Il rifiuto della trascendenza. Alcuni pensieri sparsi su Toni Negri.

Abbiamo appreso proprio ieri della morte di uno dei maggiori e più controversi intellettuali italiani della seconda metà del XX secolo: Antonio Negri. Negri era un pensatore assolutamente originale di cui, tra l’altro, abbiamo parlato nell’ultimo libro pubblicato dalle edizioni GBU, I discepoli furono chiamati cristiani.

Riflettendo sulla sua dipartita terrena ed a pochi giorni dal termine del nostro Convegno di studi dedicato all’ateismo vogliamo tracciare un breve ritratto e fare alcune riflessioni su questo pensatore. 

Antonio Negri è stato un filosofo protagonista tra fine anni 1960 e inizi 1970 dei movimenti di protesta giovanile di stampo marxista ed extraparlamentare in Italia. Mentre diventa uno dei dirigenti di Potere Operaio, scriveva alcuni dei saggi che lo hanno reso famoso, uno dedicato al filosofo Spinoza (L’anomalia selvaggia) e l’altro al pensiero di Cartesio (Descartes politico). E’ stato un raffinato analista del pensiero di Marx e lo ha cercato di reinterpretare il suo pensiero in chiave più contemporanea con alcune venature influenzate dallo strutturalismo e dal post-strutturalismo francese. Coinvolto anche attivamente nei cosiddetti anni di piombo nel terrorismo rosso, sino ad essere accusato di essere capo della Brigate Rosse (accusa rivelatasi infondata) sarà comunque condannato per altri reati e, dopo essere scappato in Francia, ritornerà in Italia a scontare la sua pensa. Agli inizi del XXI secolo tornerà alla ribalta (all’inizio non in Italia)  con la pubblicazione di Impero con Michael Hardt, testo che avrà un grande successo globale e che riporterà il pensatore italiano alla ribalta del panorama culturale mondiale. 

Negri si è sempre professato ateo ed i due suoi autori classici preferiti, Spinoza e Marx lo sono di fatto stati, anche se consideriamo Spinoza un panteista moderno che ha cercato, da ebreo, di racchiudere la realtà del mondo e del divino in un’unica sostanza. Che interesse potrebbe avere pertanto per il mondo evangelico?

Ci sono diverse piste che si possono percorrere e qui ne proporremo alcune. Negri ha sempre mostrato interesse per i movimenti religiosi. Partendo dall’analisi di alcuni passi di Marx ha sempre pensato che i movimenti religiosi, soprattutto quelli che partono dal basso e che sono poco istituzionali, possono essere la premessa di una liberazione effettiva dell’uomo. Lettore avido dal marxista Ernst Bloch che aveva analizzato qualche decennio prima il pensiero di T. Müntzer, visto come un proto-rivoluzionario, ha guardato con attenzione ai movimenti della teologia della liberazione che, a suo parere, sono espressione di quella Moltitudine che potrebbe rovesciare lo stesso Impero o capovolgerne le sorti. Ovviamente per il pensatore padovano il movimento religioso può essere visto come un inizio e non come il coronamento di un traguardo raggiunto che può essere solo supportato da un movimento politico. 

Nel 2008 una serie di evangelici americani sono entrati in dialogo con Negri e Hardt per analizzare la nozione di impero. Per Wolterstorff ed altri pensatori evangelici Negri aveva colto nel suo testo il fatto che, ormai, l’Impero non potesse più identificarsi con una particolare nazione (nonostante la supremazia statunitense) e che questo avrebbe potuto dare l’occasione soprattutto ai movimenti evangelici che stavano avendo successo nel Sud del mondo di creare spazi di apertura verso il Regno di Dio e verso una società più giusta e versata alla pace nel mondo. Il libro, che si intitola Christian Alternatives to the Political Status Quo (Alternative cristiane allo status quo politico) si conclude con una replica di Negri che, insieme ad Hardt, ringrazia dell’interesse per i suoi studi ma, allo stesso tempo, ribadisce anche che la sua idea di speranza di pace è qui sulla terra e che rifiuta qualsiasi possibilità che ci sia una trascendenza (un Dio) che possa essere risolutrice per ciò che accade nel mondo. Quindi una grande attenzione per i movimenti religiosi informali che possono far parte di quella Moltitudine (altro titolo di un saggio di Negri) che può far cambiare l’Impero ma che, alla fine, non possono essere risolutivi per il costante richiamo che fanno al Divino.

Negri è anche stato un attento lettore del testo biblico. Ho sentito anche diverse sue interviste dove dimostrava la sua capacità di fare esegesi di un testo che trovava assolutamente interessante ma su cui voleva andare oltre. Questo suo interesse, oltre che da una originaria formazione cattolica (comune a molti teorici della sinistra extraparlamentare degli anni 1960/70) derivava anche dalla sua attenzione per il pensiero dell’ebreo Spinoza che, pur essendo stato uno degli iniziatori del cosiddetto metodo storico-critico, da buon ebreo dava grande spazio all’esegesi delle Scritture (si veda i numerosi riferimenti ed anche i tentativi di una esegesi “umana” che sono presenti nel Trattato Teologico-politico). Negri negli anni Novanta, proprio durante gli anni della prigionia, ha elaborato un testo di difficile lettura dedicato al libro di Giobbe ed intitolato il Lavoro di Giobbe. Ciò che affascinava il pensatore padovano era la figura del personaggio biblico che deve faticare per farsi ascoltare da Dio. Non si tratta del rapporto con il trascendente, quanto del continuo dissidio e lotta che passa anche attraverso il proprio corpo e la sua presenza. Una lettura interessante, ma anche questa priva di una trascendenza (l’entrata di Dio sembra una messa in scena) e che se ci dà pagine assolutamente interessanti nella descrizione del personaggio, allo stesso tempo ci fa capire come si possa leggere un testo biblico in parte non capendone totalmente il senso o dandone uno alternativo a quella di molta esegesi.

Negri non è assolutamente facile da leggere ed i testi citati da me sono di difficile lettura (fa eccezione proprio Impero in cui Hardt ha funzionato a mio parere da facilitatore, anche perché il testo è stato pubblicato originariamente in inglese, una lingua che non sempre riesce a tenere conto delle ardite capriole linguistiche dei filosofi continentali), ma allo stesso tempo rimane una figura paradigmatica del panorama culturale italiano. Sicuramente gli evangelici farebbero bene a tenerne conto non per la sua “ateologia” (in cui è rimasto coerente), quanto per le sue riflessioni sul potere, sulla crisi degli Stati e sull’interpretazione del tempo presente, tenendo conto che, come ogni marxista occidentale (pur appellandosi a Lenin talvolta, ma, a nostro parere essendo distante) cerca di costruire un’utopia ed una speranza che può trovare proprio nel testo biblico una risposta ed è una figura che ci permette di confrontarci con quell’ateismo dialogante differente dai modelli scientisti che oggi vanno più di moda.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Gianni Vattimo (1936-2023). Anche lui un ateo devoto?

(Giacomo Carlo Di Gaetano)

Ascrivere il filosofo torinese scomparso in questi giorni alla categoria di inizio di terzo millennio, definita dall’ossimoro “atei devoti” è operazione che va incontro e deve superare due difficoltà.

La prima consiste nel fatto che proprio il filosofo ha rifiutato per sé l’etichetta di “ateo” («lasciate alle spalle le pretese di oggettività della metafisica, oggi nessuno dovrebbe poter dire che “Dio non esiste”», Credere di credere, p. 66), creando così un interessante spazio interpretativo a cui abbiamo richiamato spesso il pensiero evangelico. Il pensiero evangelico, infatti, si è spesso fatto distrarre dall’ateismo angloamericano segnato dal Perché non sono cristiano (1927) di Bertrand Russell e dalle sue propaggini che giungono fino ai pensatori del new atheism (Dawkins, etc) e si è dedicato quasi esclusivamente alla risposta evangelicals a questo ateismo (tutta l’apologetica degli ultimi vent’anni, incluso nomi cari anche a chi scrive, da John Lennox ad Alister McGrath).

Al contrario, sarebbe stato ed è ancora necessario identificare questo spazio rappresentato da pensatori pregni di teologia (non solo cattolica) che maneggiavano abilmente le risultanze della critica biblica germanica, anche se non aggiornata (Bultmann su tutti) che conoscevano la dialettica barthiana e gli appelli di Bonnhoeffer (letti però solo ed esclusivamente in chiave filosofica e non teologica) e citavano la Bibbia con maestria. Ebbene, di questa schiera di pensatori, soprattutto italiani, Vattimo è stato sicuramente il più illustre, e penso soprattutto al Vattimo dell’ultima fase del suo pensiero, quella che si apre con lo straordinario testamento di Credere di credere (1996).

Lo sforzo interpretativo stava e sta qui nel cogliere la radice incredula di un ritorno al cristianesimo (oggi tutti i necrologi parlano per Vattimo di un ritorno al cattolicesimo), una radice che appare però dopo un faticoso lavoro di sfrondamento di una rigogliosa vegetazione di pensiero cristiano e di interpretazioni evangeliche.

Ma prima di fare qualche altro passo in questo spazio interpretativo (ripetiamo: Vattimo come rappresentante di un pensiero italiano sostanzialmente “ateo” e incredulo), spieghiamo la seconda ragione per la quale l’ascrizione del filosofo torinese agli “atei devoti” apparirebbe complicata e contestabile. Questa ragione sta nell’aggettivo “devoto”, quello che costruisce l’apparente ossimoro (come se non si desse una devozione laica e atea – Russell docet). Ebbene nella temperie che partorì l’idea di una posizione teorica in cui sarebbe possibile “professare” una visione del mondo etsi Deus non daretur, e nello stesso tempo rendere tutto l’omaggio a una confessione cristiana, il cattolicesimo, la devozione era il portato di un’impostazione sostanzialmente politica. E Vattimo non era certo da contare in quella parte politica a cui facevano riferimento Giuliano Ferrara, piuttosto che Marcello Pera, tanto per fare due nomi di atei devoti. Il nichilismo e il pensiero debole, la pluralità dei valori, l’apertura al mondo LGBT e tanto altro ancora portavano Vattimo in tutt’altra direzione rispetto a chi stava preparando allora, quando Vattimo stesso parlava di un ritorno della religione, la strada oggi conclamata del pacchetto “Dio, patria e famiglia”.

