED ne conta 27 nel mondo ma è  la prima invasione di uno stato nel continente  europeo da quella cecoslovacca del 1968 che sancì la fine del sogno del comunismo sovietico come governo del popolo per il popolo.

Da una parte abbiamo l’aggredito: l’Ucraina, stato sovrano, tornata indipendente nel 1991 con lo scioglimento dell’URSS, in un percorso sofferto sia nell’affermazione dello stato di diritto, base di una democrazia compiuta che prevede la tutela di tutte le minoranze politiche e linguistiche, sia nel suo posizionamento strategico, con una faglia aperta tra chi vuole accelerare il percorso di avvicinamento all’Unione Europea e chi preferirebbe l’allineamento con la Federazione Russa che dal 2014  alimenta il conflitto nella regione del Donbass tra regioni indipendentiste e stato centrale.

Dall’altra abbiamo l’aggressore: la Federazione Russa considerata una democratura, regime che della democrazia mantiene solo la forma ma in cui il potere politico è saldamente in mano ad un autocrate, Vladimir Putin, dal 2000. Putin ha risollevato la Federazione Russa dalla terribile crisi economica e finanziaria degli anni Novanta, dovuta al drastico passaggio da l’economia socialista a quella del libero mercato, a scapito delle libertà civili. La politica estera della Federazione Russe  nell’era Putin è stata aggressiva nei confronti dei suoi vicini, ne hanno fatto le spesa la Georgia, la stessa Ucraina nel 2014 e la Moldavia dove, con il pretesto della difesa delle comunità russofone ha sollecitato e finanziato secessione di regioni, dove non è entrata in armi,  ottenendone de facto il controllo.

Con l’invasione dell’Ucraina la Federazione Russa ha scelto di mettersi fuori dalla Comunità internazionale violando il diritto internazionale, violazione sancita dalla condanna  da parte dell’Assemblea dell’ONU passata con 141 voti favorevoli, solo 5 negativi e 58 astenuti.

Per quanto fosse inaspettata per i più l’invasione era programmata da tempo, lo dimostra il progressivo dispiegamento  di forze sul confine, voleva essere una guerra lampo nella speranza di una sollevazione da parte dei cittadini ucraini russofoni che avrebbe portato alla destituzione del governo in  carica, invece le città a maggioranza russofona stanno ancora resistendo all’occupazione russa.  Il governo e la popolazione si è stretta intorno al suo presidente che ha dimostrato grandi capacità comunicative  ed ha trovato  il sostegno immediato dell’Unione Europea e degli Stati Uniti attraverso l’invio di armi e sanzioni che stanno portando al tracollo l’economia russa, il rublo ha perso il 30% del suo valore rispetto all’euro, che si basa principalmente  sull’esportazione di materie prime.

È difficile prevedere quale sarà il compromesso che porterà al cessate il fuoco, se il conflitto si allargherà o se potremo ancora parlare di uno stato ucraino indipendente ma possiamo vedere delle traiettorie di lungo termine che sono state innescate o accelerate da questa guerra: il fallimento della globalizzazione; transizione ecologica come soluzione; rincorsa al riarmo; gli sfollati ucraini capovolgono il paradigma dell’accoglienza; l’Unione Europea e il suo status di potenza; la disinformazione online come arma di guerra.

Questa guerra ha mostrato il fallimento della globalizzazione, la fiducia che in un mondo in cui i confini nazionali sfumavano a vantaggio degli scambi economici, l’interdipendenza economica avrebbe reso sconveniente ed irrazionale una guerra soprattutto tra i paesi sviluppati, la globalizzazione non solo ha amplificato le diseguaglianze ma non ha fiaccato il nazionalismo, probabilmente neanche la stessa Federazione Russa si sarebbe aspettata una condanna così netta da paesi che paesi con una così accentuata dipendenza energetica, in particolare Italia e Germania. Bisognerà quindi iniziare, come è già successo con le scelte europee sui semiconduttori a pensare gli scambi commerciali in termini di politica estera, come d’altronde fa la Cina da sempre. Di conseguenza la dipendenza energetica è diventata un problema non solo economico ma di sovranità, in particolare per l’Italia, questo potrebbe imprimere un’importante accelerazione alla transizione ecologica con un duplice output positivo geopolitico ed ambientale.

Inizia  ufficialmente la corsa al riarmo, gli Stati Uniti hanno spostato da tempo il baricentro strategico nel Pacifico il confine l’altra potenza mondiale, la Repubblica Popolare Cinese, senza il protagonismo americano e della Nato il progetto dell’esercito europeo diventa la vera unica alternativa con una guerra ai confini dell’Europa  e con esso la scelta di molti stati, prima la Germania poi l’Italia di portare al 2% del PIL la spesa per la difesa. Viene così  sancito il cambio di scenario, non siamo più in un mondo unipolare, in cui gli Stati Uniti sono stati il gendarme, l’uscita dall’Afghanistan e la scelta di Biden di non diventare l’interlocutore di Putin, né sono la prova, torniamo ad un assetto multipolare in cui l’Unione Europea deve definire la sue scelte di politica estera. Già l’emergenza Covid ha portato l’unione Europea ad agire in modo più coordinato e coeso, questa guerra è l’occasione per smussare le divergenze anche in ambiti come la difesa e la politica estera verso un’integrazione politica maggiore.

L’invasione ha innescato un esodo di civili, in tre settimane 3,3 milioni milioni persone hanno lasciato l’Ucraina, il 7% della popolazione totale (dati ISPI), principalmente accolti nei paesi limitrofi, gli stessi stati che non volevano partecipare alla redistribuzione per quote dei migranti arrivati via Mediterraneo si trovano ora a chiedere una presenza maggiore dell’Europa e di quote per l’accoglienza degli ucraini. Se da una parte viene denunciato un double standard, porte parte per gli europei e chiuse per chi viene da fuori, evidente anche in piena crisi lungo il confine polacco, prepariamoci a nuove ondate dal nord Africa dove la mancanza delle forniture di grano ucraino e russo inciderà in modo pesante. Dovremmo ora ripensare alle politiche migratorie per farle uscire dall’ambito dell’emergenza, sappiamo che ormai sono strutturali e come tali andrebbero regolate.

Infine abbiamo visto la pervasività della “dottrina Gerasimov” o altrimenti detta “guerra ibrida”, dal nome del generale capo dello stato maggiore russo che l’ha teorizzata e messa in atto. Essa prevede sia la guerra combattuta dagli eserciti, azioni terroristiche, quando cioè si prendono di mira i civili non l’esercito nemico, disinformazione, propaganda e finanza speculativa. Soprattutto la disinformazione si è rivelata un’arma potente nel condizionare parte dell’opinione pubblica degli stati occidentali, opinione pubblica che ha  il potere di influenzare le scelte dei governi democraticamente eletti manipolata da un governo che disprezza la libera informazione (caso Politkovskaja) e qualsiasi forma di manifestazione  pubblica di un pensiero dissidente rispetto alle scelte presidenziali.

