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Nuove sfide in campo bioetico: l’uomo che si riproduce per talea

di Nicola Berretta

In tempi di Covid, in cui tocchiamo con mano l’enorme potenzialità delle biotecniologie, ci giunge una notizia bomba, che potrebbe avere conseguenze dirompenti sul piano bioetico. Questa settimana (17 Marzo 2021) la rivista Nature ha pubblicato due articoli di contenuto analogo (Yu, L. et al. https://doi.org/10.1038/s41586-021-03356-y; Liu, X. et al. https://doi.org/10.1038/s41586-021-03372-y). Sono rari i casi in cui questa prestigiosa rivista scientifica pubblica articoli “gemelli”, e quando accade è perché si tratta di qualcosa di particolare rilevanza e delicatezza, tale per cui la pubblicazione di uno stesso risultato ottenuto da laboratori indipendenti non diviene più un’inutile ridondanza, ma semmai una necessità, al fine di rinforzare la credibilità della novità riportata.

Ambedue i laboratori sono riusciti a elaborare le condizioni sperimentali ottimali di crescita in vitro di cellule umane staminali adulte, o persino (il solo Liu et al.) di cellule cutanee riprogrammate, facendole poi sviluppare fino ad ottenere embrioni umani allo stadio di blastocisti.

Come forse già sanno coloro che si sono sottoposti a percorsi di fecondazione artificiale (FIVET), la blastocisti è uno stadio di sviluppo che segue le prime divisioni dello zigote, nato (fino a oggi!) dalla fusione tra ovocita e spermatozoo, ed è proprio in questa fase di blastocisti che l’embrione viene impiantato nella mucosa uterina, nella speranza che gli strati di cellule già presenti in quella fase embrionale proseguano il loro percorso di differenziamento fino al completo sviluppo del feto. Ambedue i gruppi hanno interrotto per motivi etici le loro osservazioni allo stadio di blastocisti, ma tutto lascia pensare che queste avrebbero proseguito il loro sviluppo se fossero state impiantate. Infatti, se le blastocisti venivano traferite su un altro terreno di coltura che riprende alcune caratteristiche della mucosa uterina, gli autori riportano evidenze di uno sviluppo di abbozzi di cavità amniotica e di placenta.

Detto banalmente: hanno ottenuto embrioni umani non a partire dalla fusione di ovociti e spermatozoi, ma da cellule della pelle.

Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di qualcosa di simile agli esperimenti del 1997 di clonazione della pecora Dolly. In quel caso, però, era comunque presente una “normale” fusione di cellule germinali al fine di ottenere un ovocita fertilizzato, a cui poi veniva sostituito il nucleo con uno preso da una cellula somatica. In questo caso invece non si ha alcuna cellula germinale coinvolta. Si tratta di una cellula adulta cutanea (un fibroblasto, per essere precisi), che normalmente nella vita avrebbe fatto tutt’altro, che viene riprogrammata e fatta dividere fino a diventare una blastocisti, cioè un embrione umano.

A qualcuno potrebbe suonare strana questa “riprogrammazione” delle cellule, ma sono stati proprio i dilemmi etici legati all’utilizzo di cellule staminali tratte da embrioni umani che hanno spinto negli ultimi 10-15 anni la ricerca verso l’ottimizzazione di questa tecnologia. Senza dunque fare ricorso a cellule embrionali, è oggi possibile prendere cellule adulte già differenziate, porle in opportune condizioni di crescita in vitro, per essere in questo modo fatte regredire a livello di cellule staminali indifferenziate ed essere dunque riprogrammate verso un diverso percorso di differenziamento, ed essere così utilizzate come sostituti di cellule andate perse a causa di varie patologie. In questo caso la riprogrammazione è stata così drastica e radicale da permette a queste cellule di ricominciare tutto da capo!

Trovo ironico che lo sviluppo di una tecnologia spinta soprattutto dal dilemma etico di non voler utilizzare cellule derivate da ciò che riteniamo essere una “persona umana”, ci riproponga lo stesso dilemma, questa volta addirittura amplificato. Infatti, queste cellule umane, che non provengono dalla fusione di due gameti, ma che presentano caratteristiche del tutto sovrapponibili a quelle di un embrione umano, sono o non sono “persona umana”?

Se dovessimo rispondere negativamente, in quanto riteniamo che la “persona umana” possa essere solo il risultato di una fusione di materiale genetico contenuto nell’ovocita femminile e nello spermatozoo maschile, potremmo forse ben presto doverci ricredere, davanti alla notizia del primo bambino nato con questa modalità di fertilizzazione in vitro. Un bambino che evidentemente sarà gemello del suo genitore genetico, o meglio un suo clone. O meglio ancora, una talea ottenuta a partire da un pezzetto di pelle ripiantato in un bel terreno di coltura.

