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Il razzismo da Robinson Crusoe ad Atticus. Percorso storico letterario

di Filippo Falcone

Nella sua bozza iniziale della Dichiarazione di Indipendenza, Thomas Jefferson aveva incluso un formidabile attacco frontale all’istituto della schiavitù. Dopo un intenso dibattito tra i delegati radunati a Philadelphia nella primavera e inizio estate del 1776, il passaggio venne stralciato. Non così, però, il principio da cui quel passaggio discendeva: “I hold this truth to be self-evident, that all men are created equal” (“Considero questa verità in sé ovvia – che tutti gli uomini sono creati uguali”). Si dovette attendere, tuttavia, quasi un secolo e una Guerra Civile (1861-65) perché quel seme germogliasse – la schiavitù fu abolita dal tredicesimo emendamento alla Costituzione ratificato sotto gli auspici del presidente Lincoln il 6 dicembre del 1865. La legislazione non pose immediatamente fine a tutte le forme di schiavitù, specie negli stati del sud, dove ragioni economiche si sommavano alla discriminazione razziale quali fattori di preservazione di fenomeni schiavistici. Ciononostante, il paese aveva posto le basi per un cambiamento di rotta. Lo stesso non può dirsi per la discriminazione e la segregazione razziale. Fenomeni di discriminazione e segregazione segnarono l’intero secolo successivo in un inesorabile crescendo che conduce idealmente al Movimento per i Diritti Civili degli anni ’50 e ’60 del Novecento. La battaglia non violenta di Martin Luther King Jr. fu tutta tesa ad ottenere pari dignità e diritti di cittadinanza per gli afro-americani. L’elezione di Barack Obama alla presidenza del paese nel 2008 pare segnare simbolicamente la fine di un percorso, un punto d’arrivo, la presa di coscienza definitiva di quel principio creazionale enunciato più di due secoli prima. I fatti recenti di Minneapolis paiono smentire questa conclusione e ci riportano drammaticamente alle pagine più buie della storia americana. Culturalmente questa pagina di storia risale a un tempo antecedente la Dichiarazione di Indipendenza in Inghilterra.

 

Siamo a Londra, nel 1719, quando viene pubblicato Robinson Crusoe, primo romanzo di Daniel Defoe, da molti considerato il primo romanzo della letteratura inglese (alcuni ravvisano in Oroonoko di Aphra Behn il precursore del romanzo moderno). Robinson incarna la classe media puritana inglese in grado, con pragmatismo, ragione e fiducia nella provvidenza, di controllare e governare una realtà avversa e apparentemente irreversibile. Quando avviene l’incontro tra Robinson e Friday, il primo soccorre il secondo da morte certa. Subito il rapporto tra i due si delinea come relazione tra salvatore e salvato. Subito Robinson dà un nome al nativo, ridefinendone l’identità in relazione a se stesso. Ogni identità precedente viene obliterata. L’uomo ora è Friday, giorno in cui Robinson l’ha soccorso. E Friday si rivolgerà a Robinson chiamandolo “master” (padrone). Il ruolo di subordinazione dell’indigeno all’uomo inglese viene così immediatamente sancito, ma si completa soltanto con la totale ridefinizione culturale di Friday. Robinson dà a Friday vestiti lisi e strappati, ma pur sempre europei, con cui coprirsi e Friday è ben lieto di riscoprirsi vestito come il suo padrone. Robinson non si cura poi di apprendere la lingua di Friday, ma gli insegna la sua. Solo i rudimenti, però, soltanto quanto basti a comprendere gli ordini del padrone ed eseguirli. Robinson ha delle armi, ma non permette a Friday di usarle, così come ha utensili e una conoscenza tecnico-pratica che segnano uno scarto ulteriore rispetto al suo sottoposto. I giudizi estetici di Robinson confermano un’intera visione del mondo: se Friday è bello, è perché i suoi tratti non sono grossolani come quelli di un africano, ma fini, come quelli di un europeo. Infine, la religione. Robinson istruisce Friday negli elementi della vera religione, la religione cristiana e riformata, in contrapposizione con le credenze pagane e primitive di Friday. Si scorge qui un movimento di affermazione ideologica e identitaria, che poco ha a che fare con la testimonianza evangelica. Se in Robinson non c’è in nessun caso malevolenza, né volontà di sopraffazione, dall’inizio alla fine il nativo è percepito come una tabula rasa su cui scrivere la propria storia. Da un lato Friday è parte di quella realtà irregolare che Robinson deve dominare o porre sotto il proprio controllo, dall’altro si definiscono già i contorni di quella volontà civilizzatrice che, nelle parole di Kipling, è il fardello dell’uomo bianco – una sorta di dovere morale di trasmissione di valori, conoscenze, costumi e strumenti propri di una civiltà, quella inglese, considerata superiore.