Noi come credenti come possiamo essere “operatori di pace” in questa situazione? Prima di tutto dando il nome giusto alle cose, abbiamo una vittima ed un invasore; quindi informandoci per non essere, anche inconsapevolmente, strumenti di propaganda; terzo ricordandoci di odiare il peccato e non il peccatore quindi non entrando in una spirale maniche per cui ci sono buoni e cattivi, noi sappiamo che c’è  il peccato che alberga nel cuore degli uomini; quarto ma non ultimo ricordandoci della vedova e dell’orfano, categorie che pensavamo fossero non più contemporanee e che invece corrispondono al 90% degli sfollati, prendendo i cura di loro, ciascuno in base alle sue possibilità per dimostrare quell’amore che Cristo ci ha offerto gratuitamente.

 

Elena Ammirabile, Dottoressa in Relazioni Internazionali presso la Cesare Alfieri di Firenze, membro del Consiglio di amministrazione del Centro Evangelico di Poggio Ubertini.

La militarizzazione delle coscienze: la guerra santa di Putin e Kirill

(di Massimo Rubboli)

Le immagini in diretta dell’invasione dell’Ucraìna, che ci hanno lasciati sgomenti e inorriditi, sono state così drammatiche da attirare tutta la nostra attenzione sulle centinaia di morti e migliaia di profughi. I carri armati dell’esercito russo, che travolgevano persone e cose schiacciando i princìpi del diritto internazionale e dell’autodeterminazione dei popoli, hanno fatto dimenticare altri aspetti di questa guerra, come la fornitura di armi dall’Italia alla Federazione russa, in violazione dell’embargo deciso dal Consiglio europeo dopo l’invasione della Crimea, o la violenza sulle donne, che ricorda gli stupri etnici delle milizie paramilitari serbe in Bosnia. Un aspetto rimasto ai margini dei commenti è quello della dimensione religiosa.

 

La dimensione religiosa

Vale pena ricordare che negli ultimi due decenni la posizione della Chiesa ortodossa russa ha subito una profonda trasformazione che l’ha portata ad assumere un ruolo sempre più importante nella vita pubblica e ad esercitare una profonda influenza nella società russa. Il cambiamento – dal rifiuto di un coinvolgimento della chiesa in politica di Alessio (Alexsej) II, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, alla collaborazione sempre più stretta con lo stato con il patriarca Cirillo (Kirill) I, intronizzato nel gennaio 2009 – non ha seguito un percorso lineare ma il risultato è inequivocabile.

Cirillo, in realtà, raccolse l’invito a potenziare la “cooperazione della Chiesa con la stato e la società civile, anche nel campo del miglioramento delle leggi” rivolto da Alessio pochi mesi prima della sua morte al Concilio dei vescovi[1]. Sotto la sua energica guida, la Chiesa ortodossa russa è diventata uno dei principali alleati e sostenitori del governo russo e, in particolare, della sua propaganda patriottica ottenendo in cambio il riconoscimento di uno status privilegiato.

Da strumento nelle mani dello Stato, come fu sotto Stalin e durante la II guerra mondiale[2], la Chiesa ortodossa russa è arrivata ad essere un agente autonomo e indipendente, la cui influenza si fa sentire in aree diverse come l’istruzione pubblica e le forze armate. Essa ha anche svolto un ruolo centrale nella reinterpretazione della memoria storica che, a partire falla riabilitazione degli zar, presenta le rivoluzioni del febbraio e ottobre 1917 come una “tragedia nazionale russa”[3] e investe di simbolismo religioso siti storici come i lager staliniani[4].

Inoltre, il patriarca Cirillo ha voluto e ottenuto il riferimento a Dio nella revisione costituzionale approvata mediante referendum popolare del 1° luglio 2020 e vigente dal successivo 4 luglio[5]. La maggioranza dei commenti si è soffermata sulla cancellazione del vincolo dei due mandati che permetterà a Putin di restare al potere fino al 2036 e ha trascurato la dimensione valoriale composta da “Dio, patria e famiglia”, che riserva una posizione di privilegio alla Chiesa ortodossa e, praticamente, reintroduce il legame bizantino tra Chiesa e Impero[6]. Come ha osservato Giovanni Codevilla, uno dei principali studiosi di storia delle relazioni tra Chiesa e Stato nell’Europa Orientale, “si rinnova tacitamente in tal modo tra il patriarca e il Presidente quel contratto a prestazioni corrispettive che è tipico del giurisdizionalismo: da un lato il patriarca garantisce la legittimazione della sovranità dello Stato e dall’altro Putin concede una posizione privilegiata alla Chiesa”[7].

Per quanto riguarda il campo dell’istruzione pubblica, i tentativi di introdurre l’insegnamento della tradizione religiosa ortodossa che non avevano avuto successo fino al 2008 ebbero un esito positivo durante la presidenza Medvedev[8] quando, con un decreto governativo del gennaio 2012, la Federazione russa reintrodusse l’insegnamento religioso con il curriculum “Fondamenti della cultura ortodossa”[9]. Questo curriculum è centrato sull’educazione patriottica, che si fonda su tre elementi: la riabilitazione dei simboli della madrepatria e della memoria storica, la centralità della tradizione religiosa ortodossa e lo sviluppo di un patriottismo militarizzato che guarda con nostalgia al passato sovietico.

L’avvicinamento della Chiesa alle forze armate, condotto sotto lo slogan “L’esercito è sempre spirituale”, ha portato nel 2009 all’introduzione del ruolo del cappellano militare. La giustificazione della militarizzazione dell’educazione patriottica si basa sull’affermazione che la chiesa ha sempre benedetto i cristiani che combattono in una “guerra giusta”, cioè in difesa della madrepatria; inoltre, come ha affermato il patriarca Cirillo, “il credente sacrifica la sua vita più facilmente del non credente, perché sa che la vita umana non finisce con la fine di questa vita[10].

La legittimazione della guerra in difesa della madrepatria, identificata con la Madre Russia, comporta anche il sostegno delle operazioni militari russe all’estero. Ad esempio, la partecipazione dei militari russi alla guerra in Siria è stata descritta da Cirillo come una “missione storica”[11] in una guerra giusta e difensiva[12].

Le prese di posizione ultraconservatrici del patriarca di Mosca nel campo dei diritti umani lo hanno spesso portato a entrare in conflitto con il patriarca greco ortodosso di Costantinopoli su questioni riguardanti l’Ucraìna e l’Europa occidentale, affiancandosi così alla sempre più aggressiva politica estera sella Russia nei confronti di questi paesi.

