Guardatevi dal disprezzare alcuno di questi piccoli

27 Gennaio 2021

di Daniele Mangiola (DiRS-GBU)

Tra il 22 luglio e il 12 settembre del 1942 le SS deportarono dal ghetto di Varsavia a Treblinka oltre 260 mila ebrei, al ritmo di 6-7 mila persone al giorno. Nei primi giorni di agosto, in mezzo a quella massa si trovavano i bambini dell’orfanatrofio diretto dal medico Janusz Korczak. All’anagrafe Henryk Goldszmit, ebreo discendente da famiglia benestante e oramai ben noto scienziato, autore di diverse pubblicazioni su e per l’infanzia.

Avrebbe potuto evitare l’internamento, avrebbe potuto anche evitare il ghetto, da più parti e ripetutamente gli erano arrivate proposte per fuggire dalla Polonia, grazie alle tante conoscenze importanti. Semplicemente rifiutò di lasciare i 200 bambini della Casa degli Orfani.

Le conoscenze che aveva le aveva sfruttate per recuperare scorte e viveri per l’orfanatrofio durante il soggiorno dentro il ghetto, dove il durissimo razionamento provocò la morte di 83 mila ebrei per denutrizione e malattie, tra il 1940 e il ’42.

Tra il 5 e il 6 agosto circa 4000 bambini del ghetto furono prelevati dalle SS. Alcune fonti raccontano che Korczak garantì che non ci sarebbero stati disordini tra i suoi 192 bambini, ma pretese, incurante del pericolo, che non ci fossero i cani attorno al corteo. Un dettaglio.

Di fronte alla tragedia oramai certa, il medico si preoccupa che i suoi orfani non siano terrorizzati da inutili violenze, li guida verso il convoglio che poi li avrebbe portati al campo. Si ostina a fare in modo che questo ultimo momento possa essere vissuto con dignità dai bambini, prima del disastro. I dettagli sono importanti.

Davanti allo spietato progetto di annientare l’umanità di un’intera razza di esseri umani messo a punto dal Terzo Reich, di incenerire la stessa dignità di persona, prima ancora della vita biologica, come le tante testimonianze dalla Shoah ricordano al mondo, qui c’è un anziano medico che si oppone al fatto che sia ignorata la dignità dei bambini.

Questo dettaglio testimonia con quanta determinazione e coerenza egli abbia perseguito durante la sua vita un unico e semplice principio: il bambino non è una persona in fieri, da formare e plasmare, ancora imperfetta, di là da venire; il bambino è persona fatta e compiuta. Qui ed ora.

“Non ci sono bambini, solo persone. Ma con un’altra scala di nozioni, un altro bagaglio di esperienze, altre passioni, altri giochi di sentimenti. Ricorda, noi non li conosciamo”. E invece di norma l’adulto non ha alcun dubbio sul fatto di conoscere bene cosa passa per la mente di un bambino, perché si comporti in un certo modo e quale sia il suo punto di vista.

“Guardatevi dal disprezzare alcuno di questi piccoli” (Mt18,10). Ebreo e cristiano, Korczak mise in pratica fino all’ultimo, fino alla perdita della propria stessa vita, qualcosa che Gesù aveva espresso con chiarezza: “chiunque riceve uno di questi bambini nel mio nome, riceve me” (Mc9,37)

Sui fatti di Washington. Appunti per una riflessione

Massimo Rubboli

Siamo rimasti attoniti di fronte alla violazione del tempio della democrazia americana, perché è questo che il Congresso rappresenta nella retorica mitologica degli Stati Uniti: il baluardo della più antica costituzione scritta del mondo.

Le immagini di alcuni agenti di polizia che aprivano le transenne e incitavano i ribelli trumpiani ad assalire il Campidoglio ci ha lasciati sbalorditi e increduli. Come era possibile che si fosse arrivati a quel punto?

Poche ore dopo, Camera e Senato riprendevano i lavori e confermavano l’elezione del nuovo presidente, come se gli anticorpi della democrazia fossero riusciti a sconfiggere i suoi nemici. Ma i ribelli hanno promesso nuove azioni, anche violente, prima dell’insediamento ufficiale del nuovo presidente il 20 gennaio, e allora sprofondiamo nel dubbio, non sappiamo più cosa stia succedendo in America (sì, lo so, sarebbe più corretto usare ‘Stati Uniti’ ma purtroppo questo è l’uso comune e mi adeguo).

Per molti cristiani evangelici è stato sconvolgente vedere altri cristiani evangelici assaltare il Campidoglio nel nome di Gesù, alcuni con striscioni con la scritta “Gesù salva” e altri che portavano croci o simboli come il pesce [ΙΧΘΥΣ], l’acronimo usato dai primi cristiani per indicare Gesù Cristo. C’era chi pregava prima di scagliarsi contro le barriere di protezione e fracassare finestre per entrare illegalmente nella sede del Congresso.

Come hanno scritto pochi giorni dopo il 6 gennaio i professori e il personale non docente di Wheaton College, la più prestigiosa istituzione educativa dell’evangelicalism americano, “l’attacco è stato caratterizzato non solo da menzogne maligne, violenza deplorevole, suprematismo bianco, nazionalismo bianco e cattiva leadership – soprattutto del presidente Trump – ma anche da abusi idolatri e blasfemi di simboli cristiani”.

Ancor prima, il 7 gennaio, l’Associazione nazionale degli evangelici (NAE), la principale organizzazione degli evangelicals (che preferisco tradurre in italiano con “evangelici conservatori”, invece del brutto neologismo “evangelicali”) degli Stati Uniti, aveva emesso un comunicato di denuncia incondizionata dell’accaduto, nel quale affermava che “l’assalto di massa è stato provocato da leader, incluso il presidente Trump, che hanno usato menzone e teorie complottiste per calcolo politico”. La NAE avvertiva altresì che gli eventi del giorno prima “sono un altro doloroso segno del razzismo che affligge il nostro paese”.

Un’altra presa di posizione significativa è stata quella dell’associazione di storici evangelici (ma non solo) chiamata Faith and History: “Come membri di un’organizzazione professionale dedicata a ‘esplorare la relazione tra la fede cristiana e la storia’ – e come cristiani praticanti – siamo sopraffatti dal dolore per la visione distorta del vangelo da parte di cristiani evangelici che hanno invaso il Campidoglio degli Stati Uniti nel nome di Gesù. […] Come storici, sappiamo che questa non è certamente la prima volta in cui il nome di Cristo è stato usato per giustificare una violenza di massa o una visione distorta di Dio e della nazione. Negli Stati Uniti, i suprematisti bianchi e le organizzazioni antisemite hanno usato frequentemente simboli cristiani e hanno fatto ricorso alla Scrittura per giustificare violenza ed esclusione. […] Travisamenti del vangelo avvengono ogni volta che le persone mescolano gli interessi della loro cultura, razza, classe sociale, genere, nazionalità, paese o partito politico con la causa di Cristo”.

Ovviamente, queste prese di posizione non sono trapelate – a mia conoscenza – sui mezzi d’informazione italiani, tantomeno su quelli protestanti, perché sono in evidente contraddizione con l’immagine stereotipata degli evangelici americani, tutti di destra, razzisti e sostenitori di Trump.

 

Di fronte a quanto abbiamo visto e, probabilmente, vedremo ancora, giudicare è facile, più difficile è capire.

Vorrei proporre alcuni elementi di riflessione, necessariamente schematici, che potrebbero aiutare a comprendere le radici di quanto sta accadendo.

Innanzi tutto, non bisogna pensare che Trump abbia creato il trumpismo (come Berlusconi non ha creato il berlusconismo), ma riconoscere che ha semplicemente fatto emergere e legittimato o sdoganato posizioni esistenti, anche se collocate ai margini della società americana.

Il secondo elemento che va tenuto presente è la complessità dell’America, il fatto che sin dagli albori degli Stati Uniti esistono tante “Americhe”, come testimoniano tutti gli osservatori più attenti, da quelli dell’Ottocento come Alexis de Tocqueville a quelli del Novecento come Vittorio Zucconi.

È possibile raccapezzarsi tra queste diverse Americhe, individuarne le caratteristiche? Correndo il rischio inevitabile di un’eccessiva semplificazione, vorrei indicarne due principali. Alcuni anni fa, lo storico Walter Karp propose la distinzione tra “repubblica americana”, che incarnerebbe gli ideali espressi dalla Dichiarazione d’Indipendenza e il Bill of Rights, e la “nazione americana”, alla ricerca del dominio, della ricchezza e del potere nel mondo. Le origini di questa distinzione risalgono alle visioni, da un lato, di una società che doveva essere un faro e un modello per il resto del mondo (“a city upon a hill” per usare la famosa espressione di John Winthrop, il primo governatore della colonia puritana del Massachusetts) e, dall’altro, una nazione che doveva esportare e imporre il suo modello (visione che già alla fine dell’Ottocento fu ferocemente criticata da Mark Twain).

Usando altre parole, si potrebbe dire che da sempre si fronteggiano negli Stati Uniti una cultura della pace e una cultura della guerra. Entrambe hanno fatto riferimento, in vari modi, alla fede cristiana e questo spiega, almeno in parte, la diversità di posizioni politiche tra gli evangelicals, che troviamo attestati su fronti contrapposti nelle grandi questioni della storia americana, a partire dalla schiavitù, e nei suoi momenti più drammatici, come la Guerra civile e la guerra in Vietnam.

Per un’ultima osservazione in relazione a quanto accaduto il 6 gennaio a Washington, prendo spunto dal libro di Kristin Kobes Du Mez, Jesus and John Wayne, nel quale l’autrice sostiene che il sostegno di una parte degli evangelicals bianchi per Trump non è un’aberrazione, bensì il risultato di oltre cinquant’anni di affinità tra gli evangelicals e una cultura di mascolinità militante. Questa interpretazione, di stampo sociologico e culturale, riapre il dibattito storiografico (in realtà mai chiuso) sulla definizione dell’evangelicesimo (evangelicalism) moderno, in particolare su quella di natura più teologica e dottrinale proposta da autori come David Bebbington e Thomas Kidd. Ma qui si apre un tema che va al di là di queste note.