 

Sono queste e altre le dinamiche di una mentalità coloniale che non si configura come meramente culturale. Esiste un dettaglio spesso trascurato in quella che può essere considerata cornice narrativa, che rimanda drammaticamente al contesto storico che fa da sfondo alla vicenda. Robinson possiede una piantagione in Brasile e, quando la sua nave fa naufragio, è diretto alla volta del continente africano verosimilmente con l’intento di fare incetta di schiavi che coltivino le sue terre. È il secolo della tratta degli schiavi. Ce ne dà massimamente conto Olaudah Equiano (Gustavus Vassa), abolizionista originario dell’allora Regno del Benin. Venduto due volte come schiavo, Equiano si convertì al cristianesimo, battezzandosi nel 1759, e riuscì ad acquistare la libertà nel 1766. Le sue memorie (The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano, or Augustus Vassa, the African, 1789) forniscono uno spaccato dei disumani orrori della tratta – in particolare di quello che era conosciuto come il “middle passage”, il viaggio verso l’America – che tanta parte avrà nello smuovere le coscienze in funzione dell’approvazione dello Slave Trade Act americano (1794), ratificato da George Washington, e quindi di quello inglese (1807), frutto dell’infaticabile sforzo di un gruppo di pressione di evangelici e quaccheri, che godeva di una nutrita rappresentanza in parlamento e di una voce incisiva come quella di William Wilberforce.

 

Le memorie di Olaudah Equiano stanno all’abolizione della tratta degli schiavi come l’autobiografia del metodista-episcopale Frederick Douglass (A Narrative of the Life of Frederick Douglass, an American Slave, 1845) all’abolizione della schiavitù in America. La descrizione delle brutalità e ingiustizie subite da Douglass, schiavo dalla nascita, per mano dei padroni, sedicenti cristiani, e dei tentativi di fuga verso una libertà negata e repressa ancora e ancora, contribuirono alla formazione di una coscienza nuova, di cui si sarebbe fatta interprete, tra gli altri, Harriet Beecher Stowe, figlia di un ministro calvinista congregazionalista, con il romanzo abolizionista Uncle Tom’s Cabin (1852; tr. it. La Capanna dello zio Tom). Vi si denunciava, tra le altre cose, l’assurdità che un essere umano, venuto a Gesù ed entrato nella compagnia dei santi, fosse venduto come merce a un’asta. Lo scontro tra questa nuova coscienza e la vecchia avrebbe prodotto le sanguinose pagine della Guerra Civile.

 

In seguito, la battaglia per l’anima dell’America si sarebbe progressivamente spostata sul terreno dei diritti civili. Il Movimento per i Diritti Civili, che a circa un secolo dall’abolizione della schiavitù ha lasciato un segno indelebile nella coscienza americana, non è stato il prodotto dell’azione di un singolo uomo, ma è forse più corretto dire che l’uomo Martin Luther King Jr. sia stato il prodotto di un movimento che affonda le sue radici nella storia e nella cultura cristiana afro-americana e che ha trovato in lui un portavoce capace di raccogliere un popolo attorno a una visione comune. Formidabile espressione letteraria di quella visione è To Kill a Mockingbird (1960; tr. it. Il buio oltre la siepe). Harper Lee ambienta il suo romanzo nell’Alabama degli anni ’30, gli anni della Grande Depressione, ma è da subito chiaro il suo intento di parlare a un presente così fortemente scosso da tensioni razziali. La vicenda è narrata dal punto di vista di due bambini, Scout e Jem, intuizione narrativa, questa, che consente all’autrice di porre in ancor maggiore risalto la perniciosità e l’assurdità del razzismo che permea il mondo degli adulti. La vita di Maycomb, tranquilla cittadina immaginaria – e che pertanto potrebbe essere Montgomery come Minneapolis –, è scossa dalla notizia di una violenza sessuale su una ragazza bianca, Mayella Ewell. Tom Robinson, un afro-americano, viene ingiustamente accusato del crimine. Incaricato di difenderlo è Atticus, padre di Scout e Jem. L’avvocato bianco riesce a dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che responsabile delle percosse e della violenza sessuale di cui è stata vittima la ragazza è il padre Bob. Per tutto il tempo Atticus è solo nella sua battaglia, che si consuma tra l’ostilità diffusa della comunità bianca nei suoi confronti. Per tutti è “l’amico dei negri”, ma lo sguardo dei bambini lo trasfigura in un eroe. La sua identificazione con la causa di Tom e della comunità nera diventa anche integrazione in quella comunità. Questa si esprime non soltanto in termini emotivi, ma anche fisici, quando Scout e Jem assistono al processo dalla balconata del tribunale riservata agli afro-americani. Nonostante la solidità dell’impianto difensivo, Tom viene ugualmente condannato e, colto dallo sconforto e dalla sfiducia nella possibilità che il verdetto venga ribaltato in appello, tenta la fuga dal carcere e viene ucciso a fucilate. Bob Ewell, divorato dall’odio per chi si è schierato dalla parte dei neri contro un bianco, tenta di uccidere Scout e Jem, ma viene a sua volta ucciso da un vicino di casa di Atticus, il misterioso Boo, figura che incarna a sua volta l’emarginazione sociale, ora redenta da Harper Lee.

