Tre domande a Valerio Bernardi su Nazione, Sovranità e Patriottismo

In ragione di alcuni eventi politici in giro per il monso, tra cui i più eclatanti sono la presidenza Trump negli USA e la Brexit in Gran Bretagna, sembra sia tornato di moda il concetto difesa della Nazione. Come possiamo definire la Nazione oggi e quando nasce questo concetto?

 

Il concetto di Nazione è complesso ed ha una lunga storia. Nell’antichità, almeno in quella dell’Occidente, la Nazione era assicurata da un territorio, da un sovrano che aveva origini di tipo divino e da una divinità o una serie di divinità che presiedevano al bene dello Stato. Questo schema si è ripetuto quasi per tutta l’antichità, anche se i Greci hanno apportato una grossa variazione: quella di un Governo del popolo, o, quanto meno dei cittadini liberi di un determinato territorio che gestivano il potere. Anche Israele è stata un’eccezione: il concetto di Nazione veniva sempre dato soprattutto dal Divino e dalla Terra. C’è poi stato un processo di omologazione alle altre civiltà che ha portato gli Ebrei ad avere un re, un territorio ed un Tempio. Questo tipo di forma di stato è, di fatto, durata sino alla fine del Medio Evo, pur con delle grosse varianti. Con l’avvento dell’Illuminismo, l’uguaglianza formale tra gli uomini, l’influenza di alcune delle idee del Protestantesimo che vedevano nella comunità la fonte del potere, ha permesso di sviluppare quello che definiamo Stato moderno, legato ad un territorio, ad un popolo e, eventualmente, ad una manifestazione di sovranità che non necessariamente era espressa da un monarca. Nell’Ottocento entra in gioco anche l’idea di Nazione, ovvero di un popolo (più o meno omogeneo) che si identifica con delle radici culturali precise (il parlare la stessa lingua, il riconoscersi in una storia comune, l’abitare su un territorio omogeneo, l’avere una stessa radice religiosa). E’ sulla spinta di queste istanze nascono gli Stati-Nazione. La fine del primo conflitto mondiale nel 1918 sancisce in Europa la fine degli Imperi multinazionali e il consolidamento dell’Idea che ogni Stato corrispondesse ad una particolare Nazione, ad un particolare ethnos. Questa idea è stata ulteriormente rafforzata (anche se non con gli stessi esiti) dal processo di decolonizzazione, in cui si è concessa l’indipendenza a differenti Stati, ispirati al modello europeo, anche se, molto spesso mancavano gli stessi presupposti e spesso hanno dato luogo a guerre civili fra gruppi che erano disomogenei. Le guerre civili, presente anche di recente in Europa, dimostrano come un tale impianto sia piuttosto fragile e non necessariamente porti alla stabilità politica.

 

 

Il voler difendere la propria Nazione ha portato, nel corso della storia, al sorgere di nazionalismi, dittature e guerre. Appoggiare il nazionalismo è rischioso?

 