 

Riferimenti

NAE Denounces Insurrection at the U.S. Capitol, 7 gennaio 2021,

NAE Denounces Insurrection at the U.S. Capitol – National Association of Evangelicals

“Statement from Wheaton College Faculty and Staff Concerning the January 6 Attack on the Capitol”, 11 gennaio 2021, Statement Regarding Attack on US Capitol – Wheaton College, IL

“Response to the Assault on the United States Capitol”, A Resolution of the Conference on Faith & History 13 gennaio 2021, CFH-resolution-January-2021-signed.pdf (faithandhistory.org)

David Bebbington, Evangelicalism in Modern Britain: A History from the 1730 to the 1980s, Routledge, London 1989.

Massimo Rubboli ha insegnato Storia dell’America del Nord presso le UNiversità di Firenze, Macerata e Genova.

Diego Armando Maradona – Umano, troppo umano

di Francesco Schiano

Per milioni di persone nate in Argentina, a Napoli, e in mille altri posti, il funesto 2020 sarà ricordato soprattutto come l’anno della morte del più grande calciatore di tutti i tempi.

 

Io sono nato proprio a Napoli, 17 mesi dopo l’arrivo di Maradona in città, e non conservo ricordi ben definiti dei 7 anni nei quali vestì i colori della mia squadra del cuore…

Una solo immagine, sbiadita, nella quale credo di avere sovrapposto il trionfo in Coppa Uefa (‘89) e la vittoria del secondo scudetto (‘90). D’altra parte mio padre era un tifoso del Napoli, ma uno di quelli che non si impegnano troppo.

Eppure anche io sono cresciuto con il mito di Diego Armando Maradona.

L’ho incontrato spesso in realtà: nel nome di tanti miei coetanei; nelle partitelle tra amici, ogni volta che qualcuno teneva troppo la palla tra i piedi e veniva puntualmente accusato di “voler fare Maradona”; nel mio album di figurine sulla storia del Napoli; nelle immagini, nei murales, nelle statuine e perfino nei tempietti che tappezzano la città da 30 anni.

E poi quante interviste, documentari, film, quanti video con le sue prodezze…

Nel 2005 ero tra la folla che lo accolse al suo ritorno a Napoli, dopo 14 anni di assenza. Andai allo stadio per l’addio al calcio di Ciro Ferrara, un momento regalato a Maradona e ai suoi tifosi dal suo vecchio compagno di squadra. Ricordo il biglietto comprato da un bagarino a pochi minuti dall’inizio dell’evento, ricordo lo stadio strapieno e i cori tutti per Diego.

 

E’ incredibile pensare all’affetto che in questi giorni è stato dimostrato nei confronti di questo grandissimo campione, e allo stesso tempo notare quanto sia stato trasversale.

Amici, nemici, rivali, ex compagni di squadra, giornalisti, tifosi, sportivi, politici, personalità della cultura e dello spettacolo. Si ha l’impressione che tutti abbiano voluto dire qualcosa.

Uno dei temi più ripresi nelle tante cose scritte sulla vita di Maradona, e sull’ammirazione che ha saputo suscitare, è sicuramente quello del riscatto.

 

Maradona ha riscattato se stesso da un’infanzia povera e disagiata, arrivando sul tetto del mondo.

Maradona ha riscattato se stesso tutte le volte che è caduto e si è rialzato.

Maradona ha riscattato una città umiliata e denigrata. Con 2 scudetti ha risolto la Questione Meridionale.

Maradona ha riscattato la sua Argentina. Con un solo gol, il più bello mai messo a segno, ha ribaltato l’esito della guerra della Falkland.

 

La protesta di alcuni, a dire il vero pochi, contro la mitizzazione di Diego ha solo moltiplicato le dimostrazioni di affetto e stimolato la diffusione di mille aneddoti sulla generosità, la sincerità e l’onestà dell’eroe del riscatto.

Eppure sembra essere stato proprio l’insostenibile peso delle speranze proprie ed altrui, il peso del riscatto, ad aver schiacciato Maradona.

 

La vita di Maradona, osservata adesso, senza aver ancora raggiunto il distacco necessario a consentire un giudizio obiettivo, distacco irraggiungibile per un tifoso, ma con la possibilità di scorgere tutta la bellezza e la varietà dei colori, delle emozioni e dei sentimenti, espressi e suscitati, rappresenta in una maniera unica la vicenda umana, molto più che l’essenza divina da molti invocata.

Umano, troppo umano, verrebbe da dire citando la famosa opera di Nietzsche.

Nessun uomo, per quanto straordinario, può sostenere il carico che era stato messo sulle spalle di Diego. Nessuno può riscattare senza pagare un prezzo, questo è vero per definizione, e nessuno avrebbe mai potuto pagare il prezzo del riscatto, proprio o altrui, se non Dio.

Gesù Cristo è l’unico Redentore nel quale gli uomini, Maradona incluso, abbiano mai potuto sperare.

Allora godiamoci i nostri ricordi legati al grande Diego, ma ricordiamoci che anche chi è arrivato in cima al mondo è rimasto sotto al cielo. E che Colui che né è al di sopra è l’unico che può liberarci dalle ingiustizie, dalle sconfitte e dalla morte, che quest’anno ci ha portato via, insieme ad altri 55 milioni di esseri umani, Diego Armando Maradona.

Francesco Schiano è attualmente staff GBU a Napoli

Asclepio e Mammona. Del virus e di come procedere

Tom Wright

Forse la domanda più vitale di tutte, e che dovrebbe essere in cima a tutte le conversazioni serie ai più alti livelli tra chiesa, stato e tutte le parti interessate [in questa pandemia], è come andremo avanti, quale che sarà la «nuova normalità». Alcune persone hanno espres­so la pia speranza che quando tutto ciò passerà avremo una società meno ostile e più gentile. Pagheremo le nostre infer­miere di più. Ci prepareremo a dare più tasse per sostenere il Servizio Sanitario, e daremo di più per aiutare il movimento degli hospice. Ci farà piacere così tanto godere dell’aria fresca, non inquinata dalle migliaia di auto e aeroplani, che vorremo viaggiare di meno, e passare più tempo con la famiglia e i vi­cini. Celebreremo i nostri servizi di protezione civile, i nostri corrieri e tutte le persone che hanno badato a noi.

Mi piacerebbe pensare che ciò fosse vero. Temo, però, che non appena le restrizioni saranno tolte ci sarà una corsa ad iniziare di nuovo le nostre faccende come possiamo e, a ogni modo, è anche giusto e opportuno che sia così. Nessuno che è disperato per il rischio di fallire ci penserà due volte a usa­re nuovamente l’auto o l’aereo, se ciò sarà d’aiuto. Ci è sta­to detto in tutto i modi possibi che gli effetti economici del lockdown sono già catastrofici e potrebbe andare ancora peg­gio. Il problema è quindi abbastanza simile alle decisioni tra­giche che i leader si trovano ad assumere in tempo di guer­ra: pensate a Churchill durante il Blitz, che doveva decidere se sacrificare quell’unità per la salvezza di quest’altra, e se man­dare messaggi in codice al nemico che avrebbe bombardato quelle case al posto di quegli edifici pubblici. Nel momento in cui scrivevo eravamo concentrati ancora sullo «stare in sicu­rezza», con costi enormi in termini di fallimenti, disoccupa­zione, e malessere sociale. Le grandi elargizioni per coloro che sono nel bisogno da parte del Governo avranno come risulta­to, prima o poi, quello di dover ripagare. È chiaro che se il di­battito sarà tra coloro che considerano la morte come il peg­giore dei risultati possibili e coloro che vedono invece la rovi­na economica come il peggiore di tutti gli eventi possibili, al­lora la conseguenza sarà un duro dialogo tra sordi.

Come nell’antico mondo pagano, anche oggi un’epide­mia fa sì che la gente si chieda: «Quali degli dei sono adira­ti? Come li possiamo placare?». Man mano che il secolari­smo contemporaneo sta sempre più rivelando la sua filigra­na pagana, è affascinante immaginare il nostro presente di­lemma come un conflitto tra Asclepio, il dio della guarigione, e Mammona, il dio del denaro. Mammona, naturalmente, chiedeva di solito sacrifici umani; ed è per questo motivo che i più poveri tra i poveri sono oggi i più a rischio nell’attuale emergenza sanitaria. Forse non è una cosa malvagia che ades­so sia il turno di Asclepio, sebbene Marte, il dio della guer­ra e Afrodite, la dea dell’amore erotico, non sono mai molto distanti. Sicuramente non si tornerà totalmente all’imperati­vo della guarigione, perché il nostro dio favorito, Mammona, ci ha richiamato all’altro versante, non vedendo l’ora di avere più sacrifici umani.

Se tutto questo viene affrontato in maniera puramente pragmatica, come se la macchina dello Stato fosse, appunto, una macchina e niente più, piuttosto che il saggio lavoro di mediazione tra esseri umani viventi, il risultato sarà prevedi­bile. Il debole andrà di nuovo al muro. Come succede di so­lito. Dopo la crisi finanziaria del 2008, le banche e i grandi affari, avendo accettato enormi quantità di denaro per il loro salvataggio, sono tornate rapidamente ai loro vecchi standard, mentre le parti più povere degli stati occidentali (Gran Breta­gna nel testo originale, ndt) sono diventate più povere e sono rimaste così. Qualcuno dovrebbe levarsi e declamare non una ramanzina ma il Salmo 72. Questa è la lista delle priorità che la chiesa dovrebbe articolare, non soltanto a parole ma con proposte pratiche da mettere in cima all’ordine del giorno:

«O Dio, da’ i tuoi giudizi al re e la tua giustizia al figlio del re… Portino i monti pace al popolo, e le colline giustizia! Egli garantirà il diritto ai miseri del popolo, salverà i figli del biso­gnoso, e annienterà l’oppressore![…]  [Il giusto governante] libererà il bisognoso che grida e il misero che non ha chi l’aiuti. Egli avrà compassione dell’infelice e del bisognoso e salverà l’anima dei poveri. Riscatterà le loro anime dall’oppressione e dalla violenza e il loro sangue sarà prezioso ai suoi occhi» (Sal 72:1–4; 12–14).

Tutto ciò potrebbe essere oggetto di derisione, quasi si trattasse di un pensiero velleitario. Ma questo è ciò che la chiesa nella sua massima espressione ha sempre creduto e in­segnato, e che la chiesa ha sempre praticato stando sul fronte.

Nei primi giorni della chiesa gli imperatori romani e i gover­natori locali non sapevano molto di che cosa fosse realmen­te il cristianesimo. Tuttavia sapevano che questo strano mo­vimento aveva persone chiamate “vescovi” che sottolineavano sempre i bisogni dei poveri. Non sarebbe bello che le persone oggi avessero la stessa impressione?