In termini di coscienza collettiva, il cammino che porta da Robinson ad Atticus è lungo e tortuoso. Il percorso inverso, quello che da Atticus riconduce a Robinson, pare significativamente più breve. Se tutti gli uomini sono creati liberi e uguali, libertà e uguaglianza necessitano del sostegno continuo della memoria storica e di un’incisiva elaborazione culturale contro una visione retriva che continua ad affiorare. Memoria storica ed elaborazione culturale non sono, tuttavia, sufficienti a estirpare prevaricazione, oppressione e odio, perché hanno capacità di rapportarsi unicamente con gli effetti di un problema che affonda le sue radici in profondità e necessitano a loro volta di essere continuamente liberate da sovrastrutture e manipolazioni identitarie. Le radici del problema sono da ricercare nel cuore dell’uomo, in una natura caduta che costitutivamente distorce il principio creazionale di uguaglianza e libertà. Quale che sia il grado di coscienza storica e culturale individuale o collettiva, l’io continua a esigere il sacrificio dell’altro sul proprio altare, annientandolo, sottomettendolo o assimilandolo a se stesso. Il messaggio cristiano addita il bisogno di un intervento radicale. È necessario un cuore nuovo, capace di cercare il bene dell’altro e di interpretare il mondo, con la sua storia e cultura, in funzione di quel bene. Ecco, allora, l’invito rivolto a ogni uomo a sperimentare, in Cristo, una nuova nascita, e con essa il dono di un cuore nuovo in cui abita lo Spirito e che declina l’intera legge di Dio in amore (Ez. 36:26-7; 2 Cor. 15:17). A questo invito si affianca la chiamata rivolta al credente a resistere agli effetti del male nella società, riflettendo i tratti della giustizia, della pace e dell’amore propri del regno di Dio e della nuova creazione inaugurata in Cristo (vd. Mt. 5–7).

 

Se Robinson e Atticus rappresentano due fermalibri, gli opposti letterari di questa vicenda di creazione, caduta e redenzione, con Jefferson, Equiano, Wilberforce, Douglass, Stowe, King e molti altri ancora, essa si fa largo nella storia e la comprende e ridefinisce nel segno di una nuova creazione.

Filippo Falcone è Dottore di ricerca in Letteratura inglese e si è specializzato presso la Oklahoma State University. E’ stato professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano; ha pubblicato una monografia sul concetto di libertà in John Milton e saggi sul poeta inglese; collabora con la Società Biblica di Ginevra e con le Edizioni GBU, cone le quali ha curato l’opera di George Herbert, Il cielo nell’ordinario. Antologia ragionata e lettura critica (2020).

Dalla terra al cielo, volente o nolente

di Claudio Pasquale Monopoli

Non è più un segreto che in America ci sia un problema di razzismo che giunge a livelli tali da riuscire ad eliminare fisicamente altre persone, chiamate afroamericane, cioè persone con la pelle scura. È tristemente nota la notizia dell’ultima vittima di un atteggiamento errato da parte della polizia statunitense nei confronti di un uomo dalla pelle più scura della mia.