Oltre a porci la domanda sull’identità di questi futuri bambini, credo poi che questi esperimenti ci porteranno inevitabilmente a dover ridiscutere le tematiche legate proprio al significato dell’embrione. Ad oggi molti cristiani (io incluso!) ritengono un dovere etico difendere la “persona umana” fin dalle sue prime fasi di sviluppo, da cui deriva l’opposizione a pratiche come l’aborto o l’utilizzo di cellule embrionali umane. Questa posizione etica si fonda soprattutto su un principio cautelativo legato al non essere noi in grado di individuare alcun punto di discontinuità nello sviluppo di un embrione, tale da poter giustificare l’esistenza di un momento specifico in cui un “aggregato di cellule umane” divenga “persona umana”. L’unica discriminante riconosciuta è proprio la fertilizzazione, cioè la fusione dei due gameti, maschile e femminile. Questo è ad oggi l’unico chiaro punto di discontinuità tale da poter distinguere una “cellula umana” da una “persona umana”. Noi infatti non tuteliamo la sacralità dell’ovocita o dello spermatozoo, ma riteniamo che sia nostro dovere e responsabilità etica tutelare la vita umana fin dal concepimento, indicando dunque nel concepimento (la fusione tra ovocita e spermatozoo) il momento esatto che sancisce l’inizio della “persona umana”.

Credo allora che queste ricerche non possano lasciarci indifferenti anche su questi nostri capisaldi bioetici. Come definiremo l’inizio della “persona umana” in questi embrioni originati da fibroblasti riprogrammati?

Aggiungo una nota finale per coloro (anche cristiani) che individuano come discriminante del passaggio tra “cellule umane” a “persona umana” la fase d’impianto della blastocisti nella mucosa uterina della mamma. Chi sostiene questa tesi evidentemente si sentirà meno coinvolto da questi dilemmi. Bene, suggerisco anche a voi di non dormire sonni tranquilli. Lo stesso numero di Nature che pubblica i due articoli sopra citati ne pubblica anche un altro (Aguilera-Castrejon et al. https://doi.org/10.1038/s41586-021-03416-3) in cui gli autori mostrano di essere riusciti a far crescere embrioni di topo fuori dall’utero fino a uno stadio embrionale di 11 giorni. Se pensate che 11 giorni sia poca cosa, vi invito a rapportare questo numero ai 20 giorni di gestazione media di un topo.

Chissà se, con questa modalità di riproduzione per talea, un domani rileggeremo Ungaretti, “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, sotto una chiave molto più letterale?

 

Il fine vita ai tempi di COVID–19

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Sul sito dell’UAAR viene riportata la percezione della popolazione italiana in merito a un tema caldo della bioetica, l’eutanasia:
Tutti i sondaggi condotti negli ultimi anni attestano che la maggioranza degli italiani è favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia. Secondo un sondaggio Swg del 2019, i cittadini favorevoli a una legge sarebbero ormai il 93%.

Si tratta di un’affermazione che risente in modo particolare delle ultime mosse nel campo della bioetica del fine vita nell’arco del 2019, poco prima che scoppiasse la pandemia. Anzi, si potrebbe dire che per poche settimane non si è verificata una vera e propria sovrapposizione estremamente significativa nel campo della bioetica.
Infatti, mentre in Cina si cominciava a parlare di un virus sconosciuto che si agitava dalle parti di Whuan, la Corte Costituzionale depositava il 22 novembre le motivazioni della sentenza del 25 settembre dello stesso anno relativa alla depenalizzazione del reato di assistenza al suicidio (art. 580 del c.p.) ritenendo una parte di quell’articolo incostituzionale.

La Corte così concludeva il percorso iniziato un anno prima con l’Ordinanza del 25 settembre 2018 con la quale segnalava il vulnus legislativo relativo alla questione del suicidio assistito, da molti ritenuto il primo passo verso forme di eutanasia.
Il caso che aveva scatenato questa produzione di giurisprudenza era quello di DJ Fabo, recatosi in Svizzera, accompagnato dall’eponente radicale Marco Cappato per essere aiutato nel suo proponimento di togliersi la vita. Marco Cappato al ritorno dalla Svizzera si era autodenunciato e aveva avviato l’iter delle sentenze che arrivava a conclusione nel novembre dello scorso anno.