 

Scisma ortodosso del 2018

Lo scontro con il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che risale al 2014 con l’occupazione russa della Crimea, arrivò ad una rottura delle relazioni tra il patriarca di Mosca e il patriarca ecumenico Bartolomeo I alla fine del 2018, quando il cosiddetto Concilio di riconciliazione, riunito nella Basilica di Santa Sofia, portò ad una riunificazione tra la Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Kiev e la Chiesa ortodossa autocefala ucraina, eleggendo Epifanio primate della nuova Chiesa nazionale ortodossa; nel gennaio 2019, il Patriarcato di Costantinopoli riconobbe l’autocefalia, cioè il principio di autodeterminazione e di vera e propria indipendenza, della nuova Chiesa ortodossa dell’Ucraina. Il presidente ucraino Petro Poroshenko diede l’annuncio alla nazione, con toni solenni: “Questo giorno resterà nella storia come il sacro giorno della creazione della chiesa ortodossa locale autocefala di Ucraina, il giorno in cui finalmente riceviamo la nostra indipendenza dalla Russia”. Il Patriarcato di Mosca dichiarò “scismatica” la nuova Chiesa e riconobbe una diversa Chiesa ortodossa ucraina. Per Cirillo si trattò di una pesante sconfitta, con una perdita di territorio, numero di fedeli e autorevolezza sul piano internazionale.

Oggi, la posta in gioco è alta perché la guerra lanciata da Putin per riaffermare l’influenza russa nella regione è anche uno scontro sul futuro delle chiese ortodosse russe e ucraine. La chiesa russa non ha nascosto di ambire ad unire tutte le chiese sotto il patriarcato di Mosca, per controllare così anche luoghi sacri dell’ortodossia, come il Monastero delle grotte, fondato nel 1051 dai monaci Antonio e Teodosio, che sovrasta Kiev e milioni di credenti in Ucraina.

 

Divisioni nel fronte ortodosso

Non deve quindi sorprendere la diversa reazione delle chiese ortodosse russe e ucraine all’aggressione voluta da Putin. Dopo che il presidente Putin aveva annunciato la “speciale operazione militare” contro l’Ucraìna, Cirillo è rimasto in silenzio; poi, ha inviato un blando messaggio a tutti i fedeli della Chiesa ortodossa russa, invitando le parti coinvolte nel conflitto a “fare il possibile per evitare perdite tra la popolazione civile”, assistere i rifugiati e i bisognosi d’aiuto. Non solo non ha chiesto esplicitamente la fine delle operazioni militari, ma ha anche sostanzialmente avallato le giustificazioni storiche e ideologiche dell’invasione usate da Putin nei suoi ultimi interventi. Difficile non riconoscere che Cirillo ha reso la chiesa un agente del potere politico; come ha scritto Sergei Chapnin, “Oggi è del tutto evidente che Cirillo non è pronto a difendere il suo gregge – né il popolo dell’Ucraìna né quello della Russia – contro l’aggressivo regime di Putin. La sofferenza umana non è una delle sue priorità”[13].

Al contrario di Cirillo, le due principali chiese ortodosse ucraine si sono opposte apertamente all’invasione: Onufrio, metropolita di Kiev e primate della Chiesa ortodossa ucraina fedele a Mosca, e Epifanio I hanno entrambi chiesto a Putin di porre fine alla guerra.

Onufrio ha paragonato l’invasione russa all’omicidio di Abele da parte di Caino, affermando che, “purtroppo, la Russia ha iniziato azioni militari contro l’Ucraina: in questo momento fatidico vi prego di non farvi prendere dal panico, di essere coraggiosi, di dimostrare amore per la patria e amore vicendevole. In questo momento tragico, esprimiamo amore speciale per i nostri soldati, posti a guardia, protezione e difesa della nostra terra e del nostro popolo”. Il 2 marzo, a  Kharkiv, anche la chiesa ortodossa del Patriarcato di Mosca è stata in parte distrutta[14].

Domenica 27 febbraio, in un sermone teletrasmesso, il metropolita Epifanio ha esplicitamente sostenuto la resistenza, senza specificare se armata o nonviolenta: “Cari fratelli e sorelle, preghiamo e agiamo! Il nostro eroico popolo sta difendendoci dall’attacco della Russia, che sta gettando i suoi soldati e le sue armi sui nostri villaggi e le nostre città, e ogni ora della nostra resistenza motiva sempre più persone nel mondo a sostenere l’Ucraìna”[15].

 

La resistenza disarmata

Nonostante la militarizzazione delle coscienze, indotta con il contributo fondamentale della Chiesa ortodossa russa, la dura repressione di ogni forma di dissenso (il 4 marzo la Duma ha approvato una legge che prevede fino a 15 anni di detenzione per chi diffonde notizie diverse dalle versioni ufficiali sulle “operazioni militari” in Ucraìna diffuse dal ministero della Difesa) e la martellante propaganda di stato, che presenta l’aggressione come una difesa nei confronti della minaccia rappresentata dall’Ucraìna e dai paesi occidentali, la protesta contro la guerra esiste. Se il regime ha messo il bavaglio alla radio Eco di Mosca e al canale tv Dozhd e blocca Facebook, Twitter, BBC e Deutsche Welle per aver diffuso “false informazioni” sulla guerra, altre voci si fanno sentire.

In disaccordo con la posizione del patriarca Cirillo, all’interno della Chiesa ortodossa russa è emerso un piccolo ma significativo dissenso: un gruppo di 233 sacerdoti e diaconi ha sottoscritto un appello che definisce la guerra “fratricida” e invita al cessate il fuoco: “Piangiamo il calvario a cui i nostri fratelli e sorelle in Ucraina sono stati immeritatamente sottoposti. […]  Ci rattrista pensare all’abisso che i nostri figli e nipoti in Russia e Ucraina dovranno colmare per ricominciare ad essere amici, a rispettarsi e ad amarsi […]”. In attesa della prossima Domenica del Perdono, il documento ricorda che «le porte del cielo saranno aperte a tutti, anche a coloro che hanno peccato pesantemente, se chiederanno perdono a coloro che hanno disprezzato, insultato o ucciso per mano loro o per loro volere» e che “nessun appello non violento per la pace e la fine della guerra dovrebbe essere respinto con la forza e considerato come una violazione della legge, perché questo è il comandamento divino: Beati gli operatori di pace”. L’appello si conclude con un invito al dialogo, perché «solo la capacità di ascoltare l’altro può dare la speranza di una via d’uscita dall’abisso in cui i nostri Paesi sono stati gettati in pochi giorni”[16]. Altre firme si stanno aggiungendo.