Pertanto, cosa significa tutto ciò in un mondo in cui alcu­ni di noi si trovano rinchiusi per un leggero fastidio mentre altri stanno ancora affollando i campi profughi nelle città del terzo mondo in cui il «distanziamento sociale» è facile quan­to andare sulla luna? Dobbiamo pensare globalmente e agire localmente ma, nel fare entrambe le cose, lavorare con guide delle chiese di tutto il mondo per cercare politiche che pre­vengano una folle corsa al profitto con il diavolo che si prende gli ultimi. Naturalmente, nel mezzo di tutto ciò, occorre raf­forzare l’Organizzazione Mondiale della Sanità e insistere che tutti i paesi del mondo seguano scrupolosamente le sue poli­tiche e i suoi protocolli. Ci sono, senza dubbio, alcuni quesi­ti importanti che devono essere posti alle superpotenze mon­diali che hanno usato la crisi attuale come occasione per dare spettacolo e fare altri giochi politici. Si sente il rumore delle trasmissioni elettroniche, mente i canali di «fake news» stan­no facendo gli straordinari.

In tutto questo quadro, torno al tema del lamento. Non è forse un caso che il Salmo 72, che contiene il programma messianico che pone i poveri e i bisognosi in cima alla lista, sia seguito immediatamente dal Salmo 73, che si lamenta che il ricco e il potente si stanno comportando nella maniera soli­ta. Forse questo è come siamo costretti a vivere: intravedendo ciò che dovrebbe essere e lottando contro la maniera in cui le cose sono realmente. Tuttavia, l’unica maniera di vivere con queste cose è pregare di mantenere la visione e la realtà l’una al fianco dell’altra in quanto gemiamo con il gemito di tutta la creazione, e come lo Spirito geme con noi in maniera tale che la nuova creazione possa sorgere. Ciò che ci occorre adesso è qualcuno che faccia in questo momento di grande sfida quel­lo che Giuseppe fece alla corte di faraone; analizzare la situa­zione e ipotizzare una prospettiva per orientarsi verso di essa. Ci servono subito uomini di stato, leadership sagge, con gui­de cristiane in preghiera che prendano il posto l’uno accanto all’altro, per pensare alle sfide che affronteremo nei prossimi mesi sia avendo una visione sia realistticamente. Potrebbe es­sere che nei giorni a venire vedremo segni di nuove, reali pos­sibilità, nuove maniere di operare che rigenereranno vecchi sistemi e ne inventeranno di nuovi e migliori, che potremo quindi riconoscere come segni della nuova creazione che stia­mo aspettando. O forse, semplicemente, torneremo al «tutto come prima», alle vecchie polemiche, alle solite stantie e su­perficiali analisi e soluzioni.

Se ci sediamo solo e aspettiamo per vedere, e incrociamo le nostre braccia perché le nostre chiese sono chiuse o perché è chiuso il nostro club di golf o la nostra azienda ha sospeso le attività, allora probabilmente le solite forze riprenderanno il controllo. Mammona è una divinità molto potente. I no­stri leader sanno cosa fare per calmarlo. Se fallisce lei, c’è sem­pre Marte, il dio della guerra. Possa il Signore salvarci dai suoi artigli. Se dobbiamo scappare da queste forze oscure, allora dobbiamo essere vigili di fronte ai pericoli e prendere le no­stre iniziative attivamente e in preghiera. Se nel giardino ven­gono piantati dei fiori è poco probabile che crescano dei rovi.

Non sta a me dire ai leader della chiesa (anglicana), per non parlare dei leader di altre comunità di fede, il modo in cui dovrebbero pianificare i prossimi mesi, cosa dovrebbero fare per fare pressione sui governi. Tuttavia quelli tra noi che guar­dano e aspettano e pregano per le nostre guide nella chiesa e nello Stato devono usare questo tempo di lamento come un tempo di preghiera e speranza. Quello per cui speriamo è an­che una saggia e intraprendente leadership umana che, come quella di Giuseppe in Egitto, porterà politiche nuove e di risa­namento e azione nell’ampio e ferito mondo di Dio:

«Manda la tua luce e la tua verità, perché mi guidino, mi con­ducano al tuo santo monte e alle tue dimore. Allora mi avvici­nerò all’altare di Dio al Dio della mia gioia e della mia esul­tanza; e ti celebrerò con la cetra, o Dio, Dio mio! Perché ti ab­batti, anima mia? Perché ti agiti in me? Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio» (Sal 43:3–5).

Tratto dal libro Dio la pandemia e noi. Implicazioni teologiche e conseguenze pratiche, Edizioni GBU, 2020. Ora in edizione ebook.

Una scuola da apprezzare

di Valerio Bernardi

 

Non mi piace scrivere di scuola, forse perché ci lavoro da più di un quarto di secolo ed ho vissuto sin troppo nell’ambiente, forse perché anche di scuola in Italia (un po’ come di religione e teologia) sono autorizzati a parlare tutti tranne che gli addetti ai lavori (dato uno sguardo ai giornali, dove chiunque può scrivere di scuola, senza magari averci vissuto da anni). Negli ultimi mesi, grazie anche alla pandemia e ad una presenza, sin troppo massiccia del nuovo ministro nei social e nei media, si è tornati a parlare di scuola, anche perché la chiusura per quasi tre mesi e gli interrogativi sulla eventuale riapertura a settembre preoccupano non pochi settori della società, a partire, in primis, dai genitori che avrebbero, a mio parere, il diritto di sapere quello che dovrà essere il futuro immediato dei loro figli dopo che dagli inizi di marzo (fine febbraio per le regioni più colpite) hanno avuto erogato il servizio scolastico nella formula della DaD (acronimo che sta per didattica a distanza).

Non mi soffermerò sulla opportunità o meno di questa formula (su questo, in una sede professionale, mi sono già espresso: si veda quello che dico in questo articolo https://www.sfi.it/files/download/Comunicazione%20Filosofica/cf44.pdf da un punto di vista di “tecnico” dell’insegnamento), ma sulla opportunità della riapertura e sulle sue criticità, che sono quelle della scuola italiana e, direi, in buona parte, della scuola dei paesi sviluppati, dove, quasi tutti i governi, negli ultimi decenni, in un’ondata di politiche neo-liberiste, hanno tagliato i fondi alla sistema di istruzione pubblico. Non parliamo poi delle scuole dei Paesi emergenti, dove possibilità come la Dad sono impraticabili e dove i bambini, non andando a scuola, hanno perso una grande occasione per la loro emancipazione e per l’eventuale miglioramento della loro situazione sociale.

La scuola in Italia, a mio parere, con tutte le cautele del caso e con uno sguardo all’andamento della curva epidemica va sicuramente riaperta per i seguenti motivi:

  1. È un luogo di incontro soprattutto per i più piccoli (mi riferisco agli alunni della primaria in particolare) che hanno bisogno del contatto “fisico-visivo” con la propria insegnante e che non possono riuscire ad ottenere risultati chiari in una didattica a distanza;
  2. Va fatto per il bene dei genitori, perché possano riprendere al meglio le loro attività lavorative che assicurino benessere a sé stessi, alla società ed alla propria famiglia. La scuola, anche secondo il nostro dettato costituzionale, non deve essere un ostacolo sociale, ma un veicolo di emancipazione e di benessere;
  3. La didattica a distanza è stata divisiva e lo diventerebbe di più se continuasse. Benché ci si sia sforzati di agevolare i propri studenti dandogli anche i mezzi informatici per seguire (nel caso non li avessero) e benché il Ministero stia continuando a rinforzare il reparto “informatico” delle scuole, risulta difficile per una famiglia con più figli e con spazi limitati in casa (gli italiani possiedono tra le case di metratura più piccola nell’Europa occidentale) far seguire la scuola con serenità:
  4. Un servizio pubblico va erogato in maniera personale e risulta difficile che questo, in un’organizzazione complessa come la scuola venga fatto a distanza. Per un evangelico istruire e far istruire i propri figli e dargli un’opportuna educazione che li formi al pensiero critico è essenziale e questo si piò fare solo se le scuole (pubbliche) sono aperte e se le università e le biblioteche tornino ad essere luoghi di studio (cosa che è sempre stato difficile in Italia).

Questi direi sono i motivi principali per tornare alla “normalità” del servizio, anche se bisognerà stare attenti a salvaguardare la salute delle persone, ad organizzarsi in maniera “differente” ed a riflettere sempre di più sulla scuola, sul suo futuro e sulla possibilità di farla diventare una risorsa per il nostro Paese e non un “peso”, guardato sempre con sospetto perché costosa e perché i docenti sono dei fannulloni impreparati (come spesso si sente dire nelle tempeste social-mediatiche). L’emergenza dovrebbe essere un’occasione per effettuare quei cambiamenti di cui la nostra società avrebbe bisogno.

Non entrerò nella polemica dei banchi mono-posto (che è applicabile soprattutto alla scuola primaria e secondaria di I grado: le scuole superiori sono in genere già dotati e quindi il mitico “Rocci” sarà salvo), dell’inadeguatezza o meno del nostro Ministro (in realtà andrebbe fatto un complesso discorso sulla governance del Ministero che è sicuramente di non grande qualità), perché conosco quelle che sono le “pecche” del nostro sistema politico e so anche quanto sia difficile gestire situazioni di emergenza. In questo il nostro Paese, nonostante la sua caoticità e disorganizzazione croniche, non ha fatto peggio di altri: anche per quanto riguarda la scuola: la impossibilità di riaprire prima derivava anche da un anno scolastico che da noi è fatto in modo che le attività (ad eccezione degli esami) si chiudano a giugno (anche perché assolutamente non attrezzate per gestire classi nel mese di luglio) e non da una cattiva volontà del legislatore.

Una ulteriore riflessione da evangelico sentirei di farla e la ritengo necessaria. Proprio dal nostro “mondo” soprattutto in ambito statunitense viene portato avanti una sorta di attacco alla scuola pubblica, o alla scuola come un bene sociale che deve riguardare tutti, anche coloro che non appartengono alle nostre chiese. Mi sento, da civil servant quale sono (conosco bene i discorsi sulla particular calling di tutti che si affianca alla nostra general calling), di dover difendere il nostro sistema pluralista e a molte voci che cerca di aprire le menti dei nostri figli, che ha come suo scopo ancora oggi quello di formare cittadini esemplari (pur con mezzi limitati). La scuola è anche il luogo della “memoria” della nostra cultura, del nostro sapere e del nostro saper fare e questo non va dimenticato.

