Lasciamo che Lutero vada a Roma

di Giacomo Carlo Di Gaetano

 

Si stima che in questo anno giubilare la città di Roma sarà raggiunta e visitata da più di 30 milioni di visitatori: pellegrini, turisti, avventori, etc. Uno dei momenti più caldi sarà (è stato) sicuramente quello del Giubileo della Gioventù (28 luglio – 4 agosto).

Non è una novità, questo è il destino di Roma.

Il Giubileo ha sempre aggiunto a questo itinerario un alone sacrale, associando in tal modo Roma ai grandi santuari e luoghi di pellegrinaggi disseminati in tutto il mondo.

La presenza di questi luoghi (il lettore della Bibbia ricorderà la perplessità di una donna samaritana su due di essi, relegati nella provincia di Palestina – Gerusalemme e/o Samaria, Gv 4) sono una rappresentazione plastica di quell’anelito all’incontro con il divino che ha sempre animato gli esseri umani.

Per i cristiani che si sono fatti condizionare dalle parole di Gesù in Giovanni 4 sull’avvento di un’ora in cui l’incontro con Dio poteva fare a meno della geografia (bisogna adorarlo in spirito e verità!) è iniziato un lungo tormento interiore e una lunga riflessione “iconoclasta”. Nessuno nella storia ha mai fatto a meno di qualche luogo che sebbene spoglio di qualsiasi aura sacrale, ha però assunto un rilievo simbolico in grado di condizionare sempre e nuovamente la spiritualità. Si pensi a Ginevra nell’universo calvinista.

Anche il monaco agostiniano Lutero andò a Roma (nell’inverno del 1510–1511)! In un documentato viaggio di tipo amministrativo il padre della Riforma accompagnato da un suo confratello fece questo viaggio e soggiornò nella capitale per alcuni mesi. Tutte le biografie di Lutero ne parlano. Quelle da me consultate, dalle classiche di Bainton e Miegge (in italiano) a quelle più recenti di Adriano Prosperi e Silvana Nitti dedicano un certo numero di pagine a questo evento che ha suscitato la mia curiosità fin dall’inizio di questo anno santo e fin dalla registrazione delle iniziative messe in campo dagli evangelici per intercettare e in qualche modo condizionare questo gigantesco fenomeno del viaggio a Roma.

Le biografie sono concordi nel rilevare il silenzio o quanto meno la sottigliezza delle fonti relative a questo viaggio. Ci sono i ricordi dello stesso Lutero affidati ai suoi Discorsi a tavola (Tischreden) e qualche riferimento in altri scritti molto lontani nel tempo; e qualche legenda fiorita all’indomani della morte di Lutero.

La più famosa è quella che vuole Lutero che riceve l’illuminazione sulla giustificazione per fede in cima alla scala santa da lui risalita in ginocchio e secondo le modalità della spiritualità medievale.

Forse il suo commento più spendibile da un punto di vista dei significati posteriori è questo: «Anch’io, come uno stupido, portai cipolle a Roma e ne portai indietro aglio». La Nitti suggerisce che lo scambio, grazie alle sue lontane origini contadine, era considerato estremamente svantaggioso (Nitti, p. 60). Lo svantaggio stava naturalmente non solo nel fallimento del compito amministrativo per il qual era stato inviato ma anche per alcune delusioni avute nel suo soggiorno nella capitale religiosa, soprattutto relativamente al modo di celebrare la messa e la scarsa considerazione che il sacramento aveva nella bolgia romana. Proprio la Nitti segnala che, al di là della pervadente corruzione ecclesiale, di cui Roma era un concentrato, ciò che rimase impresso nel monaco tedesco fu la disponibilità e la facilità del perdono, da ricercare, procurarsi, ottenere con i più svariati e creativi modi, dal giro delle sette chiese, alla visita a una reliquia, etc.

«Ero un così pazzo santo (so ein toller Heilig) che correvo per tutte le chiese e le cripte, e credevo tutte le bugie e le invenzioni che raccontavano. Io pure ho detto una messa, o anche dieci, a Roma, e quasi mi dispiaceva che mio padre e mia madre fossero ancora in vita, perché li avrei volentieri liberati dal purgatorio con le mie messe e con altre più eccellenti opere e preghiere» (Miegge p. 75).

 

Questo perdonificio «fece dubitare anche lui». La principale conseguenza della visita a Roma non fu dunque la critica alla corruzione quanto l’acuirsi di domande interiori che esplosero da lì a qualche tempo con il suo studio sulla Lettera ai Romani e la scoperta della “giustificazione”.

«I suoi dubbi, a Roma come prima a Erfurt e dopo a Wittenberg, non erano l’inizio di una battaglia contro la gerarchia e il papa; erano il suo modo di vivere la fede …» (Nitti, p. 63).

Sta tutto qui in questa tensione tra il sacro e l’interiore, tra l’esposizione ai simboli e allo spettacolo della spiritualità istituzionale e la ricerca di Dio nella Bibbia e, da buon agostiniano, nell’interiore, che si gioca il significato di questa piccola parentesi romana nel contesto più ampio della stagione della Riforma. E sta anche qui la possibilità di riprendere questo episodio per avere ulteriori chiavi di lettura per la contemporaneità.

Questo è anche il dibattito che anima i biografi (relativamente come sostiene Prosperi, p. 52) e ben riassunto dalla rilevazione di Bainton: «quel che egli vide e quel che non si curò di vedere ne illumina la personalità» (p. 22, corsivo aggiunto)

Per Miegge (pp. 76–77):

 

«le quattro settimane passate a Roma ebbero per il giovane monaco, ardente e ingenuo, l’effetto di una sconsacrazione». E il silenzio viene così interpretato: «Furono forse soltanto fugaci impressioni di malessere dovute all’oscurarsi di un ideale forse eccessivo, che dovevano precisarsi in seguito, liberando il Riformatore dallo scrupolo di far torto, con la sua azione rivoluzionaria, alla città santa della sua giovinezza» (p. 77)

 

Adriano Prosperi dal canto suo (p. 63) precisa che Lutero non era un moralista; pensava sd altro: si chiedeva se la Scala Santa fosse davvero quella su cui Gesù aveva posato i pieri. La Scrittura era la sua enciclopedia, il suo mappamondo. (p. 63)

 

Ma che ne è della contemporaneità?
Questo episodio sicuramente non detta un paradigma di interazione tra evangelici e cattolici (in questo campo se ne è sempre alla ricerca di uno) ma sicuramente segnala una precauzione e un interrogativo al quale facciamo bene a non rispondere, aspettando … come fa un lettore di una biografia di Lutero: aspettando il capitolo successivo (i più eloquenti sono quelli di Prosperi e di Miegge: – [Prosperi, Il dottor Lutero e il problema della coscienza, pp. 65–82]; [Miegge, La crisi, pp. 79–101]).
Perché un cattolico, convinto o meno che sia, da Occidente o da Oriente (grazie alla macchina organizzativa delle diocesi) non dovrebbe recarsi a Roma e attraversare la Porta Santa? Magari è fortunato e si ritrova a Roma proprio mentre, morto il Papa, c’è il Conclave che ne sta eleggendo un altro (un intervistato durante il Conclave che ha eletto Leone XIV: siamo a Roma per il weekend, speriamo di vedere la fumata bianca prima di ripartire …).

Viene riproposto davanti a noi, in maniera abbastanza provvidenziale, il dilemma del giovane Lutero, vale a dire la ricerca di un qualcosa che si ritiene possa essere accordato da uno spettacolo imponente di un’istituzione che si ammanta di sacralità (sfumando tutte le naturali e ataviche problematiche, incluso gli scandali, che tutte le istituzioni umane si portano con sé, da che mondo è mondo, a Roma come a Canterbury o Westminster). Bainton lo dice chiaramente: finché il giovane Lutero credeva che “la chiesa avesse efficaci mezzi di grazia”.
Sta tutta qui la possibilità del vangelo (non degli evangelici): far esplodere la tensione tra coscienza è istituzione, tra libertà e formalismo, riuscire a canalizzare quella spinta a guardarsi dentro che pure un agostiniano come l’attuale Papa dovrebbe conoscere bene, al punto tale che la cita in un passaggio della sua omelia a Tor Vergata (il 3 agosto). Che cosa si porteranno dietro il milione di giovani convenuti a Roma. Ci auguriamo per loro tanta forza e tante cose positive come auspicano tutti gli osservatori, anche ecclesiastici, che hanno goduto dei numeri della partecipazione (un po’ come gli organizzatori di una protesta sindacale o di una kermesse politica).

Hanno incontrato veramente il Cristo risorto come lasciava intendere l’incipit dell’omelia papale che è partita dall’episodio dei due discepoli sulla via di Emmaus per poi perdersi nei meandri della caducità umana (i fili d’erba) segnata dal consumismo e da altri mali del secolo?

Non ritroviamo in quella omelia, e lo diciamo sommessamente, l’afflato espositivo che anima un lettore e un espositore dei vangeli (quell’afflato che condizionerà il Lutero tornato dall’Italia). Ma è proprio questo che ci lascia sperare: l’ossimoro grammaticale tra un’istituzione che si concepisce prosecuzione dell’incarnazione e che relega Gesù Cristo ai riti penitenziali e sacramentali e una coscienza che cerca la “parola di Dio” unico luogo in cui Cristo continua a vivere e permanere (1 Pietro) e unica grazia che può penetrare nelle crisi che incontreranno il milione di giovani, così come le incontrano tutti gli esseri umani.

Dunque?
Lasciamo che Lutero vada a Roma, che cerchi la pace interiore, che cerchi Cristo. Prima o poi tornerà a Wittenberg e lì ci sarà qualcun altro ad attenderlo: il vangelo di Gesù Cristo. Facciamoci trovare lì come testimoni del vangelo … e non come discepoli di Lutero (sic!).

 

Letture
Roland H. Bainton, Lutero, ed. RCS, Corriere della Sera, 2006;
G. Miegge, Lutero. L’uomo e il pensiero fino alla Dieta di Worms (1483–1521), Claudiana, Torino, 4 ed., 2003;
A. Prosperi, Lutero. Gli anni della fede e della libertà, Mondadori, Milano, 2017;
S. Nitti, Lutero, Salerno Editrice, Roma, 2017.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA QUESTIONE TRANSUMANISTA. Il nostro essere semplicemente umani è un qualcosa che deve essere superato?

di Miroslav Volf

articolo tradotto e pubblicato con il permesso di Christianity Today

Molto tempo prima di noi, l’umanista Giovanni Pico della Mirandola è stato il primo sostenitore del transumanesimo. Nella sua Orazione sulla dignità dell’uomo del 1486, egli fa pronunciare al Creatore le seguenti parole ad Adamo, il primo essere umano:

Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che preferirai. Potrai degenerare nei esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini.