In una lettera aperta apparsa sul sito web di una piccola casa editrice di San Pietroburgo, un gruppo di pastori battisti e pentecostali russi, appartenenti all’ All-Ukrainian Union of Churches of Evangelical Christian-Baptists, ha affermato: “È arrivato il momento nel quale ognuno di noi deve chiamare le cose con il loro vero nome, quando siamo ancora in tempo a sfuggire alla punizione dall’alto e a prevenire il collasso del nostro paese. Chiediamo alle autorità del nostro paese di fermare questo insensato spargimento di sangue”[17].

 

[1] “Regno-attualità”, n. 22 (2008), p. 733.

[2] Cfr. Adriano Roccucci, Stalin e il patriarca. La Chiesa ortodossa e il potere sovietico, Einaudi, Torino 2011.

[3] Marlène Laruelle, Commemorating 1917 in Russia: Ambivalent State History Policy and the Church’s Conquest of the History Market, “Europe-Asia Studies”, 71 (2) 2019, pp. 249–267.

[4] Zuzanna Bogumił, Dominique Moran, Elly Harrowell, Sacred or Secular? ‘Memorial’, the Russian Orthodox Church, and the Contested Commemoration of Soviet Repressions, “Europe-Asia Studies”, 67 (9) 2015, pp. 1416–1444.

[5] Per un’analisi della revisione costituzionale, v. i contributi di G. Lami, A. Di Gregorio, M. Ganino, I. Galimova, V. Nikitina, G. Codevilla e A. Vitale in “Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società”, 2020, n. 1, pp. 133-257.

 

[6] Su questo tema, v. Giovanni Codevilla, Chiesa e Impero in Russia. Dalla Rus’ di Kiev alla Federazione Russa, Jaca Book, Milano 2011.

[7] Cit. in Cristina Carpinelli, La “nuova” Costituzione russa e il suo codice di civiltà, “Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società”, 2021, n. 1, pp. 67.

[8] Dmitry Medvedev, “Speech at the Joint Session on Cooperation between the State Authorities and Religious Organizations” (11/03/2009), http://en.kremlin.ru/events/president/transcripts/3403.

[9] Cfr. Giovanni Codevilla, Lo zar e il patriarca. I rapporti tra trono e altare in Russia dalle origini ai giorni nostri, La Casa di Matriona, Milano 2008, p. 423 ss.

[10] Kirill, “The Patriarch’s Address to the Attendants at the WW II Memorial” (11/09/2011), http://www.patriarchia.ru/db/text/1620086.html (visto il 25/02/2022). Cfr. Alicja Curanović, The Sense of Mission in Russian Foreign Policy: Destined for Greatness!, Routledge, New York 2021.

[11] Ria Novosti, “The Church Considers the Verdict on Sokolovskiy to Be Humanistic” (11/05/2017), http://ria.ru/20170511/1494083853.html (visto il 25/02/2022).

[12] Rossija 24, “The Christmas Speech of the Patriarch Kirill” (07/01/2016), https://www.youtube.com/watch?v=blsVrPWAAuQ (visto il 25/02/2022).

[13] Sergei Chapnin, Patriarch Kirill and Vladimir Putin’s Two Wars, “Public Orthodoxy”, https://publicorthodoxy.org/2022/02/25/patriarch-kirill-and-vladimir-putins-two-wars (visto il 26/02/ 2022).

[14] Dall’inferno di Kharkiv: Colpiti uffici di curia e la chiesa ortodossa russa, “Vatican News”, 3 marzo 2022, https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2022-03/charki-ucraina-diocesi-latina-chiesa-semenkov.html (visto il 3/3/2022).

[15] Also at Stake in Ukraine: the Future of Two Orthodox Churches, “New York Times”, 2 marzo 2022, https://www.nytimes.com/2022/03/02/world/europe/russia-ukraine-orthodox-church.html?searchResultPosition=1 (visto il 3/3/2022).

[16] I sacerdoti ortodossi russi: nessun appello alla pace dovrebbe essere respinto, “Vatican News”, 2 marzo 2022, https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2022-03/appello-chiesa-ortodossa-russa-fine-guerra-ucraina-pace.html (visto il 3/3/2022).

[17] Jayson Casper, Hundreds of Russian Pastors Oppose War in Ukraine, “Christianity Today”, 3 marzo 2022, https://www.christianitytoday.com/news/2022/march/russia-ukraine-war-pastors-protest-esther-barth-bonhoeffer.html (visto il 4/3/2022).

 

Massimo Rubboli è stato docente di Storia dell’America del Nord e di Storia del Cristianesimo presso l’Università di Genova, Macerata e Firenze.

Alzati e cammina! …solo un gioco da ragazzi…

(di Nicola Berretta)

È di questi giorni una notizia che ha suscitato notevole clamore mediatico, oltre che giustificato stupore, per i risultati ottenuti da un team dell’Università di Losanna, e appena pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature Medicine. Tre pazienti, costretti da anni a muoversi su una sedia a rotelle in conseguenza di traumi subiti alla colonna dorsale, hanno recuperato la facoltà di alzarsi e camminare, grazie all’impianto di sofisticati sistemi di stimolazione posti a livello della colonna vertebrale e governati elettronicamente.

Questo gruppo di ricerca svizzero da anni lavora su sistemi di interfaccia uomo-macchina, capaci di imitare i segnali nervosi che nascono nel nostro cervello e che poi vengono trasmessi giù, lungo il midollo spinale – quel prolungamento del sistema nervoso che decorre all’interno della colonna vertebrale – per dare il via a quella sequenza coordinata di movimenti degli arti inferiori che ci consente di camminare. Un po’ come avere una giostra di cavalli che girano muovendosi su e giù, governata da un cavo di alimentazione che ne avvia il sistema. Il trauma spinale è paragonabile a un taglio di quel cavo: la giostra si ferma. Ma la giostra è ancora lì, pronta a muoversi in modo armonico e coordinato, se solo gli arrivasse di nuovo quel segnale d’avvio.

Per anni tanti laboratori hanno cercato il modo di riattivare la giostra tentando di riparare il cavo di alimentazione, cioè a dire concentrandosi sui meccanismi di rigenerazione delle fibre nervose recise dal trauma spinale, con qualche successo, ma anche incontrando tanti ostacoli che qui tralascio. Questi ricercatori svizzeri hanno invece pensato a un modo per riavviare la giostra indipendentemente dal cavo tranciato. Hanno infatti posizionato degli elettrodi a livello dei centri nervosi del midollo spinale responsabili della deambulazione, e hanno generato attraverso questi dei segnali elettrici che imitano quelli che in precedenza giungevano alla giostra attraverso il cavo. E funziona!

