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Cristianesimo ed economia

di Roger E. Olson

Il cristianesimo e l’economia

L’economia è a ragione definita tradizionalmente “la scienza triste”. Anche i migliori economisti al mondo sono in radicale disaccordo fra di loro su come fare previsioni economiche di una società e su come programmare al meglio la sua distribuzione dei beni affinche venga promosso un benessere universale.

Una ragione per questo stato di cose è da rintracciare nei presupposti radicalmente differenti relativi alla distribuzione della ricchezza (definita qui come i “beni” in una società). Per esempio, la ricchezza è limitata o può crescere? La giustizia distributiva è un gioco a somma zero o si può creare nuova ricchezza? Gli economisti non si mettono d’accordo ma la differenza nel mondo la fa ciò che credi. Potrebbe sembrare che la ricchezza si sia accresciuta, ma gli economisti del gioco a somma zero sostengono che si tratta proprio di un’illusione (è cresciuta sulla carta). Questi economisti al contrario sostengono che i soli, “reali” beni sono quelli materiali, vale a dire la terra e quello che c’è su di essa e al suo interno. Ogni altra cosa è “solo sulla carta”.

Ci sono altre, numerose e profonde differenze di presupposti relativi all’economia e alla giustizia distributiva. Ma questa è una di fondo. La “giustizia distributiva” la si trova là dove si incontrano l’economia e l’etica. Per esempio, se credi che la ricchezza possa essere accresciuta, tenderai ad avere un’opinione diversa sulla giustizia retributiva rispetto all’opinione contraria, vale a dire che non può essere accresciuta. Se la ricchezza può crescere, potresti essere meno interessato a farti problemi di giustizia distributiva rispetto all’ipotesi secondo la quale la ricchezza non possa crescere.

Ancora, e tuttavia, anche se la ricchezza può essere aumentata non tutti sarnno capaci di beneficiare di un tale accrescimento a causa di vari generi di diversa abilità: per esempio, il caso dei bambini e dei giovani, di chi affronta sfide fisiche e mentali o anche a causa della semplice cattiva sorte. La giustizia distributiva – sia essa di natura religiosa o secolare – è la determinazione del modo migliore per la società di distribuire la sua ricchezza.

Tutti sono consapevoli di quanto sia semplice (perfino semplicistico) lo “spettro” delle posizioni economiche riguardo alla giustizia distributiva – dalla “estrema destra” alla “estrema sinistra”. All’“estrema destra” dello spettro ci sono le tesi definite del darwinismo sociale popolarizzate dalla filosofa e romanziera Ayn Rand (morta nel 1982). Molti filosofi dell’economia considerano che il suo darwinismo sociale, chiamato anche “oggettivismo”, fosse appoggiato dall’eticista di Harvard Robert Nozick (morto nel 2002). In quest’ottica, fatta propria anche da molti cristiani, la società non deve distribuire la ricchezza. Le persone capaci creano ricchezza o scoprono ricchezza e i “deboli” della società devono difendersi da soli. È contro natura il “prendere dal ricco per dare al povero” quale che sia il modo. Naturalmente i singoli individui sono sempre liberi di impegnarsi in azioni caritatevoli, ma la società in sé non ha obblighi verso i più poveri e i più deboli che sono al suo interno. La redistribuzione della ricchiezza da parte dei governi esige un enorme apparato burocratico che inevitabilmente sottrae libertà agli individui. Inoltre, aiutare i deboli e i poveri corrompe il corredo genetico e crea dipendenza. E mina la spinta a scoprire e inventare.

All’“estrema sinistra” dello spettro c’è il comunismo sostenuto dal filosofo Karl Marx (morto nel 1881) e di quelli ispirati dalle teorie sociali. Secondo queste convinzioni la ricchezza di una società dev’essere relativamente ed equamente distribuita: “Da ciascuno secondo le sue capacità; a ciascuno secondo le sue necessità”. L’argomentazione secolare a favore del comunismo è che ogni altro programma di giustizia distributiva porta inevitabilmente allo scrontro di classe e alla fine all’anarchia. Il comunismo preverrebbe l’anarchia ed è più umano del darwinismo sociale.