  Bisognerebbe distinguere tra  un sano patriottismo ed il nazionalismo. Voglio fare un esempio proprio con il Risorgimento italiano. La moderna storiografia (quella che si è sviluppata attorno al centocinquantenario nel 2011) ritiene i padri risorgimentali portatori di valori positivi che cercavano di portare avanti una idea di Nazione che fosse guidata da Dio e che corrispondesse anche ad un’indole di tipo popolare, capace di coinvolgere la maggior parte della popolazione. Sappiamo come tutto ciò sia stato solo in parte raggiunto. Più recentemente Martha Nussbaum parlava di una congiunzione tra patriottismo e cosmopolitismo, affermando, sulla scia della tradizione stoica e di quella illuminista, che, pur essendo in primo luogo cittadini del mondo (in quanto appartenenti al genere umano), dobbiamo amare la nostra patria e difenderla seguendo soprattutto gli esempi positivi che l’hanno difesa in quanto custode di preziosi diritti civili democratici. Se la patria è questo ritengo che nessuno debba contrastar l’amor patrio. Altra cosa è il nazionalismo. Sviluppatosi soprattutto tra fine XIX secolo e XX secolo, la tendenza è quella non di vedere la patria come la culla dei valori di giustizia e di democrazia, ma come difensore della propria razza, della propria etnia e si vedono soprattutto gli altri come minacce (si pensi allo “spazio vitale” di gui aveva bisogno la Germania, o della “vittoria mutilata” italiana dopo il primo conflitto mondiale). Vi è anche l’idea di una supremazia culturale dettata da ragioni pseudostoriche. Il Nazionalismo nasce così ed è intrinsecamente razzista e xenofobo: razzista perché deve per forza credere che esiste un popolo superiore agli altri, xenofobo perché ha sicuramente paura di coloro che provengono da radici culturali diverse. Se il caso più eclatante del XX secolo è stato il nazismo con la presunta superiorità della razza ariana, non bisogna che il nazionalismo ha affetto anche popolazioni “avanzate” come quella britannica e francese (si pensi al trattamento che ebbero i Boeri nelle guerre anglo-boere in Sudafrica a fine XIX secolo, o alle spietate politiche coloniali dei Francesi). Oggi il nazionalismo ritorna soprattutto in quelle nazioni che sono in maggiore crisi di identità. Ecco che così ci possiamo spiegare il ritorno del nazionalismo russo (che in realtà non era sopito neanche sotto il comunismo), i nazionalismi balcanici, quello ungherese e quello anche italiano. Si tratta di cercare sicurezze in un mondo che sicuramente è molto più mobile e indefinito di una volta. E’ una cosa che ha ben capito Toni Negri che, da buon internazionalista di stampo marxista, afferma che viviamo in un nuovo Impero diverso da quelli antichi, ma fortemente internazionale e globalizzato. Il rischio del ritorno di un conflitto tra diversi nazionalismi è sempre incombente in una situazione di rivendicazione di priorità che in realtà oggi non esistono più. Ecco perché “predicare” il ritorno ad una Nazione forte, può diventare il presupposto della guerra.

 

 

Cosa possiamo dire da cristiani a proposito dell’idea di Stato-nazione e del risorgere di atteggiamenti di tipo nazionalistico?

 

Il Cristianesimo delle origini non ha conosciuto il concetto di Stato-Nazione moderno ma soprattutto l’Impero Romano ed una certa nostalgia, da parte di alcune frange, dello stato di Israele, non tanto come Stato etnico, ma come possessore della Terra e  indipendenti rispetto ad un’autorità straniera e pagana. Nell’insegnamento di Gesù appare chiara la separazione tra Cesare e Dio: si tratta per certi versi di un’anticipazione dello stato laico, ma vuole anche affermare una sua estraneità dalle questioni di tipo politico, dato che il Regno non è di questa terra. La predicazione  della salvezza è fatta in tutto il mondo (il kòsmos che è anche l’ordine), afferma il Grande Mandato in Matteo 28 e proprio per questo l’esistenza di un impero multietnico e i confini labili tra le nazioni non possonoche essere un’agevolazione per l’annuncio della Parola. Direi che il cristianesimo delle origini non avrebbe avuto nulla a che spartire con il nazionalismo e lo avrebbe visto come una sorta di idolatria dello Stato, un a sorta di ripetizione del culto imperiale, fatto in forma diversa. E’ questo quello che, nel XX secolo, è affermato nel 1934 dai teologi luterani e riformati che si riunirono a Barmen e che firmarono una Confessione che aveva come obiettivo proprio l’attacco al Nazionalismo tedesco. Non essere nazionalisti non significa non essere patriottici. Paolo in Filippesi afferma: “Io, circonciso l’ottavo giorno, della razza d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio d’Ebrei; quanto alla legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della chiesa; quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile. Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo.” Egli ritiene anche la sua appartenenza etnica (di cui rimane orgoglioso) un danno a causa di Cristo. Penso che il nostro atteggiamento dovrebbe essere analogo a quello di Paolo: possiamo anche essere orgogliosi di appartenere ad un Paese, purché questo non divenga danno per l’annuncio della Parola e porti, come dicevano i teologi di Barmen nel 1934 ad una nuova idolatria da cui dobbiamo rifuggire e come hanno più volte ribadito nella storia le confessioni di origine anabattista (o con un sfondo teologico simile) che hanno accentuato più la funzione profetica della Chiesa che quella politica.

 

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