La tradizione evangelica, seguendo in questo l’esempio dell’ebraismo, ha avuto sempre attenzione per l’educazione dei propri figli. Lutero ritenne necessario curare, oltre che l’insegnamento universitario, anche l’educazione dei bambini sia da un punto di vista religioso che civile (i due lati non andavano mai dimenticati). Ci sono stati grandi pensatori sull’educazione nel cristianesimo che vanno da Agostino e passano ad Erasmo, Comenio, Locke ed anche Alcott che hanno cercato di fare delle proposte sicuramente di tipo progressista per i loro tempi. L’istruzione e la cultura sono centrali. Molti di questi pensatori ritenevano che l’istruzione dovesse essere “pubblica” (sicuramente non nel senso che diamo alla parola oggi) e davano molta importanza a questo aspetto della vita della società. Anche gli evangelici italiani hanno avuto grande riguardo per l’istruzione, dando importanza alla propria alfabetizzazione e sapendo che nella scuola si formano le nuove menti.

La scuola pubblica e gratuita (per quanto lo sia oggi) è stato un servizio acquisito nei secoli che ha permesso a diverse persone di poter accedere all’istruzione, cosa importante per un Paese come il nostro dove per anni i livelli di alfabetizzazione sono stati bassi (e sappiamo come questo impedisca anche la conoscenza del Vangelo). Pertanto a tutti coloro che si vogliono occupare di scuola oggi, chiedo anche di guardare (e pregare) anche alla scuola del futuro in quanto si tratta di un servizio strategico per ognuno di noi per il nostro Paese.

Fake news, complottismo e cristianesimo

di Giambattista Mendicino

 

Sono un frequentatore assiduo dei principali social networks, Facebook in particolare. Rimanere in contatto con i tanti amici e conoscenti che vivono lontano è un’opportunità preziosa, tuttavia bisogna fare i conti con gli aspetti negativi di questi mezzi; il più grave è costituito dalla circolazione di bufale, fake news virali e strampalate teorie cospirazioniste che nei social hanno trovato un terreno straordinariamente fertile. L’argomento merita qualche riflessione, soprattutto da quando si è capito che le bufale non sono innocue.

I social sono diventati campo di battaglia politico e la propaganda virale è un’arma in grado di condizionare fortemente il dibattito pubblico. Non si sono ancora spenti gli echi delle discussioni su quanto le campagne di disinformazione mirata orchestrate all’estero abbiano potuto influenzare le elezioni presidenziali americane del 2016, il referendum britannico per la Brexit o le elezioni politiche italiane del marzo 2018.

Oltre agli aspetti politici va considerata la disinformazione scientifica con i suoi potenziali effetti negativi: una questione di urgente attualità in tempo di pandemia globale[1].

I cristiani -e gli evangelici in particolare- non sono esenti da questo problema; anche sulle bacheche di contatti cristiani, che costituiscono la gran parte delle mie interazioni sociali, mi imbatto quasi quotidianamente in qualche notizia che è possibile etichettare come fake. La cosa è particolarmente allarmante se si considera che questo non succede solo con le pagine personali con poche decine o centinaia di interazioni ma anche con pagine pubbliche dichiaratamente cristiane che contano migliaia di followers.

Il primo fenomeno che si osserva è interno al mondo cristiano; si tratta per lo più di catene contenenti richieste di preghiera per particolari situazioni riguardanti i cristiani perseguitati. Il fenomeno è diventato così diffuso da indurre la principale organizzazione al servizio della Chiesa perseguitata ad aprire una pagina di fact-checking di notizie false legate a questo àmbito[2].

Il secondo fenomeno riguarda invece la permeabilità che sta mostrando il mondo evangelico verso le fake news create all’esterno che spesso si rifanno a teorie del complotto o, in certi casi, la diretta adesione di individui o movimenti cristiani ad alcune di queste teorie.

Se il primo esempio può essere etichettato come semplice ingenuità -comunque da evitare- il secondo richiede una riflessione particolare perché, a mio parere, la convivenza tra la fede cristiana, fake news e teorie del complotto è decisamente problematica.

Senza fare un’approfondita analisi che richiederebbe ampio spazio e altre competenze, in questa sede possiamo limitarci a qualche osservazione del fenomeno in relazione con l’insegnamento biblico.

Le fake news, che siano messe in giro per mero business o per propaganda funzionano perché fanno appello ai sentimenti, non alla ragione; la viralità online parte dalla “pancia”, non dalla “testa”. La fede cristiana fa invece appello all’uso dell’intelligenza e della ragione. John Stott nel breve ma fondamentale saggio “Creati per pensare” stigmatizza fortemente il mancato uso del pensiero e della riflessione, in quanto segno dell’immagine di Dio: ”Quando gli uomini non utilizzano la loro intelligenza ma solo l’istinto, si contraddicono, perché negano la loro origine e la loro natura, e perciò dovrebbero vergognarsene[3].

Una delle caratteristiche fondamentali del complottismo è l’offerta di una risposta semplice, alla portata di tutti, ai dubbi e alle incertezze dell’esistenza. E’ stato osservato che l’uomo preferisce una spiegazione, non importa se falsa, al dubbio. Il complottismo fa esattamente questo: offre risposte facili, spesso limitandosi a cercare un capro espiatorio a cui dare la colpa; la storia degli Ebrei, il capro espiatorio per eccellenza, è drammaticamente esemplificativa a riguardo. Il complottismo si nutre di rancore, invidia sociale e inquietudine e a sua volta li alimenta in un perverso circolo vizioso.

Non è un caso che più forti siano le crisi e le tensioni sociali, più ampia sia la diffusione del complottismo.

I cristiani non sono esenti dai dubbi e dalle paure comuni a tutti gli esseri umani, sia nella sfera individuale che in quella collettiva, ma non dovrebbero diventare ingranaggi di questo meccanismo disgregante perché sanno di poter fare affidamento in ogni circostanza all’aiuto del Dio in grado di provvedere ad ogni bisogno (Filippesi 4:19).

I cristiani che più o meno consapevolmente entrano in questa logica manifestano mancanza di fede nella sovranità di Dio, cessano di essere sale e luce per essere invece contaminati da sentimenti negativi, facendosi a loro volta strumento di ottenebrazione anziché di illuminazione.

Possiamo ancora osservare che le soluzioni offerte dal complottismo, oltre a essere semplicistiche e a non richiedere quindi particolari sforzi intellettuali hanno un altro punto di forza nella loro apparente credibilità; ciò è dovuto al fatto che smentirle è praticamente impossibile, trattandosi di supposizioni che richiedono una probatio diabolica impossibile da fornire.

Questa è una delle differenze più profonde con la fede cristiana che, al contrario, è una fede storica, fondata su fatti documentati e che dà ampio rilievo alle evidenze. L’evangelista Luca scrive a Teofilo di “essersi accuratamente informato di ogni cosa dall’origine” prima di accingersi a raccontare la vita terrena di Cristo (Luca 1:3);  Pietro sottolinea il fatto di essere stato testimone oculare della maestà di Cristo (2 Pietro 1:16).  La fede biblica è il contrario della credulità, perché si fonda su fatti che possono essere provati; difficile che non ci si renda conto di quanto sia dannosa per la credibilità della nostra testimonianza la condivisione di notizie false: essere testimoni di colui che “si presentò vivente con molte prove” (Atti 1:3) e, contemporaneamente, contribuire alla diffusione di teorie improbabili è incoerente.

Se qualche critico della fede si imbattesse in alcuni dei post che a volte condividiamo senza riflettere, la sua convinzione che i cristiani sono degli ingenui e dei creduloni ne uscirebbe rafforzata.

Possiamo fare qualche ipotesi per provare a spiegare il successo del complottismo nel mondo evangelico.

Innanzitutto, credo che esista un terreno fertile dovuto alla diffusione, trasversale nel mondo evangelicale, di una certa diffidenza (più o meno ampia) verso le Istituzioni, l’attività scientifica e la cultura in generale.

Si deve poi aggiungere la rilevanza che la predicazione “apocalittica” ha assunto negli ultimi decenni. I grandi sconvolgimenti della storia risvegliano i fermenti millenaristi che in periodi più tranquilli paiono sopirsi; stiamo assistendo a qualcosa di simile a partire dall’attentato dell’11 settembre 2001. Gli occhi della chiesa, negli ambienti dispensazionalisti, sono puntati sui “segni dei tempi” della seconda venuta di Cristo che sappiamo essere preceduta, secondo una diffusa interpretazione, dall’ascesa “fisica” dell’Anticristo alla guida dell’umanità. Si pone enfasi particolare su qualsiasi fatto che possa in qualche modo essere messo in relazione all’Anticristo; sembra che questi eventi suscitino in noi più paura che speranza, ne abbiamo un chiaro esempio nell’annosa questione del “microchip-marchio della bestia”.

Questa visione ha un forte terreno comune con le teorie complottiste –il microchip è anche un loro cavallo di battaglia- che vedono individui e gruppi organizzati lavorare nell’ombra per ottenere o mantenere il controllo sul mondo. “La lotta segreta fra bene e male, Satana, la grande congiura internazionale, sono tutti elementi perfettamente compatibili con certe forme di predicazione” osserva Marc-André Argentino, ricercatore presso la Concordia University di Montréal[4]; l’adesione di alcuni movimenti evangelicals di stampo neo-carismatico alle teorie complottiste del gruppo “Q-Anon[5]” porta  a ipotizzare la nascita di un nuovo movimento religioso, in cui Bibbia e teoria del complotto svolgono il ruolo di reciproche chiavi interpretative[6]. Pur senza evocare quest’ultimo scenario, decisamente inquietante, appare chiaro che la Chiesa si trova ad affrontare una sfida delicata.  Probabilmente la situazione attuale è il risultato di decenni di trascuratezza degli aspetti della vita cristiana e della fede legati all’intelligenza e al pensiero “critico”. Nelle parole scritte negli anni ’60 da Harry Blamires in The Christian Mind possiamo trovare quella che può essere considerata la radice del problema: “Un pensiero specificamente cristiano non c’è più. Rimane ancora, naturalmente, un’etica cristiana, una pratica cristiana ed una spiritualità cristiana…Ma come esseri pensanti, i cristiani moderni sono stati vinti dalla secolarizzazione[7]. La ricostituzione di un autentico pensiero cristiano dovrebbe essere il punto da cui partire per dotare la Chiesa degli anticorpi necessari per resistere al virus cospirazionista; i giovani studenti e laureati dei GBU hanno un ruolo importante da giocare in questa partita.