Eppure, ed è questa la nostra proposta, entrambi i partiti riconoscevano la necessità di pensare, alla “radice” della realtà sociale e culturale in cui si muovevano, il cristianesimo, inteso come “eredità”: che si trattasse di dire ai liberali che “devono” dirsi cristiani (Pera), oppure di segnalare come dopo l’oblio dell’essere e il superamento della metafisica, il cristianesimo e in esso il cristianesimo cattolico era ciò che la secolarizzazione ci lasciava come spazio in cui continuare a pensare il modo in cui sostituire la morte di Dio annunciata da Nietzsche, per entrambi, a sinistra come a destra, non si poteva fare a meno di non potersi non dire o, necessariamente dirsi, cristiani.

Dietro entrambe le proposte, così divaricate, non si può non scorgere la lezione del Perché non possiamo non dirci cristiani di Benedetto Croce (1942). Sì, Vattimo è stato un devoto, nell’accezione culturale e teorica in cui si pensa al cristianesimo come garanzia della civiltà occidentale, secolarizzata, postmoderna.

Certo c’è una sfumatura che distingue la devozione di destra da quella di sinistra, di Vattimo, per esemplificare. Mentre la prima devozione si estrinseca nel tema dell’identità (Dio patria e famiglia) e, potremmo semplificare, si cristallizza nel “nome” di cristiani (sono X, sono Y, sono cristiana/o), nel secondo caso, quello del ritorno al cristianesimo cattolico di Vattimo, si può parlare di una devozione che prende la strada del fare, un vero rappresentante, il filosofo torinese, di un paradigma tutto da delineare ma ben presente nella cultura italiana, quello dei cristiani di e nei fatti: «l’eredità cristiana che torna nel pensiero debole è anche e soprattutto eredità del precetto cristiano della carità e del suo rifiuto della violenza» (Credere di credere, p. 37). Non è un caso che il risultato ultimo di una secolarizzazione che libera il cristianesimo (e gli stesi Vangeli) da una visione violenta e prepotente della verità è la caritas, quello che resta della kenosis evangelica, l’essenza della rivelazione e quello che viene assegnato come compito a chi vuole vivere da devoto, indipendentemente dal fatto se Dio esista, sia vivo o parli e si faccia sentire!

Cristiani nel nome e cristiani nei fatti sono due categorie con le quali il pensiero evangelico deve confrontarsi. Deve comprendere in che modo il termine cristiano viene ripreso e se questa ripresa riesca in qualche modo a rimuovere la parvenza di incredulità (questo nel caso di Vattimo che, come detto sopra, nega di essere contato tra gli atei) quando ci si dedica a un lavoro interpretativo ed ermeneutico – naturalmente caro a Vattimo ­- delle fonti cristiane. È qui, quando si va a leggere il modo in cui l’essere cristiani di oggi si collega a Colui che dà il nome ai suoi discepoli (come accadde ad Antiochia, Atti 11) che emerge l’ipotesi di posizioni sostanzialmente atee, a destra come a sinistra. Per i cristiani, e per gli evangelici in particolare, di Dio se ne parla nei termini della sua rivelazione in Gesù (figura salvata ma “sfigurata” da tutte le posizioni agnostiche ed atee); della rivelazione di Dio in Gesù se ne parla nei termini dell’attesa ebraica (Bibbia ebraica, vs Croce e … il Girard di Vattimo) e nei termini della testimonianza dei testimoni oculari (i Vangeli). Nel gioco della fusione degli orizzonti, del moltiplicarsi delle interpretazioni possibili da parte del lettore, il ruolo della fonte testimoniale deve essere distinta, valorizzata e tutelata. Se non si fa questo, cioè se non ci si ancora al Gesù della storia, il Cristo della fede diventa una chimera e il Dio che Gesù Cristo avrebbe rivelato, diviene un prodotto dell’ontoteologia di cui si può cantare la morte.

Ecco perché l’ateismo devoto è una forma tout court di ateismo che ha bisogno di ascoltare il vangelo; che si blocchi nel nome ed esalti l’identità, fino al limite dell’esagerazione di voler difendere Dio o che si esalti nella caritas delle azioni solidali in cui Dio non è altro che una chimerica ONG che ci lascia senza la possibilità di chiedere perdono per l’autogiustificazione che rincorriamo nel nostro cristianesimo del nome e dei fatti.

Rocco Siffredi, l’educazione sessuale e il Cantico dei Cantici

di Francesco Schiano
(Staff GBU – Napoli)

Il tema della violenza sulle donne è purtroppo costantemente in cima alla lista di quelli più discussi dei nostri tempi, e i tragici fatti di Palermo e Caivano hanno imposto una seria e complessa riflessione su responsabilità e possibili soluzioni al problema.

Hanno destato molto interesse alcune affermazioni della pornostar Rocco Siffredi, il quale ha denunciato alcune brutture dell’industria che rappresenta, rendendosi finanche disponibile a chiudere il suo stesso sito internet per favorire la limitazione dell’accesso dei più giovani alla pornografia e incentivare la loro educazione sessuale.
Il bisogno di un’efficace educazione sessuale è un punto sul quale tutti sembrano essere d’accordo. È abbastanza chiaro che non si tratti di fornire nozioni di anatomia, informare sul corretto uso di contraccettivi o mettere in guardia sulle malattie veneree; ciò di cui ci sarebbe bisogno è una vera e propria educazione sentimentale, che ricollochi il sesso nel giusto contesto di una relazione d’amore, o quanto meno di profondo rispetto reciproco.

Probabilmente non sarà la Bibbia il testo al quale si farà riferimento nel momento in cui si proporranno nuovi programmi per formare i nostri giovani, eppure proprio tra i libri della Bibbia ce n’è uno che sarebbe perfetto per questo scopo: il Cantico dei Cantici.
Teologi e commentatori della Bibbia, insieme a filosofi e altri pensatori, fanno molto spesso riferimento a 2 parole greche per spiegare la complessità dell’esperienza e della manifestazione dell’amore: Eros e Agape.

La prima descrive l’amore erotico, e più in generale l’amore per qualcosa o qualcuno che si desidera allo scopo di ottenere soddisfazione e piacere. Un amore fondamentalmente egocentrico e spesso egoista. La seconda parola, agape, descrive invece l’amore disinteressato, puro, concentrato sul bene dell’oggetto del sentimento.

Il Cantico dei Cantici è una straordinaria celebrazione dell’amore erotico, della passione romantica e dell’unione fisica tra due amanti; corregge l’associazione tra eros e impurità che dalla filosofia neoplatonica è entrata nella concezione cristiana del sesso.

Proverò a riassumere alcuni concetti esplicitamente contenuti nel Cantico, che, pur essendo un poema, non un manuale, è incluso nella raccolta della letteratura sapienziale della Bibbia, quella rivolta particolarmente alla formazione dei giovani.

I. L’amore sensuale è un dono meraviglioso.
Per accordare la concezione negativa del sesso con la presenza di un libro simile nella Bibbia, si è tradizionalmente considerato l’amore descritto nel Cantico come un’allegoria dell’amore di Dio per il suo popolo o di Cristo per la Chiesa; in realtà, però, questo poema descrive la bellezza e la potenza dell’amore romantico e sensuale in modo molto chiaro e diretto.

1:2 Mi baci egli dei baci della sua bocca,
poiché le tue carezze sono migliori del vino.
3 I tuoi profumi hanno un odore soave;
il tuo nome è un profumo che si spande;
perciò ti amano le fanciulle!

Ecco come si apre il poema, chiamando da subito in causa i cinque sensi e presentandoci la potentissima attrazione fisica tra i due amanti; da qui in poi è un crescendo che si conclude con l’unione sessuale della coppia.

II. Proprio l’apertura del poema, che vede la donna parlare per prima, ci suggerisce il prossimo fondamentale aspetto dell’educazione sessuale biblica: il rapporto tra uomo e donna è paritario. La cosa era sorprendente 2500 o 3000 anni fa, non dovrebbe esserlo adesso; eppure una delle considerazioni che ha messo praticamente d’accordo tutti i partecipanti al dibattito pubblico dei nostri giorni è proprio il maschilismo dell’etica sessuale dominante, che trasforma il corpo femminile in oggetto di piacere.

Per tutto il Cantico dei Cantici, l’amato e l’amata esprimono il loro desiderio, i loro sentimenti e il loro amore in modo reciproco, senza che nessuno risulti l’oggetto della conquista dell’altro.

 

III. Quest’ultimo pensiero è completato dal terzo concetto:
il proprio piacere si trova nel godimento dell’altro.
L’unione sessuale più appagante è quella nella quale gli amanti non cercano di ottenere piacere, ma di darlo l’uno all’altra. L’amore sensuale tende molto facilmente all’egocentrismo, ma può essere altruista e trovare soddisfazione nel darsi all’altro, può godere del piacere dell’altro.

  7:11 Io sono del mio amico,
verso me va il suo desiderio.
12 Vieni, amico mio, usciamo ai campi,
passiamo la notte nei villaggi!
13 Fin dal mattino andremo nelle vigne;
vedremo se la vite ha sbocciato, se il suo fiore si apre,
se i melagrani fioriscono.
Là ti darò le mie carezze.
14 Le mandragole mandano profumo,
sulle nostre porte stanno frutti deliziosi di ogni specie,
nuovi e vecchi,
che ho serbati per te, amico mio.