La debolezza di questi due “estremi dello spettro” è abbastanza evidente. Il darwinismo sociale e il suo compagno, il capitalismo lassez faire, porta alle sottocalssi sociali composte non solo da coloro che non si preoccupano di lavorare ma anche da coloro che per varie ragioni sono incapaci a lavorare (intendo dire incapaci a contribuire alla scoperta e/o alla creazione di nuova ricchezza). Il comunismo porta alla dipendenza dai governi ed è privo di incentivi a scoprire e creare ricchezza. Abbiamo così che molti economisti teorici occidentali hanno cercato di creare dei programmi economici di giustizia distributiva in qualche modo intermedi tra i due estremi.

Il  socialismo democratico si presenta in varie forme, tutte che tentano di combinare i sistemi degli incentivi e dei premi (per incoraggiare la partecipazione nell’invenzione, scoperta e creazione di ricchezza) con i sistemi di governo che tentano di redistribuire la ricchezza. In molta parte dell’Europa occidentale e del nord, per esempio in Danimarca, il “socialismo democratico” è considerato la norma. Qui la gente e le corporazioni sono molto tassati (all’incirca intorno al cinquanta per cento) mentre il governo eletto democraticamente gestisce l’economia per redistribuire la ricchezza secondo il “massimo principio della giustizia” di John Rawls, vale a dire la massimizzazione dello standard minimo di vita senza che questo rappresenti l’abolizione del sistema delle libertà e degli incentivi. Un esempio è un salario minimo molto elevato; un altro esempio è la libera scolarizzazione di tutti i cittadini dalla nascita fino all’università. Eppure sia gli individui sia i gruppi sono relativamente liberi, con qualche minima regolazione e sorveglanza governativa per iniziare delle attività e perfino diventare ricchi. Ma nessuno diviene “super ricco”. Il governo offre lavoro affinché il “sistema assistenzialistico” non divenga permanente. L’occupazione di tutti è l’ideale e l’obiettivo, anche se ciò potrebbe significcare che il governo assume una percentuale molto ampia della popolazione.

Il capitalismo moderno pianificato (non quello del laissez faire) si presenta anch’esso in molteplici forme che enfatizzano tutte l’incentivo economico in funzione della scoperta e della creazione di nuova ricchezza, rendendo minimo l’intervento del governo, della burocrazia e del welfare. Qui le funzioni economicamente primarie del governo sono quelle di “arbitrato” per moderare gli individui e i gruppi dal divenire troppo potenti (per esempio proibendo i gruppi monopolistici) mentre nello stesso tempo incoraggiando la creazione del benessere, per esempio tassando i redditi di investimento a un tasso inferiore rispetto ai redditi di lavoro. La redistribuzione della ricchezza è di solito limitata alla scuola pubblica per i livelli primario e secondario e a un minimo stato sociale per i poveri e in particolare per i disabilitati.

Il socialismo democratico e il capitalismo moderno pianificato si sovrappongono in molti punti ma hanno diversi impulsi che li spingono verso gli estremi opposti dello spettro o della giustizia distributiva o l’altro. Tuttavia tutte e due le posizioni vedono la necessità sia degli incentivi a scoprire e creare ricchezza e sia qualche grado di gestione governativa dell’economia e della redistribuzione della ricchezza.

Ci sono teorie economiche e di giustizia distributiva contemporanee ma, quando esaminate attentamente molte, se non tutte, ricadono sotto una di queste quattro categorie “ombrello”.

È facile trovare pensatori cristiani che appoggiano tutte queste teorie, trattate come “assiomi medi” (se le definiscono in tal modo o meno) per implementare l’etica del Regno nel mondo che non è ancora il Regno di Dio.

Alcuni pensatori cristiani appoggiano fortemente il comunismo purgato dell’ateismo marxista che, sostengono, non fa parte e non è un ingrediente del comunismo in quanto teoria economica. Alcuni di loro sostengono che il comunismo deve iniziare dentro la chiesa e poi diffondersi al di fuori nella società. Altri pensano che I cristiani debbano “saltare” direttamente nel dibattito economico–politico e perfino combattere e allearsi con i comunisti secolari per far nascere quel sistema, se necessario anche ricorrendo alla rivoluzione. La loro argomentazione è che nel Regno di Dio non ci sarà differenziazione di ricchezza e dunque in quanto cristiani non possiamo sentirci a nostro agio qui e ora con questa situazione (Jose P. Miranda, teologo della liberazione messicano in Marx and the Bible).