 

Giambattista Mendicino si è laureato in giurisprudenza con una tesi in diritto ecclesiastico. E’ stato coordinatore del gruppo GBU di Torino.

[1] https://dirs.gbu.it/wordpress/complottismo-e-coronavirus/

[2] https://www.porteaperteitalia.org/fake-news/

[3] John Stott, Creati per pensare, Edizioni GBU, p. 19

[4] https://www.evangelici.net/focus/1592729014.html

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/QAnon

[6] https://theconversation.com/the-church-of-qanon-will-conspiracy-theories-form-the-basis-of-a-new-religious-movement-137859 (in inglese)

[7] Harry Blamires, The Cristian Mind, SPKC,  p.43

‘Ah-ee-ah-ee-ah’. Arte, musica e sacralità in Ennio Morricone

di Valerio Bernardi

Devo ammettere che anche io, come probabilmente i giornalisti del Washington Post, quando ho sentito della morte di Ennio Morricone, uno dei figli del “genio” italiano, ho subito ricordato l’onomatopea della colonna sonora de Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone. Tra le innumerevoli colonne sonore composte dal maestro italiano, sicuramente una delle più riuscita per la sua penetrabilità nelle menti di tutti e per la sua giocosità.

Morricone è stato uno dei più grandi artisti italiani del XX secolo ed ha declinato la sua arte, la musica, coniugandola essenzialmente con la decima musa, il cinema e facendola diventare elemento caratterizzante dei film che “re-interpretava” musicalmente e a cui, talvolta, dava significato con essa. Chi ha visto i film di Sergio Leone, vero inventore di un genere (il western all’italiana, con uno sfondo anche di meditazione etico-esistenziale) considerato in un primo tempo di serie B, ma poi visto come chiaramente di valore, sa che il gioco degli sguardi o il famoso “triello” del film citato acquisirebbero un senso del tutto diverso se non avessimo avuto come commento musicale le melodie del compositore romano.

La scelta di coniugare la sua cultura musicale (che era profonda, formatasi con migliori studi possibili e che risentiva anche delle avanguardie “musical-futuriste” che erano state presenti in Italia e che erano state poco accolte nell’ambito musicale colto) con il mondo del cinema (che, in Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, aveva pienamente sostituito come spettacolo popolare pubblico l’opera) gli ha dato fama internazionale e, insieme a Rota e Piovani, lo ha fatto assurgere all’apice dei musicisti italiani che hanno saputo rendere la musica colta popolare veicolandola attraverso il cinema, associandola, così, in modo indissolubile alle immagini. Si trattava di un “artigiano” che, almeno nel suo primo periodo, non disponeva degli imponenti mezzi hollywoodiani e che ha dimostrato tutta la sua vena creativa con l’uso dell’impianto orchestrale (in particolare i fiati) e corale in maniera assolutamente originale.

Le musiche di Morricone ci fanno anche riflettere su quello che deve essere l’arte per il grande pubblico di “profani”, quale sono anche io quando parlo di un campo (quello musicale) di cui non sono un esperto: la musica (e qualsiasi forma artistica) non serve unicamente a sé stessa (come la “narrazione standard”, secondo N. Wolterstorff, sostiene, a partire in particolare dal periodo del romanticismo e del decadentismo) ma ha come scopo anche quello di suscitare emozioni e sentimenti nelle persone che ne fruiscono. La “fusione” con il mondo del cinema (e, più tardi, anche delle fiction televisive) ha permesso che questo tipo di musica fosse apprezzata in tutto il mondo, proprio per la sua efficacia comunicativa e per l’immediatezza con cui la usiamo. Nessuno di noi può vedere i film di Sergio Leone senza pensare alle musiche di Morricone, perché il narrato musicale è talvolta più potente ed evocativo del dialogo (che, a volte, è sin troppo scarno).

Il discorso sul musicista romano può continuare anche e riflettendo sul sacro e su come si sia avvicinato a questo ambito. Diverse sono le musiche che egli ha dedicato a soggetti che avevano uno sfondo di tipo religioso. Il primo grande esperimento è stato quello dello sceneggiato Mosè degli anni Settanta. Si trattava di una storia a puntate sulla vita del patriarca biblico, interpretato da Burt Lancaster e che era impreziosito dalle musiche di Morricone. Quando Morricone interpretava il suo rapporto con il sacro diventava molto solenne e usava spesso la coralità, ricordando sicuramente la potenza che il canto ha nelle liturgie sia del cristianesimo che dell’Ebraismo. Raccomandiamo a tutti di riascoltare il tema di questo sceneggiato che mentre scrivo mi ritorna nella mente insieme alle immagini.

I fiati sono stati usati con grande efficacia in un altro film a contenuto religioso: Mission. Anche in questo film il tema musicale fondamentale è Gabriel’s Oboe ed accompagna il gesuita-cavaliere interpretato da Robert de Niro che cerca di salvare il mondo innocente degli indios Guaranì dalle spietate grinfie dei colonizzatori occidentali ed in cui (di nuovo) il canto corale svolge una funzione salvifica. Negli ultimi anni il compositore romano aveva partecipato con le sue musiche al progetto sulla Bibbia della Lux Vide e, in particolare, aveva musicato le puntate dedicate a Giuseppe (uno degli episodi migliori della serie) e collaborato a quelle degli episodi dedicati ad Abramo. Sicuramente musiche meno famose di quelle citate precedentemente, ma non meno importanti per conoscere il compositore di oltre 500 colonne sonore di film.

Karl Barth, celebrando uno dei centenari della nascita di Mozart, affermava che quando sarebbe andato in Paradiso avrebbe prima cercato il compositore di Salisburgo e poi Lutero, perché la musica è gioco nel senso proprio della parola ed esprime meglio l’animo umano di qualsiasi dogmatica. Risentire in questi giorni i brani di Morricone (quelli sacri e non) ci dovrebbe far riflettere su come sia importante la musica anche nello sviluppo della nostra spiritualità e dovrebbe anche riportarci alla mente che musica “popolare” non significa necessariamente musica del momento (mi riferisco, in questo caso, ai “cangianti” generi della musica pop), ma la possibilità di fruire di un genere che venga riconosciuto da tutti come “bello” e “giocoso”.

La musica di Morricone è contemplabile proprio in questo canone: si tratta di una musica solenne (tipica della tradizione italiana), simile a quella sinfonica (ed anche operistica per il suo uso dei cori), ma capace di trasmettere sentimenti ed anche un senso di giocosità che è importante nella nostra vita e che fa parte anche di quello che Dio ci ha dato a disposizione. Non è un caso che, ancora oggi, nelle nostre comunità evangeliche, l’unica forma di arte che sembra essere ammessa a pieno titolo è quella musicale. Non dobbiamo dimenticarci, però, che anche la musica profana ha un suo valore e, come espressione artistica, è frutto della creatività umana donataci da Dio. Sentire le musiche di Morricone è anche questo: ci porta in qualche modo ad avvicinarci alla nostra creatività, ad uno degli aspetti che ci fa essere simili al divino ed anche, come diceva Barth, alla giocosità della vita.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Non respiro

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Il respiro, il prodotto dell’alternarsi dei movimenti che il nostro corpo compie per inspirare ed espirare l’aria da cui traiamo l’ossigeno, è stato al centro di vicende che hanno segnato un tratto fondamentale della storia dell’umanità. Un movimento impercettibile che compiamo continuamente senza farci caso ha attirato potentemente la nostra attenzione e legando al suo impercettible flusso la stessa esistenza del mondo degli uomini.

 

Polmonite interstiziale!

Il primo fenomeno che ha portato all’attenzione il respiro è quello dell’infezione provocata dal nuovo coronavirus, il COVID–19; l’infezione non causa solo lo stato patologico che negli ultimi mesi, quando diagnosticato, suonava come una sorta di condanna a morte, la “polmonite interstiziale” appunto, ma provoca anche un’insufficienza respiratoria che necessita del ricorso, nei casi più seri, a cure mediche raffinate.
Molte, tante volte, medici e operatori sanitari hanno udito il grido, o il sussurro “non respiro”, nel mentre erano indaffarati intorno a una postazione dove giaceva un corpo in cerca di aria, e prima che il paziente scomparisse nel sonno della terapia, quando non, in centinaia di migliaia di casi, nel vuoto della morte! L’ultimo grammo di aria era utilizzato per segnalare la perdita dell’aria, del fiato, del respiro.

Tutti questi termini (respiro, fiato, etc.) da un lato richiamano gli scenari asettici di un reparto di terapia intensiva, dove si concentra il meglio della teconologia medica, e dall’altro lato richiamano ancestrali credenze relative a ciò che si accompagna al fiato al respiro: l’anima, lo spirito, la vita (neshama).
Il virus ci ha rivelato che laggiù, nella profondità delle cavità polmonari, là dove avviene lo scambio tra ossigeno e anidride carbonica, gli uomini ricevono un “insulto” (è questo il termine tecnico) che inquina la fonte del loro respiro. Un qualcosa di estraneo si è parassitariamente annidato nelle nostre fibre e noi … “non respiriamo”. I corpi reclini sui lettini dei reparti covid sono una plasica rappresentazione di membra alla ricerca del soffio vitale.

L’espressione “Non respiro”, sussurrata a un infermiere o in collegamento con un cellulare con all’altro capo un parente, è una previsione sull’imminente perdita del legame tra la propria identità e il posto che occupa questa identità, tra l’anima e il corpo.

I polmoni infettati dal virus e che estinguono il respiro sono allora una potente metafora dell’esistenza che si confronta e che lotta con l’imponderabile, con la sua fragilità e finitezza («la vita è un soffio», esclamava il sofferente Giobbe). Chi sta intorno fa di tutto affinché il respiro non si spenga. Possiamo sussurrare “non respiro”. Qualcuno interverrà.

La brutta esperienza dell’epidemia che stiamo vivendo ci fa pensare al nostro respiro come un qualcosa da proteggere, tutelare. E allora la mascherina è divenuta la nuova icona di un’umanità che tiene a se stessa, a ciò che espira e a ciò che inspira.

 

George Floyd: “Non respiro”!