È davvero straordinario vedere e leggere le testimonianze di chi ha vissuto per anni sognando di poter camminare, magari dolendosi per quel malaugurato giorno in cui, per un incidente o per una stupida ragazzata, è accaduto l’irreparabile. Quel sogno diviene realtà. Un’emozione indescrivibile per questi pazienti paraplegici e una luce di speranza concreta per tanti altri.

 

Questa notizia penso che ci solleciti ancora di più a riflettere sulle implicazioni etiche di questi progressi tecnologici, che rendono oramai sempre più alla nostra portata la capacità dell’uomo di interagire con le funzioni del nostro sistema nervoso centrale. Tuttavia, vorrei farne uno spunto per riflettere su due altre tematiche altrettanto attuali.

 

La prima è legata a una verità che purtroppo i mass-media sottacciono, per timore di urtare la sensibilità della nostra “società da supermarket”. Uso questo termine ironico per contrapporla a quella di qualche decina d’anni fa, quando da bambino accompagnavo mia mamma a fare la spesa. Se dovevamo comprare la carne, si andava dal macellaio, dove occorreva fare attenzione a non sporcare le suole delle scarpe in quelle mattonelle bianche, sporche per i goccioloni di sangue che cadevano dalle teste penzoloni dei quarti appesi di vitello. Oggi invece si va al supermarket. La carne è bella pulita e incellofanata, e non abbiamo la nostra sensibilità urtata dal “costo” che c’è dietro quella bistecca o quel petto di pollo.

Questi ricercatori di Losanna non si sono svegliati una mattina con una bella idea in testa. Non hanno chiamato da un giorno all’altro un ingegnere elettronico per costruire sofisticatissimi microchip. Non hanno fatto solo delle simulazioni sul computer, ascoltando musiche di Bach o le Quattro stagioni di Vivaldi, assorti nel mare delle loro teorie. Questi studi sono stati preceduti da anni di ricerche svolte su animali. Su ratti e, soprattutto, su macachi. E non sto parlando di scimmie raccolte pietosamente dalla foresta pluviale del Borneo perché cadute inavvertitamente dagli alberi, avendo tristemente subito un trauma spinale. Sto parlando di animali resi sperimentalmente paraplegici apportando una sezione del loro midollo spinale. Senza il “costo” pagato da quegli animali, intenzionalmente privati del movimento degli arti, noi non potremmo oggi stupirci nel vedere quelle immagini di chi si alza finalmente dalla sedia a rotelle per realizzare quel sogno a lungo agognato di poter di nuovo camminare.

Tutto ciò è eticamente accettabile? Io credo di sì, ma per dirlo occorre mettere bene a fuoco le basi etiche su cui ciascuno fonda le proprie convinzioni circa il valore della vita umana in rapporto al valore della vita degli altri esseri viventi. Non possiamo infatti permetterci il lusso di accettare per buono qualcosa solo sulla base del beneficio che ne possiamo trarre. Se così fosse, potremmo giungere all’estremo di giustificare le peggiori efferatezze a costo della vita umana, laddove ne possiamo individualmente trarre utilità. Su questo tema, mi viene in mente un film del 1996 con Gene Hackman e Hugh Grant, Soluzioni estreme, in cui è proprio la sofferenza delle persone paraplegiche a divenire la base per giustificare l’utilizzo di barboni senzatetto come cavie umane per praticare lesioni del midollo spinale e testare terapie riabilitative.

 

La seconda tematica è quella del rapporto tra fede in Dio e progresso scientifico. Non mi riferisco al tema classico della supposta antitesi tra fede religiosa e pensiero scientifico, ma a come trovare un giusto equilibrio, come credenti, tra la nostra fede nell’intervento di Dio, anche straordinario, miracoloso e razionalmente inconcepibile, e la possibilità di avvalerci dei risultati del progresso scientifico.

Il Vangelo ci parla di Gesù che guarì la suocera di Pietro da una febbre (Mt 8:14-15). Forse oggi un antibiotico sarebbe più che sufficiente a guarirla. Il Vangelo ci parla di zoppi che riprendono a camminare e ciechi che recuperano la vista. Alla luce di questi progressi delle neuroscienze e delle nanotecnologie non è così fuori luogo immaginare un futuro non lontanissimo in cui i ciechi recupereranno la vista con un microchip nell’occhio e tanti infermi riprenderanno a camminare grazie all’ulteriore sviluppo delle tecnologie qui menzionate. Stiamo togliendo spazio alla possibilità di un intervento diretto di Dio nella vita umana attraverso il progresso della scienza? Stiamo forse rendendo Dio superfluo?

Questa domanda non è così peregrina. Questo periodo di pandemia da Covid19, tra le tante cose, ha messo allo scoperto la realtà di questa contrapposizione, laddove non pochi sono stati quei cristiani che non si sono voluti sottoporre a vaccinazione, alle volte giustificando questa scelta con la convinzione che vaccinarsi metterebbe in luce una mancanza di fiducia nel Signore, col fare affidamento sulla scienza, sull’uomo, piuttosto che su Dio.

Meno male che ci pensa proprio Gesù, in occasione di uno di questi miracoli, a toglierci le castagne dal fuoco. In un noto episodio del Vangelo, in cui un gruppo di amici portano con varie peripezie uno zoppo davanti a lui affinché lo guarisca (Lc 5:17-26), Gesù inizialmente non bada a quel bisogno fisico e dimostra piuttosto la sua autorità divina rimettendo i peccati di quell’uomo. A fronte delle obiezioni scandalizzate di alcuni presenti, Gesù domanda: «Che cosa è più facile, dire: “I tuoi peccati ti sono perdonati”, oppure dire: “Àlzati e cammina”?». Bella domanda. Una domanda che, alla luce di questi progressi tecnologici, ci sfida ancora oggi.

Non so se nel porre questa domanda Gesù già anticipasse un’epoca in cui far camminare uno zoppo non sarebbe più stata quell’evento straordinario che era a quel tempo. Di certo Gesù sfidava gli uomini di quell’epoca, e continua a sfidare anche l’uomo odierno a riflettere su quale sia il nostro vero bisogno, un bisogno che nessun progresso scientifico e tecnologico riuscirà mai a risolvere, un miracolo che solo Gesù può compiere: il perdono dei nostri peccati e la riconciliazione con Dio. Il miracolo del perdono è talmente grande e straordinario da rendere quell’Alzati e cammina una bazzecola, un banale gioco da ragazzi. Quando dunque pensiamo che utilizzare il progresso scientifico per il nostro benessere fisico equivalga a mettere Dio da parte, per certi versi rendiamo Dio davvero piccolo piccolo. Pensiamo di onorarlo, ma in realtà lo svalutiamo, mettendolo Dio sullo stesso piano di quei pur grandi scienziati di Losanna. Grandi e stupefacenti per noi, ma granelli di polvere davanti a Dio.