Alcuni pensatori cristiani appoggiano decisamente il capitalismo del laissez faire senza però definirlo né riconoscerlo come darwinismo sociale (molti negherebbero che sia basato su quella filosofia). Questi cristiani credono solitamente che il peccato originale e la depravazione umana richiedano forti incentivi al lavoro e che il governo “ingombrante” per qualsiasi sistema economico inevitabilmente prevarrà sulle libertà individuali, incluso la libertà religiosa. (Il teologo cattolico Michael Novak in The Spirit of Democratic Capitalism e il protestante Marvin Olasky in The Tragedy of American Compassion. Questi cristiani ritengono che le chiese e non il governo debba occuparsi del povero sebbene contemplino delle eccezini in casi di emergenza).

Si tenga conto che è possibile essere un comunista su come la chiesa debbapraticarela distrubuzione della giustizia al proprio interno e non essere comunisti per quanto concerne il come debba funzionare l’ordine socio–economico all’esterno.

Alcuni pensatori cristiani sostengono decisamente il socialismo democratico come una posizione di compromesso che prende sul serio la tendenza umana a diventare dipendenti dai programmi di assistenza sociale del governo ma riconosce anche che le chiese non possono occuparsi da sole di  tutti i poveri. Molti di questi pensatori cristiani sostengono che le chiese debbano praticare una forma di socialismo al loro interno con o senza pressione cristiana sui governi per essere aiutate. Molti sostengono che i cristiani si debbano schierare appasionatamente in favore del socialismo nel campo della giustizia distributiva delle proprie società (Esempi: Stanley Hauerwas per la pratica della chiesa come una sorta di socialismo interno e Walter Rauschenbusch e i suoi eredi a favore di una forma di pressione cristiana sulla società affinché adotti il socialismo).

Altri pensatori cristiani appoggiano fortemente il capitalismo moderno pianificato (il capitalismo contrario al lassez faire) come un compromesso che prende seriamente l’avidità e la pigrizia peccaminose. Per loro, dal momento che si è nella condizione del “non ancora” questa forma di capitalismo è la migliore politica pubblica che prende sul serio una tale realtà e nello stesso tempo si prende cura degli indigenti (i “veri poveri”). Tra questi pensatori c’è differenza sul fatto se la chiesa debba essere coinvolta nell’implementare o sostenere questo sistema sociale. Molti cristiani che l’appoggiano lo considerano come il sistema di fondo degli Stati Uniti nel XXI secolo e cercano unicamente di difenderlo dal cambiamento verso un altro sistema. Ma differiscono nel valutare quanto funzioni bene o quanto possa essere “affinato” per preservarlo in un mondo che cambia e renderlo più funzionale per ognuno.

Tutte e quattro queste principali opzioni  relative alla giustizia economica distributiva possono essere rinvenute tra i cristiani di tutto il mondo. La mia idea è che nel Regno messianico che viene sulla terra non ci sarà povertà ma ci sarà una ricchezza differenziata. Dunque, trovo la teoria di John Rawls (morto nel 2020) della giustizia come equità la teoria più compatibile nella prospettiva del Regno che viene e quella del Regno che non è ancora venuto. Per me è una sorta di assioma intermedio che mi aiuta, per esempio, nel decidere per chi votare.

Rawls ha sostenuto che, sotto il “velo dell’ignoranza” (un’ipotetica convenzione che sviluppa il contratto sociale e le politiche di una società in cui i partecipanti non conoscono i propri vantaggi e i propri svantaggi, anche se questi ci sono) ogni persona razionale voterebbe per una società che equilibri la libertà  e ciò che egli ha definito il principio di “massimizzazione”. Ci sarebbero incentivi a creare e scoprire benessere con la differenziazione della ricchezza che ne risulterebbe basata sulle capacità e sull’impegno. Ma ci sarebbero anche programmi per ridistribuire la ricchezza. Il principio di massimizzazione, semplicemente, è l’idea che allorquando una porzione della popolazione gode di un accrescimento degli standard di vita ne beneficiano anche coloro “che sono alla base”. Il sistema di giustizia distributiva in economia è “costruito” per massimizzare il minimo senza distruggere l’incentivo a creare nuova ricchezza. Tutto ciò richiede, naturalmente, qualche sistema di redistribuzione come un sistema fiscale altamente graduale, oltre a un sistema scolastico libero, l’avviamento al lavoro e il welfare per coloro che non possono lavorare. Rawls stesso però non specifica come implementare la sua teoria, Espone semplicemente i principi. Io credo che questa teoria della giustizia economica/giustizia distributiva si sposa meglio con l’insegnamento di Gesù sul denaro e sulla ricchezza, con la realtà che la gente abbisogni di incentivi per creare lavoro, con il fatto che il Regno di Dio non è ancora realizzato, e con l’importanza di operare contro i sistemi che contraddicono e si oppongono alla venuta del Regno. Personalmente, penso che il socialismo democratico (quello scandinavo) sia il sistema economico esistente più vicino agli intenti di Rawls e allo spirito del Regno di Dio già presente ma non ancora realizzatosi. Combina realismo e idealismo. Si tratta del più utile assioma di mediazione per la giustizia distributiva cristiana in campo economico.