 

IV. L’amore romantico è esclusivo
Questo punto è probabilmente quello più controculturale. La riduzione dell’essere umano allo stato di animale evoluto, fa si che per molti parlare di monogamia sia quasi una violazione dell’ordine naturale delle cose. Eppure chiunque si sia mai innamorato sa che uno degli aspetti fondamentali dell’amore romantico è proprio la sua esclusività.

2 Quale un giglio tra le spine,
tale è l’amica mia tra le fanciulle.
3 Qual è un melo tra gli alberi del bosco,
tal è l’amico mio fra i giovani.

Ecco come si vedono i due amanti del poema biblico: al tuo confronto le altre sono spine; al tuo confronto gli altri sono un bosco indistinto.
Si può provare attrazione fisica per tante persone allo stesso tempo, ma l’amore sensuale celebrato in questo libro si può provare per una sola persona.

L’amore erotico, quello orientato alla soddisfazione di un bisogno personale, non è sbagliato in se stesso e non deve essere contrapposto all’agape, all’amore disinteressato; piuttosto deve esserne completato.  Ecco il principio fondamentale dell’educazione sessuale biblica: desiderio sessuale e piacere sessuale sono tra i doni migliori di Dio, ma possono essere vissuti in maniera completa solo mettendo l’amata al centro delle nostre attenzioni, amando il prossimo come noi stessi.
Dove troviamo il grande esempio di amore che dona se stesso per il bene dell’altro, se non nella croce di Cristo? È in questo senso che il Cantico dei Cantici ci parla dell’amore di Cristo per la Chiesa, e nel fornirci un modello per la nostra vita sentimentale e sessuale ci spinge verso l’unica speranza di salvezza per il mondo e per ogni singolo essere umano.

 

Pur non essendo pienamente in accordo con alcune delle conclusioni dell’autore, sono in debito, per la maggior parte degli spunti di riflessione presentati in questo breve articolo, con il testo di H. Gollwitzer, edito da Claudiana, Il poema biblico dell’amore tra uomo e donna.
Di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU, Ian M. Duguid, Cantico dei Cantici. Introduzione e commento, Collana Commentari all’Antico testamento (CAT)

 

Mondo post-ideologico, Vangelo e Silvio Berlusconi. Una riflessione di un evangelico

Scrivere di Silvio Berlusconi oggi in cui ha lasciato questa terra è compito difficile per chiunque, perché il rischio è dire banalità, schierarsi in maniera chiara, fare retorica senza cogliere il bersaglio, essere scontati. Diventa ancora più difficile per un evangelico che nel corso del trentennio precedente non ha mai votato per il Cavaliere e non ha mai creduto sino in fondo alle sue proposte politiche, pur ammettendo le sua capacità come venditore di un mondo migliore e nuovo. 

Leggendo tra l’altro la stampa italiana (molto schierata da una parte o dall’altra) e quella estera si ha un contrasto stridente sui giudizi che si possono dare sulla persona e su colui che ha influenzato sicuramente la vita sociale e politica del Paese in cui viviamo.

Penso che il giudizio su Berlusconi, nella sua complessità, vada dato su diversi piani e cercherò, in un’operazione che sarà al limite della acrobatica, di tenere questi livelli di interpretazione distinti. 

Il primo piano di giudizio è quello storico. L’ex Presidente del Consiglio si è affacciato sulla scena mediatica circa una quarantina di anni fa ed è stato protagonista della scena politica per circa un trentennio. La sua “discesa in campo” (espressione da lui coniata) risale al 1994, anno in cui, dopo aver messo su un Partito, in pochi mesi riuscì a sconfiggere il fronte avversario, con un’alleanza di coalizione di centro-destra, il primo Governo di questo tipo che abbia governato l’Italia, dopo il tentativo, a fine anni 1950 di Tambroni. 

Berlusconi è entrato nell’agone politico in un particolare momento sia nazionale che internazionale. A livello nazionale l’Italia stava vivendo il periodo di “Mani Pulite”, una serie di inchieste e processi che avevano mostrato come la classe politica italiana fosse corrotta e avesse incrociato il suo potere con quello economico. A uscirne con le ossa rotte furono alcuni dei partiti storici italiani, in particolare il Partito Socialista, il più antico partito italiano che si sciolse sull’ondata delle indagini giudiziarie. 

Contemporaneamente, al livello internazionale, la Caduta del Muro di Berlino, aveva sancito la fine della Guerra Fredda e la fine della contrapposizione ideologica tra capitalismo e comunismo, facendo strada non tanto ad una vittoria del modello di sviluppo capitalistico (in cui erano presenti delle chiare distinzioni tra la politica ultraliberale portata allora avanti dal modello thatcheriano-reaganiano ed il modello socialdemocratico, fortemente presente nel Nord Europa), quanto la fine delle ideologie. 

Berlusconi, che aveva sino a quel momento simpatizzato per il Partito Socialista, svoltò a centro/centro-destra, cercando occupare uno spazio che sarebbe stato dei Liberali e dei Democristiani, volendo conciliare (come spesso accaduto in Italia) il pensiero cattolico con quello della deregulation economica. Dal sodalizio con Craxi avrebbe cercato di prendere l’idea (anche giusta) di voler “svecchiare” (Craxi e Martelli parlavano di modernizzazione dell’apparato) lo Stato italiano e diede inizio ad un sistema bipolare (mai bipartitico come quello dei modelli delle democrazie più avanzate) che ha caratterizzato quello che si è chiamata Seconda Repubblica (anche se non vi è stata la stesura di una nuova Costituzione).

La sua expertise come magnate della comunicazione lo ha reso un efficace veicolatore del messaggio di un’Italia nuova che, alla fine, non si è mai attuata, anche perché l’alleanza fatta non lo poteva portare ad applicare pienamente un modello liberale di Stato, stretto come era da un partito che avrebbe voluto un maggiore spezzetamento della struttura statale (la Lega) ed un altro che avrebbe voluto una struttura fortemente centralista (Alleanza Nazionale, ora Fratelli d’Italia). Entrambi i partiti alleati non erano liberali e, pertanto, la “rivoluzione” berlusconiana sarebbe stata votata al fallimento in partenza. 

Il Berlusconi imprenditore sino a quel momento, tra l’altro, aveva approfittato di un sistema non di totale libertà ma che, grazie proprio ad un decreto voluto da Bettino Craxi, aveva portato la televisione italiana (all’epoca il maggiore veicolo per la comunicazione) ad essere un duopolio in cui si contrapponeva una compagnia pubblica come la Rai a quella privata di Berlusconi che iniziò a proporre una televisione concorrenziale e commerciale dove lo scopo principale era il profitto e non l’informazione. La televisione berlusconiana ha profondamente inciso sulla società italiana, proponendo un modello in cui si potesse inventare anche qui una sorta di “sogno italiano”, non sempre attuabile, ma proposto come una valida possibilità.

Da un punto di vista politico il berlusconismo ha portato una serie di cambiamenti epocali che vanno valutati: la personalizzazione della politica che ha portato molto spesso a far coincidere il partito (che sino ad allora era struttura molto simile a quella di uno Stato) con la persona “carismatica”. Ancora oggi, negli ultimi anni, abbiamo assistito alla nascita in Italia di partiti di questo genere che sono figli di questo modo di agire (si vedano i Cinque Stelle, all’inizio legati alla figura di Beppe Grillo, e Italia dei Valori o Azione, in cui conta più il leader che l’ideologia). L’altro aspetto è stata quello della contrapposizione degli schieramenti, in un Paese che, fino ad allora, aveva vissuto la politica (a partire dalla Resistenza al Fascismo) come un luogo di compromesso di diversi interessi e di mediazione tra gli stessi. Berlusconi ha proposto il modello del “tutto o niente” e quello in cui bisognava sconfiggere dei nemici, talvolta neanche più esistenti (come i Comunisti dopo la caduta del Muro). Sicuramente se questo ha cambiato il panorama politico italiano, non sempre ha dato esiti totalmente positivi e, a lungo andare, come è accaduto anche altrove in Occidente, ha portato ad una disaffezione delle masse che, spesso, oggi, preferiscono non andare a votare.

Se il giudizio politico e quello storico possono essere più o meno accettati o respinti anche da un evangelico, in quanto trattandosi di cose penultime, ognuno di noi è libero, all’interno di un mondo in cui ci sia la libertà di pensiero, di aderire o meno a un progetto politico o ad una particolare interpretazione del passato, problematico diventa quello etico-teologico. 

Il nostro Stato ha deciso (anche in parte giustamente da un punto di vista istituzionale) di tributare dei funerali di Stato e, addirittura, di proclamare lutto nazionale (più discutibile in quanto, allo stato attuale, si tratta solo di un Senatore, che non ricopriva cariche di Stato), il Berlusconi uomo è stato sicuramente piuttosto discutibile: menzognero, non fedele alla propria famiglia, frequentatore di minorenni, organizzatore di festini, amico intimo di amici di mafiosi, senza scrupoli quando si trattava di arricchirsi anche a scapito di altri. Una persona che non può assolutamente essere presa come modello e che in questo senso si contrappone al Vangelo, come spesso accade anche a molti politici. Dobbiamo considerare e riflettere su questi aspetti della sua personalità e del suo vivere in un mondo al limite dell’illecito, anche da un semplice punto di vista legislativo.

Pur professandosi credente (lo ha detto più volte di essere Cattolico), molto spesso il dubbio era che, come spesso accade in politica questo credere fosse strumentale a catturare il voto cattolico (a Berlusconi interessava molto poco degli evangelici che sono insignificanti da un punto di vista elettorale), piuttosto che dettato da un’autentica fede. 

