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Tre domande a Giancarlo Rinaldi su Paolo e Nerone

Giancarlo Rinaldi, Paolo e Nerone. L’Epistola ai romani alla luce della storia e dell’archeologia, Edizioni Vivarium novum, Roma 2019, pp. 310, euro 20,00.

 

 

 

1. Un ennesimo commentario all’Epistola ai romani di Paolo? E perché, poi, se a scriverlo non è un teologo né un esegeta di professione?

Ho scritto questo testo proprio perché non ho una formazione teologica ma ho compiuto studi di storia del mondo antico e ho insegnato in università di Stato piuttosto che in seminari o istituti religiosi. La grande sfida per me, infatti, era quella di capirci qualcosa in più in un testo non sempre facile, ponendomi dal punto di vista non dell’esegeta moderno bensì di quello di chi visse all’epoca in cui Paolo scrisse e il suo messaggio iniziò a circolare. Questo spiega anche il perché io abbia scelto una Casa Editrice che non ha mai pubblicato studi sulla Bibbia ma che è specializzata in testi scolastici per lo studio del latino e del greco: ho voluto restituire all’attenzione dei classicisti un documento che appartiene pienamente alla loro letteratura, poiché è scritto in greco, ma che solitamente non viene adeguatamente apprezzato nei percorsi scolastici o universitari. Dal versante opposto, ho inoltre voluto dimostrare ai lettori affezionati alla Bibbia come un suo libro sia molto più facilmente comprensibile quando lo si inserisce nel suo naturale contesto storico. Nel nostro caso il principato di Nerone che va dal 54 al 69 d.C.

2. Quale novità di rilievo emerge da questa contestualizzazione?

Parecchie. Paolo presenta alle comunità romane che lo leggevano (ed erano esigue e non prive di crisi e problematiche) un ‘manifesto’ il quale da un lato metteva in crisi la convinzione dei giudei di costituire, loro e loro soltanto, il popolo di Dio, dall’altro sfidava l’intero impianto culturale classico: una tradizione millenniale di cultura, religione, filosofia, etc. In particolare Paolo sfidò, senza neanche esserne pienamente consapevole, l’assiologia del princeps, di Nerone, cioè la sua visione del mondo e dell’impero la quale metteva al centro l’opera di un imperatore assimilato alla sfera del divino e brillante nelle sue realizzazioni ed esibizioni artistiche. Da questa sfida, paradossalmente, il rabbino di Tarso uscì vincitore e le sue pagine, dopo aver ispirato molte menti acutissime (si pensi ad Agostino, Lutero, Wesley, Barth, etc.) ancora oggi fanno discutere. Paolo ha sfidato i confini della città antica quando ha configurato una nuova politèia, cioè cittadinanza celeste; ha sfidato la filosofia stoica (in auge alla corte neroniana se solo si pensa a Seneca) quando ha proclamato una nuova via per la conoscenza del divino e un nuovo concetto di prònoia – provvidenza; ha sfidato le tecniche esegetiche allora in auge rileggendo, ad esempio, le vicende di Abramo, di Esaù e di Giacobbe; ha polemizzato con il fatalismo astrologico parlando di coordinate celesti (“altezza e profondità”) vinte dalla forza liberatrice di Cristo; ha circoscritto la teologia imperiale d’impianto ellenistico affermando che l’aucoritas del princeps non è assoluta e naturale bensì derivata dall’Alto. Ma v’è anche tanto altro come espongo nel mio volume.

 

3. Chi legge l’Epistola ai romani con interesse di teologo o anche di semplice credente che giovamento può ricevere dalla lettura del suo libro?