Pico della Mirandola è il santo non ufficiale dei transumanisti perché spingeva la plasticità umana oltre il limite. Credeva che le forme superiori degli esseri umani fossero, in realtà, più che umane, pensava che fossero divine.

Nel XXI secolo, il filosofo Nick Bostrom definisce un postumano come un essere per il quale almeno una capacità centrale generale, come la durata della salute, la cognizione o le emozioni, “supera di gran lunga il massimo raggiungibile da qualsiasi essere umano attuale senza ricorrere a nuovi mezzi tecnologici”.

L’azienda di neurotecnologie Neuralink ha sperimentato interfacce cervello-computer per persone paralizzate, per aiutarle a comunicare e a controllare dispositivi a distanza. Neil Harbisson, nato daltonico, nel 2004 ha ricevuto un impianto sul cranio sotto forma di antenna che gli permette di “vedere” i colori come vibrazioni audio. Un regista di nome Rob Spence ha sostituito il suo occhio destro con una videocamera wireless e si definisce un “eyeborg”. L’amministratore delegato della biotecnologia Elizabeth Parrish si è sottoposta a una terapia genica sperimentale nel 2015 e ha dichiarato di aver rallentato il processo di invecchiamento con successo .

Altri potenziali sviluppi sono puramente estetici. “Se poteste rimodellare il vostro piede e trasformarlo in un tacco a zeppa, lo fareste?”, si chiede un articolo a proposito delle modifiche del corpo nel mondo della moda. “O che ne direste di un capo d’abbigliamento che consiste in morbide corna turchesi su entrambe le spalle?”.

Basta leggere il grande filosofo pessimista  Schopenhauer che disse che “la vita oscilla come un pendolo avanti e indietro tra il dolore e la noia”, per essere tentati di unirsi al progetto transumanista. Ma se l’obiettivo di trascendere l’umanità sia degno di essere perseguito dipende dal fatto che crediamo che l’essere semplicemente umani sia qualcosa che deve essere superato.

Io, per esempio, credo che così come c’è bellezza e bontà nell’essere un’aquila o un delfino, c’è bellezza e bontà nell’essere umano e basta. L’articolo centrale della fede cristiana, dopo tutto, è che il Verbo divino si è fatto carne umana. Dimorando tra di noi, il Verbo ha santificato l’umanità nella sua finitudine e fragilità. Allo stesso tempo, non sono esclusi i miglioramenti,e mi riferisco allo sviluppo e all’uso di strumenti, anche integrati nel nostro corpo.

Qualche anno fa, ho tenuto un corso all’Università di Yale su fede e globalizzazione con il primo ministro britannico Tony Blair e un collega laico. A un certo punto della lezione, il mio collega ha preso in mano una pillola e l’ha mostrata agli studenti. Quando le persone religiose sono malate, ha detto, pregano, credendo che Dio farà un miracolo. Ma le persone laiche si affidano alle meraviglie della medicina moderna, come questa minuscola pillola che cura quasi istantaneamente la pressione alta. Ha concluso che la medicina moderna, ovviamente, funziona meglio di Dio.

Quando ha finito, mi sono rivolto a lui e gli ho detto: “Io e te siamo d’accordo su una cosa importante: entrambi neghiamo lo stesso Dio!”. Mi guardò perplesso.

“Il dio che lei nega è incompatibile con l’inventiva e il lavoro umano, con tutti i processi del mondo”, dissi. “Anch’io nego quel Dio. Al contrario, il Dio in cui credo rende possibile l’intera realtà del mondo in tutta la sua dinamica complessità, compresi l’inventiva e il lavoro umani”.

Le prime pagine della Bibbia raccontano di Dio che lavora con queste realtà mondane. Nel Giardino dell’Eden, Dio non fece cadere il cibo dal cielo nella bocca di Adamo ed Eva e, facendo pressione sulle loro mascelle, li costrinse a masticare. Al contrario, essi lavoravano per il cibo, coltivando e custodendo il giardino; e nel loro lavoro e sotto il loro lavoro, anche Dio era all’opera.

Quando si tratta dei dilemmi etici che incontriamo quando parliamo di transumanesimo, dovremmo esercitare notevole cautela. Tuttavia, è un errore pensare che l’opera divina e l’opera umana, compresi i progressi tecnologici, si escludano a vicenda.

Gli uomini sono arrivati a credere in Dio quando non avevano alcuna conoscenza scientifica sulla struttura di base della realtà, quando il miglior antisettico era la lavanda e quando il mezzo di trasporto dominante erano i loro piedi nudi e callosi.

Sebbene la nostra comprensione del mondo e, quindi, della relazione di Dio con il mondo, sia cambiata, noi uomini moderni possiamo ancora credere in quello stesso Dio ora che stiamo esplorando le proprietà astrofisiche e quantistiche dei buchi neri, modificando il genoma per prevenire le malattie e migliorare le capacità umane, e viaggiando in auto senza conducente, e possiamo credere senza abbandonare la ragione.

Più potere abbiamo, più è importante scegliere con saggezza la direzione di base della nostra vita. Più strumenti intelligenti e potenti creiamo, più dobbiamo essere chiari sugli scopi umani che questi strumenti serviranno. E l’unico modo per discernere quali scopi siano degni della nostra umanità è sapere di cosa dobbiamo fidarci e cosa dobbiamo amare sopra ogni cosa e di che tipo di esseri umani speriamo di essere.

Essere umani, creati nell’imago Dei, significa vivere una visione della vita buona. Questa visione traccia un ritratto del tipo di uomo che dovremmo essere e fornisce i criteri di orientamento per ciò che dovremmo desiderare e per come dovremmo vivere. Tutti noi viviamo in base a una visione di questo tipo, sia che la abbracciamo consapevolmente sia che rimanga incoerente e nascosta alla nostra vista, intessuta nel tessuto delle nostre credenze e pratiche.

Poiché le visioni della vita buona hanno per definizione un carattere normativo, la scienza non può formularle. La conoscenza di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che probabilmente sarà, per quanto precisa e dettagliata, non può mai prescrivere ciò che dovrebbe essere.

Immaginiamo di aver deciso di rinunciare alla privacy e di permettere la raccolta di tutti i dati disponibili su di noi: tutte le nostre conversazioni e la nostra corrispondenza, la nostra salute, le nostre abitudini e i nostri acquisti. Un algoritmo altamente intelligente potrebbe elaborare un resoconto eccezionalmente accurato del nostro comportamento e quindi sarebbe probabilmente in grado di prevedere cosa faremmo in molte situazioni. Potrebbe dirci cosa desideriamo e cosa troviamo desiderabile, persino cosa crediamo di chi dovremmo essere e cosa dovremmo fare. Potrebbe persino arrivare a conoscerci meglio di noi stessi, uno scenario con cui Yuval Noah Harari conclude il suo libro Homo Deus: breve storia del futuro.

Ma l’unica cosa che un algoritmo così intelligente non sarebbe in grado di dirci è chi dovremmo essere, cosa dovremmo fare e verso cosa dovremmo tendere, chi oggi dovremmo essere e cosa dovremmo desiderare. La scienza e i progressi tecnologici non possono darci una visione della vita vera e buona. La ragione non può portare alla luce ciò che dovrebbe essere più importante per noi, non può rispondere alla domanda su come noi, come individui e come comunità umana, dovremmo vivere. Per questo, noi credenti ci rivolgiamo a Gesù Cristo.

L’evoluzione biologica alla base della morale: Telmo Pievani divulgatore di scienza e di speranza (laica)

L’evoluzione biologica alla base della morale:

Telmo Pievani divulgatore di scienza e di speranza (laica)

di Gianluca Nuti

 

Raccontare la vita

Fin dai suoi albori con Charles Darwin, la teoria dell’evoluzione per selezione naturale ha assunto i toni di una narrazione: il racconto della storia della vita sulla terra. Come ci spiega Telmo Pievani nell’agile libretto La teoria dell’evoluzione. Attualità di una rivoluzione scientifica (Mulino, 2006), l’explanandum della teoria, allora come oggi, era la “discendenza con modificazioni”; l’explanans era la teorizzazione di variazione, ereditarietà e speciazione, i tre “motori” tradizionali dell’evoluzione. Tuttavia, la forma in cui la biologia distribuisce e ordina questi tre nodi esplicativi, allora come oggi, è la forma narrativa: la storia di come le forme di vita più adatte di altre alla sopravvivenza in una data nicchia ecologica (variazione) hanno trasmesso questo vantaggio alla prole (ereditarietà), diventando così, generazione dopo generazione, sempre più specializzate (selezione o speciazione).

Non è certo se la forma narrativa dell’evoluzionismo sia necessaria o accidentale, ovvero se sia una caratteristica intrinseca all’oggetto della spiegazione (la diversità degli organismi viventi), o se si tratti di una veste assunta per scopi divulgativi. Ciò che è certo è che, grazie alla sua forma di racconto, la teoria dell’evoluzione si presta non solo a influenzare moltissime altre discipline con il concetto di sviluppo evolutivo e adattativo (la linguistica, la pedagogia, la stessa informatica), ma anche a una facile divulgazione fra il grande pubblico. Proprio a questa divulgazione il già citato biologo e filosofo della scienza Pievani si è consacrato ormai da diversi anni, con diversi titoli e iniziative anche artistiche o teatrali che gli hanno valso vari premi (La vita inaspettata, Imperfezione, e Serendipità fra tutti), e una recentissima apparizione anche fra gli autori delle tracce proposte in prima prova alla maturità.

 

Un’etica a partire dalla natura?

La più alta divulgazione scientifica, tuttavia, spesso non si limita a raccontare e spiegare i fatti della scienza, ma si impegna anche per connotare esteticamente ed eticamente il proprio resoconto. Fin da Lucrezio, passando da Spinoza e arrivando ai giorni nostri al Nuovo Ateismo, la costruzione di visioni del mondo liberatorie e solidamente razionali a partire dal dato scientifico è stata intrapresa con una certa regolarità. La teoria dell’evoluzione non è da meno: la divulgazione di David Sloan Wilson o Stephen Jay Gould (oltreoceano) e di Pievani (in terra nostrana) non è divulgazione solo di fatti biologici, genetici ed ecologici dell’evoluzione, ma di una vera e propria “buona notizia”[1] che da questi emerge chiaramente.

