Contro la marea 1 (Dio e l’io)

Iniziamo oggi la pubblicazione – settimanale – di otto paragrafi del libro del teologo di orgine croata Miroslav Volf, che sarà in libreria a Maggio, dal titolo Contro la marea. L’amore in un tempo di sogni meschini e di continue inimicizie. Il libro è una raccolta di brevi scritti, alcuni dei quali hanno poi visto un loro ampliamento in libri tematici.

Si può essere buoni senza Dio?
Alcuni hanno suggerito che gli scandali nel mondo degli affari, della politica e della ricerca sono conseguenze pratiche di una visione del mondo che ha messo fuori Dio. La moralità ha bisogno di Dio, sostiene l’argomentazione, e senza Dio la società sarà lacerata dall’avidità incontrollata, dalla concupiscenza del potere e dalla lotta per la gloria.

Si può tuttavia avere chiaramente una buona dose di “immoralità” anche con Dio che occupa un posto centrale nella nostra visione del mondo. Gli scandali nelle comunità religiose sono la riprova di questo fatto, caso mai ci fosse bisogno di prove. Inoltre, le concezioni di Dio talvolta stanno esplicitamente dietro ad atti riprovevoli come l’avidità e la violenza, giustificate sulla base di motivazioni religiose. Cosa dovremo concludere dal fatto che coloro che credono in Dio fanno del male e legittimano le loro azioni con il credere in Dio? Unicamente che il credere in Dio è compatibile con una vita “immorale”, e non che la moralità non abbia bisogno di Dio.
Ma la moralità ha bisogno di Dio? Un libro bello e accessibile sull’argomento è Why Bother Being Good? The Place of God in the Moral Life di John Hare, professore di filosofia al Calvin College. È uno dei più importanti filosofi cristiani di etica che scrivono oggi (si vedano anche The Moral Gap e God’s Call). Egli sostiene in maniera forte che la moralità non ha bisogno di Dio. Il suo punto di vista non è quello di chi ritiene che una persona che non crede in Dio non possa essere buona; ci sono tante persone di tal genere e alcune di esse vivono vite paragonabili a quelle dei santi. Il moralmente rigoroso Immanuel Kant, filosofo del XVIII secolo, considerava il filosofo ebreo razionalista del XVII secolo, Baruch Spinoza, una persona di tal genere. Ma poiché gli atei santi hanno una vita migliore rispetto alla bontà delle loro credenze, sostiene Hare, essi mancano di alcune convinzioni che sostengono la vita che conducono. Non possono dare un senso alla loro propria vita morale.

Una maniera classica di sostenere che la moralità ha bisogno di Dio è mostrare che bisogna appellarsi a Dio se vogliamo dare una risposta adeguata alla domanda: «Perché dobbiamo essere buoni?». Nella seconda parte del suo libro Hare offre una propria versione di questa argomentazione, rigettando in primo luogo le alternative disponibili in quanto ritenute inadeguate. L’autorità della moralità non è solo ovvia, e neanche solo basata sulle esigenze della ragione. Ancor più, non può provenire dal dal fatto di dover essere vera sia per la nostra natura umana sia per la comunità a cui apparteniamo. Ci vorrebbe troppo spazio per spiegare le ragioni per cui Hare ritiene inadeguate queste maniere di costruire le ragioni, il perché dobbiamo essere buoni. Ma facendo ricorso al procedimento per eliminazione Hare può sostenere che l’autorità della moralità può provenire soltanto dalla volontà e dalla chiamata di Dio.

Spesso coloro che sostengono che la moralità abbia bisogno di Dio si fermano subito dopo aver mostrato che Dio sia la sola, adeguata fonte dell’autorità morale. Hare non lo fa. Diò è importante non solo per il perché dobbiamo essere buoni, ma anche per il come possiamo essere buoni. Il problema infatti è la nostra capacità a essere buoni. Tutti noi abbiamo esperienza di un’esigenza morale che è avvertita come «troppo alta per noi, date le capacità naturali con cui siamo nati». Abbiamo provato diverse strategie per aiutarci, come quella del «gonfiare le nostre capacità» o quella del «ridurre le esigenze». Ma queste strategie sono chiaramente inutili, sostiene Hare, perché la nostra capacità naturale rimane senza speranza sia in ragione dei suoi limiti sia per l’altezza dell’esigenza morale.

Per poter essere morali ci occorre «la fede morale: …la fede nel fatto che per noi è possibile essere moralmente buoni nei nostri cuori e la fede che ci porta a credere che il mondo fuori di noi abbia un senso morale». Le persone morali devono credere sia che «le loro capacità siano state trasformate dal di dentro» sia che «il mondo là fuori sia il tipo di posto in cui la felicità è sicuramente legata a una vita moralmente buona».

Una maniera diversa di parlare di questa seconda condizione è dire semplicemente che «una persona morale ha bisogno di credere che non deve fare ciò che è moralmente sbagliato per essere felice». Il punto sembra ben centrato: se siamo persuasi che non possiamo soddisfare le esigenze morali e che siamo dei miserabili quando lo facciamo, non dovremo cercare di essere morali. Hare sostiene che la «fede morale» necessaria per condurre vite morali richiede la fede in Dio, colui che può trasformare i cuori e provvidenzialmente condurre il mondo in maniera tale che (alla fine) la virtù si unirà con la felicità.

Siamo così tornati all’assunto che non si può condurre una vita morale senza non credere in Dio? Non proprio. Perché sia che crediamo in Dio sia che non crediamo, Egli può essere al lavoro nel cuore delle persone nella provvidenziale conduzione del mondo. Ma se Hare ha ragione, allora la «moralità con cui siamo familiari richiede un retroterra teologico per avere un orizzonte di senso». Questo non prova che le dottrine teologiche siano vere. Dimostra solo che, «se vogliamo tenerci stretta la moralità e rigettare la teologia, allora dovremmo trovare un sostituto per fare il lavoro che la teologia di solito fa. Non sarà così facile trovare un tale sostituto».

Di fronte agli scandali che scuotono la fiducia delle persone negli affari, nel governo, nella ricerca e nelle comunità religiose, i leader delle chiese cristiane spesso vestono il mantello dei critici che si lamentano dello stato del “mondo” e, meno di frequente, prendono su di sé il mantello dei riformatori che offrono maniere per migliorarlo. Se Hare ha ragione, non dovremmo rinnegare il nostro compito primario che è quello di testimoniare del Dio di Gesù Cristo. Per questo dobbiamo appellarci a Dio per rispondere alle due domande centrali che sono al cuore di qualsiasi crisi morale: «Perché dovremmo essere moralmente buoni» e «Come possiamo essere moralmente buoni?».
(M. Volf)