Torniamo però alla chiesa. È possibile possedere uno dei quattro “ideatipi” della teoria e della pratica economica secolare (giustizia distributiva) per l’ordine sociale al di fuori della chiesa e uno diverso per la stessa chiesa.

A me pare che la chiesa debba praticare una sorta di comunismo al suo interno – non necessariamente una “cassa comune” (non una vera e propria proprietà privata, la chiesa infatti deve possedere proprietà come date “in affidamento” da parte dei membri e nell’intento di distribuirle secondo il bisogno) – ma un ethos in cui la proprietà di ogni privato non sia realmente “privata” ma sia a disposizione di chi ne ha bisogno. Ogni chiesa cristiana deve essere una “comunità cristiana volontaria” che pratica al suo interno la giustizia distributiva ma assicurandosi che nessun membro soffra per la perdita o per la mancanza di beni necessari a portare avanti una vita di benessere e che nessun membro accumuli ricchezza al di sopra e oltre quello di cui necessita per un confortevole benessere. Naturalmente, e come sempre, “il diavolo si nasconde nei dettagli” ma se ogni chiesa seguisse questi principi di fondo, al meglio delle sue capacità, si avvicinerebbe a essere quell’“avamposto del Regno” che dovrebbe essere.

*C’è stato un tempo in cui molte chiese cristiane praticavano qualcosa del genere ma spesso senza un insieme di regole per governarlo e realizzarlo nella pratica. Per esempio, la chiesa in cui sono cresciuto fino agli undici anni definiva chiaramente un peccato il vivere nella lussuria e nel “consumismo sfrenato”. Ci si aspettava che i membri dessero il di più alla chiesa (o alla denominazione) per aiutare i poveri della chiesa e varie opere all’esterno (specialmente per le missioni all’estero). Ricordo una famiglia della chiesa che divenne relativamente benestante e iniziò a frequentare la chiesa la domenica con una nuova macchina di lusso. Il pastore gli fece visita personalmente e ricordò loro che l’avidità e il lusso sono dei peccati e che essi avrebbero dovuto vendere la macchina, acquistarne una meno costosa e dare la differenza alla chiesa. Occasionalmente predicava anche contro “il peccato del consumo sfrenato”. La famiglia benestante lasciò la chiesa. In qualsiasi situazione un membro cadeva in una situazione di povertà magari per responsabilità non proprie e non identificabili, la chiesa “organizzava un’offerta” per rispondere ai loro bisogni (non ai loro desideri). Nessuna ricchezza o bene era considerato proprio tale da disporne in qualche modo. Apparteneva a tutti della chiesa e in ultima istanza apparteneva a Dio.

**Ancora, e per di più, Martin Lutero, tra i grandi leader del passato, credeva che la società ideale dovesse essere una che aveva una cassa comune. Non cercò mai di realizzare una cosa del genere ma insegnava che questo dovesse essere il caso in una vera società cristiana. Il “socialismo” dunque non è un’idea che è nata con Karl Marx. Il leader pietista Philip Spener credeva e insegnava che è il dovere del governo garantire il lavoro a tutti. Era nel 1700. L’antico patriarca di Costantinopoli Giovanni Crisostomo insegnava che il lusso dei ricchi dovesse essere ridistribuito ai poveri. L’idea che l’economia individualista, l’economia liberalista è ed è sempre stata parte del cristianesimo è un’idea infondata.

Violenza monoteista?