Si tratta di un passaggio tutt’altro che scontato e tutto invece da problematizzare. Perché una storia afinalistica di contingenze e ramificazioni, da cui emerge in modo improbabile l’uomo auto-cosciente, dovrebbe produrre in noi senso di solidarietà con gli altri viventi, senso di responsabilità verso l’ambiente e senso di dignità in quanto esseri coscienti? Il dato biologico può legittimamente essere letto (e raccontato) in questo modo, ma non solo in questo; potrebbe, ad esempio, gettarci nella disperazione del nichilismo. Perché la “imperfezione generativa”[2] del metodo scientifico dovrebbe rappresentare un fatto consolante? Lo è forse nell’ordo cognoscendi; ma se guardiamo alle cose secondo l’ordine in cui esse sono, e non secondo l’ordine in cui le conosciamo, potrebbe essere davvero poco consolante la notizia che la nostra conoscenza è intrinsecamente e irrimediabilmente fallace. Insomma, cercare o desumere un orientamento morale a partire dal dato scientifico rimane sempre un’operazione piuttosto rischiosa.

 

Una notizia “passabile” e una buona notizia

«Dio fece gli animali selvatici della terra secondo le loro specie, il bestiame secondo le sue specie e tutti i rettili della terra secondo le loro specie. Dio vide che questo era buono» (Genesi 1:25).

Il grande Libro della natura offre pagine meravigliose, visioni mozzafiato, esperienze profondamente emozionanti. I meccanismi imperfetti e ingegnosi di adattamento e la straordinaria ricchezza di specializzazioni che questi hanno generato sono più che affascinanti: producono stupore e riverenza. Il desiderio di trovare in tutto questo ispirazione per condurre una vita degna dell’humanitas che ci contraddistingue è condivisibile, e anzi condiviso dagli autori ispirati di Genesi 1 e del Salmo 19. Tuttavia, un annuncio di dignità e libertà radicato solo nel Libro della creazione non potrà salire più in alto della sua stessa sorgente: sarà un semi-vangelo, una notizia “passabile”. È solo quando riconduciamo tutto questo all’ingegno e alla potenza dell’Altissimo, quando lasciamo che sia lui a stabilire che tutto questo è “buono”, quando la storia che raccontiamo proviene dal Libro della Scrittura, che la notizia che divulgheremo sarà davvero buona.

Ogni cosa, anche le discipline scientifiche, ha la propria origine in Genesi 1, e la biologia (anche evoluzionistica) non fa eccezione. La buona notizia che annunciamo è che chiunque accetta di scoprirsi creato e redento da Dio troverà in lui la vera vita (non solo biologica).

 

 

[1] https://www.micromega.net/giornata-mondiale-dell-ambiente-intervista-a-telmo-pievani

[2] https://www.raiplay.it/video/2019/05/Quante-storie-3fef7049-1060-45f0-aada-0b7c6b87e0c4.html

Tre domande a Giancarlo Rinaldi sul Concilio di Nicea

In questi giorni (a partire dal 20 maggio) si celebrano i 1700 dal Concilio di Nicea del 325. Abbiamo pensato di porre tre domande sull’argomento al prof. Giancarlo Rinaldi, uno dei massimi esperti di storia del cristianesimo antico nel mondo evangelico ed autore di diversi testi che sono stati pubblicati dalle edizioni GBU. Tra le tante pubblicazioni per l’occasione ricordiamo Cristianesimi nell’antichità, dove si parla anche di questo argomento.

Che importanza ha avuto per il cristianesimo questo Concilio?
L’importanza o, meglio, un aspetto della sua importanza si può evincere già dall’aggettivo ‘ecumenico’ che caratterizza l’evento. Il senso della parola ora è ben diverso da quello che si percepiva allora, agli inizi del secolo quarto. Per noi oggi ‘ecumenico’ è ciò che riguarda, in modo generico, il dialogo tra le confessioni religiose, specialmente quelle di matrice cristiana, finalizzato a una migliore comprensione reciproca o anche a realizzare esperienze liturgiche in comune. Allora, all’epoca del concilio, ecumenico era epiteto che si attagliava all’imperatore romano: non si trattava di un semplice governatore provinciale o di un modesto re, ma del sovrano di quella che si riteneva fosse l’ecumene intera, cioè tutta la terra. Certo, anche i re di Persia ventavano la stessa prerogativa ma i testi che riguardano l’evento che celebriamo sono occidentali, cioè di quell’impero romano che proprio con Costantino si avviava ad essere ‘bizantino’. Il concilio fu ecumenico proprio perché fu Costantino imperatore a convocarlo e non, come era avvenuto precedentemente con i sinodi da vescovi sia pur competenti di vaste aree geografiche. Non voglio entrare nel gran problema relativo alla sincerità della ‘conversione’ di Costantino: quale storico potrebbe sindacare nei meandri dell’anima umana e, per giunta, dopo tanti e tanti secoli? Sta comunque di fatto che Costantino era allora, e sempre rimase, pontifex maximus, cioè capo di tutte le associazioni religiose dell’Impero romano; in tale veste egli aveva a cuore la pace religiosa ed era una realtà di fatto che dopo le due disposizioni imperiali che concedevano legittimazione al culto cristiano (311 Galerio; 313 Costantino e Licinio) nelle chiese non si contarono più i dissidi e le controversie. Spesso i temi teologici facevano da maschera per rivalità personali o regionali. Il nostro concilio fu convocato e celebrato nel 325 per dirimere la controversia sorta a sèguito della predicazione di Ario, un presbitero di Alessandria d’Egitto che riduceva la consistenza divina della persona di Gesù fino a farne, secondo alcuni suoi seguaci, una semplice creatura sia pur la prima e la più alta. Ario fu condannato a Nicea, ma già nei suoi ultimi anni Costantino, che morì nel 337, si pentì delle deliberazioni di quell’assise e avviò una politica di riavvicinamento con Ario. L’uno e l’altro morirono grosso modo nello stesso torno di tempo, ma l’arianesimo salì al trono con il figlio di Costantino che si chiamava Costanzo II. Toccò poi a un altro concilio ecumenico, quello di Costantinopoli del 381, ritornare sul tema e ribadire la dottrina trinitaria.

Gli evangelici di solito mettono in secondo piano la storia del cristianesimo antico? Perché anche per noi invece è importante un evento come questo?
Dobbiamo distinguere tra gli evangelici italiani e tutti gli altri. In Inghilterra, ad esempio, la chiesa anglicana e metodista hanno studiato a fondo la ‘patristica’ e non si contano i contributi a stampa, sovente pregevolissimi, che costoro hanno prodotto. Lo stesso può dirsi anche dei luterani in Germania. In Italia le cose stanno diversamente e i motivi sono diversi. All’epoca della grande evangelizzazione post unitaria un profluvio di sacerdoti cattolici convertiti alla fede evangelica utilizzò le competenze acquisite negli anni di studio in seminario per dimostrare che non soltanto la Bibbia condannava quel sistema teologico e organizzativo dal quale erano fuggiti: la chiesa di Roma. I loro libri sono ora una rarità editoriale ma chi ha la fortuna di possederli e poterli leggere apprezza una erudizione non comune specialmente nel campo della storia dell’esegesi biblica. Passata questa stagione ‘eroica’ la Chiesa Valdese, che aveva una struttura e un organo formativo più rilevante, perse il suo interesse per la patristica o, per meglio dire, se ne avvalsa sobriamente e quanto bastava prevalentemente per finalità apologetiche. La grande stagione della prevalenza (altri direbbero ‘egemonia’) della teologia barthiana nella Facoltà Valdese o nei pulpiti diede il colpo di grazia all’attenzione sugli studi di patristica e, pertanto, di storia della chiesa antica nella sia pur cospicua e ammirevole attività dei valdesi, e ciò a livello formativo come divulgativo, editoriale come multimediale. L’esempio più eloquente, a mio avviso, di questa perdita d’interesse e dei limiti di un ‘monopolio’ di un indirizzo teologico su tutto il resto è costituito dalla vicenda di Fausto Salvoni, un dottissimo sacerdote cattolico che negli anni del dopoguerra pagò un durissimo prezzo di emarginazione per la sua conversione all’evangelo e il suo allontanamento da quella chiesa di Roma nella quale aveva esercitato un cospicuo magistero. Salvoni avrebbe potuto egregiamente arricchire il panorama degli studi evangelici in Italia con la sua competenza e grande capacità di divulgazione a più livelli, ma così non avvenne e, con la Facoltà di via Cossa, anche l’intero evangelismo italiano perse una risorsa: Salvoni lavorò in modo piuttosto isolato a Milano grazie al sostegno di una Chiesa di Cristo del Texas. Peccato!

Il Credo Niceno è definito talvolta come una grande operazione di mediazione culturale? Vogliamo soffermarci su questo aspetto?
Certamente la definizione è esatta. Il pensiero religioso all’epoca non era distinto da quello politico e, anche, filosofico. Era ancora di là da venire la ‘laicizzazione’ che avrebbe separato la sfera della religione da quella della politica e, ancora, la riflessione della fede e sulla fede dalla ratio del cogitare filosofico. La dottrina di Gesù e su Gesù aveva esordito sulle colline della Galilea in un ambiente profondamente giudaico. Ma già la sua prima registrazione scritta, intendo tutti i ventisette libri del Nuovo Testamento, attesta una sua ‘traduzione’ nella lingua greca. E lingua significa anche universo di pensiero. Il grande storico luterano Adolf von Harnack parlava di ellenizzazione del cristianesimo ravvisando in questo fenomeno quasi un’alterazione del genuino e originale messaggio gesuano. Mi permetto di dissentire dalla severità di questo giudizio: la traduzione di qualsiasi messaggio è azione indispensabile in qualsiasi esperienza di comunicazione. Ogni missionario che non riduca il suo ruolo a quello di un colonizzatore sa bene di cosa parlo. Con l’ascesa della cristianità avviata dalla svolta costantiniana si rese irrinunciabile un lavoro di accomodamento del messaggio di Gesù nelle categorie linguistiche e culturali della cultura allora prevalente: la filosofia greca. Questo fu il lavoro degli apologeti del secolo secondo e, successivamente, dei teologi del quarto; l’impresa s’accrebbe e si approfondì durante quest’ultimo secolo che, ricordiamolo, vide nel 380 quell’editto di Tessalonica che imponeva la fede cristiana (così come professata dai vescovi di Roma e di Alessandria) quale religione dell’Impero. Vinta la battaglia politica, bisognava vincere quella culturale. E la teologia sempre più imparò ad avvalersi del lessico filosofico greco: persona, sostanza, ipostasi, trinità e così via furono concetti che attestano questo gigantesco sforzo di mediazione culturale. La chiesa imparò a parlare con la lingua dei filosofi. Che pensare di oggi, quando questa lingua ai nostri giovani suona obsoleta e incomprensibile? Sarebbe necessaria un’altra impresa di mediazione culturale per salvare l’essenza del cristianesimo (e qui ricorro ancora a un’espressione cara ad Harnack) con vesti linguistiche e concettuali più chiare, aggiornate e adeguate. Ce la faremo? La domanda si traduce immediatamente in un oggetto di preghiera, in considerazione della difficoltà del compito.