Cosa fare allora di fronte a tutto ciò? Forse aveva ragione il pastore Roselein Faccio, quando raccontava dell’occasione che ebbe di poter parlare faccia a faccia con Berlusconi, dopo aver cenato e cantato con lui e Apicella: regalare il Vangelo e pregare. Infatti quando ci troviamo a figure politiche che sono state di spessore, come lo è stato il Cavaliere per l’Italia, forse il nostro interrogativo dovrebbe essere proprio questo: quanto il Vangelo è stato rispecchiato, quanto è stato possibile annunciarlo, quanto abbiamo, nell’entusiasmo dell’adesione o del respingimento delle sue idee politiche, guardato a Cristo ed al suo progetto per l’umanità che va “oltre” la politica e che non può essere incarnato da nessuno.

Pensare a Berlusconi oggi mi ha fatto riflettere su questo e su come gli evangelici dovrebbero occuparsi di politica e occupare lo spazio sociale che gli è dato, non aspettando profeti o uomini della Provvidenza ma, come ci ricordava T. P. Rossetti, cercando il bene comune di tutti coloro che abitano la nostra Nazione.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

L’infinita saggezza di Dio. Un omaggio a Tim Keller

E’ un infinito conforto avere un Dio che è molto più saggio e

che mostra molto più  amore di quanto possa fare io.

Ci sono miriadi di ragioni per ogni cosa che fa e

permette e che non posso conoscere,

ma in lui è la mia speranza e la mia forza.

Tim Keller

 

Tim Keller, una delle più importanti figure del mondo evangelico americano, è andato con il Signore, dopo aver combattuto tre anni con un cancro al pancreas. Le parole che riportiamo come epitaffio sono quelle del Twitter dove egli annunciò la sua malattia e che ci sembrano sintetizzare efficacemente il suo messaggio.

Keller è stato un personaggio molto influente negli ultimi decenni nel mondo evangelico. Formatosi in alcuni dei seminari più rinomati, dopo aver lavorato con IFES (dove aveva vissuto anche la sua conversione) è stato per qualche anno professore al Westminster Theological Seminary, dove aveva anche preso il suo dottorato.

Come molti affermano in queste ore sarebbe potuto rimanere lì per il resto della sua vita, probabilmente i suoi libri avrebbero comunque avuto un certo successo. Ma la vera sfida per lui evangelico conservatore era quello di andare in una delle città più secolarizzate del mondo e riuscire ad avere successo nella missione del Vangelo. Per questo motivo nel 1989 è andato a New York dove è riuscito, nel cuore di Manhattan, a vivificare una Chiesa Presbiteriana ortodossa nella sua fede che, grazie a lui, è stata frequentata da centinaia di persone. 

Pertanto nel mondo evangelico Keller sarà soprattutto ricordato come predicatore di successo nell’era, come afferma Leslie Newbigin, del post-cristianesimo occidentale. La sua capacità è stata quella, pur rimanendo nella tradizione, di sapersi far ascoltare da un pubblico cui bisognava annunciare il Vangelo a partire da zero e cercando di comprendere il suo linguaggio. Per questo motivo ha cercato in autori come C.S. Lewis e J. Stott dei modelli da cui partire per imparare a parlare al mondo. E’ stato anche un fervido lettore non solo della letteratura evangelica, ma anche di quella secolare, con lo scopo di comprendere lo spazio in cui si muoveva.

Quando nel 2010 ho potuto ascoltare Keller a Città del Capo ho apprezzato soprattutto la sua analisi sociologica del mondo in cui viviamo e l’importanza di evangelizzare le città, luogo dove vivono la maggior parte delle persone della terra oggi, un po’ come i primi cristiani hanno evangelizzato in primis le città dell’Impero. 

Le sue posizioni “tradizionali” non gli hanno impedito di farsi sentire nel mondo secolarizzato e di acquistare un notevole rispetto che lo ha portato anche a contribuire ad alcune delle più importanti testate del panorama culturale newyorchese, che ha sempre avuto idee liberal. Ha scritto, oltre che per le case editrici evangeliche, anche per giornali come il New York Times (che lo ha avuto come suo host editor diverse volte da dopo l’attentato alle Torri Gemelle) a riviste come The Atlantic dove ha scritto proprio uno dei suoi più toccanti articoli dopo aver saputo della sua malattia. Questo ha dimostrato la sua capacità di saper parlare al mondo che, pur essendo in disaccordo, lo ha sempre ascoltato.

Fondatore con Don Carson di Gospel Coalition è stato uno degli esponenti del cosiddetto new calvinism negli Stati Uniti, ma ha sempre dato priorità ad una predicazione di Grazia ed Amore piuttosto che ad una basata sull’enfasi delle caratteristiche più peculiari del mondo Riformato. La sua scelta è stata dovuta soprattutto alla sua formazione ed anche a voler trovare quella che poteva essere una base teologica solida e ben strutturata.

Non sono mancate nella sua vita i momenti in cui sono stati evidenti alcuni contrasti come nel 2017 quando il Princeton Theological Seminary (oggi di tendenza liberale mainstream) voleva dargli (giustamente) il premio Abraham Kuyper (che viene conferito a predicatori e teologi riformati che si sono distinti nella conciliazione tra Vangelo e società) e poi ha ritirato il premio perché gruppi di studenti hanno dissentito a causa delle sue idee sul ministerio femminile (come tutti gli esponenti di Gospel Coalition Keller è rimasto complementarista e contrario al ministerio pastorale femminile, pur dando spazio alle donne nel diaconato) e per la condanna dell’omosessualità. Nonostante questo Keller comunque ha tenuto le conferenze Kuyper delineando i sette passi che si devono fare per evangelizzare il mondo occidentale, il più difficile oggi cui far ascoltare il Vangelo. La proposta era quello di ritornare ad un’apologetica simile a quella agostiniana della Città di Dio, a cercare una via di mezzo tra l’impegno per il sociale (voluto soprattutto dai protestanti storici) e l’annuncio del Vangelo, ad avere una critica della secolarizzazione partendo dall’interno del mondo cristiano piuttosto che dall’esterno, a sviluppare la doppia vocazione per coloro che sono impegnati nel mondo evangelico e nel mondo del lavoro, a guardare al mondo evangelico in modo globale e a non guardare solo al contesto americano (uno sicuramente dei limiti oggi di questo mondo), ad evidenziare la grazia che sola salva l’umanità ed a distinguere il Vangelo da comportamenti religiosi standard.

Se il discorso del 2017 a Princeton può essere visto come la sua sintesi teologico-pastorale, non va dimenticato che, in un periodo difficile per il mondo evangelico americano, Keller ha saputo tenere le distanze dall’agone politico (non mostrando indifferenza verso di esso, ma profondo interesse), ribadendo che il cristianesimo non ha un suo partito di preferenza e che, benché i credenti si debbano impegnare per il sociale, non possono sposare agende di particolari partiti o leader politici.

La testimonianza degli ultimi anni è stata sicuramente toccante, perché, pur mostrando le sue debolezze umane, Keller, nella malattia, ha mantenuto la fede nel Dio sovrano. Il suo lascito sarà importante soprattutto per la capacità che ha avuto di parlare al mondo in cui viviamo ed in questo va sicuramente imitato e preso come modello.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Rammentatevi che sono morto nella fede di Dio, per la libertà. Breve profilo di un partigiano evangelico.

La Resistenza per la minoranza evangelica è stato un periodo significativo, soprattutto per coloro che hanno partecipato alle lotte partigiane, una minoranza nella “minoranza” che, però, pensava di associare la propria fede alla causa della libertà per la Nazione. Diversi sono i profili di partigiani evangelici, sicuramente in una percentuale più alta di quella che era la “densità” religiosa protestante in Italia. 

Una figura particolare di questo movimento è stata quella di Jacopo Lombardini che, come hanno ricordato recentemente NEV e Riforma, in occasione del posizionamento di una pietra d’inciampo a lui dedicata presso il Collegio Valdese di Torre Pellice, ha ricevuto per il suo operato una medaglia d’argento alla memoria dalla Repubblica italiana.

Chi era Lombardini? Al contrario di quello che si possa pensare non proveniva dalle Valli Valdese ma dalla provincia di Carrara, dove, sin da piccolo, grazie anche al nonno ed al padre, aveva avuto simpatie repubblicane e mazziniane (il nonno era stato un garibaldino che aveva partecipato al tentativo della conquista di Trento). Grazie a queste convinzioni, dopo aver terminato gli studi magistrali ed essersi dedicato anche alla poesia (scriverà nella sua vita anche dei romanzi), si era avvicinato all’irredentismo di sinistra pre-prima guerra mondiale e fu interventista democratico, tanto che si arruolò come volontario durante la Grande Guerra.

Tornato a casa, proprio anche grazie al suo mazzinianesimo ed al suo anticlericalismo che difficili da conciliare nella Chiesa Cattolica, si avvicinò dopo il conflitto alla Chiesa Evangelica e si convertì al metodismo diventando, dopo un paio di anni di studi a Roma, il predicatore della Chiesa di Carrara che fiorì durante la sua predicazione. 

L’avvento del Fascismo negli anni 1920 e il suo voler vivere in un territorio che riteneva più “libero” per gli evangelici lo portò, dopo diverse frequentazioni estive, a trasferirsi nelle Valli Valdesi, dove, dopo qualche anno, divenne insegnante presso il Collegio Valdese di Torre Pellice. La sua attività di educatore e la sua volontà di voler istruire i giovani è attestata da diverse sue affermazioni. Lombardini fu un esempio di quello che spesso è avvenuto nel mondo evangelico italiano: uomini dalla “doppia vocazione” che insieme alla predicazione cercano di conciliare il proprio lavoro secolare, in questo caso quello di educatore.

La sua adesione all’antifascismo è da farsi risalire immediatamente dopo l’avvento al potere di Mussolini. Aderì, proprio per le sue idee repubblicane e mazziniane, sin da subito al gruppo fondato dai fratelli Rosselli di Giustizia e libertà (gruppo di cui molti evangelici fecero parte) che poi confluì nel Partito d’Azione, sempre di ispirazione repubblicana e mazziniana.