La violenza è percepita oggi, almeno in Occidente, come uno dei maggiori problemi del mondo contemporaneo. L’opinione comune, che ne è angosciata e ossessivamente preoccupata, scopre con sorpresa mista a stupore che questa è in parte correlata alla religione. La religione, che nel secolo scorso era ritenuta piuttosto inoffensiva e particolarmente inefficace, è riemersa nel XXI secolo sotto le caratteristiche minacciose del jihadista. La famosa frase di Andre Malraux1 sul religioso XXI secolo, spesso citata con ironia, non fa più sorridere, ma rabbrividire. Nel tentativo di esorcizzare l’ansia cerchiamo di convincerci che la religione non c’entra niente con la violenza, che lo scatenarsi della violenza debba essere attribuito a estremisti canaglie che non hanno compreso nulla della religione che sostengono di servire. Ci affrettiamo a sostenere e ribadire in coro che la religione in questione è una religione di pace, come se l’incantesimo avesse il potere di realizzare quello che ci si augura … senza però che ci crediamo troppo.

In questo clima non sorprende che vengano mosse critiche alla religione stessa. Non è forse vero che essa si ritroverebbe alla radice delle violenze che hanno segnato la storia e che pre­occupano così tanto il tempo presente? Il bersaglio principale di queste critiche contemporanee è il monoteismo. Sorge un dubbio: è per cercare di non stigmatizzare l’Islam che le tre re­ligioni del Dio unico sono unite sotto la stessa riprovazione? Si noterà comunque che le critiche sono rivolte in gran parte, spesso esclusivamente, contro l’Antico Testamento e contro il Cristianesimo. Gli autori del recente rapporto della Commis­sione teologica cattolica internazionale2 sono stupiti, e giu­stamente, in quanto si rendono conto che l’obiettivo prin­cipale della critica contemporanea è la religione monoteista che ai nostri giorni sta compiendo i maggiori sforzi in vista di un dialogo di pace tra le principali religioni, e i cui fede­li, «in molte parti del mondo, sono colpiti da intimidazioni e violenze per la semplice ragione di appartenere [appunto] alla comunità cristiana». Il rapporto presenta alcune interessanti ipotesi sia relative al silenzio verso l’Ebraismo e l’Islam sia sul sorprendente accanimento contro il Cristianesimo.

Il motivo dichiarato della critica è di tipo logico: si pensa di aver trovato nella credenza in un Dio unico la causa del­la violenza. L’argomento è di una semplicità disarmante: se credi che il tuo Dio è l’unico vero, non considererai i segua­ci di altre religioni, o gli atei, come estranei, empi, persino come nemici da abbattere? Come potrebbe, chi non accetta altro Dio che il proprio, tollerare convinzioni e pratiche di­verse dalla propria?

Accuse antiche
Va detto che una simile accusa non è recente. Due brevi accenni permetteranno di apprezzare sia la conti­nuità dei rimproveri sia la peculiarità della critica attuale.

Nel secondo secolo della nostra era il filosofo Celso denun­ciava l’Ebraismo e il Cristianesimo come religioni che pro­muovevano la ribellione, che turbavano il vivere comunitario3 della società antica. Egli non attribuisce esplicitamente que­sto vizio al credere in un solo Dio, ma non riesce a spiegarsi perché i cristiani si rifiutino di immaginare che si possa ado­rare la stessa divinità chiamandola con nomi diversi: «Penso che sia indifferente, afferma, chiamare l’Altissimo Zeus, Zen, Adonai, Sabaoth, Amon come gli Egiziani, Papaeos come gli Sciti» (Origene, Contra Celsum, V, 41; SC 136, v. III, 1969, p. 123).

All’epoca dei Lumi, Voltaire, denunciava con la sua tipica ver­ve i massacri commessi in nome della religione. Nell’articolo “Religion” nel suo Dictionnaire Philosophique (1769), non ha tuttavia in mente il monoteismo come causa della violenza re­ligiosa, sebbene metta sul banco dei colpevoli Ebrei e Cristiani: «i maomettani, scrive, si sono sporcati degli stessi atti inumani ma raramente»

Le altre religioni sono totalmente sdoga­nate: «Per quanto riguarda le altre nazioni, non ne esiste nessu­na dall’inizio del mondo che abbia mai combattuto una guer­ra meramente di religione»5. Poche pagine dopo, menzionan­do esplicitamente il paganesimo, ripete: «La religione pagana ha sparso pochissimo sangue; mentre la nostra ne ha coperto la terra» (in it. p. 2639). Se non incrimina il monoteismo nel suo atto d’accusa è perché non considera la fede in un solo Dio come una specificità dell’Ebraismo e del Cristianesimo: «Fu a quell’epoca, quando il culto di un Dio supremo si era uni­versalmente affermato tra tutti i saggi in Asia, in Europa e in Africa che la religione cristiana ebbe origine» (in it. p. 2655). La stessa convinzione viene espressa a proposito dei Romani, nell’articolo “Dieu, dieux”:

«Questa adorazione di un Dio supremo è attestata da Romolo fino alla distruzione definitiva dell’impero, e della sua religio­ne. Malgrado tutte le follie del popolo che venerava dèi secon­dari e ridicoli, e malgrado gli epicurei che, in fondo, non ne riconoscevano nessuno, è assodato che i magistrati e i savi ado­rarono in ogni epoca un Dio sovrano»6.