Un’altra catastrofe ha investito il respiro degli umani; il suo epicentro non era nelle profondita oscure delle cavità polmonari; non aveva a che fare con il microscopico ma era ben evidente, tanto da occupare per alcuni minuti un video adatto alla trasmissione sui social. La si è intravista, questa catastrofe, a terra, in una strada di Minneapolis. A essere in difficoltà era la parte alta del sistema respiratorio, addirittura quella esterna, il collo, perché su di esso premeva un ginocchio, per ben nove, lunghi minuti. Non era una patologia ma una efferatezza; non una condanna a morte passibile di essere rinviata ma un’esecuzione vera e propria.
Lì non c’era il male naturale; non c’er finitezza. Quell’episodio è un’icona del male morale, del male compiuto, operato, messo in atto, in maniera schiacciante da un essere umano su un altro essere umano. Il respiro è stato tolto. In maniera ancor più brutale del modus operandi di un virus. In quelle circostanze, con quella pigmentazione della pelle, puoi anche gridare “non respiro” … non ti aiuterà nessuno.

Quel respiro che si è arrestato a Minnepolis ha innescato un’onda d’urto tremenda, cha fa trattenere il fiato alle fondamenta delle società occidentali: il respiro di alcune vite non importa! Può essere strozzato, chiuso, impedito, soffocato, fermato in gola.
Troppe volte è accaduto; adesso basta! La stessa storia sembra non respirare più per i sussulti dell’iconoclastia.

Anche questa vicenda “respiratoria” assume una portata metaforica universale: gli uomini non sono solo alle prese con l’imponderabile che “insulta” la propria condizione interiore; sono anche alla mercè, schiavi, messi sotto dalla violenza che li strozza, reciprocamente; qualcuno più degli altri, ma poi tutti insieme: abbiamo tutti le mani intorno alla gola di qualcuno, il collo schiacciato da qualcun altro, il ginocchio che preme su un altro ancora.

Il respiro è divenuto una sorta di cifra antropologica capace di illuminare una condizione umana universale fatta di fragilità e prevaricazione; ma forse anche qualcosa in più.

Nel primo caso si è detto da parte di alcuni filosofi (Agamben su tutti) che la reazione al respiro messo in pericolo dal virus consiste nella rivalsa della parte biologica dell’essere umano. Vogliamo sopravvivere. Ma proviamo a incrociare questo dato con il secondo “non respiro”: dov’è la biologia in tutta la pressione del ginocchio sul collo di un essere umano? Affinché una parte dell’umanità, decida che un’altra parte, magari dal colore della pelle diverso, non abbia diritto al respiro è necessario molto di più della semplice biologia. È necessaria la cultura perversa (ahimé fomentata anche da stupide e insulse teologie cristiane) di un essere che pensa di superare e gestire i limiti del bios; i quali già in sé, probabilmente, avrebbero l’antidoto contro il soffocamento di un altro essere umano.

Fragilità e prevaricazione: queste due espressioni del “respiro” che si dilegua rammentano la condizione generale dell’essere umano. C’è un qualcosa nel profondo delle nostre fibre che rende insufficiente il nostro respiro e minaccia la nostra esistenza. E come se questo non bastasse, viviamo in un contesto in cui spesso siamo schiacciati dalle circostanze e dai nostri simili.

Ci manca il respiro e ci tolgono il respiro.

Ci sentiamo infettati e siamo strangolati.

Chi ci salverà?
La dimensione sociale è importante. Dobbiamo rafforzare i sistemi sanitari e dobbiamo approdare alla giustizia sociale. Ma non è detto che le due cose si incrocino e si sviluppino armoniosamente, … senza un’assicurazione! O forse, anche una raccomandazione per un posto in terapia intensiva!

I due scenari che abbiamo evocato non si allontanano dalla nostra testa, anche quando cerchiamo di porvi riparo sul piano sociale.
Il respiro flebile, quintessenza della nostra esistenza, non sarà mai al sicuro: siamo un fiato.

 

Il cristianesimo è una via di vita in cui ogni respiro ha il suo valore; lo si potrebbe dedurre anche dal controfattuale secondo il quale a Uno solo è permesso di richiamare lo spirito, perché è a lui che esso deve tornare in quanto è lui che lo ha dato (Qo 12:9), che lo insuffla (Gen 1).
Il cristianesimo recepisce l’insegnamento della Bibbia che ricorda che a tutti noi, in ragione di una visione precisa dell’inizio della vita umana (creata), è fatto obbligo di «essere i guardiani di nostro fratello» (Gen 4). Anche di colui (Caino) che, per aver rifiutato questa vocazione, è giunto all’estremo opposto di distruggere l’immagine di Dio in un altro uomo (Abele). Siamo infatti guardiani anche di chi porta il segno dell’assassino.
Figuriamoci poi per chi ha usato trenta dollari di buoni spesa falsi!

 

Il cristianesimo è messo a dura prova da queste due forme di sofferenza del respiro.
Nel primo caso, l’insulto portato ai polmoni non risparmia i cristiani e spinge, coloro che portano il nome di cristiani, a interrogarsi e chiedersi quale sia il vero, autentico, unico conforto che essi hanno nella vita e nella morte. A fare chiarezza con se stessi.

Nel secondo caso, il respiro soffocato in gola a un altro essere umano tradisce che di cristianesimo lì non si tratta. Il messaggio cristiano è lontano, tradito, soffocato prima nelle proprie coscienze.

 

Il cristianesimo si propone però di farci percorrere le vicende di Dio per condurci al loro centro, al vangelo, dove troviamo un’altra vicenda drammatica concernente il “respiro”. Gesù di Nazaret è un altro esempio di uomo che ci viene presentato nell’atto di “rendere lo spirito”.
È morto per asfissia, il crocifisso!
E in quella morte vediamo la passione di Dio per tutte le morti, la passione di Dio per tutti i respiri che svaniscono; e vediamo anche la madre di tutti i soffocamenti: quello di chi volontariamente si lascia crocifiggere e soffocare. Ma perché?

Il canto del Servo sofferente (Isaia 53) ci suggerisce una traccia per trovare una risposta:

«Disprezzato e abbandonato dagli uomini,
uomo di dolore, familiare con la sofferenza,
pari a colui davanti al quale ciascuno si nasconde la faccia,
era spregiato, e noi non ne facemmo stima alcuna.
Tuttavia erano le nostre malattie che egli portava,
erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato;
ma noi lo ritenevamo colpito,
percosso da Dio e umiliato!
Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni,
stroncato a causa delle nostre iniquità;
il castigo, per cui abbiamo pace, è caduto su di lui
e mediante le sue lividure noi siamo stati guariti».

 

 

 

La maledizione di Cam

Nelle ultime settimane sono apparsi numerosi pronunciamenti a fronte dell’ennesimo e tragico rigurgito della tematica razziale negli Stati Uniti; questa volta l’eco della morte di Gerge Floyd ha avuto un riverbero mondiale e non ancora accenna ad assopirsi l’onda sonora che si è propagata da Minneapolis. Ci sembra opportuno richiamare a un senso di realismo e di coraggio tutti coloro che parlano di questo triste fenomeno. La famosa e lugbre “malediazione di Cam” è una macchia nella storia delle teologia evangelica e atlantica. Essa poi trova la sua peculiare collocazione in precisi filoni della riflessione teologica dell’ortodossia protestante e attraversa, restando indenne, anche la stagione dei risvegli, infettando tutto. Dobbiamo essere coraggiosi e compiere questa operazione verità. Anche quando ci appelliamo agli esempi di lotta allo schiavismo, non dimentichiamo che spesso queste donne e questi uomini avevano dall’altra parte i propri “fratelli” in fede. Praticamente uno scandalo.
Questi pochi accenni di Alister McGrath nel suo affresco della storia protestante ed evangelica che va dalla Riforma
ai giorni nostri sono secondo noi sufficienti a tenere alta la guardia contro letture storiche infondate che rendono ipocriti gli appelli contro il dramma del razzismo (Giacomo Carlo Di Gaetano).

di A.E. McGrath
(tratto da La Riforma protestante e le sue idee sovversive)

Il tema della schiavitù è stato al cuore di uno dei più im­portanti e difficili dibattiti interni al protestantesimo ameri­cano nel XIX secolo. Si rivelò enormemente divisivo, provo­cò tensioni politiche e portò alcune denominazioni sull’or­lo dello scisma. Al cuore del dibattito si pone un fondamen­tale problema d’interpretazione biblica. La Bibbia legittima va la schiavitù? La maggior parte dei protestanti nell’Ameri­ca dell’anteguerra presumeva di sì. La maledizione pronun­ciata da Noè su Cam (Gen 9:25) non giustificava forse tale pratica?[1] La Bibbia non condannava la schiavitù; si limita­va a regolamentarla. Desta poca sorpresa che Jefferson Da­vis (1808–1889), presidente degli Stati Confederati d’Ame­rica, potesse dichiarare che la schiavitù era «sancita nella Bib­bia, sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, dalla Genesi fino all’Apocalisse».

Alla fine del XVIII secolo l’abolizionismo aveva guada­gnato terreno in Inghilterra, supportato in non piccola mi­sura dalla crescente opposizione protestante a tale pratica. William Wilberforce fu una voce particolarmente significa­tiva e influente nel dibattito[2]. Non era forse vero che tut­ti gli individui sono stati creati a immagine di Dio? L’idea che qualcuno potesse essere trattato alla stregua di un “og­getto”, nei primi decenni del XIX secolo, risultava sempre più inaccettabile.

Negli Stati Uniti emerse un’importante contrapposizio­ne. Negli anni che seguirono la rivoluzione americana gli Sta­ti del nord fecero dei passi per abolire la schiavitù, mentre nu­meri sempre maggiori di proprietari di schiavi, come Benja­min Franklin, cambiarono le loro posizioni in proposito. Il se­condo grande risveglio, che riaccese il fervore religioso in gran parte della nazione vide una nuova pressione religiosa per l’a­bolizione. L’Oberlin College, nell’Ohio, fu fondato come isti­tuzione abolizionista. Nel sud gli abolizionisti si separaro­no dal metodismo canonico per costituire la Free Methodi­st Church. I cristiani afroamericani erano una voce partico­larmente significativa, che sollecitava le chiese a leggere l’An­tico Testamento alla luce del Nuovo e ad abolire la schiavitù.
La posizione dominante nel sud, però, era fortemente in favore della schiavitù e si usava la Bibbia per difendere que­sta posizione su cui ci si era arroccati. Teologicamente le argo­mentazioni utilizzate dai gruppi favorevoli alla schiavitù co­stituiscono un’accattivante esemplificazione (e una condan­na) di come sia possibile utilizzare la Bibbia per sostenere una certa tesi, leggendo il testo entro una rigida griglia interpreta­tiva che impone al testo delle conclusioni predefinite[3].