Agostino di chi?

di Francesco Raspanti

(Bologna, Dottore di Ricerca in Storia Medievale)

 

Nel suo discorso di insediamento il nuovo pontefice, Leone XIV, ha affermato “Sono un figlio di Sant’Agostino, agostiniano, che ha detto con voi sono cristiano e per voi vescovo”, per poi concludere con una supplica alla Madonna di Pompei e un’ave Maria.

Questi i fatti, in questa breve paginetta vorrei attirare l’attenzione del lettore, sicuramente pensieroso e per certi aspetti anche speranzoso su il testo citato da Leone XIV di Agostino. Si tratta del Sermone 340, di cui riporto, in traduzione il passo citato, ma con il contesto:

 

«Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano. Quel nome è segno dell’incarico ricevuto, questo della grazia; quello è occasione di pericolo, questo di salvezza. Infine, quasi trovandoci in alto mare, siamo sballottati dalla tempesta di quell’attività: ma ricordandoci che siamo stati redenti dal sangue di lui, con la serenità di questo pensiero, entriamo nel porto della sicurezza; e, nella grazia che ci è comune, troviamo riposo dall’affaticarci in questo personale ufficio. Pertanto, se mi compiaccio di essere stato riscattato con voi più del fatto di essere a voi preposto, allora, secondo il comando del Signore, sarò più efficacemente vostro servo, per non essere ingrato quanto al prezzo per cui ho meritato di essere servo con voi».

Senza voler troppo gravare si vuole solamente sottolineare come Agostino parli in modo chiaro ed inequivocabile della grazia e di come il suo discorso, tenuto nell’occasione dell’anniversario della sua elezione a vescovo di Ippona oltre 1600 anni fa, non menzioni in alcun modo il culto mariano, ma si ponga come un insegnamento ancora valido per noi oggi.

A fronte di questo breve testo si permetta all’autore di queste due righe che sono più che un pensiero la semplice narrazione e contestualizzazione di fatti. Agostino e la sua opera non sono e non devono essere percepite come esclusivo patrimonio della chiesa cattolica, ma come un lascito che un cristiano di sedici secoli fa ha donato a noi tutti credenti. Non si pensi che le sue parole, anche se citate in un solo breve passo, siano di esclusivo utilizzo per gli agostiniani. Il vescovo di Ippona è prima di tutto un cristiano, a cui preme “La grazia che ci è comune” perché tutti noi siamo stati “redenti dal sangue di Lui”.

E’ morto Samuel Escobar, che vedeva l’evangelismo e l’azione sociale come inseparabili

di Franco Iacomini

 

Articolo tradotto e pubblicato con il permesso di Christianity Today

Il teologo peruviano non aveva paura di discutere con i marxisti o di sfidare la Chiesa.

 

Samuel Escobar, pastore e teologo peruviano la cui passione per la giustizia sociale e l’evangelizzazione ha dato vita a un nuovo campo della missiologia, è morto il 29 aprile a Valencia, in Spagna. Aveva 90 anni.

Nel 1970, Escobar e i suoi colleghi teologi latinoamericani René Padilla, Orlando Costas e Pedro Arana coniarono il termine misión integral per indicare una visione teologica che vedeva l’evangelizzazione e la giustizia sociale come componenti inseparabili della vita cristiana. Essi consideravano questo principio come un modo per applicare la fede evangelica alle ingiustizie che erano davanti ai loro occhi, evidenziando che la cura dei poveri era al centro del messaggio di Gesù.

Al Congresso inaugurale di Losanna del 1974, Escobar ha tenuto un discorso plenario a più di 2.000 leader cristiani provenienti da 150 Paesi, sostenendo che la Chiesa ha la responsabilità di affrontare la povertà e le privazioni che colpiscono i suoi membri più vulnerabili. 

“La via di Cristo è quella del servizio”, ha detto in un discorso che ha citato Matteo 20:27 (“Chi vuole essere il primo deve essere il vostro schiavo”) e Giovanni 20:21 (“Come il Padre ha mandato me, io mando voi”).

Escobar è nato ad Arequipa, una città del Perù meridionale, nel 1934. I suoi genitori divennero protestanti poco prima della sua nascita, nonostante il Paese fosse quasi interamente cattolico. Il padre di Escobar era un ufficiale di polizia e quando lui e la moglie si separarono, il figlio andò a vivere con lei. Escobar ha frequentato una scuola elementare gestita da missionari e in seguito è stato uno dei due soli protestanti tra i 500 studenti della sua scuola superiore pubblica di Arequipa. 

Giovane che “divorava libri e scriveva poesie”, Escobar entrò nella scuola di arti e letteratura dell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos di Lima nel 1951. Nello stesso anno, un missionario dei Sothern Baptist, M. David Oates, battezzò Escobar presso la Iglesia Bautista Ebenezer de Miraflores a Lima. In seguito, dal 1979 al 1984, Escobar ha servito come pastore della chiesa. Nel 1958 sposò Lily Artola, che aveva conosciuto in chiesa. 

Dopo essersi laureato in pedagogia nel 1957, Escobar iniziò a lavorare come segretario itinerante per l’America Latina presso l’International Fellowship of Evangelical Students (IFES). Nell’ambito di questo lavoro, Escobar coinvolse i giovani che erano stati fortemente influenzati dall’ideologia di sinistra, che si era diffusa in America Latina a partire dalla Rivoluzione russa del 1917 e aveva acquisito nuova forza dopo la Rivoluzione cubana del 1959. 

“Il marxismo era un’ideologia potente nei campus e l’estrema povertà, le dittature militari e l’oppressione dei poveri rendevano il suo messaggio rilevante”, ha scritto

Escobar ha visitato spesso le università latinoamericane, tenendo conferenze sull’evangelizzazione e le missioni dando ampio spazio al dibattito. 

“I marxisti venivano non solo per confutarmi, ma anche per sfruttare l’occasione per proclamare il loro messaggio”, ha raccontato. “Gli studenti evangelici erano sorpresi che fosse possibile discutere con i marxisti e presentare il Vangelo come una valida alternativa”. 

Nel 1967, Escobar pubblicò Diálogo Entre Cristo y Marx (Dialogo tra Cristo e Marx), una raccolta di saggi che derivavano da queste conferenze. In occasione di una campagna evangelistica svoltasi nello stesso anno, gli organizzatori dell’evento distribuirono 10.000 copie ai partecipanti.

Nonostante la fame di dialogo, “nell’atmosfera evangelica in cui sono cresciuto in Perù negli anni 1950, un segno distintivo di un evangelico in buona fede era che non credeva o praticava il dialogo”, scriveva Escobar. 

Ciononostante, Escobar “studiò duramente e si preparò per parlare con gli studenti marxisti in un modo che avesse senso per loro, con una preoccupazione che era sia sociale che evangelistica”, ha detto il teologo brasiliano Valdir Steuernagel, che incontrò Escobar mentre era studente in Argentina nel 1972.

“Impegnarsi in un dialogo con gli altri sul percorso che li ha portati a Cristo può essere un primo passo prezioso per capire come possiamo essere d’aiuto – e non d’intralcio – nel cammino di molti altri a cui Cristo vuole arrivare”, ha scritto Escobar nel suo libro Evangelizar Hoy (Evangelizzare oggi). 

Mentre Escobar parlava e dialogava con gli studenti, il suo Paese era nel bel mezzo di un cambiamento significativo. Il Perù stava attraversando un periodo di disordini politici, con due colpi di Stato nel 1962 e nel 1968. 

Il Paese era anche al centro di una significativa migrazione interna. Nel 1950, il 59% di tutti i peruviani viveva sulle montagne delle Ande (oggi la stessa quantità di popolazione vive sulla costa), su terreni in gran parte di proprietà di un piccolo numero di élite. Stanchi della povertà e dell’oppressione, molti contadini cominciarono a trasferirsi nelle città costiere, dove soffrivano nelle baraccopoli, subendo lo sfruttamento a cui avevano cercato di sfuggire. 

Escobar e i suoi colleghi latinoamericani – Padilla, Costas e Arana – hanno sviluppato la misión integral, il loro modo di contestualizzare la fede evangelica di fronte alle ingiustizie che vedevano. (I quattro uomini hanno anche fondato la Fraternidad Teológica Latinoamericana, un’organizzazione che continua a promuovere la teologia latinoamericana contestualizzata). Le nuove convinzioni si rifacevano anche alla teologia della liberazione, che il sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez aveva sviluppato come risposta cattolica alle sofferenze che aveva osservato. 

Nei loro discorsi a Losanna 1974, Padilla ed Escobar hanno presentato alla Chiesa globale la loro convinzione che evangelizzazione e azione sociale dovessero andare di pari passo. In risposta, molti leader di orientamento evangelico conservatore etichettarono la missione integrale come marxista o di sinistra. Harold Lindsell, uno dei fondatori del Fuller Theological Seminary, scrisse per Christianity Today che “Escobar sembrava dire che il socialismo è preferibile al capitalismo e che molti latinoamericani sposano il marxismo per la sua enfasi sulla giustizia”. 

Escobar non ha mai abbracciato il marxismo. Ma la sua decisione di insegnare ai suoi studenti cristiani come combattere le idee marxiste con la Bibbia e la teologia ha dato fastidio anche i suoi colleghi dell’IFES, che non capivano perché fosse aperto al dialogo con questi gruppi. 

Escobar si rese anche conto che la sua passione per le discussioni politiche non aveva successo con tutti e che l’ondata di marxismo tra gli studenti non sarebbe durata per sempre. Durante una conferenza in Messico nel 1973, Escobar ascoltò uno studente che diceva che la sua generazione aveva rifiutato di cambiare il mondo attraverso le formule marxiste e si stava invece rivolgendo agli allucinogeni. “Che cosa ha da dire Cristo su questo?”, chiese. Stupito, Escobar condivise la promessa di Gesù di una vita abbondante e gli spiegò la futilità dell’esperienza religiosa senza la fede in Cristo.

Escobar rimase in sintonia con il suo contesto locale, indipendentemente dalla sua posizione geografica. Si trasferì, in tarda età, in Spagna. Dopo aver osservato il declino della Chiesa cattolica e l’ascesa del postmodernismo, ha approvato quando un predicatore locale ha pubblicato un’edizione illustrata del Libro dell’Ecclesiaste come strumento evangelistico.