Nel 1942 viene sospeso dall’insegnamento su segnalazione di un genitore che si lamentava dei valori non propriamente fascisti insegnati dal docente carrarino. 

Qualche mese dopo Lombardini aderirà alla lotta partigiana proprio nei gruppi affiliati al Partito d’Azione e farà parte della V divisione Alpina di Giustizia e Libertà, dove avrà anche il ruolo di cappellano laico della divisione (dove non militavano solo evangelici). Sarà così che nel marzo del 1944, dopo un duro rastrellamento da parte delle forze naziste, Lombardini sarà arrestato e tradotto prima a Torino, poi a Fossoli, poi a Mathausen, dove pur vivendo giorni terribili non perderà né la fede, né la speranza. Qui continuerà a scrivere e ad occuparsi degli altri prigionieri. E’ di questo periodo la seguente poesia, scritta in occasione della morte del ventunenne partigiano Sergio Toja, cui sarà intitolata la stessa divisione di cui era membro Lombardini.

 

Sergio, fratello, ti ho visto

sul marmo di sala mortuaria

piccola e nuda e solitaria 

e in alto una forma di Cristo. 

Come Lui, nudo e forato, di nulla coperto che un panno 

nel vestibolo dedicato 

– a quei che risusciteranno -.

Tu così hai fatto partenza:

forse anch’io, ora, ho più fretta;

che vuoi: si vive, si aspetta

con indisciplinata impazienza

 

Prima della morte avvenuta nella camera a gas proprio il 25 aprile 1945, scriverà questa commovente alla propria sorella, testimone della fede mantenuta anche in circostanze tragiche come quella che aveva vissuto.

 

Cara Maria, 

Se ti arriverà questa mia lettera che affido ad un mio amico vorrà dire che mi è successo qualche disgrazia e che ho finito di soffrire. Ti scrivo dai monti, dove mi sono rifugiato per non sottostare alla dominazione tedesca e per fare un po’ di bene. Sono infatti un po’ il cappellano dei Valdesi che sono nelle Bande partigiane. Pur essendo del tutto disarmato è logico che io corra gli stessi pericoli dei miei compagni che hanno deciso di salvare con le armi l’Italia e di dare al popolo d’Italia un regime giusto e libero. Ho accettato di fare questo come un dovere, perché non ho mai cessato di amare la libertà. Ti prego di perdonarmi di questo dolore che ti do. Ti prego di perdonarmi i dolori che ti ho dato nella vita. Ma ti ho sempre voluto bene, ed ho voluto bene a tutti i miei nipoti. Salutameli ad uno ad uno. Salutami Filiberto e tutti i parenti. Salutami i fratelli che sono rimasti del gruppo evangelico. Mi dispiace di non aver potuto far nulla di quanto avevo in mente per esso. Mi raccomando a tutti che non lasciate spegnere quella piccola luce di fede e di speranza che è stata accesa nel nostro paese. Io morirò, con l’aiuto di Dio, nella fede Evangelica alla quale sono stato chiamato per grazia di Dio. Siate fedeli anche voi. In questi giorni di pericolo di morte, io provo quale tesoro sia la fede: essa infatti mi permette di essere tranquillo. A Dio, mia cara sorella, a Dio, miei cari parenti ed amici tutti. Rammentatevi che sono morto nella fede di Dio, per la liberta. Siate fedeli a Dio ed amate la libertà per la quale tanti sono morti. 

Jacopo Lombardini

 

La sua esortazione di rimanere fedeli a Dio, ad amare la libertà, a rimanere fermi nella fede evangelica sono alcune delle caratteristiche del piccolo mondo evangelico italiano che non vanno dimenticate e che vedono proprio in Lombardini, come affermava anche Spini, il punto di unione tra la fede, l’aspirazione ad una Nazione libera, il Vangelo, il Risorgimento e la Restistenza. Per il suo esempio e la sua morte Lombardini fu insignito della medaglia d’argento alla memoria. La motivazione del conferimento dice:

 

Lombardini Jacopo fu Francesco e fu Musetti Assunta da Gragnana (Apuania) classe 1892, partigiano combattente. Uomo di cultura e patriota di sicura fede fu, subito dopo l’armistizio. animatore infaticabile della lotta di liberazione nelle Valli del Pellice e della Germanasca; conosciuto ed amato dai giovani che andava ammaestrando nella fede alla Libertà e alla Patria. Caduto in mano ai tedeschi nel corso di un duro rastrellamento e crudelmente seviziato, manteneva sempre contegno elevato ed esemplare, affrontando con cristiana serenità il duro calvario dei campi di concentramento. Barbaramente suppliziato chiudeva l’esistenza nel servizio dei più nobili ideali.

 

Fede,  libertà e amore per il proprio servizio sono valori che ancora oggi noi dobbiamo continuare a trasmettere, anche ricordando la commemorazione civile del 25 aprile.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Il santuario di Debre Libanos nel 1934

Riconoscere le proprie colpe come Nazione e come credenti

Quando in una Nazione si cambia Governo dopo diversi anni, quest’ultimo deve riprendere e intrecciare rapporti diplomatici con le altre Nazioni cercando di essere attento a quanto si dice, oltre che a quanto si fa. L’Italia, in questo momento è alle prese con diverse crisi internazionali, da quella del conflitto russo-ucraino a quelle rinvenienti dal continente africano, anche dei Paesi che, nella prima metà del XX secolo erano nostre colonie. 

E’ giusto che il Governo allacci e riallacci rapporti con questi Paesi ed è quello che ha cercato di fare l’attuale Premier con la sua visita in alcuni Paesi africani qualche giorno fa. Quando si va in questi Paesi non bisogna mai dimenticarsi di quello che è accaduto e di come, come tutte le altre nazioni, e forse anche più di esse, l’esercito coloniale italiano e i governi precedenti la Seconda Guerra Mondiale siano stati protagonisti di grandi atrocità e la nostra Nazione dovrebbe provare vergogna e chiedere scusa per tutto quello che è successo. 

Ad una domanda fatta al premier se fosse il caso di chiedere scusa per le atrocità commesse, la risposta è stata piccata e si è quasi voluto ricordare che un tale atteggiamento appartiene più ad un colore politico che ad un’intera Nazione. Va detto che, precedentemente due nostri Presidenti della Repubblica, Scalfaro e Mattarella, avevano riconosciuto che quanto successo nel passato va assolutamente condannato e che l’unico atteggiamento che uno Stato dovrebbe avere è quello di chiedere scusa.

Chiaramente per comprendere gli avvenimenti passati è giusto guardare alla storia ed anche a certe narrazioni di essa che sono passate nel nostro Paese. Dopo la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, l’Italia perse tutte le sue colonie e, dato anche il breve tempo in cui aveva avuto questi territori al di fuori del nostro confine, per diversi decenni non si è riflettuto in maniera critica su quanto accaduto, su come i nostri connazionali si siano macchiati di crimini atroci, dovuti anche al fatto che si ritenevano i territori conquistati abitati da persone culturalmente e razzialmente inferiori. 

E’ passato, per diverso tempo, la “leggenda” che gli italiani, nei loro possedimenti coloniali, si fossero comportati bene, anzi che avessero portato la civiltà, costruendo “le strade” e comportandosi in maniera bonaria, perché gli italiani erano dipinti come “brava gente”, rispetto alla durezza imposta nei loro territorio dai britannici e dai francesi

Questa falsa narrazione (ancora presente oggi) è stata messa in discussione solo a partire dagli anni 1990, grazie anche ad un’attenta ricerca documentaria che ha fatto scoprire a diversi storici cosa fosse accaduto durante il periodo di occupazione coloniale da parte degli italiani. 

Uno dei primi ad occuparsi della dominazione coloniale italiana è stato Angelo del Boca. Del Boca, attraverso i suoi attenti studi delle fonti dell’epoca, ha dimostrato che la brutalità era presente già con i governi liberali che avevano iniziato la conquista dei territori a partire dalla fine del XIX secolo ed aveva raggiunto il suo apice nella campagna per la conquista dell’Etiopia, fortemente voluta da Mussolini. In quella cruenta campagna contro uno Stato che aveva mantenuto la sua indipendenza sin dall’antichità e che era per giunto abitato da una popolazione di antica fede cristiana, l’esercito italiano, supportato dalle camicie nere, non si fece scrupoli di usare le armi chimiche (proibite dalla Società delle Nazioni dopo il primo conflitto mondiale) e di approvare leggi razziali che precedevano quelle del 1938 contro gli Ebrei. La sintesi dei suoi studi si trova oggi nel testo Italiana brava gente, dove lo storico torinese dimostra come anche gli italiani furono malvagi e cruenti come tutte le popolazioni occidentali. 

Se qualcuno pensa che la missione italiana sia stata quella di importare la civiltà e la religione cristiana, dovrebbe informarsi e iniziare a sapere che la prima grande strage di credenti cristiani (di religione copta) fu fatta proprio dagli Italiani. In un clima come quello voluto dal Governo Fascista, che non aveva simpatie per le minoranze religiose e che era sceso a compromesso con la Chiesa Cattolica per cercare di evitare opposizione da essa,  i cristiani copti dell’Etiopia che continuavano a parteggiare per il Negus in esilio, erano di ostacolo ai propri piani e mostravano una resistenza che non si poteva sopportare. Per questo motivo Graziani nel maggio 1937 ordinò quello che è stato il più grande massacro di cristiani della storia del XX secolo.

Il governatore di Etiopia decise di far uccidere quasi tutti i monaci ed i pellegrini che si recavano a Debre Libanos, uno dei principali santuari della religione copta etiope. Ci furono più di 2000 vittime che non stavano opponendo resistenza e non erano in battaglia. La vicenda, “riscoperta” da pochi anni, è stata magistralmente ricostruita da Paolo Borruso nel suo libro Debre Libanos 1937. 