La violenza che Voltaire non imputa al monoteismo in sé l’at­tribuisce a ciò che egli chiama teologia. Nell’articolo Religion si oppone a due forme di culto. Nella prima, che considera in­nocua e definisce «religione dello Stato»7, i ministri di culto, gli iman [sic], i preti e i pastori mantengono lo status civile e inse­gnano la morale della gente sotto il controllo delle autorità ci­vili (in it. p. 2661). La seconda, la «religione teologica» è, dice, «l’origine di tutte le idiozie e di tutti i disordini immaginabili; è la madre del fanatismo e della discordia civile; è la nemica del genere umano» (idem).

Il monoteismo è chiamato in causa
La discussione sul monoteismo in quanto tale appare esse­re uno dei tratti specifici che caratterizzano maggiormen­te8 il dibattito contemporaneo.

Questo processo al monotei­smo, ampiamente avviato già negli anni ’90 del ‘900, è sta­to aperto dalle pubblicazioni di autori le cui competenze di base sono esterne al campo della teologia, come ad esem­pio l’egittologo Jan Assmann, in Germania, il sociologo del­la religione Rodney Stark o la specialista di letteratura inglese del diciassettesimo secolo, Regina Schwartz, negli Stati Uni­ti. Una volta avviata, la controversia ha raggiunto logicamen­te il campo della teologia, lo studio dell’Antico Testamento ovviamente, ma anche il Nuovo Testamento e la sistemati­ca, senza dimenticare la storia, grandemente sollecitata. Dal momento che il dibattito investe la società nel suo comples­so, non si riescono a contare gli autori, provenienti da tutti gli ambienti, che hanno voluto a tutti i costi dare il loro con­tributo. …

 

Il dibattito biblico

In teologia non si è persa l’opportunità di cogliere il problema per affrontare nuovamente la questione del monoteismo. Nel­lo studio dell’Antico Testamento il monoteismo è stato, fin dall’avvento della moderna critica biblica, uno dei temi cru­ciali nell’analisi della religione d’Israele. A partire dallo sche­ma evolutivo, che ha visto nel monoteismo il culmine di un progresso religioso, si è cercato di individuare nei testi bibli­ci le tracce di questa evoluzione. Quando apparve il monotei­smo nella storia di Israele? Al tempo di Mosè? Con la riforma di Giosia? Durante l’esilio? Dopo l’esilio? Quali furono le tap­pe che precedettero tale evoluzione? Quali sono stati i fattori interni o esterni che hanno causato o facilitato l’emergere del fenomeno nella storia religiosa dell’umanità? La presunta data di edizione dei testi biblici e loro successive edizioni ha pesato fortemente nell’elaborazione degli schemi proposti, rischian­do di finire sempre in un circolo vizioso a causa del metodo: se il monoteismo appare in un testo ritenuto tardo, si conclu­derà che la dottrina è tarda e, al contrario, se un testo afferma un’idea di tipo monoteista, si dedurrà che tale testo non può essere altro che tardo. …

Il dibattito così avviato può suggerire le seguenti conclusioni.

1) Sembra innegabile che il discorso dell’unico Dio comporti un rischio, almeno latente, di violenza. Non stiamo cercando di determinare se le religioni monoteiste debbano essere rite­nute responsabili di maggiore violenza delle altre. La violen­za colpisce tutte le opere umane, inclusa la religione, per una serie molto ampia di motivi. Ci si limita qui a riconoscere l’e­sistenza di uno specifico fattore di violenza legato alla fede in un unico Dio.