“Un cambiamento di metodologia non sarà sufficiente. È necessario un cambiamento di spirito che consiste nel recuperare le priorità della persona stessa di Gesù”, ha scritto nel 1999 in Tiempo de Misión: América Latina y la Misión Cristiana Hoy (Tempo di missione: l’America Latina e la missione cristiana oggi). I titoli di alcune sue opere comunicano la sua convinzione della costante necessità di un cambiamento, come il libro del 1995 Evangelizar Hoy (Evangelizzare oggi), l’articolo del 1982 “Qué Significa Ser Evangélico Hoy” (Cosa significa essere evangelici oggi) o quello del 2016 “Campi di missione in movimento“.

“Nel XX secolo la parola missionario in Perù era riservata ai cristiani britannici o americani dai capelli biondi e dagli occhi azzurri che avevano attraversato il mare per portare il Vangelo nella misteriosa terra degli Inca”, ha scritto nel 2003 in A Time for Mission: The Challenge for Global Christianity. “Oggi c’è un numero crescente di meticci peruviani latinoamericani dagli occhi scuri, dalla pelle scura e di razza mista – inviati come missionari nei vasti altopiani e nelle giungle del Perù, così come in Europa, Africa e Asia”.

Escobar era sempre alla ricerca di “risposte alle realtà politiche, economiche e sociali del suo contesto”, ha detto Ruth Padilla DeBorst, teologa e figlia del caro amico di Escobar, René Padilla. 

Tuttavia, le idee di Escobar sulla misión integral continuano a plasmare l’attuale lavoro del Movimento di Losanna e a suscitare discussioni. 

“Ha dimostrato che la nostra fede non è una fede che si estranea, che si nasconde, che si rifiuta di parlare”, ha detto Steuernagel. “Al contrario, ha sfruttato ogni opportunità per condividere la sua testimonianza. E lo ha fatto con grazia e fermezza, cosa così importante in questi tempi polarizzati e arrabbiati”.

Escobar è stato presidente onorario dell’IFES e presidente dell’American Society of Missiology e ha vissuto in Perù, Argentina, Brasile, Canada, Stati Uniti e Spagna. In Canada è stato direttore generale dell’InterVarsity Christian Fellowship per quel Paese. Negli Stati Uniti ha insegnato al Calvin College dal 1983 al 1985 e all’Eastern Baptist Theological Seminary di Filadelfia come successore del suo vecchio amico Costas dal 1985 al 2005.

Nel 2001, la sezione missioni delle Chiese battiste americane USA chiese a Escobar di aiutare la denominazione locale in Spagna a sviluppare il suo programma di formazione teologica. Nei quattro anni successivi, Escobar si è diviso tra il Seminario Orientale e Valencia, dove viveva sua figlia, anch’essa di nome Lily. 

Nel 2004 a Lily, sua moglie, è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer ed Escobar e sua figlia si sono presi cura di lei fino alla sua morte, avvenuta nel 2015. A Escobar sopravvivono la figlia Lily, il figlio Alejandro e tre nipoti. 

La Primera Iglesia Evangélica Bautista de Valencia, dove Escobar frequentava il culto, ha ospitato il suo servizio funebre venerdì 2 maggio.

I cinquecento anni del movimento anabattista: una storia da ricordare, un’eredità da vivere e condividere

I cinquecento anni del movimento anabattista: una storia da ricordare, un’eredità da vivere e condividere

 

Date storiche come segnaposti

Gli storici hanno spesso usato date specifiche come punti di riferimento per suddividere la storia e comprendere meglio le varie epoche. Si pensi, ad esempio, ad alcune date storiche comunemente usate come segnaposti, dalla cosiddetta “scoperta” (che oggi molti preferiscono chiamare “invasione”) dell’America alla Prima guerra mondiale, dall’inizio della Rivoluzione francese alla caduta del Muro di Berlino. Si tratta di date considerate come momenti di transizione nella storia mondiale, da un prima con alcune caratteristiche a un dopo con altri segni distintivi.

Questi segnaposti sono stati usati anche per la storia del cristianesimo, ad esempio indicando il 31 ottobre 1517 come il giorno nel quale il frate agostiniano Martin Lutero avrebbe affisso un elenco di 95 tesi sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg, segnando con questo atto l’inizio della Riforma protestante.

Ogni importante evento storico, per essere riconosciuto come tale nei manuali di storia e rimanere impresso nell’immaginario collettivo, necessita di un gesto fondativo e, per la Riforma, fu scelta l’affissione delle 95 tesi (Thesenanschlag), anche se esistevano altri eventi e momenti che venivano considerati di pari se non di maggiore importanza. Oggi, la maggioranza degli studiosi di Lutero riconosce che l’affissione delle 95 tesi costituisce un esempio di “evento immaginario”, che rientra nella categoria dei “luoghi della memoria” (proposta dallo storico francese Pierre Nora), perché contiene un individuo, un’azione, un documento, un luogo e una data che, insieme, formano un elemento simbolico della memoria di una collettività.

Nonostante il fatto che sia passato ormai oltre mezzo secolo da quando è stata messa in dubbio la storicità dell’evento associato a quella data, l’immagine dell’affissione delle 95 tesi con Lutero col martello in mano viene riproposta ancora oggi come se si trattasse di un evento storico ed è stata riproposta durante le celebrazioni del V centenario dell’inizio della Riforma nel 2017.

Queste celebrazioni, sostenute in Germania e in altri paesi da ingenti investimenti finanziari, si sono svolte in un clima trionfalistico con un profluvio di festeggiamenti e cerimonie ufficiali. Lo spirito ecumenico che ha pervaso queste celebrazioni è stato suggellato l’emissione, da parte delle Poste Vaticane, di un francobollo commemorativo che ritrae Lutero e Filippo Melantone.

In continuità con le celebrazioni dei centenari precedenti, anche in quelle del 2017 si è registrata la quasi totale assenza di riferimenti alla cosiddetta Riforma radicale.

 

I 500 anni dell’anabattismo

Cinquecento anni fa, a Zurigo, il 21 gennaio 1525 ebbe luogo l’evento che segnò l’inizio dell’anabattismo, del principale movimento della Riforma radicale.

Nei mesi precedenti, i membri di un piccolo gruppo di preghiera e di lettura della Bibbia, di cui facevano parte Konrad Grebel, Felix Mantz e Jörg Blaurock, studiando il Nuovo Testamento erano giunti alla conclusione che il battesimo era il simbolo di una decisione cosciente di sottomettersi alla signoria di Cristo e seguire il suo esempio, un impegno che poteva essere preso soltanto da un adulto; pertanto, il battesimo non poteva riguardare i neonati.

Il 17 gennaio 1525, Grebel e Mantz furono convocati davanti al Consiglio di Zurigo per una disputa pubblica sul tema del battesimo (Blaurock assistette tra il pubblico). La tesi dei dissidenti fu condannata e ogni ulteriore critica al battesimo dei bambini fu bandita. Quattro giorni dopo, le minacce di punizione furono nuovamente rafforzate.

La sera del 21 gennaio 1525, il gruppo si riunì lo stesso per pregare nella casa di Mantz. In un rapporto di quell’incontro, si legge: “Dopo la preghiera, Jörg […] si alzò e chiese a Grebel di battezzarlo con il vero, giusto, battesimo cristiano sulla base della sua fede e conoscenza. […] Konrad lo battezzò, perché in quel momento non c’era un servitore ordinato per compiere tale lavoro. Quando ciò fu fatto, anche gli altri si rivolsero a Jörg con la richiesta che li battezzasse, il che fu fatto. E così, nel grande timore di Dio, si sono uniti nel nome del Signore, confermando l’uno all’altro il ministero del Vangelo e cominciando a insegnare e a mantenere la fede”.

Si trattava di un gesto che metteva in discussione la pratica millenaria di battezzare gli infanti e l’insegnamento dell’istituzione religiosa riconosciuta dallo stato, quindi un atto radicale e sovversivo.

Poco tempo dopo, Grebel, Mantz, Blaurock e altri battezzati fuggirono da Zurigo, ma il battesimo degli adulti si diffuse rapidamente nei villaggi dell’area di Zurigo e anche in altri luoghi.

 

La persecuzione

Nel giro di pochi anni, alcune migliaia di “ribatezzatori” (così vennero chiamati gli anabattisti, che tra loro si chiamavano semplicemente “fratelli”) furono imprigionati, torturati o costretti all’esilio. La maggioranza dei leader subì il martirio: Grebel morì di peste nel 1526 mentre fuggiva; Mantz fu arrestato a Zurigo, condannato a morte e annegato nel 1527; Blaurock si dedicò alla predicazione del Vangelo fino al Tirolo, dove fu arrestato e bruciato nel 1529.

Per capire perché gli anabattisti furono così brutalmente perseguitati e demonizzati dalle autorità politiche e religiose, sia protestanti sia cattoliche, bisogna ricordare che il cristianesimo era stato per secoli una istituzione religiosa violenta e coercitiva, al servizio del potere politico. La richiesta da parte degli anabattisti di libertà in materia di fede, unita ad una vita coerente con il Discorso della Montagna, era visto come una ribellione contro i fondamenti della società “cristiana”.

L’Editto della Dieta imperiale di Spira (23 aprile 1529) decretò che “ogni anabattista e ogni persona ribattezzata di ambo i sessi sia messa a morte con il fuoco, la spada o in qualche altro modo”.

La Confessio Augustana del 1530 sancì la definitiva condanna luterana degli anabattisti: Damnant Anabaptistas viene ripetuta in cinque (5, 9, 12. 16, 17) dei suoi ventotto articoli.

La condanna dell’anabattismo da parte della Riforma magisteriale, motivata anche dalle posizioni di anabattisti apocalittici come Melchior Hoffmann e dal tentativo di instaurare a Münster, in Vestfalia, il “regno dei santi” nel 1534, fu confermata dalla Confessio belgica (1561) delle chiese riformate: “Dio […] ha posto la spada nelle mani del magistrato […] per togliere e reprimere ogni idolatria e ogni falso servizio di Dio […]. Detestiamo quindi tutti gli anabattisti e gli altri ribelli e, in generale, tutti coloro che vogliono rifiutare le autorità e i magistrati e sovvertire la giustizia” (art. 36).

 

Un inizio da ricordare e commemorare, un’eredità da vivere e condividere

L’atto compiuto il 21 gennaio 1525 viene usato per designare l’inizio di quello che sarebbe diventato il movimento dei “ribatezzatori” o anabattisti, un movimento che oggi è formato da oltre due milioni di fedeli in più di ottanta paesi del mondo. Le chiese le cui radici risalgono ai motivi che ispirarono questo movimento e quelle che oggi li condividono fanno parte della Mennonite World Conference (MWC), creata nel 1925. Oggi, la chiesa mennonita più numerosa è la Meserete Kristos Church (che significa “Cristo è il fondamento della chiesa”) dell’Etiopia, con 1.160 chiese e 370,909 membri battezzati.