La sconfitta della Confederazione nella guerra civile portò inevitabilmente all’abolizione della schiavitù in tutta l’Unio­ne. Continua però inesorabilmente a sussistere una domanda, che incombe cupamente sul protestantesimo. Molti accredi­tati intellettuali e statisti protestanti del XIX secolo, compreso il rispettato teologo di Princeton Charles B. Hodge, si espres­sero in favore della schiavitù su basi bibliche, spesso bollando gli abolizionisti come progressisti liberali che non prendevano la Bibbia sul serio. Non potrebbero gli stessi errori essere nuo­vamente commessi, stavolta su altri temi?[4]

 

A.E McGrath,
La Riforma protestante e le sue idee sovversive. Una storia dal XVI al XXI secolo
Edizioni GBU, 2017

Alister E. McGrath è professore di Teologia storica presso l’Università di Oxford. È autore di numerosi volumi che
affrontano temi di teologia storica e di apologetica. Molti dei suoi libri sono pubblicati in italiano. Le Edizioni
GBU hanno pubblicato di McGrath Gesù chi è e perché è importante saperlo (1997).

 

[1] Sull’interpretazione del testo, specie nell’America del XIX secolo, vedi S.R. Haynes, Noah’s Curse: The Biblical Justification of American Slavery, Oxford University Press, Oxford, 2004.

[2] E. Metaxas, Amazing Grace: William Wilberforce and the Heroic Cam­paign to End Slavery, Harper San Francisco, San Francisco, 2007.

[3] W.M. Swartley, Slavery, Sabbath, War, and Women: Case Issues in Bib­lical Interpretation, Herald Press, Scottdale, 1983.

[4] Per un’ottima analisi del problema vedi K.W. Giles: “The Biblical Ar­gument for Slavery: Can the Bible Mislead? A Case Study in Hermeneu­tics”, Evangelical Quarterly 66 (1994), pp. 3–17.

Condividere con le altre specie la vita e l’adorazione

di Andrew Shepherd
(tr. di Claudio Monopoli | Foto di Gabriele Magnano)

Oggi è impossibile evitare le notizie che ogni giorno descrivono in dettaglio gli impatti negativi che l’attività umana ha sul pianeta. Dalle montagne più alte alle profondità dell’oceano, nessun luogo della terra appare incontaminato[1]. Nel corso della nostra breve storia come specie abbiamo modificato e trasformato l’ambiente che ci circonda – dalla caccia, che ha portato all’estinzione varie specie animali, all’emergere dell’agricoltura circa 12–15.000 anni fa, fino ad arrivare negli ultimi cinquant’anni allo sviluppo di megalopoli. Ma ora, che sia invisibile all’occhio nudo – come i livelli in rapido aumento delle emissioni di gas serra nell’atmosfera – o chiaramente visibile – come l’onnipresente plastica nei nostri corsi d’acqua, oceani e lungo le coste – è evidente che la nostra relazione con il resto del creato sia terribilmente distorta. La nostra azione di distruzione degli habitat e di inquinamento del suolo, dei corsi d’acqua, degli oceani e dell’atmosfera sta contribuendo direttamente a un drammatico tramonto di altre specie[2]. L’Homo sapiens sta distruggendo il tessuto stesso della vita: siamo la causa primaria della sesta grande estinzione di massa attualmente in corso[3].

Cosa pensa il Dio che professiamo di adorare riguardo a questo cataclisma ecologico? Quale dovrebbe essere la nostra risposta come seguaci di Gesù a questa enorme perdita di biodiversità?

Di fronte a questa minaccia esistenziale, gran parte della teologia è spesso completamente antropocentrica. Abbiamo sviluppato teologie “ultraterrene” in cui le altre specie e l’ordine creato sono visti semplicemente come sfondo per quello che è concepito come l’evento chiave: la relazione di Dio con l’Homo sapiens. Ma la nostra specie è davvero ancora il centro della storia della relazione di Dio con tutta la creazione? Scavando più a fondo nella Scrittura e nella tradizione cristiana e impegnandoci con le scoperte della scienza contemporanea ci rendiamo conto che potremmo aver arrogantemente sopravvalutato noi stessi e sottovalutato il significato delle altre creature.

Creature come noi

Che Dio abbia un profondo amore per tutto il creato è evidente dal racconto iniziale della creazione che contiene l’affermazione, ripetuta sette volte dal Creatore, della “bontà” della creazione stessa (Gen 1:2–23a). Poco oltre, nel racconto del diluvio universale (Gen 6––9), Noè ubbidisce al Signore e costruisce un’arca per garantire la conservazione della biodiversità di fronte al conseguente “assorbimento della vita” (7:23). Mentre l’amore del Creatore per tutto ciò che è stato creato è chiaro, fino a che punto le creature di Dio rispondono a questo amore? Qual è la natura della relazione che la miriade di creature ha con il suo Creatore?

Attraverso i recenti progressi della scienza ora sappiamo che condividiamo tra il 96 e il 99% dello stesso DNA dei nostri parenti più stretti, scimpanzé, bonobo e gorilla. Oltre a questa somiglianza genetica, la ricerca dei comportamentisti animali sta abbattendo il muro concettuale che abbiamo eretto tra noi stessi e le altre creature. Di quest’ultime, lungi dall’essere macchine che agiscono solamente per istinto, automata, incapaci di provare dolore, come tristemente affermato da René Descartes, stiamo progressivamente scoprendo la profondità della vita interiore. Le prove che queste provino una serie di emozioni – dolore, gioia, sofferenza, appagamento, rabbia, depressione e solitudine – continuano a crescere. Molte delle azioni che attribuiamo in modo univoco agli umani ­– pianificazione e cooperazione, inganno, altruismo, lutto, perdono, rancore, pace, umorismo – sono evidenti anche in altre specie[4].

Le creature portate alla vita dal soffio vitale di Dio

Anche la Scrittura dipinge le altre creature non come automi né come figure piatte simili a cartoni, ma piuttosto come esseri dotati di dinamicità, con un’identità, un organismo e con capacità di relazione con il loro Creatore. L’immagine così evocativa, usata in Genesi 2:7, del Signore Dio che respira la vita nelle narici di ̓ādām, la creatura terrestre, viene ripetuta più volte in tutto l’Antico Testamento[5]. Il salmista, osservando tutte le creature plasmate tramite la saggezza di Dio, attinge alle immagini del respiro/Spirito[6] di Dio che si libra sulle acque del creato (Gen 1:2), e scrive:

Tu nascondi la tua faccia, e sono smarriti;
tu ritiri il loro fiato e muoiono,
ritornano nella loro polvere.
Tu mandi il tuo Spirito e sono creati,
e tu rinnovi la faccia della terra
(Salmo 104:29–30)

Le Scritture testimoniano che la vita di tutte le creature dipende da questo respiro vitale (ruach) di Dio. Qoelet, l’autore di Ecclesiaste, comprese che la vita e il destino dell’uomo sono indissolubilmente legati alla vita di altre creature. Di fronte alla fragilità e alla natura transitoria della vita umana, ha sottolineato che non dovremmo considerarci di tanto superiori, ma dovremmo ricordarci che anche noi siamo animali.

Io ho detto in cuor mio: «Così è a causa dei figli degli uomini, perché Dio li metta alla prova, ed essi stessi riconoscano che non sono che bestie». 19 Infatti, la sorte dei figli degli uomini è la sorte delle bestie; agli uni e alle altre tocca la stessa sorte; come muore l’uno, così muore l’altra; hanno tutti un medesimo soffio, e l’uomo non ha superiorità di sorta sulla bestia; poiché tutto è vanità. 20 Tutti vanno in un medesimo luogo; tutti vengono dalla polvere, e tutti ritornano alla polvere. 21 Chi sa se il soffio dell’uomo sale in alto, e se il soffio della bestia scende in basso nella terra?  (Eccl 3:18–21).

 

Le creature come agenti di Dio

Non solo condividiamo con le creature lo stesso respiro/Spirito che anima la vita, ma la Scrittura mostra come anche gli animali siano agenti della grazia di Dio e messaggeri del giudizio di Dio. In 1 Re 17:1–7 il profeta Elia annuncia al re idolatra Achab l’inizio di una siccità. Fedele nel pronunciare il giudizio di Dio, lo stesso Elia deve comunque affrontare personalmente le conseguenze di questa siccità. Sorprendentemente, sono i corvi, animali impuri per la legge, che diventano agenti della grazia di Dio, fornendo a Elia un pasto mattutino e serale. Allo stesso identico modo, un altro dei profeti di Dio diventa il destinatario delle azioni salvifiche di una creatura animale. Israele, un popolo di terra nutriva una profonda antipatia per i mari. Ciononostante, Giona, piuttosto che dirigersi a Ninive, la capitale dell’impero assiro, per annunciare la parola di Dio, che percepisce come una certa condanna a morte, sceglie il terrore del mare. Gettato in mare, è una creatura delle temute acque profonde che inghiotte Giona, salvandolo così dall’annegamento. Contrariamente a Giona, il grande pesce è poi obbediente a Dio, e restituisce Giona alla sua vita terrestre per ricevere di nuovo le istruzioni del Signore.

In un altro episodio comico è un fedele asino che salva il suo proprietario – l’indovino Balaam – dall’angelo dell’Eterno che brandisce una spada. Convocato da Balak per maledire gli Israeliti, Balaam batte il suo asino, ignaro che l’improvviso cambio di direzione dell’animale lo stia salvando dal pericolo invisibile del giudizio dell’Eterno. Donatagli la parola, l’asino supplica la sua innocenza. La sua testimonianza è confermata dall’angelo dell’Eterno che annuncia che se non fosse stato per l’intervento del suo asino, Balaam sarebbe stato abbattuto. Smontato dall’asino e dalla sua posizione elevata, Balaam è costretto a stare accanto alla sua creatura e, fermo e silenzioso, è tenuto ad ascoltare di nuovo le istruzioni che finora non ha completamente rispettato (Nm 22:1–35). Vale la pena riflettere a quanto spesso noi, come Giona e Balaam, trascuriamo o ignoriamo le modalità in cui le creature che ci circondano diventano messaggeri di grazia e agenti di liberazione. Superare una visione del mondo antropocentrica richiede che, come Balaam, non sediamo, metaforicamente, dall’alto del nostro cavallo (asino).