2) Tentare di svincolare il monoteismo dalla violenza di cui è accusato, promuovendo una particolare definizione di mono­teismo, un monoteismo cosiddetto aperto, inclusivo, ponde­rato, compiuto, etc., è un’operazione che non corrisponde né alla testimonianza biblica, di cui saremmo costretti a rifiuta­re una parte notevole né alle credenze rappresentative più co­stanti e caratteristiche delle tre religioni monoteiste. Certa­mente Dio si pone sempre al di là delle nostre rappresentazio­ni umane, ma la rivelazione che la Scrittura pretende di por­tare è ben presentata come l’unica via di verità su Dio …

3) Nella violenza di cui può essere giustamente accusato il Cristianesimo, il legame col potere politico ha avuto un ruolo decisivo …

Tre domande a Valerio Bernardi su Nazione, Sovranità e Patriottismo

In ragione di alcuni eventi politici in giro per il monso, tra cui i più eclatanti sono la presidenza Trump negli USA e la Brexit in Gran Bretagna, sembra sia tornato di moda il concetto difesa della Nazione. Come possiamo definire la Nazione oggi e quando nasce questo concetto?

 

Il concetto di Nazione è complesso ed ha una lunga storia. Nell’antichità, almeno in quella dell’Occidente, la Nazione era assicurata da un territorio, da un sovrano che aveva origini di tipo divino e da una divinità o una serie di divinità che presiedevano al bene dello Stato. Questo schema si è ripetuto quasi per tutta l’antichità, anche se i Greci hanno apportato una grossa variazione: quella di un Governo del popolo, o, quanto meno dei cittadini liberi di un determinato territorio che gestivano il potere. Anche Israele è stata un’eccezione: il concetto di Nazione veniva sempre dato soprattutto dal Divino e dalla Terra. C’è poi stato un processo di omologazione alle altre civiltà che ha portato gli Ebrei ad avere un re, un territorio ed un Tempio. Questo tipo di forma di stato è, di fatto, durata sino alla fine del Medio Evo, pur con delle grosse varianti. Con l’avvento dell’Illuminismo, l’uguaglianza formale tra gli uomini, l’influenza di alcune delle idee del Protestantesimo che vedevano nella comunità la fonte del potere, ha permesso di sviluppare quello che definiamo Stato moderno, legato ad un territorio, ad un popolo e, eventualmente, ad una manifestazione di sovranità che non necessariamente era espressa da un monarca. Nell’Ottocento entra in gioco anche l’idea di Nazione, ovvero di un popolo (più o meno omogeneo) che si identifica con delle radici culturali precise (il parlare la stessa lingua, il riconoscersi in una storia comune, l’abitare su un territorio omogeneo, l’avere una stessa radice religiosa). E’ sulla spinta di queste istanze nascono gli Stati-Nazione. La fine del primo conflitto mondiale nel 1918 sancisce in Europa la fine degli Imperi multinazionali e il consolidamento dell’Idea che ogni Stato corrispondesse ad una particolare Nazione, ad un particolare ethnos. Questa idea è stata ulteriormente rafforzata (anche se non con gli stessi esiti) dal processo di decolonizzazione, in cui si è concessa l’indipendenza a differenti Stati, ispirati al modello europeo, anche se, molto spesso mancavano gli stessi presupposti e spesso hanno dato luogo a guerre civili fra gruppi che erano disomogenei. Le guerre civili, presente anche di recente in Europa, dimostrano come un tale impianto sia piuttosto fragile e non necessariamente porti alla stabilità politica.

 

 

Il voler difendere la propria Nazione ha portato, nel corso della storia, al sorgere di nazionalismi, dittature e guerre. Appoggiare il nazionalismo è rischioso?

 