E mentre una parte dell’America si indigna, piange e manifesta in modalità più o (molto) meno pacifiche, l’altra esulta, e torna a guardare il cielo sognante, e ritorna a riempirsi di sano spirito patriottico. Infatti ieri, 30 maggio 2020, è stato lanciato nello spazio il razzo della SpaceX, che per la prima volta dal 2011 ha lanciato degli astronauti da suolo americano dopo che le missioni Shuttle furono cancellate in quell’anno. L’obiettivo della SpaceX, che può intraprendere grazie all’esito felice del lancio di ieri, essendosi guadagnata in tal modo l’approvazione dalla NASA per i suoi programmi spaziali, prevede entro pochi anni di tornare sulla luna per soste mediamente più lunghe delle precedenti, e iniziare chissà quando una colonizzazione spaziale.

Al di là delle discussioni scientifiche ed ingegneristiche che possiamo instaurare sulla plausibilità di abitare altri posti oltre la terra, è indubbiamente paradossale che una parte del paese sogni i viaggi su altri pianeti mentre l’altra lotti per rendere l’attuale un posto abitabile da tutti, bianchi o neri. Da una parte c’è chi pensa alla possibilità di ricominciare altrove, dall’altra chi, meno sognante, vive gli incubi di non riuscire a sopravvivere un altro giorno sulla terra. Ed è impossibile, anche per chi non è americano, non immedesimarsi in entrambi questi sentimenti, la gioia e il dolore, per due fatti altrettanto importanti, con implicazioni tanto diverse.

Forse in Italia non riusciamo veramente a capire la portata criminosa di un atteggiamento razzista che fa parte del sostrato culturale intessuto inconsciamente nell’anima della società statunitense. Un uomo di colore nero ogni 1000 muore ucciso dalla polizia. Per cercare di capire meglio, già venire ucciso durante un arresto in America non è così raro, ma il rischio aumenta di 2,5 volte se si è afroamericani. Ovvero, se siete neri e venite fermati dalla polizia e arrestati, la possibilità che perdiate la vita per qualsiasi motivo è 2,5 volte maggiore di chi invece ha la pelle più chiara. Ce ne sono tante di inchieste accurate e dati precisi reperibili in rete, mi soffermo solo sull’ultimo, più vicino a noi da un punto di vista cronologico e contestuale, da cui emerge che le persone afroamericani fossero state 4 volte di più a rischio incriminazione per la violazione del lockdown rispetto al resto della nazione.
Considerando che gli afroamericani in America sono poco più del 14% della popolazione totale, è interessante e triste pensare che il 14% dell’America è più in pericolo di morte rispetto alla popolazione restante. È indubbio che ci sia un problema di quello che semplificando chiamiamo razzismo. D’altra parte è impossibile non avere la pelle d’oca nel guardare il razzo della SpaceX staccarsi dal corpus della navicella e tornare sulla terra e parcheggiarsi da solo su una minuscola piattaforma nell’oceano, in quanto riutilizzabile, per la prima volta nella storia spaziale, in altre missioni.

Ed è proprio qui la contraddizione, il paradosso dell’anima degli USA, e dell’uomo in generale, tanto potente e intelligente da creare futuristiche navicelle spaziali che si guidano da sole e che ci porteranno alla colonizzazione di altri pianeti, troppo cieco per non riuscire a comprendere quanto grande sia il problema razziale, per debellarlo una volta per sempre.

Un cristiano non dovrebbe pensare che schierarsi in favore della vita umana sia fare politica, o che difendere la vita umana di qualsiasi genere, sesso e razza, sia necessariamente schierarsi con un orientamento partitico che non gli piace, che non lo rappresenta. Un cristiano dovrebbe solo fare sue le parole di Gesù di “amarci gli uni e gli altri” di “porre l’altra guancia” e di praticare la giustizia. Non può esistere una politica che si intrometta a garantire il diritto alla vita di un uomo. Troviamo nella genesi come Dio confuse gli uomini, e di fatto terminò il progetto più simile ad un razzo spaziale nell’antichità, la torre di Babele, perché questi si erano insuperbiti e volevano raggiungere il cielo per divenire immortali nella fama. Non credo che oggi la torre di Babele si possa identificare con i razzi spaziali, credo piuttosto che la superbia che riscontriamo negli uomini che volevano arrivare in cielo la ritroviamo in coloro che minimizzano il problema razziale, che si rendono superbi e svalorizzano una vita che Dio ha creato, magari giustificando un atto di violenza ingiustificabile, per la presunta colpevolezza di un uomo, senza peraltro ammettere che se fosse stato bianco, quell’uomo, avrebbe avuto 2,5 volte possibilità in più di continuare a vivere.

Per Dio ogni vita è importante, perché per noi non dovrebbe esserlo?