In generale la contestualizzazione del documento, con il sussidio della storia romana e dell’archeologia del periodo, aiuta non poco a comprendere il testo stesso nel suo significato specifico. Intanto ci si libera da successive stratificazioni esegetiche le quali spesso sono diventate pesanti precomprensioni. Nella storia è sempre il prima che spiega il poi e mai viceversa. Risulta ad esempio che Paolo aveva ben presente il sostanziale fallimento della sua missione verso i giudei, che pure erano suoi naturali ‘fratelli’ di sangue. Fu questo fallimento ad aprirgli gli enormi orizzonti di un apostolo “delle genti”, cioè dei ‘pagani’. Questa acquisizione ci fa rileggere i tormentati capitoli dal nono all’undicesimo con nuova luce: Paolo, ad esempio, enfatizza la sovranità di Dio nel processo di salvezza (via salutis) non certo per attribuirgli la condanna aprioristica di un gruppo o di chicchessia ma anzi, al contrario, per mettere a tacere quei giudei he reputavano impossibile l’estensione della grazia di Dio all’universo mondo di chi avrebbe creduto. E ciò a prescindere da afferenze etniche. Inoltre una lettura attenta del capitolo settimo ci fa comprendere il debito di quella pagina verso le tecniche della retorica antica per cui la prigionia del peccato e la difficoltà al bene operare (video bona, deteriora sequor) non è già un’autoconfessione d’impotenza di Paolo bensì una ‘prosopopea’, cioè un espediente letterario che mette in scena un interlocutore tipizzato laddove invece, l’esperienza paolina (che è poi quella dell’autentico credente) è quella della liberazione dal peccato. Secondo il manifesto paolino la vittoria sul peccato è possibile, e proprio in questa vita, senza attendere ‘purgatorio’ di sorta nell’aldilà né liberazioni dell’anima dal corpo, secondo la diffusa concezione orfico platonica dell’epoca. Insomma quando Paolo chiamava ‘santi’ i suoi lettori non li prendeva in giro: faceva sul serio.

 

Da perseguitati a persecutori. Cristianesimo antico e violenza

Pubblichiamo qui la presentazione del Seminario che Giancarlo Rinaldi terrà nell’ambito del prossimo Convegno Nazionale GBU (7–9 dicembre)

L’interpretazione della Bibbia non ha mai costituito un’attività di pensiero neutrale e disinteressata. Agli antichi la dimensione piuttosto moderna del ‘dialogo’ e della ‘tolleranza’ era pressoché sconosciuta. Molto spesso dalla persuasione di essere detentori della verità scaturiva la tentazione di privare l’altro del diritto al dissenso.

La storia dei cristiani non fa eccezione a questa regola generale.

Il cristianesimo nasce come una corrente in seno al giudaismo, ma ben presto si allontana da quest’ultimo, anche fragorosamente, perdendo, così, le tutele giuridiche che il diritto romano riconosceva tradizionalmente a questa etnia con la relativa professione di fede. Nascono, quindi, vessazioni e persecuzioni a carico dei credenti in Gesù. Perché queste iniziative in un contesto religioso pagano e ‘pluralista’? Durante i primi tre secoli, i cristiani, mentre sono sulla difensiva, sviluppano la necessità di definire una ortodossia. Il processo corre parallelo all’altro di denunziare le deviazioni da questo mainstream in quanto eresie. Regione per regione si formano “maggioranze e minoranze” in seno alla cristianità.

Agli inizi del IV secolo Costantino organizza il suo potere riconoscendo ai cristiani libertà di espressione e talvolta favorendone le comunità. Gradualmente, durante questo secolo, la tolleranza si trasforma in favore e quest’ultimo in privilegio. Sta di fatto che questo secolo quarto inizia con la grande persecuzione anticristiana di Diocleziano (303) e termina con il famoso Editto di Tessalonica di Teodosio (380) che stabilisce quale culto dell’impero la religione professata dai patriarchi di Roma e di Alessandria. Ogni altra fede passa dall’essere minoranza all’essere perseguitata.

Le guide della chiesa si trasformano rapidamente in persecutori, dapprima dei culti pagani poi, ancòra più severamente, dei gruppi ereticali. Si assiste alla distruzione di templi antichi e alla negazione dei diritti elementari come castigo degli eretici. Le leggi imperiali contenute nel XVI libro del Codice Teodosiano configurano un crescendo di violenze a danno dei dissidenti. Si contano i morti.

In questo processo la Bibbia ha un suo importante ruolo: la chiesa s’identifica con il Nuovo Israele e rilegge l’epopea della conquista del Canaan e della distruzione dei culti di quella regione (spec. Giosuè e Giudici) come un’anticipazione profetica del ruolo che ora è chiamata a svolgere. I nuovi cananei sono i seguaci dei culti tradizionali di Grecia e di Roma; per loro e per i loro santuari nessuna pietà. Dio lo vuole! Quelle antichissime pagine della Bibbia vengono così spiegate e piegate per consolidare nuovi equilibri di potere. La loro esegesi letteralista è una licenzia per avviare il mondo antico al suo tramonto, un tramonto a volte, purtroppo, rosseggiante di sangue.

La storia non si fa con i ‘se’ e con i ‘ma’, tuttavia se fosse prevalsa un’esegesi più attenta alla contestualizzazione storica la Scrittura non sarebbe servita sic et simpliciter da alibi per chi della fede predicata da Gesù voleva farne uno strumento non di servizio ma di predominio.

Giancarlo Rinaldi

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