Come commemorare, cioè fare memoria insieme della storia dell’anabattismo? Innanzi tutto, come hanno indicato chiaramente le chiese della MWC, ricordando che diventare ed essere cristiani è una scelta di libertà, che essere seguaci di Gesù significa superare la violenza e la disuguaglianza sociale, evitando celebrazioni fastose.

Anche in Italia, le chiese che si riconoscono nell’eredità spirituale dell’anabattismo, o in alcuni aspetti, pur senza far parte della MWC hanno deciso di partecipare alla commemorazione dei 500 anni del movimento con varie iniziative che si svolgeranno in diverse città.

Massimo Rubboli

Jimmy Carter, 1924-2024

di Massimo Rubboli

Su Jimmy Carter si veda anche: L’evangelicalismo di Jimmy Carter, di Daniel K. Williams

A 100 anni, dopo una lunga malattia, il 29 dicembre 2024 si è spento Jimmy Carter, 39° presidente degli Stati Uniti, che aveva scelto di non prolungare le cure mediche in ospedale e di ricevere soltanto cure palliative nella propria casa di Plains, in Georgia, dove aveva vissuto con la moglie Rosalynn dal giorno del loro matrimonio il 7 luglio 1946.

Nelle elezioni presidenziali del 1976, che si svolsero in un paese ancora segnato dalle dimissioni di Nixon in seguito allo scandalo Watergate, Carter sconfisse il candidato repubblicano Gerald Ford ma fu presidente per un unico mandato, perché nelle elezioni del 1980 fu sconfitto da Ronald Reagan, sull’onda della crisi legata all’invasione sovietica dell’Afghanistan nel dicembre 1979 e al sequestro, un mese prima, dei dipendenti dell’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran (dopo quasi sei mesi dall’occupazione dell’ambasciata, Carter aveva autorizzato un’operazione delle forze speciali per liberare gli ostaggi che fallì clamorosamente). La vittoria di Reagan, favorita anche dal sostegno della Nuova Destra Religiosa, dipese dal desiderio di una parte dell’elettorato di ridare forza al primato politico, economico e militare degli Stati Uniti, che Carter non aveva sostenuto con la risolutezza mostrata dal candidato repubblicano, e la sua ricerca di soluzioni pacifiche, come nel caso dei Trattati del Canale di Panama del 1977, era stata considerata responsabile di un indebolimento dell’immagine degli Stati Uniti nel mondo.

Dopo la fine della sua presidenza, fondò insieme alla moglie il Carter Center, con sede ad Atlanta, che si è occupato della difesa dei diritti umani, dell’osservazione elettorale neutrale in paesi di “democrazia recente” e dell’aiuto umanitario e medico-sanitario nelle zone colpite da calamità naturali.

Nel 2002, fu insignito del Premio Nobel per la pace con questa motivazione: “per i decenni di sforzi instancabili per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti internazionali, per far progredire la democrazia e i diritti umani e per promuovere lo sviluppo economico e sociale”. Si trattò di un riconoscimento della sua politica estera e, in particolare, della mediazione che aveva portato alla firma, a Washington, il 26 marzo 1979, del Trattato di pace israelo-egiziano, che pose fine al lungo conflitto tra i due paesi.

 

Un “born-again Christian”?

Carter non nascose mai che il suo impegno politico fosse motivato dalla volontà di mettersi al servizio della società civile e che questo spirito di servizio fosse fondato sulla sua fede evangelica[1], che lo portava a volere servire gli altri stando tra di loro e non al di sopra di loro. Carter volle dare un segno di questa sua volontà di servizio fin dal 20 gennaio 1977, giorno del suo insediamento, quando – insieme alla moglie Rosalynn – percorse a piedi Pennsylvania Avenue fino alla Casa Bianca.

Il 23 marzo 1976, durante le primarie del Partito democratico in North Carolina, rispondendo alla domanda di un giornalista, Carter affermò di essere un “born again Christian”, cioè un cristiano nato di nuovo. Il giorno dopo, nei programmi televisivi e sulla stampa degli Stati Uniti alcuni giornalisti sostennero che il candidato della Georgia apparteneva alla setta religiosa dei “nati di nuovo”, notizia che fu ripresa anche dalla stampa italiana! In realtà, Carter aveva soltanto fatto riferimento al cap. 3 del Vangelo di Giovanni, nel quale Gesù, a Nicodemo che gli domandava cosa dovesse fare per entrare nel regno dei cieli, rispondeva che sarebbe dovuto “nascere di nuovo”. Si tratta di una metafora ben nota agli evangelici, per i quali significa che la salvezza richiede la conversione; quindi, non suscitò nessuna sorpresa a chi aveva dimestichezza con immagini bibliche, ma sorprese e trasse in inganno chi non lo conosceva.

 

Una fede vissuta

Per quanto riguarda la sua appartenenza denominazionale, Carter fu sempre membro attivo di una chiesa battista[2]. Una delle caratteristiche del battismo è la separazione tra stato e chiesa e Carter si attenne sempre a questo principio e non esibì mai la sua fede personale a scopi politici.

Nella retorica politica americana – in particolare nei discorsi dei candidati alla presidenza – è molto comune l’uso di riferimenti biblici, perché il linguaggio biblico risulta familiare a milioni di elettori che – almeno da giovani – hanno frequentato una chiesa nella quale hanno ricevuto un insegnamento biblico. Carter, invece, fece sempre un uso molto discreto della sua fede nei discorsi pubblici (più di Lincoln, Franklin Roosevelt, Eisenhower e Reagan), ma ne dimostrò l’autenticità – prima, durante e dopo la sua presidenza – con l’impegno personale sia come diacono e insegnante della scuola biblica domenicale nella chiesa battista di Plains sia come volontario dell’associazione Habitat for Humanity, con la quale lavorò dal 1984, insieme alla moglie, come carpentiere nella costruzione di case per famiglie indigenti.

Nel 2006, lui e la moglie lasciarono la Southern Baptist Convention, che aveva modificato la propria base di fede escludendo le donne dal pastorato, e aderirono alla Cooperative Baptist Fellowship[3].  Nel gennaio del 2007, Carter è stato tra i promotori del “Nuovo patto battista”, un’alleanza creata per riunire le varie anime del battismo e rappresentare “una voce battista autentica e profetica per questi tempi difficili, […] accogliere gli stranieri tra noi e sostenere la libertà religiosa e il rispetto per la diversità religiosa”.

L’eredità politica di Carter fu in parte raccolta da Obama. Oggi, è difficile dire se emergerà qualcuna/o in grado di recuperare l’impegno di Carter e Obama per la pace, la giustizia sociale e i diritti umani.

 

Massimo Rubboli ha insegnato Storia dell’America del Nord e Storia del Cristianesimo presso l’Università di Genova, ha pubblicato diversi libri e articoli che illustrano la vicenda storica del cristianesimo e in particolare di alcune aree geografiche nonché di alcune chiese.
Per le Edizioni GBU ha pubblicato diversi volumi tra cui: La guerra santa di Putin e Kirill. Il fattore religioso nel conflitto russo-ucraino (2022), e il volume fresco di stampa: I cristiani, la violenza e le armi. Percorsi storici e revisioni storiografiche (2024)

 

[1] Sul rapporto tra la sua fede evangelica e la sua presidenza, vedi Richard Hutcheson, God in the White House: How Religion Has Changed the Modern Presidency, New York 1988, pp. 114-51; Richard V. Pierard e Robert D. Linder, Civil Religion and the Presidency, Grand Rapids, MI 1988, pp. 231-56; Gary Scott Smith, Faith and the Presidency, Oxford – New York 2006, pp. 293-324.

[2] Il Battismo è la più numerosa famiglia protestante degli Stati Uniti, che conta oltre 30 milioni di membri suddivisi in una miriade di associations, conferences e conventions. Sono battisti l’ex presidente Bill Clinton l’ex vice-presidente Al Gore; lo era anche il presidente Harry Truman.

[3] Jimmy Carter, “Lascio la mia denominazione per l’uguaglianza tra uomo e donna”, in Massimo Rubboli, I battisti. Un profilo storico-teologico dalle origini a oggi, Torino 2011, pp. 190-4.

Perché le storie della nascita di Gesù sono differenti?

di Peter J. Williams
(Warden di Tyndale House, Cambridge)
Articolo pubblicato originariamente in inglese e riprodotto qui con autorizzazione.

Peter J. Williams sarà il relatore al 20° Convegno Studi GBU, nel 2027.

Con l’avvicinarsi del Natale, i cristiani di tutto il mondo trascorreranno un po’ di tempo leggendo e riflettendo sulle narrazioni della nascita di Gesù nei vangeli di Matteo e Luca. Gli eventi di Betlemme sono forse i più noti tra tutti i racconti biblici; tuttavia, quanta attenzione prestiamo al fatto che le narrazioni sono distribuite in due diversi resoconti?

È facile che queste due prospettive si fondano nella nostra mente nell’unica storia che conosciamo così bene. In parte questo è dovuto al fatto che entrambe hanno molti elementi in comune. Sia Matteo che Luca parlano del luogo dove è nato Gesù, del fatto che sua madre era una vergine di nome Maria e che era promessa sposa a un uomo di nome Giuseppe. Entrambe le versioni concordano sul fatto che Giuseppe discendeva dal re Davide, che il nome di Gesù fu dato da un angelo, che la sua nascita fu un adempimento della profezia e che avvenne durante il regno di Erode. Dopo la sua nascita, Matteo e Luca riportano entrambi che Maria e Giuseppe ricevettero visitatori desiderosi di vedere Gesù (magi in Matteo, pastori in Luca).

Sebbene vi sia coerenza su questi punti centrali, tuttavia, vi sono anche molte differenze tra le due narrazioni. Ciò significa che gli studiosi hanno spesso mostrato scetticismo sulla storicità dei racconti. Ciò significa anche che si tende a considerare i racconti di Matteo e Luca come composti e scritti in modo indipendente, senza conoscenza l’uno dell’altro.

Secondo l’opinione prevalente degli studiosi, Marco scrisse per primo, senza narrazione della nascita, e Matteo e Luca scrissero successivamente, utilizzando Marco, ma aggiungendo le rispettive narrazioni della nascita. Per gli studiosi scettici questo crea una situazione difficile. Se Matteo e Luca sono stati scritti in modo indipendente, allora è difficile spiegare la somiglianza dei loro racconti sulla nascita, a meno che non si basino su fatti concreti. Coloro che sostengono che un racconto ha preso in prestito dall’altro e che le incongruenze significano che non ci si può fidare di questi resoconti storici accurati, stanno in effetti insistendo sul fatto che Matteo o Luca hanno preso in prestito dall’altro, e allo stesso tempo hanno scritto in modo incompatibile con la narrazione da cui hanno preso in prestito.