(Nicola Berretta, DiRS-GBU, Ricercatore Laboratorio di Neurologia Sperimentale
Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma)

Le scuole residenziali per le popolazioni autoctone in Canada: tra colonialismo, assimilazione, razzismo e riconciliazione

di Massimo Rubboli
(già professore di Storia dell’America del Nord all’Università di Genova)


Le chiese cristiane canadesi e le scuole residenziali per le popolazioni autoctone
tra colonialismo, assimilazione, razzismo e riconciliazione

 

Nelle ultime settimane, dopo il ritrovamento nell’Ovest canadese di centinaia di resti di bambine/i e ragazze/i indiane/i in tombe anonime nei siti di scuole residenziali cattoliche (215 all’Indian Residential School di Kamloops, in British Columbia, e 715 all’Indian Residential School di Marieval, in Saskatchewan, e un numero ancora imprecisato alla St. Eugene’s Mission School nei pressi di Cranbrook, in British Columbia)[1] e gli incendi dolosi di alcune chiese cattoliche, anche i nostri mezzi d’informazione hanno reso nota una pagina tragica della storia del Canada, che non era conosciuta al di fuori dei confini canadesi.

Io ne ero venuto a conoscenza per la prima volta a fine settembre del 1989, quando al Vancouver International Film Festival vidi Where the Spirit Lives[2], un film diretto da Bruce Pittman, che raccontava la storia di una ragazza indiana che, alla fine degli anni Trenta, era stata rapita insieme ad altri da un villaggio della tribù Kainai nel sud dell’Alberta per essere educata in una «scuola residenziale» anglicana per bambini indiani. La scuola faceva parte della rete di circa 130 centri di rieducazione, disseminati in ogni provincia (ad eccezione del New Brunswick e di Prince Edward Island) e territorio [Fig. 1], creati dal Ministero federale per gli Affari Indiani – sulla base dell’Indian Act del 1876, che permetteva il controllo sulle popolazioni autoctone – allo scopo di integrare le comunità indigene (oggi designate ufficialmente come First Nations) nella società bianca anglosassone. La gestione di queste scuole era affidata alle principali chiese canadesi: la Chiesa cattolica, la Chiesa anglicana, oltre ai Metodisti e ai Presbiteriani che, nel 1925, formarono con altri la Chiesa unita del Canada.

Questa politica di assimilazione, basata su nozioni di superiorità razziale, culturale e spirituale, risaliva ai seminari per bambini indigeni create dai missionari cattolici nella Nuova Francia[3] ed era continuata sotto il dominio coloniale britannico nell’Ontario meridionale (Upper Canada). Con la colonizzazione dei territori indiani negli anni seguenti la Confederazione, il governo canadese creò un sistema di scuole residenziali che mirava ad accelerare l’integrazione dei popoli indigeni nella società dei colonizzatori bianchi. Il sistema durò fino al 1997, quando chiuse l’ultima scuola.

 

 

 

 

La revisione storiografica

Un anno prima del film di Pittman, erano stati pubblicati due testi che avevano sollevato il velo di silenzio che avvolgeva questo argomento: Indian School Days di Basil H. Johnston, che è l’autobiografia di un ex allievo, e Resistance and Renewal: Surviving the Indian Residential School di Celia Haig-Brown, il primo tentativo di ricognizione storica. Fino agli ultimi due decenni del Novecento, le informazioni erano in gran parte limitate alle testimonianze dei sopravvissuti che circolavano nelle comunità dei nativi, dei meticci e degli inuit, mentre nelle storie generali del Canada si trovavano solo riferimenti marginali alle scuole residenziali.

Da allora, l’esperienza delle scuole residenziali per nativi ha attratto sempre più l’attenzione di ricercatori, politici e istituzioni religiose e politiche. Grazie al lavoro di alcuni storici[4], che hanno lavorato negli archivi ma hanno anche raccolto le testimonianze dei sopravvissuti, la storia delle scuole residenziali è stata gradualmente inserita nella narrazione dominante della storia del Canada e questo sta producendo un cambiamento nella coscienza collettiva, anche se è difficile dire se a questa integrazione faccia seguito un processo di riconciliazione tra le comunità indigene e non indigene.

Questa tragica vicenda è stata a volte presentata come «genocidio»[5], cioè distruzione deliberata e violenta di una razza, paragonandola addirittura all’Olocausto. Si trattò di una forma di «genocidio culturale»[6] o, più precisamente, di un programma di ingegneria sociale per l’assimilazione culturale dei popoli nativi, che mirava anche a privarli dei diritti ancestrali sulle loro terre per sfruttarne le ingenti risorse. Tuttavia, il termine genocidio è usato nel diritto internazionale per definire i crimini di genocidio e tali crimini, secondo la convenzione approvata dalle Nazioni Unite, comprendono anche “il trasferimento forzato dei figli da un gruppo ad un altro” [Forcibly transferring children from the group to the other group][7].

È opportuno ricordare che il sistema delle scuole residenziali era stato già messo sotto accusa molto tempo fa. Il dott. Peter Bryce, che nel 1904 era stato nominato “ispettore medico” nei Dipartimenti dell’interno e degli affari indiani, nel 1907 visitò 35 di queste scuole e ne denunciò le pessime condizioni sanitarie e l’alto tasso di mortalità, dovuto in gran parte alla tubercolosi. Nel 1922, Bryce pubblicò Un crimine nazionale[8], ma la sua denuncia non servì a modificare la situazione.

La struttura iniziò a essere smantellata soltanto negli ultimi decenni del secolo scorso e nel 1996 fu nominata una Royal Commission con il compito di investigare sulla violenza e gli abusi nelle scuole residenziali. Il governo federale, sulla base del rapporto della commissione, oltre a chiedere scusa a quanti avevano subito violenze fisiche o psicologiche nelle scuole residenziali, istituì una Fondazione per la cura degli aborigeni con una dotazione di 350 milioni di dollari. Infine, nel 2008, il primo ministro canadese Stephen Harper presentò scuse ufficiali per le scuole residenziali.

 

La posizione delle chiese

Anche le chiese che avevano gestito questo programma federale hanno preso posizione, anche se con grave ritardo, con dichiarazioni riguardanti il tentativo di imporre valori culturali europei ai popoli aborigeni e le violazioni dei diritti umani commesse nella gestione delle scuole residenziali[9].