Dovremmo schierarci come cristiani contro ogni forma di violenza, razziale e non, ma in questo caso, in questi giorni specifici, lottiamo per terminare il razzismo, conscio o inconscio, dai nostri cuori e di conseguenza dalla nostra società. Prima di pensare di ricominciare una nuova vita, per non commettere gli errori e le atrocità di questa terra, pensiamo magari a rendere il nostro pianeta un posto vivibile da chiunque, in cui chiunque possa avere il tempo di ricevere l’annuncio del Vangelo senza che qualcuno spezzi la sua vita prematuramente. Posto che non vivremo mai in un luogo perfetto per via del peccato, e della nostra natura, credo fermamente che noi cristiani dobbiamo lottare perché comunque ciò possa potenzialmente accadere:

“Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose, e ricerca la giustizia, la pietà, la fede, l’amore, la costanza e la mansuetudine” (1 Timoteo 6:11-12), dove sarebbe dunque il nostro amore se non ci prodighiamo a terminare le ingiustizie commesse di fronte a noi?

Non riusciremo mai a costruire un nuovo mondo migliore, che sia Marte o la luna, se prima non miglioriamo il nostro, se non diveniamo servi della luce, e della giustizia alla luce dell’amore del Signore Gesù. A volte è bene spostare gli occhi dal cielo, e puntarli sulla terra, dove si piegano tra la polvere e il sangue i più deboli. “In ogni cosa vi ho mostrato che bisogna venire in aiuto ai deboli lavorando così, e ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse egli stesso: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere»” (Atti 20:35).

Claudio Pasquale Monopoli si è laureato in Filologia Moderna alla Sapienza di Roma, specializzandosi nel campo della critica letteraria. È stato coordinatore del GBU di Roma e attualmente è impegnato nella chiesa evangelica”La Via”  di Ciampino.

Il razzismo velenoso di un’America sgradevole

di Darrell L. Bock

Quello che è accaduto a Floyd è qualcosa che negli Stati Uniti ha una lunga, triste storia, una storia che degenera ogni pochi anni. Questa volta la differenza sta nel fatto che ci sono le registrazioni a mostrare ciò che è accaduto così che diventa difficile costruire una difesa con un controracconto che nega i fatti. In realtà, nelle ultime settimane si sono verificati tre incidenti del genere, tutti registrati. Questo ha colpito una corda che ha fatto venire a galla una profonda frustrazione nelle minoranze.

La violenza razziale è un attacco alla persona fatta all’immagine di Dio.

Non c’è posto per una cosa del genere in una fede che raccoglie molte tribù, lingue e nazioni.

E’ uno sfregio per la croce che mostra l’amore che Dio ha per gli uomini del mondo.

Viola l’appello di Gesù ad amare perfino i nostri nemici.

E’ un’offesa per le vie di Dio.

La saga di George Floyd non è nuova. Si tratta di un incidente che questa volta è stato documentato. Uno di tre solo nelle ultime settimane, come ho detto sopra. Se avete amici afro–americani allora sicuramente avrete saputo da loro che incidenti del genere non sono né rari né isolati ma piuttosto comuni.

Questo significa che qualcosa è veramente sbagliato e va avanti così da tanto tempo.

L’unica cosa è che nell’ambiente ostile in cui viviamo oggi la cosa si sta accelerando. Negare tutto ciò significa sopprimere l’ovvio e farlo ina maniera violenta. Possiamo e dobbiamo fare meglio e ciò significa agire, non semplicemente proferire parole e mostrare simpatia, poiché senza l’azione vedremo cose del genere che si ripeteranno di nuovo e ancora di nuovo. Non è una Teoria critica che stravolge ciò che ognuno dovrebbe essere in grado di vedere, al punto da non agire.

Si tratta di razzismo velenoso che percorre parti della nostra società e rende l’America sgradevole. Definire le cose con il loro nome significa rispettare le persone, la gente. Dobbiamo assolutamente fare meglio. Dire una cosa del genere è facile, fare qualcosa per questa situazione significherà per molti di noi essere chiari nelle nostre puntuali risposte affermando che tutto ciò è sbagliato e intollerabile.

 

Darrell L. Bock è Executive Director for Cultural Engagement, Howard G. Hendricks Center for Christian Leadership and Cultural Engagement e Senior Research Professor di New Testament Studies, presso il Dallas Theological Semminary.

 

Darrell L. Bock
è stato ospite nel 2017 del XII Convegno di Studi del GBU.
Qui trovi anche i link alle sue conferenze
Le Edizioni GBU hanno pubblicato il suo
Alla riscoperta del vero vangelo