Per chi voglia una sintesi di quanto accaduto nella dominazione coloniale il testo da leggere è quello di Francesco Filippi Noi gli abbiamo fatto le strade, pubblicato un paio di anni fa.

L’A. smonta questa idea ricordando che l’imperialismo italiano è stato simile, in tutto e per tutto, a quello delle altre nazioni. con la differenza che, al contrario di quanto è avvenuto in Francia ed in Gran Bretagna, non abbiamo riflettuto in maniera critica sul nostro passato e, ancora oggi, non riusciamo a comprendere la portata di quanto accaduto durante il nostro periodo coloniale.

Interessante la ricostruzione di come sia iniziato l’imperialismo italiano e di che immagine abbia voluto dare di sé. Basterebbe ricordare l’idea di Pascoli sulla grande proletaria che si muove per comprenderlo: i governi italiani hanno sempre presentato l’occupazione coloniale come un’impresa fatta a beneficio delle classi meno abbienti che avrebbero potuto ricevere “nuove terre” dove formare e proprie fortune. L’idea di formare colonie di popolamento si è sempre infranta con la realtà dei fatti: le prime colonie italiane (Eritrea, Somalia e Libia) erano territori difficili, dove l’insediamento è stato o puramente commerciale o militare, ma dove gli “italiani” non hanno realmente trovato quello che gli era stato promesso.

Anche le motivazioni ulteriori delle occupazioni da parte dell’esercito italiano risultano essere pretestuose: si vanno ad occupare terre che sono “vuote” (come se gli abitanti del territorio fossero “non umani”), si por

ta la modernità in posti dove vigono ancora usanze medievali. Queste idee, secondo Filippi, continuano ancora oggi a dominare la mentalità comune quando si parla di questa parte della nostra storia, cosa che viene fatta sempre in maniera piuttosto superficiale.

Il riguardo per le popolazioni conquistate sono date dalle immagini da cui prende il titolo uno dei paragrafi del libro che narra dei tratti bestiali che venivano dati agli indigeni: selvaggi con l’“anello al naso” e con “la sveglia sul collo”. Manca del tutto, quindi, un qualsiasi sguardo antropologico, neanche quello di un’antropologia evoluzionista che cerchi di fare una distinzione tra le popolazioni. .

Il volume si conclude con un capitolo dedicato a come è stata percepita dagli italiani il possesso di colonie dopo averle perse. L’A. si sofferma sul fatto che l’Italia non è stata capace di una reale ricostruzione della memoria coloniale ed ha continuato a cercare di creare una sorta di diversità rispetto agli altri Paesi o a dimenticare cosa fosse realmente successo. Le stragi, il razzismo (che va ricordato fu prima applicato in Italia alle popolazioni coloniali) sono scarsamente ricordati dalla nostra storia e anche dalla nostra antropologia. 

Rispetto a questo quadro, confermato da diversi storici oggi e documentato dalle accurate ricerche fatte (non va dimenticato anche Nicola Labanca che ha dedicato importanti saggi alla storia delle colonie italiane), che atteggiamento dovremmo chiedere come evangelici rispetto a quanto accaduto nel passato?

Non dimentichiamoci che Cristo è venuto per tutti ed il nostro compito è quello di annunciare il Vangelo a tutto il mondo, perché per Dio non vi è alcuna distinzione tra gli uomini. Proprio per questo motivo volevo concludere con alcune parole dell’Impegno di Città del Capo, voluto dal Movimento di Losanna e che, in una prospettiva missiologica che guarda alla storia afferma: “Riconosciamo con dolore e con vergogna la complicità dei cristiani in alcuni dei più devastanti scenari di violenza e di oppressione etniche e il deplorevole silenzio di un’ampia parte della Chiesa quando si sviluppano tali conflitti. Questi scenari includono la storia e l’eredità del razzismo e della schiavitù della gente di colore, l’Olocausto contro gli ebrei, l’apartheid, la «pulizia etnica», la violenza settaria fra cristiani, la decimazione delle popolazioni indigene, la violenza interreligiosa, etnica e politica, la sofferenza dei palestinesi, l’oppressione di casta e il genocidio tribale. I cristiani, che con la loro azione o con la loro passività contribuiscono alla frammentazione del mondo, minano seriamente la nostra testimonianza al vangelo della pace”.  

Anche il nostro Paese ha partecipato a tutto questo e come Chiesa non possiamo tacere e dobbiamo provare vergogna e dolore. 

                                                                                                                                                    Valerio Bernardi – DIRS GBU

 

Assassination Classroom.

Pubblichiamo volentieri questo contributo di Daniele Mangiola su Assasination Classroom, un manga di successo soprattutto tra i più piccoli. Si tratta di un aspetto culturale che sempre più sta affascinando il mondo dei più giovani e le osservazioni qui fatte ci paiono di valore. Buona lettura!

V.B.

 

Sogni d’oro, mamma e papà.

Dell’etica, la vita e la scuola che gli anime raccontano di notte ai bambini

 

Capitolo primo

Se, contro ogni evidenza, Dio permetterà all’umanità di abitare questo o qualche altro pianeta tra cent’anni, sarà interessante vedere come si racconterà il tempo nostro.

Il nostro modo di maneggiare l’etica, per dirne una. Ci siamo tanto affaticati, affaccendati a decostruire, smantellare il concetto stesso di fondamento morale, e abbiamo anche creduto di avercela fatta. E ora ci barcameniamo tra il drammatico e il comico, tra un farsesco meditativo e compunto e un tragico giocoso e spensierato. Ma questi sono sproloqui inutili e pomposi.

Per tornare alle piccole cose, c’è l’universo dei manga e degli anime, che se qualcuno lo avesse giudicato negli scorsi decenni trionfante, dovrebbe trovare un vocabolo adatto a descriverne il successo e la diffusione attuali, ancora maggiori di prima.

Assassination Classroom nasce come manga dalla matita del fumettista giapponese Yusei Matsui attorno al 2012, poi, come è la sorte dei fumetti di successo, diventa un anime, una serie televisiva nel 2015, dal 2022 finalmente doppiata e trasmessa per il pubblico italiano.

La trama racconta di un essere mostruoso che un bel giorno fa esplodere la Luna distruggendo il 70% della sua struttura. Tutti i tentativi degli eserciti terrestri di sconfiggerlo e abbatterlo si rivelano inutili. Il mostro chiede di poter essere regolarmente assunto come insegnante della classe 3a della sezione E di una piccola scuola media di provincia, in Giappone, ovviamente. Il patto che propone ai governi della Terra è semplice: durante l’anno scolastico egli stesso addestrerà i suoi studenti ad ucciderlo. Se ci riusciranno, bene, altrimenti, alla fine dell’anno scolastico, egli distruggerà il pianeta Terra così come ha già fatto con la Luna.

Tutto questo, come è giusto che sia, è oggetto di trattative governative segretissime, soltanto i ragazzini della 3E sono a conoscenza del progetto.

Il fatto è che questa mostruosa specie di polpo indistruttibile e dalla velocità supersonica, a cui gli stessi studenti affibbiano il nome di Korosensei, si rivela un insegnante meraviglioso: disponibile oltre ogni immaginazione, empatico, efficacissimo nel valorizzare i talenti individuali, motivatore impareggiabile, simpatico, sempre sorridente oltreché, ça va sans dire, preparatissimo. E dunque tutti, spettatori compresi, si innamorano da subito di questo pericolosissimo essere.

E come si uccide con rispetto qualcuno che si ama e si ammira? Primo paradosso etico.

Il secondo paradosso è dato dal fatto che, come ci si potrebbe attendere se un giorno un tale mostro venisse ad insegnare in una scuola media delle nostre, i servizi segreti dei governi mondiali tentano di eliminarlo, inviando superprofessionisti dell’assassinio. L’obiettivo è salvare la Terra, l’umanità. Lodevolissimo. Eppure tutti questi spietati cecchini appaiono agli studenti, e a tutti noi spettatori che divoriamo le varie puntate, come dei biechi e malvagi assassini. E tutti gioiscono ogni volta che Korosensei neutralizza i vari tentativi di eliminarlo.

La prima stagione della serie gioca magistralmente su questo paradossale piano etico, smantellando dal di dentro ogni certezza morale residua del dodicenne che passa notti insonni a seguire rapito le puntate sullo smartphone: i genitori di là dormono più o meno tranquilli, sta solo guardando dei cartoni animati.

La seconda stagione lentamente scivola verso un contesto etico più convenzionale, a dimostrazione del fatto che, per quanto sia bravo in chiacchiere, l’essere umano non abbia saputo trovare, alla fine, un’alternativa veramente coerente a quella della morale tradizionale, in cui il bene e il male sono quello che sono, e il bene si identifica in qualche modo con cose vecchie e trite quali l’amore, la giustizia, la misericordia; che gira e rigira, non si sia trovata una narrazione veramente alternativa a quella che già avevamo.

 

Capitolo secondo

Dicevamo, dunque, che Korosensei è un insegnante meraviglioso.

La sezione E sta per “End”, la sezione in cui vengono relegati i falliti, gli incapaci, gli scarti del lavorìo di selezione quotidiana della scuola. Questo manipolo di rifiuti umani il polpo giallo alto due metri sceglie come propri allievi e questi gradatamente crescono in autostima e talenti fino a competere con gli studenti più capaci dell’istituto.

E mentre Korosensei rivela tutte le qualità che un insegnante dovrebbe manifestare, la scuola in quanto istituzione mostra tutti i suoi lati oscuri e fallimentari.

Korosensei non coltiva né promuove la propria autorità personale, il rispetto apriori, il rendimento tout court, non pratica una pedagogia sanzionatoria o correttiva, ma, nella migliore arte maieutica, permette a ciascuno di scoprire il proprio tesoro interiore.