Soltanto nel 1986, il pastore Robert Smith – moderatore della Chiesa unita del Canada – chiese scusa a nome della sua chiesa con queste parole:

Molto prima che il mio popolo arrivasse in questa terra, il vostro popolo era qui […]. Nel nostro zelo di annunciarvi la buona notizia di Gesù Cristo, siamo stati insensibili al valore della vostra spiritualità. Abbiamo confuso la cultura occidentale con la profondità e l’ampiezza del vangelo di Cristo. Abbiamo imposto la nostra civiltà come condizione per l’accettazione del vangelo […]. Vi preghiamo di perdonarci.

 

Nel 1998, il moderatore Bill Phipps ha rinnovato le scuse da parte della Chiesa unita

per il dolore e la sofferenza causato dal coinvolgimento della nostra chiesa nel sistema delle scuole residenziali indiane. Siamo coscienti di una parte del danno che questo sistema di assimilazione, crudele e mal concepito, ha provocato per le Prime Nazioni del Canada. […] Ci troviamo nel mezzo di un lungo e doloroso percorso di riflessione sulle grida che non abbiamo sentito o non abbiamo voluto sentire e su come abbiamo agito come chiesa. Mentre percorriamo questa difficile strada di pentimento, riconciliazione e guarigione, ci impegniamo a non usare mai più il nostro potere come chiesa per offendere altri con atteggiamenti di superiorità razziale e spirituale.

 

Per la Chiesa cattolica, che non fu coinvolta in quanto tale ma attraverso alcuni suoi ordini regolari, nel 1991 il rappresentante delle Oblate di Maria Immacolata chiese perdono «per essere stati coinvolti nell’imperialismo culturale, etnico, linguistico e religioso che faceva parte della mentalità con la quale i popoli europei affrontarono i popoli aborigeni». Papa Benedetto XVI, durante l’udienza privata con la delegazione dell’Assembly of First Nations del Canada svoltosi in Vaticano nell’aprile 2009, espresse soltanto “dispiacere” per il trattamento dei minori indiani nelle scuole cattoliche. Durante l’udienza del 29 maggio 2017, seguendo la raccomandazione della TRC , il premier canadese Justin Trudeau ha chiesto a papa Francesco di presentare scuse formali per il ruolo avuto dalla Chiesa cattolica negli abusi avvenuti nelle scuole residenziali. Il 28 marzo 2018, Trudeau è stato informato da una lettera di un rappresentante della Chiesa cattolica in Canada che il papa non avrebbe presentato scuse ufficiali.

Tuttavia, nei saluti del dopo Angelus di domenica 6 giugno 2021, il papa ha parlato della “sconvolgente scoperta dei resti di 215 bambini, alunni della Kamloops Indian Residential School”, avvenuta circa due settimane prima. Il papa l’ha definita una notizia scioccante, che ha traumatizzato il popolo canadese, al quale Francesco ha espresso,

così come tutta la chiesa cattolica del Canada, la propria vicinanza, affidando le anime di quei bambini morti e pregando per le famiglie e comunità autoctone canadesi affrante dal dolore. […] La triste scoperta accresce ulteriormente la consapevolezza dei dolori e delle sofferenze del passato. Le autorità politiche e religiose del Canada continuino a collaborare con determinazione per fare luce su quella triste vicenda e impegnarsi umilmente in un cammino di riconciliazione e guarigione. Questi momenti difficili rappresentano un forte richiamo per tutti noi per allontanarci dal modello colonizzatore e anche delle colonizzazioni ideologiche di oggi e camminare fianco a fianco nel dialogo e nel rispetto reciproco e nel riconoscimento dei diritti e dei valori culturali di tutte le figlie e i figli del Canada.

Ma perché Francesco non ha presentato scuse ufficiali? Perché, come ha spiegato Jeremy M. Bergen, professore associato di studi religiosi e teologici al Conrad Grebel University College dell’Università di Waterloo, in Ontario, e autore di Ecclesial Repentance: The Churches Confront Their Sinful Pasts (T&T Clark, New York 2011), esiste un importante ostacolo teologico. Infatti, in base alla teologia tradizionale cattolica, la chiesa può agire collettivamente ma,

come Corpo di Cristo, non può peccare. Soltanto i membri, compresi i leader, peccano. Quando dei cattolici fanno qualcosa di buono, ciò può essere ascritto alla chiesa; quando fanno del male ad altri, si tratta di azioni individuali. Si crede che papa Giovanni Paolo II abbia chiesto scusa per molti mali commessi dalla chiesa, ma non ha mai detto che la chiesa sia stata l’agente del peccato. Nel 2000, in un ‘Giorno di perdono’ molto pubblicizzato, chiese il perdono di Dio per migliaia di anni di peccati commessi da membri della chiesa, ma non dalla chiesa come istituzione. […] Nel 2013, l’arcivescovo di Vancouver Michael Miller ha dichiarato, di fronte alla TRC: “Voglio chiedere scusa sinceramente e profondamente […] per l’angoscia causata dalla condotta deplorevole di quei cattolici che furono responsabili di maltrattamenti di ogni tipo in queste scuole residenziali”. […] Alla stessa logica è improntata la dichiarazione fortemente inadeguata di papa Francesco sulla “sua vicinanza al popolo canadese che è stato traumatizzato” dalla recente scoperta scioccante a Kamloops. La dichiarazione colloca la chiesa come un’entità a fianco del trauma, ma non come un’entità responsabile di averlo causato. […] Una chiesa che è per definizione senza peccato è un’astrazione problematica, sganciata dalla storia e dall’esperienza. Affermazioni che si fondano su questo presupposto non sono collegate alla profonda complicità della chiesa in un sistema distruttivo. A meno che la chiesa apertamente e precisamente non riconosca la sua colpevolezza, chi potrebbe credere che la chiesa stessa possa essere un agente attivo di riconciliazione?[10]

 

Il 6 agosto 1993, Michael Peers, primate della Chiesa anglicana, chiese scusa ai nativi durante la National Native Convocation svoltasi a Minaki, in Ontario:

Accetto e confesso davanti a Dio e a voi i nostri fallimenti nelle scuole residenziali. Abbiamo mancato nei confronti, vostri e di Dio. Mi dispiace, più di quanto riesca a dire, che abbiamo fatto parte di un sistema che tolse i vostri figli alle vostre famiglie. Mi dispiace, più di quanto riesca a dire, che abbiamo cercato di modellarvi a nostra immagine, privandovi del vostro linguaggio e dei segni della vostra identità. Mi dispiace, più di quanto riesca a dire, che nelle nostre scuole così tanti siano stati abusati fisicamente, sessualmente, culturalmente ed emotivamente. A nome della Chiesa anglicana del Canada, presento le nostre scuse.

 

Un anno dopo, con una dichiarazione adottata dalla 120ª assemblea generale, anche la Chiesa presbiteriana chiese perdono per il proprio coinvolgimento:

Riconosciamo che la politica ufficiale del governo canadese era quella di assimilare i popoli aborigeni alla cultura dominante e che la Chiesa presbiteriana del Canada collaborò con questa politica.