Nonostante ciò sia altamente improbabile, le controversie intorno ai racconti della nascita sono rimaste. Il dibattito tende a concentrarsi su due questioni principali delle differenze tra Matteo e Luca, che esamineremo in dettaglio. Che cosa mostra l’evidenza e come i cristiani dovrebbero affrontare il problema?

Obiezioni per omissione

Una modo di cogliere le contraddizioni tra le narrazioni di Matteo e Luca è rilevare ciò che viene omesso. Matteo parla dei magi, che non sono presenti in Luca, ma Luca include i pastori, che sono assenti in Matteo. Matteo non dice nemmeno che Maria e Giuseppe erano a Nazaret prima di essere a Betlemme. Ancora più significativo è il fatto che Luca non riporti la strage degli innocenti a Betlemme né la fuga in Egitto. Se queste cose sono vere, perché l’altra narrazione le omette?

Le omissioni sono considerate problemi più grandi di quelli che sono in realtà. A conclusione del suo Vangelo, Giovanni osserva: “Ora vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha fatte; se si scrivessero a una a una, penso che il mondo stesso non potrebbe contenere i libri che se ne scriverebbero”. Come afferma qualsiasi biografo, non è possibile registrare ogni dettaglio della vita di una persona. Inevitabilmente, si devono prendere decisioni redazionali su cosa includere e cosa tralasciare, e il compito del biografo è quello di identificare ciò che è più importante per il suo scopo e il suo pubblico.

Per sostenere che la mancata inclusione di episodi come la fuga in Egitto, i magi o i pastori mettano in dubbio l’attendibilità storica dei Vangeli lo scettico deve dimostrare sia che è del tutto irragionevole che gli scrittori non fossero a conoscenza di certi aspetti della storia sia che, se li conoscevano, bisogna dimostrare la loro omissione non era una scelta redazionale legittima.

Ogni documento storico è scritto per un pubblico e per uno scopo. Luca, ad esempio, li riporta entrambi nell’introduzione al suo Vangelo: “è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall’origine, di scrivertene per ordine, illustre Teofilo, perché tu riconosca la certezza delle cose che ti sono state insegnate.” (Lc 1:3-4). Non ci sono particolari motivi per credere che l’omissione della visita dei magi da parte di Luca sia dovuta al fatto che fosse uno storico inaffidabile, piuttosto che non ritenesse tali dettagli altrettanto utili e/o interessanti per Teofilo rispetto a quelli che ha scelto di includere o che, per validi motivi ormai andati perduti, non fosse a conoscenza dell’evento. L’argomentazione a favore dello scetticismo basato sulle omissioni si basa sul fatto che i commentatori moderni sono in grado di valutare con una certa sicurezza (a) quali informazioni sarebbero state disponibili per ogni scrittore dei Vangeli e (b) quali informazioni sarebbe del tutto irragionevole lasciare fuori da un resoconto destinato a un particolare pubblico.

In definitiva, per un lettore moderno non c’è modo di sapere perché Luca non menzioni la visita dei magi, la fuga in Egitto o il massacro dei bambini a Betlemme, di cui si legge in Matteo 2:13-18. Tuttavia, ci sono una serie di fattori che danno peso alla tesi secondo cui l’omissione di questi eventi è stata una decisione redazionale perfettamente plausibile.

Innanzitutto, è importante notare che il viaggio verso l’Egitto non doveva essere lungo. La cosa fondamentale era uscire dalla giurisdizione di Erode. Per fare questo avrebbero potuto andare a Pelusio, lontano 200 miglia o semplicemente a Ostracine, che era più vicina di 65 miglia. La descrizione di Luca del ritorno di Maria e Giuseppe a Nazaret, dopo la nascita di Gesù in 2:39 recita: “Come ebbero adempiuto tutte le prescrizioni della legge del Signore, tornarono in Galilea, a Nazaret, loro città”. Se da un lato non menziona gli eventi di Matteo 2:13-18 dall’altro lato non contraddice questi versetti.

E se considerassimo una versione, ipoteticamente riscritta, come segue? “E quando ebbero terminato ogni cosa secondo la legge del Signore, scesero in Egitto e poi tornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret”. Automaticamente la nostra attenzione si concentrerebbe sul perché sono andati in Egitto. In effetti, Luca avrebbe dovuto riorientare la sua narrazione in maniera determinante anche per dare un senso a questo viaggio aggiuntivo. In altre parole, l’obiezione all’omissione dell’Egitto da parte di Luca è in realtà un’insistenza sul fatto che non può esistere una chiara selettività autoriale, e che Luca deve citare tutto ciò che è significativo per Matteo. È un approccio che si scontra, in primo luogo, con l’idea che si possano avere più resoconti.

Genealogie diverse

Un secondo punto di tensione si trova nelle differenze tra le genealogie di Matteo e Luca su Gesù. La genealogia di Matteo va da Abramo fino a Gesù in tre gruppi di 14 generazioni. La genealogia di Luca va da Gesù fino ad Adamo, anzi a Dio prima di lui.

Mentre le due genealogie sono simili tra Abramo e Davide, divergono drasticamente tra Davide e l’esilio, passando per Shealtiel e Zorobabele, prima di divergere nuovamente e incontrarsi solo con il padre legale di Gesù, Giuseppe. Di conseguenza, Giuseppe viene presentato come se avesse due padri diversi: Giacobbe in Matteo ed Eli in Luca. Spesso si cerca di armonizzare queste due genealogie dicendo che una di esse è in realtà la genealogia di Maria, anche se nel testo non c’è nulla che lo dimostri.

Le diverse genealogie confondono i lettori moderni, la maggior parte dei quali ha una certa percezione di ciò che si aspetta da una genealogia. La nostra cultura ama l’idea di tracciare la nostra linea di famiglia. Ci sono programmi televisivi dedicati alla ricerca dei propri avi, siti web per compilare il proprio albero genealogico e in pochi clic è possibile farsi recapitare a casa un kit di test genetici. Per noi le genealogie registrano in modo fedele e accurato la nostra discendenza, passo dopo passo, lungo le generazioni, senza tralasciarne nessuna.

Ma se non fosse questo il significato di genealogia nel mondo antico? E se le genealogie fossero utilizzate in modo diverso, per presentare informazioni diverse? Per valutare la storicità delle genealogie evangeliche dobbiamo riconoscere che le nostre nozioni moderne potrebbero non essere trasferibili al mondo antico.

Le due genealogie evangeliche mettono in evidenza punti diversi. Matteo traccia un percorso da Abramo attraverso la linea reale fino a Gesù, e cita in modo sorprendente quattro donne che non erano israelite (Tamar, Raab, Rut) o almeno avevano legami con stranieri (la moglie di Uria). Tra l’altro, questo ci prepara alla fine del libro, che mostra che il angelo è per tutte le nazioni.

La genealogia di Luca collega Gesù con il primo uomo e ci aiuta a pensare ai contrasti tra Gesù e Adamo (e tutti gli altri esseri umani in generale). È un perfetto preludio alla narrazione della tentazione in Luca 4:1-13, in cui Gesù rifiuta il cibo nell’arido deserto in contrasto con Adamo che prese il frutto proibito in un giardino pieno di altri frutti.

Per quanto riguarda le diverse testimonianze sul padre di Giuseppe, non è difficile, né oggi né allora, immaginare che qualcuno possa avere un padre legale diverso da quello biologico, soprattutto se il padre biologico di Giuseppe lo ha ripudiato per la vergogna della gravidanza irregolare di Maria. Ma ci sono altre cose interessanti da notare sulle genealogie. In primo luogo, sebbene le due genealogie indichino nonni diversi per Gesù, il nome del suo bisnonno è quasi identico in entrambe le genealogie: Mattan in Matteo e Mattat in Luca. L’unica differenza sta nella consonante finale, che è facilmente spiegabile: questi nomi riflettono due parole ebraiche – mattan e mattat – che significano entrambe “dono”.

In secondo luogo, prendendo spunto da questo nome, vediamo che alcuni nomi della genealogia di Luca condividono un’unica radice. Il nome Mattat e altri cinque nomi nella genealogia dopo Davide derivano dalla radice ebraica triconsonantica NTN, che significa “dare”. Sono Mattatia (3:25), Mattatia (3:26), Mattat (3:29), Mattata (3:31) e Natan (3:31). Ciò ha senso perché si tratta della genealogia che passa attraverso il figlio di Davide, Natan. La radice di “dare” è stata utilizzata per formare alcuni dei nomi più popolari dei discendenti di Natan. Come accade spesso nelle famiglie, i nomi si ripetono. Ci sono tre Giuseppe, due Levi, due Melchi e il nome Er (3,28), che è attestato solo per la tribù di Giuda (cfr. Gen 38:3). Si tratta di caratteristiche che potremmo aspettarci in una vera narrazione. Possiamo anche notare che la genealogia non commette errori nell’avere uno dei nomi greci popolari, come Filippo o Erode, per il periodo precedente ad Alessandro Magno.

In terzo luogo, sia in Matteo sia in Marco ci vengono detti i nomi dei fratelli di Gesù: Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda (Mt 13:55) o Giacomo, Giosia, Giuda e Simone (Mc 6:3). Si differenziano solo per l’ordine dei due nomi finali e per l’adattamento del nome ebraico Giuseppe a una desinenza greca nella forma Joses in Marco. Tuttavia, questi nomi si collegano anche alla genealogia di Matteo. I ragazzi venivano spesso chiamati con il nome dei nonni (pratica nota come papponimia) e talvolta con quello del padre (patronimia). Se il nome di Gesù è stato effettivamente dato dall’angelo come indicato in Matteo 1:21, allora né il nome del padre né quello del nonno erano un’opzione. Tuttavia, vediamo entrambi i nomi utilizzati in famiglia. Per Giacomo si intende solitamente il primo figlio nato da Giuseppe e Maria dopo la nascita di Gesù. Per questo motivo fu chiamato Giacomo, o rigorosamente Iakobos, cioè il nome del nonno Giacobbe con la desinenza greca -os. Iakobos si è evoluto in italiano come Giacomo attraverso secoli di cambiamenti di suono. Il figlio successivo a Iakobos prese il nome del padre Giuseppe.

Così possiamo vedere nei nomi dei fratelli di Gesù una piccola coincidenza che supporta la genealogia di Matteo.

Quattro prospettive arricchenti

Per tutte le discussioni accademiche intorno alle due narrazioni della nascita rimane il fatto che esse concordano sui punti principali e non sono in disaccordo su nulla. Sebbene vi siano indubbiamente differenze di enfasi, i resoconti non si contraddicono direttamente. In effetti, sia gli accordi evidenti sia quelli meno evidenti tra questi resoconti sono proprio quelli che ci aspetteremmo se si basassero su una buona testimonianza.