In maniera quasi fatidica due vicende relative al fine vita stavano per incrociarsi per ritrovarsi travolte dallo tzunami della pandemia che portava prepotentmente all’attenzione degli italiani la conclusione dell’esistenza di migliaia di connazionali (con una media dell’età secondo l’ISS superiore agli ottant’anni) immortalata dalle terribili immagini dei camion dell’esercito pieni di bare.

Da un lato una dimensione sofferente che a “certe condizioni” può portare legittimamente un soggetto a chiedere di essere aiutato, assistito a interrompere la propria vita:

Il riferimento è, più in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Dall’altro lato una dimensione sofferente come quella delle migliaia di vite che si ritenvano custodite e protette nelle RSA e che contro la volontà dei soggetti implicati in esse, in primis i familiari, viene brutalmente messa a confronto con il virus e, nella maggior parte dei casi, strappata via. Dopo che, peraltro, nel momento dell’emergenza più acuta, aveva fatto nascere un altro problema bioetico quello opportunamente messo in luce dalla Commissione bioetica delle Chiese Battiste, Metodiste e Valdesi d’Italia con il documento dal titolo: “Emergenza Covid–19 e criteri di accesso alle terapie. Una riflessione protestante”: come prendere decisioni corrette di fronte alla mancanza di risorse sufficienti per rispondere alle esigenze di tutti in un momento di emergenza.

La morte cercata, la morte esorcizzata e combattuta si sono quasi incrociate sul suolo della nostra nazione, mostrando forse in maniera provvidenziale, per la prima volta, l’aspetto relativo e non assoluto delle acquisizioni bioetiche più avanzate. Quello che sembrava un trend quasi inarrestabile e che ci voleva convincere che il modo più avanzato e confacente alla raggiunta matura età dell’uomo occidentale nei confronti della morte fosse quello di venirci a patti, invitarla e prepararle la strada “a certe condizioni” ora deve fare i conti con lo sconforto nazionale nei confronti della generazione che volevamo proteggere dalla morte, che credevamo protetta fino al suo approssimarsi naturale, e che invece se n’è andata via mestamente, senza conforto e nella solitudine, su un camion grigioverde.

E a questo si aggiunge forse, speriamo, il senso di colpa collettivo di una nazione che ha abbassato la guardia nei confronti dell’uso e dell’allocamento delle risorse da dedicare al Sistema Sanitario Nazionale; Sistema ridotto a terra di conquista della corruzione degli apparati corrotti dello stato nonché campo di produzione di ricchezza del malaffare.

Anche questo, un altro classico tema della bioetica contemporanea.

La speranza, in questo incrocio di pulsioni sociali di segno contrario che si sono quasi scontrate in questo scorcio della nostra storia, è che quel 93% del gradimento per qualche forma di eutanasia scenda, si riduca, prendendo atto che è insopportabile lo spettacolo del piano inclinato del destino che quando comincia a farvi scivolare le vite degli esseri umani sembra non più controllabile e arrestabile.

Quale riflessione per i cristiani? Qualcuno diceva che il fine vita è uno dei contesti privilegiati in cui si manifesta la tensione tutta biblica e teologica tra la provvidenza divina – i cristiani credono che sia Dio a detenere la vita e la morte – e la solerte azione dell’uomo tesa a curare e ritardare non solo in vista della guarigione ma anche come rimedio palliativo per la sofferenza con cui la morte spesso si fa annunciare:

Questa tensione teologica fornisce le prospettive e i limiti nel campo della morte e del morire per il fatto che essa preclude le risposte radicali alla questione. Per esempio, essa sembra proibire l’eutanasia attiva che accentua la responsabilità della cura ma nega la provvidenza [eutanasia pietosa]. Allo stesso modo, la stessa tensione mette in discussione il rifiuto di porre fine in alcuni, garantiti casi ai trattamenti medici, una posizione questa che accentua la provvidenza ma nega il prendersi cura. La tensione creativa tra la provvidenza divina e il prendersi cura ci aiuta “a trovare un’equilibrata via di mezzo tra il vitalismo medico (che preserva la vita a tutti i costi) e il pessimismo medico (che uccide quando la vita sembra frustrata, ai limiti e senza alcuna utilità” (Hollingher, 2001).

Fotografia di Gabriele Magnano

Tre domande a Saverio Bisceglia su Alfie Evans

La vicenda del piccolo Alfie e la battaglia intrapresa dai suoi genitori contro il sistema sanitario inglese, ci riporta alle questioni di fine vita. Cosa pensi di questo caso?