  Bisognerebbe distinguere tra  un sano patriottismo ed il nazionalismo. Voglio fare un esempio proprio con il Risorgimento italiano. La moderna storiografia (quella che si è sviluppata attorno al centocinquantenario nel 2011) ritiene i padri risorgimentali portatori di valori positivi che cercavano di portare avanti una idea di Nazione che fosse guidata da Dio e che corrispondesse anche ad un’indole di tipo popolare, capace di coinvolgere la maggior parte della popolazione. Sappiamo come tutto ciò sia stato solo in parte raggiunto. Più recentemente Martha Nussbaum parlava di una congiunzione tra patriottismo e cosmopolitismo, affermando, sulla scia della tradizione stoica e di quella illuminista, che, pur essendo in primo luogo cittadini del mondo (in quanto appartenenti al genere umano), dobbiamo amare la nostra patria e difenderla seguendo soprattutto gli esempi positivi che l’hanno difesa in quanto custode di preziosi diritti civili democratici. Se la patria è questo ritengo che nessuno debba contrastar l’amor patrio. Altra cosa è il nazionalismo. Sviluppatosi soprattutto tra fine XIX secolo e XX secolo, la tendenza è quella non di vedere la patria come la culla dei valori di giustizia e di democrazia, ma come difensore della propria razza, della propria etnia e si vedono soprattutto gli altri come minacce (si pensi allo “spazio vitale” di gui aveva bisogno la Germania, o della “vittoria mutilata” italiana dopo il primo conflitto mondiale). Vi è anche l’idea di una supremazia culturale dettata da ragioni pseudostoriche. Il Nazionalismo nasce così ed è intrinsecamente razzista e xenofobo: razzista perché deve per forza credere che esiste un popolo superiore agli altri, xenofobo perché ha sicuramente paura di coloro che provengono da radici culturali diverse. Se il caso più eclatante del XX secolo è stato il nazismo con la presunta superiorità della razza ariana, non bisogna che il nazionalismo ha affetto anche popolazioni “avanzate” come quella britannica e francese (si pensi al trattamento che ebbero i Boeri nelle guerre anglo-boere in Sudafrica a fine XIX secolo, o alle spietate politiche coloniali dei Francesi). Oggi il nazionalismo ritorna soprattutto in quelle nazioni che sono in maggiore crisi di identità. Ecco che così ci possiamo spiegare il ritorno del nazionalismo russo (che in realtà non era sopito neanche sotto il comunismo), i nazionalismi balcanici, quello ungherese e quello anche italiano. Si tratta di cercare sicurezze in un mondo che sicuramente è molto più mobile e indefinito di una volta. E’ una cosa che ha ben capito Toni Negri che, da buon internazionalista di stampo marxista, afferma che viviamo in un nuovo Impero diverso da quelli antichi, ma fortemente internazionale e globalizzato. Il rischio del ritorno di un conflitto tra diversi nazionalismi è sempre incombente in una situazione di rivendicazione di priorità che in realtà oggi non esistono più. Ecco perché “predicare” il ritorno ad una Nazione forte, può diventare il presupposto della guerra.

 

 

Cosa possiamo dire da cristiani a proposito dell’idea di Stato-nazione e del risorgere di atteggiamenti di tipo nazionalistico?

 

Il Cristianesimo delle origini non ha conosciuto il concetto di Stato-Nazione moderno ma soprattutto l’Impero Romano ed una certa nostalgia, da parte di alcune frange, dello stato di Israele, non tanto come Stato etnico, ma come possessore della Terra e  indipendenti rispetto ad un’autorità straniera e pagana. Nell’insegnamento di Gesù appare chiara la separazione tra Cesare e Dio: si tratta per certi versi di un’anticipazione dello stato laico, ma vuole anche affermare una sua estraneità dalle questioni di tipo politico, dato che il Regno non è di questa terra. La predicazione  della salvezza è fatta in tutto il mondo (il kòsmos che è anche l’ordine), afferma il Grande Mandato in Matteo 28 e proprio per questo l’esistenza di un impero multietnico e i confini labili tra le nazioni non possonoche essere un’agevolazione per l’annuncio della Parola. Direi che il cristianesimo delle origini non avrebbe avuto nulla a che spartire con il nazionalismo e lo avrebbe visto come una sorta di idolatria dello Stato, un a sorta di ripetizione del culto imperiale, fatto in forma diversa. E’ questo quello che, nel XX secolo, è affermato nel 1934 dai teologi luterani e riformati che si riunirono a Barmen e che firmarono una Confessione che aveva come obiettivo proprio l’attacco al Nazionalismo tedesco. Non essere nazionalisti non significa non essere patriottici. Paolo in Filippesi afferma: “Io, circonciso l’ottavo giorno, della razza d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio d’Ebrei; quanto alla legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della chiesa; quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile. Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo.” Egli ritiene anche la sua appartenenza etnica (di cui rimane orgoglioso) un danno a causa di Cristo. Penso che il nostro atteggiamento dovrebbe essere analogo a quello di Paolo: possiamo anche essere orgogliosi di appartenere ad un Paese, purché questo non divenga danno per l’annuncio della Parola e porti, come dicevano i teologi di Barmen nel 1934 ad una nuova idolatria da cui dobbiamo rifuggire e come hanno più volte ribadito nella storia le confessioni di origine anabattista (o con un sfondo teologico simile) che hanno accentuato più la funzione profetica della Chiesa che quella politica.