E, mentre lo fa, l’istituzione scolastica lo ostacola, perché l’elevazione dei reietti mette in crisi il sistema classista su cui la scuola stessa si fonda: selezionare le future leadership mandando avanti i più adatti al comando, cioè anche i più allineati, è il patto di cobelligeranza tra scuola e società. Questo mostro pretenderebbe far saltare il banco prima ancora che la Terra intera. Lo scontro tra due modi di educare è esplicitamente rappresentato, senza possibilità di fraintendimenti.

Il ragazzino dodicenne che passa notti insonni guardando le puntate della serie assiste alla lotta tra pedagogia maieutica e pedagogia nera. Il giorno dopo, al suono della campanella, si aggira per corridoi e aule della propria scuola media e osserva sfilare davanti a sé i funzionari del sistema scolastico che pretendono di insegnargli e educarlo. Da quale parte li classifica? Come li giudica, a partire dalle nuove conoscenze che durante la notte si è fatto? Come vede il luogo nel quale trascorre la trentina di ore settimanali che gli sono state imposte, alla luce di quello che la notte gli sta raccontando?

Il fatto è che, giusta o sbagliata, eroica o cialtrona, la scuola non ha ancora realizzato quanto profondi e significativi stiano diventando le esperienze, le informazioni, gli input extrascolastici che raggiungono il bambino di questo scorcio del XXI secolo. Si illude e pretende, la scuola, di essere ancora, come in passato, usando i modi del passato, formatrice determinante della percezione del mondo del bambino, tramite fondamentale del suo accesso alla conoscenza o alla cultura.

È convinta ancora della sacralità del lavoro quotidiano, anche domestico. Non ha alcun sospetto che per fare una parafrasi di un componimento qualsiasi sia sufficiente chiederla a ChatGPT e ottenerla in una manciata di secondi. Con tutto lo sforzo di onestà del povero studente, di fronte alla prospettiva di quattro o cinque ore pomeridiane di studio matto e disperatissimo, come non cedere ad una tale tentazione? E qualche insegnante magari se ne accorge e pensa di ovviare aumentando la vigilanza e la coercizione pur di ottenere quanto tradizionalmente si otteneva. Come provare a tenere fuori di casa le zanzare installando un’inferriata…

Senza esagerare con le lodi, Assassination Classrom è un prodotto che riesce nella propria pretesa di offrirsi come trattato di pedagogia e di etica, rispettando fino in fondo lo stile fatto di leggerezza e dinamismo della tradizione anime. Adattissimo alla visione per adulti, come accade per molti dei lavori di animazione giapponese, per i quali, inspiegabilmente, si continua a perseverare col vecchio fraintendimento, che si tratti soltanto di roba per bambini.

 

Daniele Mangiola

Putin come Katechon

Come la Bibbia può essere usata dalla propaganda bellica

(di Massimo Rubboli)

 

Come è sempre successo nelle guerre, in particolare in quelle di aggressione, chi ha dato inizio al conflitto deve darne una giustificazione plausibile sia per l’opinione pubblica interna che per quella di altri paesi. Nel caso della guerra iniziata il 24 febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraìna, sono emerse subito due motivazioni, una di carattere politico e l’altra di carattere religioso.

La prima narrazione, presentata dal presidente Vladimir Putin e dal ministro degli esteri Lavrov già prima ancora dell’invasione, addossava tutta la responsabilità alla Nato e agli Stati Uniti, che avrebbero progressivamente accerchiato la Russia, costringendola a difendersi con un attacco preventivo; inoltre, era necessario proteggere la popolazione filorussa del Donbass (identificata con quella russofona) dalle vessazioni alle quali era sottoposta dai nazifascisti al governo dell’Ucraìna. Veniva quindi evocata la memorabile ed eroica lotta del popolo russo contro la Germania nazista nella II guerra mondiale, usando la retorica della guerra patriottica.

La seconda narrazione, divulgata soprattutto dal patriarca della Chiesa ortodossa Kirill (Cirillo I, nato Vladimir Gundjaev) in un’omelia predicata il 6 marzo 2022 nella Cattedrale di Cristo Salvatore di Mosca. In quell’occasione, Kirill giustificò l’aggressione russa come una difesa dei valori della tradizione cristiana ortodossa dall’ideologia propugnata dalla lobby gay; la posta in gioco sarebbe la salvaguardia dell’anima cristiana del “mondo russo” all’Occidente corrotto e depravato.

Con il passare dei mesi, queste due linee direttrici sono andate via via convergendo, fino a saldarsi nell’adozione di un riferimento biblico: II Tessalonicesi 2:6-7. Questo passo dell’epistola paolina si colloca nel contesto di un discorso escatologico, cioè attinente alla fine dei tempi, nel quale si fa riferimento a “ciò che impedisce (o trattiene)” (neutro, τò κατέχον) o “colui che impedisce (o trattiene)” (maschile, ὁ κατέχων) la ribellione delle forze del male contro Dio, con a capo “l’avversario”, “l’uomo del peccato” indicato altrove con il termine “Anticristo”.

L’interpretazione di questo testo è estremamente difficile, come ha riconosciuto una miriade di commentatori, a partire da Agostino, che ammise di non riuscire a capire cosa Paolo avesse voluto dire[1], fino allo studioso evangelical Leon Morris, secondo il quale “[q]uesto passo è forse il più oscuro e difficile di tutti gli scritti paolini”[2]. Tuttavia, molti autori hanno tentato un’identificazione: padri della Ciesa come Ippolito e Tertulliano con l’Impero romano, altri con l’opera missionaria di Paolo, con il principio di legalità e giustizia incarnato dallo stato e con lo Spirito Santo o il suo ministero per mezzo della chiesa[3]. Secondo l’interpretazione più probabile, “ciò che impedisce (o trattiene)” è una figura letteraria per il posticipo della manifestazione dell’“uomo del peccato”, cioè l’Anticristo (vedi v. 3b; cfr. I Gv. 2:18, Ap. 13).

Qualunque sia l’identità che è stata attribuita nel corso dei secoli a cosa o chi trattiene o ritarda il manifestarsi dell’empietà, autorevoli esponenti del potere politico e religioso della Federazione Russa l’hanno indicata senza margini di dubbio: ‘ciò che trattiene’ è la Russia e ‘chi trattiene’ è Putin e Zelensky è l’Anticristo[4].

Nell’omelia pronunciata il 7 aprile 2022 nella Cattedrale di Cristo Salvatore, il patriarca Kirill aveva ricordato che la Bibbia contiene un riferimento a una forza che ostacola la venuta dell’Anticristo nel mondo; questa forza è la Chiesa ma anche, aveva aggiunto, “l’intero popolo pio di tutti i tempi e di tutti i paesi, è la fede ortodossa che vive e agisce nella Chiesa ortodossa”, la cui unità è ora attaccata dai suoi nemici. In realtà, l’identificazione della Chiesa e dei suoi fedeli con il katéchon non era un concetto nuovo ma circolava ancor prima dell’invasione russa dell’Ucraìna in ambienti ultraortodossi, grazie agli articoli dell’ideologo conservatore Alexander Dugin pubblicati sul sito del centro studi Katehon; come ha osservato Luca Gori, “il conservatorismo russo ha nel suo Dna il Kathéchon: la visione di una Russia come ‘scudo’ che protegge l’ordine dalle forze apocalittiche del caos”[5].

La guerra santa di Putin e Kirill. Il fattore religioso nel conflitto russo–ucraino, Edizioni GBU, 2022

Alcuni mesi dopo, il 20 novembre – in occasione del suo settantaseiesimo compleanno – Kirill è ritornato su questo tema mettendo in guardia, con toni apocalittici, dai pericoli che minacciavano la Russia e la Chiesa ortodossa, primo fra tutti “il movimento dell’Anticristo”. Tutte le forze dell’Anticristo, ha spiegato il patriarca, sono coalizzate contro la Russia, perché “la Chiesa ortodossa russa” costituisce “la linea più importante di difesa spirituale del nostro popolo e del nostro paese”.

I riferimenti biblici di Kirill hanno trovato una perfetta corrispondenza in un post di Dmitrij Medvedev, ex presidente della Russia e attuale vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, pubblicato sul suo account di Telegram in occasione del Giorno dell’Unità Nazionale (4 novembre 2022). Secondo Medvedev, la Russia ha il sacro dovere di fermare il comandante in capo dell’inferno e difendere i valori morali della Russia attaccati dalle forze del male (https://t.me/medvedev_telegram/206). Anche Alexey Pavlov, vicesegretario del Consiglio di Sicurezza, ha dichiarato che presumibilmente in Ucraìna sono attive centinaia di sette sataniche e quindi è necessario operare una “desatanizzazione”.

Con l’immagine della Russia come baluardo contro la corruzione dell’Occidente, Kirill, Medvedev e la propaganda di regime hanno costruito una metanarrazione dell’invasione dell’Ucraìna come campagna patriottica di autodifesa che ha fatto breccia anche in settori dell’opinione pubblica occidentale.

Anche in Italia si è fatto ricorso alla figura del katéchon e non è mancato chi lo ha associato alla Russia, come l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, già nunzio apostolico negli Stati Uniti, che ha dichiarato:

 

La crisi mondiale con cui si prepara la dissoluzione della società tradizionale ha coinvolto anche la Chiesa cattolica, la cui gerarchia è ostaggio degli apostati cortigiani del potere. C’è stato un tempo in cui i pontefici e i prelati si sono confrontati con i re senza rispetto umano. La Roma dei Cesari e dei papi è deserta e muta, come lo è stata per secoli la seconda Roma di Costantinopoli. Forse la provvidenza ha stabilito che sia Mosca, la terza Roma, ad assumere oggi dinanzi al mondo il ruolo di katéchon (II Tess. 2:6-7), ostacolo escatologico all’Anticristo. [6]

 

Massimo Rubboli

(autore di La guerra santa di Putin e Kirill, GBU, Chieti 2022 e Tempo (quasi) scaduto. Come l’industria delle armi sta portando l’umanità all’autodisruzione, Artestampa, Modena 2022)

[1]Ego prorsus quid dixerit me fateor ignorare” (De Civitate Dei, 2.19).