Occorre dire anzitutto che Alfie soffriva di una malattia degenerativa del cervello che lo portava ad avere un’epilessia resistente ai farmaci. Ce ne sono diverse di queste malattie di solito di origine genetica, piuttosto rare, che portano in tempi più o meno precoci alla degenerazione dei neuroni e quindi alla morte prematura. Alfie ha iniziato da subito, nei primi mesi, a manifestare i sintomi della malattia e ha avuto necessità di sostegno delle funzioni vitali, con una progressiva e pressocchè totale dipendenza dalla tecnologia medica.

Il progresso scientifico in campo medico è sicuramente alla base delle questioni etiche che nascono nei momenti di fine vita. Se non avessimo apparecchiature e farmaci in grado di vicariare e stimolare completamente le funzioni vitali, non staremmo qui a parlare di Alfie come di tanti altri casi. Però quante vite sono state salvate grazie al progresso della medicina? Quindi occorre accettare il fatto che casi come quello di Alfie in determinate malattie ci saranno sempre, alcuni verranno alla ribalta della stampa altri passeranno silenziosi con la discrezione dovuta a genitori che sopportano il peso più grande.

 

Considerando le condizioni gravi di Alfie, perchè i genitori hanno voluto combattere questa battaglia?

Credo che la vita sia molto di più di quello che pensiamo o osserviamo. Quando parliamo della vita di una persona possiamo avere solo dei punti di vista, per esempio quello medico, quello psicologico o anche quello religioso o filosofico. Ma la vita è molto di più. Io sono un credente è nella Bibbia la vita è descritta come qualcosa che non ha solo a che fare con una somma perfetta di processi biologici e di condizioni vitali, ma ha la sua origine nel creatore di tutte le cose. Siamo in un certo senso fatti, anche se in modo non ben definibile, di materia di Dio. Nel nostro corpo avvengono processi e percezioni vitali che hanno a che fare con l’eternità, nessuno ha percezione della propria morte o se la rappresenta come un evento naturale. E’ un aspetto meraviglioso e tanto trascurato della vita che solo chi attraversa questi momenti percepisce. La vita diventa improvvisamente talmente preziosa nonostante tutto che non riesci a vedere altro che questo.  Tanto più questo accade ai genitori che quella vita l’hanno generata. Pretendere che loro abbiano un punto di vista medico sulla situazione del proprio bambino è semplicemente impossibile. Perciò con il loro atteggiamente hanno voluto dire aspettiamo ancora un po, non siamo ancora pronti alla perdita del nostro bambino e se proprio deve morire permetteteci di portarlo a casa.

 

Sappiamo come sono andate le cose, la sentenza del giudice e la ventilazione che è stata staccata dai medici contro il parere dei genitori. Quali riflessioni possiamo fare?

E’ troppo facile essere dalla parte dei genitori. Occorre riflettere sul fatto che tutti gli attori in campo compresi i genitori hanno dovuto affrontare decisioni di fronte alle quali nessuno può esprimere certezze. Personalmente credo che nelle decisioni di fine vita occorre essere alleati e non contendenti, come è accaduto, ciascuno deve conservare il proprio ruolo, senza pretendere di sapere cosa è meglio o cosa e giusto fare. Non è possibile standardizzare i comportamenti dei genitori, nello stesso modo con cui i medici standardizzano un protocollo di fine vita, perciò occorre un dialogo che non può passare da atti formali e giuridici. Non si è mai preparati a dire addio a una persona che amiamo e questo è un fatto oggettivo, non un’opinione. Credo tuttavia che non sia corretto vedere un’operazione di eutanasia nel comportamento dei medici inglesi, ma una presa d’atto che proseguire il sostegno vitale ad Alfie aveva perso ogni significato. Questa decisione andava secondo me concordata nei modi e nei tempi con i genitori attraverso un percorso di accettazione nel quale Alfie avrebbe mostrato senza ombra di dubbio che la sua vita aveva lasciato il posto ad una pseudo vita mantenuta meccanicamente. Un giorno un uomo di fede difronte alla morte tragica dei propri figli ha detto: “Il Signore ha dato il Signore ha tolto, benedetto il nome del Signore”. Come ho detto la vita è molto più della sua apparente tragicità e noi ne siamo affidatari  temporanei

 

Saverio Bisceglia, un tempo membro del gruppo GBU di Roma, è oggi Medico di Medicina Generale e Coordinatore del Servizio di Continuità assistenziale del 9° Municipio di Roma; è Presidente dell’A-NCL, Associazione Nazionale Ceroidolipofuscinosi-Neuronali; è Responsabile di una Chiesa Evangelica del quartiere prenestino di Roma.