Riconosciamo che le radici del male che abbiamo fatto si trovano nelle posizioni e nei valori del colonialismo europeo occidentale e nel presupposto che ciò che non era fatto a nostra immagine doveva essere scoperto e sfruttato. […]

Chiediamo perdono per la complicità della nostra chiesa in questa politica, […] chiediamo il perdono di Dio […] e chiediamo anche il perdono dei popoli aborigeni.[11]

Le chiese battiste canadesi, divise in varie denominazioni, pur non essendo state direttamente coinvolte nella gestione delle scuole residenziali, hanno presentato le loro scuse alle popolazioni indigene. Nel 2019, Battisti della costa atlantica hanno dichiarato:

Come Battisti canadesi del Canada atlantico riconosciamo che non abbiamo vissuto in una giusta relazione con i popoli indigeni di questa terra. Mentre abbiamo affermato in teoria che tutti sono creati a immagine di Dio (Ge. 1:27), non abbiamo riconosciuto nella pratica la dignità inerente, data da Dio, dei popoli indigeni. Nonostante l’ospitalità offerta ai nostri avi, non abbiamo riconosciuto l’antica rivendicazione dei loro diritti su questa terra. Non abbiamo mantenuto le promesse fatte dai nostri antenati sotto forma di trattati, in particolare i Trattati di pace e amicizia (1725-1779). […]

Come parte della più ampia cultura canadese noi abbiamo, coscientemente e incoscientemente, difeso ingiustizie sistemiche come l’appropriazione della terra, il trasferimento forzato di comunità indigene, la creazione del sistema delle riserve e il continuo sfruttamento economico e politico. […] noi riconosciamo e confessiamo la nostra complicità nelle scuole residenziali e nel più ampio sistema di colonialismo.[12]

 

Le chiese restarono in silenzio di fronte all’usurpazione delle terre, al confinamento degli indiani nelle riserve e all’assimilazione forzata perché consideravano queste azioni necessarie alla realizzazione di un progetto politico e religioso e se stesse come le fedeli esecutrici di questo progetto. Le chiese, seppure tardivamente, sembrano aver preso coscienza che la loro partecipazione al genocidio culturale rappresentato dalle scuole residenziali vada iscritta e letta nel contesto della loro adesione e condivisione della politica coloniale canadese che, a sua volta, costituiva un’espressione di quella dell’impero britannico. In altre parole, si sono rese conto di aver indebitamente identificato il mandato ad evangelizzare con l’assimilazione alla cultura anglosassone, il vangelo di Gesù Cristo con l’ideologia dei colonizzatori.

 

 

NOTE

[1] St. Eugene’s, Marieval, Kamloops: What we know about residential schools’ unmarked graves so far, “The Globe and Mail”, 6 luglio 2021, https://www.theglobeandmail.com/canada/article-residential-schools-unmarked-graves-st-eugenes-marieval-kamloops/ (ultimo accesso 7 luglio 2001).

[2] Sull’argomento, ci sono stati poi molti altri film e documentari, come We Were Children (2012), Clouds of Autumn (2015), Wawahte. Stories of Residential School Survivors (2015) e Remembering the Forgotten Children (2017).

[3] Vedi Peter A. Goddard, Converting the ‘Sauvage’: Jesuit and Montagnais in Seventeenth-Century New France, “The Catholic Historical Review”, 84, (April 1998), n. 2, p. 225; Alain Beaulieu, Convertir les fils de Caïn: Jésuites et Amérindiens nomades en Nouvelle-France, 1632-1642, Nuit Blanche Éditeur, Québec 1990, pp. 143-145.

[4] Particolarmente rilevanti sono James R. Miller, Shingwauk’s Vision: A History of Native Residential Schools, University of Toronto Press, Toronto 1996, e John S. Milloy, A National Crime: The Canadian Government and the Residential School System, 1879 to 1986, University of Manitoba Press, Winnipeg 1999.

[5] Il termine genocidio è stato usato di recente anche nella stampa italiana, ad es. da Marco Cinque in Il Genocidio dimenticato, “Alias – il manifesto”, 10 luglio 2021, pp. 1-3. Per una prospettiva critica, vedi gli articoli di Luca Codignola, I bambini indiani morti in Canada per un tentativo di assimilazione fallito, “Panorama.it” (6 luglio 2021), <https://www.panorama.it/news/dal-mondo/bambini-indiani-morti-in-canada> (ultimo accesso 8 luglio 2001), e Jacques Rouillard, Le ‘génocide’ des Autochtones, “Le Devoir” (6 juillet 2021), <https://www.ledevoir.com/opinion/idees/615969/le-genocide-des-autochtones>.

[6] A questa conclusione è arrivata la “Commissione per la verità e la riconciliazione”, istituita nel 2007 con il mandato di fare piena luce sulle violenze e gli abusi subiti dai minori nelle scuole residenziali e di suggerire un percorso di riconciliazione. Vedi Honouring the Truth, Reconciling for the Future. Summary of the Final Report of the Truth and Reconciliation Commission of Canada, https://publications.gc.ca/site/eng/9.800288/publication.html (ultimo accesso 8 luglio 2001).

[7] La Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio è stata adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York il 9 dicembre 1948 con la risoluzione 260 A (III).

[8] Peter Bryce, The Story of a National Crime: Being an Appeal for Justice to the Indians of Canada, the Wards of the Nation, Our Allies in the Revolutionary War, Our Brothers-in-Arms in the Great War, James Hope & Sons, Ottawa 1922.

[9] Peter G. Bush, The Canadian Churches’ Apologies for Colonialism and Residential Schools, 1986-1998, “Peace Research”, 47 (2015), n. 1-2, pp. 47-70.

[10] Jeremy M. Bergen, The theological reason why the Catholic Church is reticent to apologize for residential schools, 8 giugno 2021, “The Globe and Mail”, https://www.theglobeandmail.com/opinion/article-the-theological-reason-why-the-catholic-church-is-reticent-to/ (ultimo accesso 8 luglio 2001).

[11] The Confession of the Presbyterian Church in Canada, as adopted by the General Assembly, June 9th, 1994, https://www.wmspcc.ca/wp-content/uploads/PCC-Confession-English.pdf (ultimo accesso 8 luglio 2001).

[12] CBAC Resolution and Recommended Action Items in Response to the Truth and Reconciliation Commission (2019), https://oasis.baptist-atlantic.ca/wp-content/uploads/2019/03/CBAC-Resolution-2019-in-Response-to-the-Truth-and-Reconciliation-Commission.pdf (ultimo accesso 8 luglio 2001).