[2] Leon Morris, Le epistole di Paolo ai Tessalonicesi, CNT, Edizioni GBU, Roma 1988, p. 165. Sulle interpretazioni più recenti, vedi L. J. Lietaert Peerbolte, The κατέχον/κατέχων of 2 Thess. 2:6-7, “Novum Testamentum”, Vol. 39, Fasc. 2 (Apr., 1997), pp. 138-150; Il Katéchon e l’Anticristo (2 Ts 2, 6-7). Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomia, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2009.

[3] Così il commento della Bibbia Scofield: “The restrainer is a person […], this Person can be no other than the Holy Spirit in the church” (ed. 1917, p. 1272).

[4] Il 3 dicembre 2022, sul principale canale televisivo di stato Russia-1, il commentatore politico Araik Stepanyan ha assegnato a Vladimir Zelensky lo status di “anticristo”: “La Chiesa ortodossa dovrebbe ufficialmente dichiarare Zelensky un anticristo. Dal punto di vista religioso, quest’uomo è l’anticristo. […] Dovremmo chiamarlo semplicemente Zelensky-Anticristo”.

[5] Luca Gori, La Russia eterna. Origini e costruzione dell’ideologia post sovietica, Luiss University Press, Roma 2021,

[6] Dichiarazione di Mons. Carlo Maria Viganò, Arcivescovo, sulla Crisi Russia -Ucraina, 6 marzo 2022, https://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV4396_Vigano_Dichiarazione_sulla_crisi_Russia-Ucraina.html.

La morte del papa-teologo. L’opinione di un evangelico.

di Valerio Bernardi

Nelle testate giornalistiche di fine e inizio anno, almeno in Italia, le notizie che hanno maggiormente spiccato sono quelle della morte di due personaggi celebri: Pelé e Benedetto XVI.

Lasciando momentaneamente da parte il tentativo di un bilancio sul primo, cercherò di tracciare un breve profilo valutativo di quello che è stato il primo Papa emerito della storia: Joseph Ratzinger/Benedetto XVI. Tentare di tracciare un bilancio del suo operato significa cercare di tracciare un bilancio del cattolicesimo post-conciliare e risulta impresa ardua. Partirò da due episodi significativi per me e, penso, rappresentativi di quello che ha fatto Papa Benedetto XVI.

Ho avuto la possibilità di sentire Ratzinger, quando era cardinale e rivestiva, sotto Giovanni Paolo II, la carica di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (ovvero era il capo dell’ex Sant’Uffizio e tribunale dell’Inquisizione) qui a Bari in una conferenza intitolata Unità e pluralità nella Chiesa. Sicuramente durante il suo eloquio si poteva dedurre che si trovava di fronte ad un teologo profondamente erudito e ben a conoscenza dei meccanismi della Chiesa in cui militava, ma, a me, giovane evangelico faceva sorgere diversi dubbi soprattutto quando, di fatto, negava la possibilità di qualsiasi pensiero dissenziente nei confronti del Magistero della Chiesa, ribadendo l’importanza del suo ruolo e della Curia nello stabilire quali fossero le basi della fede cattolica. Si trattava del Ratzinger che, appena qualche mese prima, aveva condannato in maniera ferma i Teologi della liberazione dell’America Latina, sostenendo che (forse anche giustamente) non ci poteva essere una conciliazione tra Marx ed il Magistero della Chiesa, ma, allo stesso tempo, ignorando le opzioni da cui era nata quella teologia e la questione della povertà che è sempre stata e deve sempre essere al centro del dibattito cristiano sin dai tempi biblici.

Il secondo ricordo, più vicino nel tempo, riguarda le sue dimissioni. Nella scuola dove insegno, nonostante la maggior parte dei ragazzi non sia normalmente interessata a questioni religiose e siano molto critici nei confronti della Chiesa Cattolica, le dimissioni di un Papa ha suscitato scalpore. Per questo motivo gli studenti hanno deciso di dedicare una loro assemblea di Istituto alla questione e, tramite la loro docente di religione, sono riusciti ad invitare Don Nicola Bux, un importante esponente del clero vicino a Comunione e Liberazione e collaboratore del Pontefice mentre era cardinale e Prefetto del Sant’Uffizio. Nonostante le varie dicerie sulla questione delle dimissioni (incapacità di governare la Chiesa, scandalo della pedofilia etc. etc.) Bux ha dato forse una delle migliori spiegazioni dell’accaduto: Ratzinger vedeva declinare la sua salute e, in tutta coscienza, non se la sentiva di continuare a governare senza vigore la Chiesa Cattolica.

Questi due episodi, a parte la lettura di diversi suoi testi e discorsi sono quelli che mi rimarranno impressi quando, anche in futuro, ricorderò Ratzinger. Ovviamente ci sono tante altre cose da poter discutere e voglio qui ricordarne qualcuna.

In primo luogo, Ratzinger è stato un teologo tedesco, formatosi in Baviera e docente alla facoltà teologica cattolica di Tubinga, uno dei più prestigiosi atenei tedeschi, dove è stato collega per diversi anni di Hans Küng, condividendone le posizioni progressiste almeno sino alla metà degli anni 1970, quando soffermandosi negli studi sul ruolo della Chiesa ha iniziato a reinterpretare alcune delle cose ribadite dal Concilio Vaticano II, si è allontanato dalle posizioni di critica nei confronti del Magistero e del ruolo del Pontefice ed ha ribadito un concetto di chiesa sacramentale che rimane uno dei pilastri del Cattolicesimo. La sua conversione non è stata repentina né frutto di un cambio di casacca per questioni squisitamente politiche (anche se è vero che ciò gli ha permesso di far carriera nella Curia), quanto un autentico timore dello sfaldamento della Chiesa Cattolica.

Questo lo ha gradualmente portato a divenire uno dei maggiori teologi dell’ala conservatrice della Chiesa Cattolica, condannando qualsiasi tentativo di andare al di fuori di schemi tradizionali. Allo stesso tempo, però, Ratzinger è stato colui che ha cercato di dialogare con il mondo secolarizzato occidentale. Lo ha fatto in diverse occasioni ed è entrato in dialogo sia con Habermas in Germania che con Flores d’Arcais in Italia. I suoi tentativi erano portati avanti anche da quello che, a mio parere, rimane il più importante documento ufficiale da lui scritto (anche se non ufficialmente) che è l’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et Ratio. In tale scritto il teologo tedesco è entrato in dialogo con il pensiero contemporaneo, cercando di ribadire un concetto di razionalità diverso da quello voluto dall’Illuminismo occidentale. La proposta è risultata interessante anche se il costante richiamo alla tradizione tomista come una sorta di “filosofia” ufficiale della Chiesa, appare limitante e forse troppo ristretta per un pensiero come quello evangelico che si è lasciato indietro l’impalcatura realista del periodo medievale.

Le testate giornalistiche italiane (in particolare Repubblica che non ha mai brillato per le sue competenze in campo religioso) continuano a ricordare il famoso discorso di Ratisbona fatto da Pontefice e lo ricollegano ad una sorta di antislamismo. Se è vero che Benedetto XVI in un passaggio di quel famoso discorso faceva riferimento all’Islam ed al fatto che tale religione non ricorresse alla ragione e non chiedesse alla fede l’uso dell’intelletto, è vero che l’intero discorso era una serrata critica al pensiero occidentale contemporaneo che era ricollegato in particolar modo al Protestantesimo e ad una linea di pensiero che partiva da Lutero ed arrivava fino a Kant in cui Dio era stato abbandonato a favore dell’uomo. Ratzinger (che in altri discorsi ha avuto parole di elogio per Lutero) ribadiva una vecchia linea di pensiero che riportava la responsabilità della secolarizzazione dell’Occidente alla Riforma Protestante, vista sempre con rispetto dal pensatore tedesco, ma anche guardata con una certa diffidenza.

Questo è, a grandi linee (se vogliamo anche in maniera sin troppo sintetica) il percorso di un grande personaggio per la Chiesa Cattolica. Cosa possiamo dire noi da evangelici? Intanto come spesso accade, a prescindere dal credere o meno nei rapporti ecumenici e di dialogo con la Chiesa Cattolica, il pensiero di Benedetto XVI va trattato con rispetto e lo si deve leggere con attenzione anche nei suoi tentativi divulgativi della fede che non sono mancati (non dimentichiamo che da Pontefice ha scritto delle monografie dedicate alla figura di Gesù, sicuramente discutibili in alcune conclusioni, ma molto interessanti perché si tratta, anche in questo caso, della prima volta che un Pontefice affermava di aver scritto libri da studioso e non da Capo della Chiesa). Leggendo i suoi testi è chiaro che le sue tesi rimangono pienamente all’interno della tradizione cattolica e, per questo, la sua concezione di Chiesa, il suo cedere in alcuni momenti al culto mariano, la sua idea di Magistero sono, da un punto di vista evangelico criticabili. Vanno però apprezzati il suo tentativo di dialogo con la società contemporanea, l’idea di render ragione della propria fede, quella di voler divulgare il suo pensiero. E, in ultimo, rimarrà sicuramente nella memoria dei posteri il suo atto più rivoluzionario: le sue dimissioni. Benché tradizionalista, Benedetto XVI ha rotto con una tradizione millenaria ed ha mutato l’idea di pontificato proprio abbandonando il soglio pontificio ed ammettendo che non si può dirigere una Chiesa in tarda età ed in condizioni precarie di salute. Probabilmente questo sarà uno dei suoi lasciti più significativi, oltre quelli della sua opera.

(Valerio Bernardi – Dirs GBU)