Forse questo è uno dei motivi per cui la storia del Natale è creduta da milioni di cristiani in tutto il mondo ed è stata ampiamente creduta dalla Chiesa per millenni. Avere quattro racconti biblici della vita di Gesù, tra cui due della sua nascita arricchisce incredibilmente la nostra comprensione di ciò che è accaduto e del suo significato. Le persone notano elementi diversi di una scena e la raccontano a modo loro. Se non si omettesse nulla, i Vangeli sarebbero più poveri. Comunque i diversi resoconti sarebbero sempre diversi: se gli eventi registrati fossero identici, non avrebbe molto senso averne più di uno.

Senza Umanesimo niente Riforma

di Alister E. McGrath

Il termine “Umanesimo” è facilmente soggetto a fraintendimenti. Nel ventunesimo secolo questa parola è spesso utilizzata per indicare una sorta di “ateismo” o di “secolarismo” e per definire una concezione del mondo che esclude (o almeno evita di farvi riferimento) la fede nel soprannaturale. In età rinascimentale il termine presentava delle connotazioni decisamente diverse. Il Rinascimento fu un importante periodo di rigenerazione culturale che ebbe inizio in Italia nel quattordicesimo secolo e gradualmente si diffuse in gran parte d’Europa, raggiungendo l’apice della sua influenza nei primi anni del XVI secolo. La sua tesi centrale era che la cultura del tempo poteva essere rinnovata grazie a un confronto creativo con l’eredità culturale del passato, soprattutto con l’eredità dell’antica Grecia e di Roma.

L’Umanesimo può essere visto come la filosofia che sta dietro il Rinascimento. La cosa migliore è intenderlo come il perseguimento di un’eloquenza e di un’eccellenza culturale che affonda le sue radici nella convinzione che i modelli più alti si trovino nelle civiltà classiche di Roma e di Atene. Il suo metodo di fondo può essere sintetizzato nello slogan latino ad fontes, parafrasabile con «ritorno alle fonti»! Un fiume è nel suo stato di maggior purezza alla sua fonte. L’Umanesimo promuoveva il superamento del «Medioevo» (espressione che, non per nulla, è una creazione umanistica, volta a minimizzare questo disprezzato intermezzo storico fra le glorie del
mondo antico e il loro rinnovamento nel Rinascimento) così da poter consentire al presente di essere rinnovato e rinvigorito, attingendo in profondità alla sorgente dell’antichità. Gli effetti di questo programma sono osservabili su una sorprendente molteplicità di piani. Gli stili architettonici classici vennero a essere preferiti all’imperversante gotico. L’elegante stile di Cicerone rimpiazzò la forma piuttosto ridondante e imbarbarita di latino utilizzata dagli scrittori scolastici. Nelle università si metteva una grande passione nello studio del diritto romano e della filosofia greca. In tutti i casi si può vedere in azione lo stesso principio di base: ora che la cultura occidentale era diventata stanca, spenta e priva di direzione, la sua sorgente aveva la capacità di conferirle nuova vita e nuovo vigore.

La maggior parte degli umanisti dell’epoca, come il grande Erasmo da Rotterdam, erano cristiani interessati al rinnovamento e alla riforma della chiesa. Perché allora non applicare lo stesso metodo di rigenerazione al cristianesimo? Perché non tornare ad fontes, alle fonti originali della fede, e non consentire loro di conferire nuovo vigore a una chiesa che ormai si era bruciata e aveva perso credibilità? Era possibile riconquistare la vitalità e la semplicità dell’età apostolica? Nel quindicesimo e agli inizi del sedicesimo secolo questa era una visione potente, motivante, capace di catturare l’immaginazione di tanti laici.

Come fare, però? Qual era il corrispettivo religioso della cultura del mondo classico? Qual era la sorgente del cristianesimo? Gli umanisti cristiani avevano pochi dubbi: la Bibbia, soprattutto il Nuovo Testamento. Era questa la fonte ultima della fede. Gli scritti dei teologi medievali si potevano mettere da parte senza nessun problema, in modo da consentire un confronto diretto con le idee del Nuovo Testamento. Le interpretazioni ecclesiasticamente rassicuranti e familiari della Bibbia, riscontrabili nella teologia scolastica, dovevano essere accantonate in favore di una lettura diretta del testo. Per gli ecclesiastici conservatori si trattava di un passaggio pericoloso e minaccioso che aveva il potenziale di destabilizzare l’equilibrio teologico, frutto di delicati compromessi, raggiunti nel corso di tanti secoli. L’istanza umanistica di tornare alla Bibbia risultò un appello decisamente più radicale di quanto tanti alti prelati non fossero disposti a digerire.

Gli umanisti erano per lo più studiosi, uomini di lettere che sottolineavano che questo ritorno sistematico alla Bibbia dovesse realizzarsi sulla base del meglio che l’erudizione accademica potesse offrire. L’effettivo messaggio della Bibbia, che andava letta nelle sue lingue originali, doveva essere stabilito sulla base della più affidabile metodologia testuale. Immediatamente l’autorità della traduzione latina della Vulgata si trovò a essere minacciata. Quando gli studiosi umanistici si posero a esaminare nei particolari la storia del testo, incominciarono a emergere problemi. Domande difficili pressavano con forza crescente sulla sua integrità testuale e sulla sua attendibilità filologica. Quando la Vulgata fu spassionatamente comparata con i migliori manoscritti greci, si iniziarono a notare degli errori. Furono identificate delle varianti testuali. Nel 1516 Erasmo stesso licenziò un’edizione del testo greco del Nuovo Testamento che provocò una specie di ciclone. Pur contenendo molti errori, produsse un cambiamento epocale di mentalità, mettendo in dubbio in diversi punti il vigente testo biblico della Vulgata. Per mettere la cosa nei termini più crudi possibili: se Erasmo aveva ragione, c’era il caso che alcune enunciazioni, accettate come “bibliche” dalle precedenti generazioni, non facessero neppure parte del testo originale del Nuovo Testamento. Che implicazioni aveva questo, si chiesero allora in molti, per quelle dottrine della chiesa che
erano basate su tali enunciazioni?

Uno dei testi spesso utilizzati dai teologi medievali per difendere la dottrina della trinità è di particolare interesse: «Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza nel cielo: il Padre, la Parola e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno. Tre ancora sono quelli che rendono testimonianza sulla terra: lo Spirito, l’acqua e il sangue; e questi tre sono d’accordo come uno» (1 Gv 5:7–8, ND).

Erasmo sottolineò che le parole «il Padre, la Parola e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno. Tre ancora sono quelli che rendono testimonianza sulla terra» non si trovano in nessun manoscritto greco. Furono aggiunte successivamente alla Vulgata latina, probabilmente dopo l’800, pur non essendo note in nessuna antica versione greca. La spiegazione più verosimile è che queste parole siano state inizialmente aggiunte come “glossa” (un breve commento posto accanto o sotto il testo) e che un successivo scriba abbia presunto che facessero parte del testo stesso e ve le abbia quindi incluse nei successivi testi latini, senza sapere che non facevano parte del testo greco originale del Nuovo Testamento32. Se un tale brano doveva essere dichiarato «non biblico» questa, la più difficile delle dottrine cristiane, sarebbe potuta diventare pericolosamente vulnerabile.

L’esigenza di una lettura della Bibbia nelle sue lingue originali incontrò un ampio consenso in tutta l’Europa occidentale. Chi voleva promuovere gli ideali del Rinascimento aspirava a essere trium linguarum gnarus, vale a dire competente in greco, ebraico e latino. Tutto ciò portò alla fondazione di collegi per lo studio delle tre lingue o in alcuni casi di una cattedra per ciascuna delle lingue come avvenne, per esempio, nelle università di Alcalá in Spagna (1499), Wittenberg in Germania (1502), Oxford in Inghilterra (il Corpus Christi College, 1517), Lovanio nell’odierno Belgio (1517) e presso il Collège royal de France a Parigi (1530)33.

Non passò molto tempo perché la possibilità di seri errori di traduzione scoperti nella Vulgata minacciasse di imporre una revisione degli insegnamenti ecclesiastici in essere. Erasmo ne evidenziò alcuni nel 1516. Un ottimo esempio si trova nella traduzione della Vulgata delle parole con cui si apre il ministero di Gesù in Galilea (Mt 4:17): «Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino». Questa traduzione istituisce un collegamento diretto fra la venuta del regno di Dio e il sacramento della confessione. Erasmo evidenziò che il testo originale greco si doveva tradurre: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino». Laddove la Vulgata sembrava fare riferimento a una pratica esteriore (il sacramento della penitenza), Erasmo sottolineò che il riferimento era a un atteggiamento psicologico interiore, quello del “ravvedersi”.

Nella concezione umanistica della ricerca biblica, però, risultò esservi più dell’esigenza di migliori traduzioni. La nascita del «new learning» promosse, nel secondo decennio del XVI secolo, una visione alternativa dell’autorità interpretativa, di spettanza non più della chiesa ma della comunità scientifica. Il mondo accademico aveva già la chiave per la ricostruzione del testo biblico e della sua traduzione in volgare. Sarebbe stato solo un piccolo passo quello della rivendicazione del diritto di interpretare il testo utilizzando le nuove metodologie ermeneutiche del Rinascimento che si stavano allora sviluppando34.

«Senza Umanesimo non ci sarebbe stata nessuna Riforma». Questo slogan, ripetuto spesso, sottolinea il punto cruciale dell’imposizione di un programma più radicale di riforma della chiesa di quello che chiunque avrebbe potuto prevedere, grazie alla nascita dell’Umanesimo. È vero che erano in  tanti a essere convinti che vi fosse un urgente bisogno di eliminare gli abusi, semplificare le strutture e incrementare i livelli d’istruzione all’interno della chiesa; ora però altri iniziavano a suggerire che fosse necessaria una revisione di altro livello. Era possibile che almeno alcuni degli insegnamenti della chiesa poggiassero su basi bibliche non del tutto adeguate. Le persone erano bene avvezze a lamentarsi dei tanti difetti morali e spirituali della chiesa; questo però era qualche cosa di nuovo e minacciava di innescare dei dibattiti profondamente imbarazzanti e degli sviluppi che, nel cristianesimo occidentale,
sarebbero stati senza precedenti.

A un certo punto quest’appello alla riforma della chiesa si legò con la nuova idea di umanità che si stava affermando più o meno in questo periodo. La miscela che ne risultò fu esplosiva.

Alister E. McGrath, La Riforma protestante e le sue idee sovversive. Una storia dal XVI al XXI secolo, Edizioni GBU, 2017.