 

Le creature richiedono la nostra attenzione

Nella tradizione cristiana è diventato comune parlare dei due libri della rivelazione di Dio, ovvero quello della creazione e quello della Scrittura. Tuttavia, ascoltare ciò che il libro della creazione ci sta dicendo, in particolare attraverso le espressioni dei nostri simili, richiede una nuova postura, quieta, caratterizzata da umiltà e attenzione per imparare e correggere ciò che è sbagliato. Giobbe, avendo sperimentato tremende avversità, si ritrova circondato da amici, che seppur con buone intenzioni, spiegano che la causa del suo dolore è la colpa inconfessata. Giobbe difende la sua innocenza, invitando le altre creature a difendere la sua giustizia, e invita i suoi amici consiglieri ad imparare anche da queste (Gb 12:7–10). Più tardi, Giobbe stesso è costretto a seguire il suo consiglio. Sopraggiunge una voce proveniente da un turbine: l’Eterno, interroga Giobbe, offrendo una descrizione dettagliata della complessità e del mistero della creazione (Gb 38––41). Di fronte alla travolgente meraviglia di un ecosistema pieno di vita dinamica di cui egli stesso è parte, e dal quale non può prescindere, Giobbe confessa umilmente: “Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio ti ha visto.” (Gb 42:5). Non è un caso che in seguito, un altro individuo ubbidiente e giusto, Gesù, impartirà le stesse istruzioni ai suoi discepoli, chiamandoli a “considerare” (osservare, prestare attenzione a) il comportamento virtuoso dei corvi[7].

Tuttavia, oltre a incontrare Dio anche attraverso la contemplazione della creazione, cosa potrebbe significare porre attenzione ulteriormente al mondo delle altre creature e comunicare direttamente con loro? Spesso capita quotidianamente di parlare con altre creature – si pensi alle interazioni con gli animali domestici – ma fino a che punto ascoltiamo sinceramente le loro voci? La nostra incapacità di farlo sembra legata (1) all’assunto cartesiano secondo cui solo gli umani possiedono il linguaggio e, (2) a un malinteso su quale sia lo scopo principale del linguaggio. Ormai sembra che le prove stiano confutando il concetto che solo gli umani comunichino attraverso la lingua, tuttavia tendiamo comunque ancora a concepire il linguaggio in modo autoreferenziale: la lingua, crediamo che ci dia la capacità di rappresentare e interpretare il mondo che ci circonda. Se da una parte questo è vero, non è tuttavia lo scopo principale del linguaggio. Finora ho tracciato i seguenti temi: a) il respiro/Spirito che anima noi e la matrice della vita sulla Terra, e b) il linguaggio che piuttosto che distinguerci da altre creature è un’attività reciproca che collega noi agli umani, ad altre specie e  a Dio. Queste tematiche sono intrecciate in un passaggio poetico del filosofo ambientalista David Abram:

Il linguaggio orale si diffonde dentro di noi – le nostre frasi risuonano per la stessa aria che nutre i cedri e gonfia i cumuli. Distesi e immobilizzati sulla superficie piana, le nostre parole tendono a dimenticare che sono sostenute da questa terra spazzata dal vento; iniziano a immaginare che il loro compito principale sia quello di fornire una rappresentazione del mondo (come se fossero al di fuori di questo mondo e non facessero davvero parte di esso). Tuttavia, il potere del linguaggio rimane, in primo luogo, un modo di cantare se stessi a contatto con gli altri e con il cosmo – un modo per colmare il silenzio tra se stessi e un’altra persona, o un orso nero sorpreso, o la luna crescente che si alza come una vela fluttuante sopra il tetto. Che sia suonato sulla lingua, stampato sulla pagina o luccicante sullo schermo, il dono principale della lingua non è di riproporre il mondo che ci circonda, ma di chiamarci alla presenza vitale di quel mondo – e alla presenza profonda e attenta l’un con l’altro[8].

Condividiamo, con le altre creature, diverse quantità dello stesso codice genetico, lo stesso respiro che anima la vita e, con molti, la capacità di linguaggio. E se da un lato la lingua ci convoca in una “presenza profonda e attenta l’un con l’altro“, essa ha una funzione ancora maggiore. Teologicamente, lo scopo principale del dono del linguaggio è quello di assistere le creature nella lode del loro Creatore. E, se da una parte possiamo pensare che solo l’umanità si impegna nell’adorazione, la Scrittura sostiene che non è così. Il Salmo 148 ritrae tutta la creazione – esseri angelici, sole, luna, stelle, creature marine e oceani, sistemi meteorologici, paesaggi e alberi di habitat terrestri e tutte le specie selvatiche e domestiche che risiedono in essi – insieme all’umanità, come un’enorme coro che offre la sua lode al Signore. In effetti, il libro dei Salmi si conclude con l’esortazione che tutte le creature offrano il respiro che è stato loro donato per la lode al loro Creatore: “Ogni creatura che respira, lodi il SIGNORE” (Sal 150:6).

 

Le creature come compagni di adorazione

Perciò, il fattore più importante di tutti, la Scrittura, ci ri–direziona e ri–orienta nel concetto che oltre ad essere messaggeri di grazia e giudizio e insegnanti di virtù, le altre creature possono essere compagni di adorazione. Questa immagine di tutte le creature di Dio che adorano il loro Creatore e Redentore raggiunge il suo apice nella visione apocalittica di Giovanni. Quattro creature viventi – simboli di creature selvagge (un leone), animali domestici (un bue), esseri umani e vita aviaria (un’aquila) – si radunano davanti al trono di Dio dichiarando che la vita di tutte le creature deriva dall’iniziativa di Dio (Ap 4:11). La loro ragione di esistere è di dare gloria a Dio. E, mentre l’Agnello di Dio, in piedi accanto al trono, apre la pergamena che dichiara il giusto giudizio, rivendicando il regno dell’amore di Dio, queste quattro creature sono raggiunte da “tutte le creature che sono nel cielo, sulla terra, sotto la terra e nel mare”, da ogni creatura estinta o esistente, nell’offrire lode eterna:

«A colui che siede sul trono, e all’Agnello, siano la lode, l’onore, la gloria e la potenza, nei secoli dei secoli» (Ap 5:13)

Di fronte alla diminuzione della biodiversità ci viene imposto per via di questo amore a proteggere la vita dei nostri compagni coristi affinché le loro voci possano continuare a lodare il loro Creatore.

Domande per la discussione

  1. Leggi il libro di Giona. Quale ruolo gli animali hanno nel piano di Dio in questo libro?
  2. Leggi il Salmo 148 o Apocalisse 4-5, quale ruolo hanno gli animali in questi passi?
  3. Quali esperienze hai avuto nelle quali altre creature sono state messaggeri della grazia di dio o agenti di liberazione/libertà.
  1. Che differenza farebbe concepire le altre creature come agenti di Dio e come compagni di adorazione per la tua vita? Che differenza farebbe per la tua università? Il tuo movimento studentesco? La tua scuola?

 

Letture ulteriori

  • Bauckham, Richard. Bible and Ecology: Rediscovering the Community of Creation. Waco, TX: Baylor University Press, 2010, tr. it.
  • Clough, David L. On Animals: Theological Ethics. 2. London: Bloomsbury, 2019.
  • Clough, David L. On Animals: Systematic Theology. Vol. 1. London: T. & T. Clark, 2012.
  • Deane-Drummond, Celia, and David L. Clough. Creaturely Theology: On God, Humans and Other Animals. London: SCM Press, 2009.
  • Harris, Peter. Kingfisher’s Fire: A Story of Hope for God’s Earth. Oxford: Monarch, 2008.
  • Kolbert, Elizabeth. The Sixth Extinction: An Unnatural History. New York: Henry Holt and Co., 2014.

 

[1] A.J. Jamieson et al. “Microplastics and synthetic particles ingested by deep-sea amphipods in six of the deepest marine ecosystems on Earth” R. Soc. open sci. 6:180667, https://royalsocietypublishing.org/doi/pdf/10.1098/rsos.180667; Heather Saul, “Human waste left by climbers on Mount Everest is causing pollution and could spread diseasesIndependent, 3 March 2015, https://www.independent.co.uk/environment/human-waste- left-by-climbers-on-mount-everest-is-causing-pollution-and-could-spread-diseases-10081562.html.

[2] WWF. 2018. Living Planet Report – 2018: Aiming Higher. Grooten, M. and Almond, R.E.A. (Eds). WWF, Gland,Switzerland, https://c402277.ssl.cf1.rackcdn.com/publications/1187/files/original/LPR2018_F ull_Report_Spreads.pdf?1540487589.

[3] Mentre la popolazione umana di 7,6 miliardi rappresenta solo lo 0,01% di tutte le forme di vita, dal sopraggiungimento dell’Homo sapiens la nostra azione ha portato all’estinzione dell’83% di tutti i mammiferi non addomesticati; l’80% dei mammiferi marini; il 50% delle piante; e il 15% dei pesci. Guarda: Yinon M. Bar-On, Rob Phillips, and Ron Milo (2018), “The Biomass Distribution on Earth” Proceedings of the National Academic of
Sciences 115 (25): 6506-11. Se da un lato l’estinzione è un normale processo evolutivo gli scienziati stimano che il tasso di estinzione delle specie è più alto di 100-10.000 volte rispetto al tasso di estinzione di fondo.

[4][4] Guardare allo studio del primatologo ed etologo tedesco, Frans de Waal, particularly: Our Inner Ape (New York: Riverhead Books, 2005) and Mama’s Last Hug: Animal Emotions and What They Tell Us About Ourselves (New York: W.W. Norton, 2019).

[5] Genesi 6:17; Genesi 7:21-22; Giobbe 12:10, 27:3 32:8,33:4, 34:14-15; Salmi 104:29-30, Isaia 42:5, 57:16

[6] La parola ebraica ruach può essere tradotta come vento, soffio/fiato, o Spirito.

[7] Luca 12:24; guarda Andrew Shepherd, “Being ‘Rich towards God’ in the Capitalocene: An Ecological/Economic Reading of Luke 12.13-34” The Bible Translator (forth.).

[8] Becoming Animal: An Earthly Cosmology (New York: Pantheon Books, 2010), 11, corsivo dell’autore

Andrew Shepherd ha fatto parte del movimento IFES in Nuova Zelanda, Christian Telliary Students (TSCF), dal 1995 al 1999. Negli ultimi due decenni ha lavorato nei settori dell’educazione teologica, ambientale e internazionale e della pratica della conservazione. A Rocha Aotearoa in Nuova Zelanda, fino a poco tempo fa come co–direttore. Ha ricoperto il ruolo di insegnante e ricercatore presso numerosi istituti di istruzione accademica ed è attualmente docente di teologia ed etica all’Università di Otago, in Nuova Zelanda.