Atei non si nasce … si diventa!

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Questa affermazione potrebbe ben assurgere allo status di quaestio degna delle migliori dispute teologiche medievali. In effetti, da un punto di vista dogmatico, ci sarebbe molto da discutere, incrociando i dati della dottrina della creazione con il corredo di quali fossero le dotazioni della creatura umana a immagine di Dio che poi sono andate perse con la caduta nel peccato, con quelli della dottrina del peccato e dell’antropologia, su quale sia la portata epistemica del peccato. Se cioè in questi sia ricompreso anche il rifiuto di credere nell’esistenza di Dio (incredulità), postura riconducibile a un’interpretazione piana del termine ateismo.

Ma in queste righe non mi interessa tanto la posta in gioco teologica, anche se personalmente, a leggere Romani 1, una certa idea ce l’ho e propende verso il corno della negazione, vale a dire che non sembrerebbe contemplata nella condizione di depravazione totale, nella condizione di caduta nel peccato, la non credenza, la negazione dell’esistenza di Dio.

Ragion per cui si pone il problema della sua origine: da dove viene la negazione professata della non esistenza di Dio?

L’affermazione vuole semplicemente porre il problema in questi termini: l’ateo non inizia la sua riflessione sul mondo a partire dal presupposto che Dio non esiste. Affermazione questa che in qualche modo vuole passare al lato all’esperimento attribuito a Ugo Grozio o più in generale allo scetticismo del Seicento: etsi Deus non daretur.

«Dio non esiste» sarebbe al contrario la conclusione di un percorso di varia natura: logico–argomentativo, esistenziale, fenomenologico, razionalistico, psicologico, sociologico, scientifico, etc. La rilevazione di questo spostamento, dal presupposto alla conclusione, è probabile che non avvenga nell’arco della speculazione o dell’esistenza di un solo individuo, di un solo pensatore – sulla possibilità di commisurare esistenza e speculazione filosofica del singolo, si guardi allo scritto ebraico e biblico di Qoelet.

La rilevazione potrebbe avvenire nel considerare dei fenomeni che vadano oltre le singole biografie, che coinvolgano periodi storici o scansioni temporali e culturali (si pensi agli anni in cui era in voga il nuovo ateismo!).

Questa possibilità, vale a dire che l’affermazione «Dio non esiste» sia una conclusione e una meta del percorso della mente umana piuttosto che un presupposto o un punto di partenza, spiazza totalmente l’impresa apologetica e in particolare l’apologetica evangelica degli ultimi vent’anni. Questa, infatti, è stata incentrata molto sulla mossa di poter dimostrare, magari dialogando, argomentando, dibattendo che no, non bisogna partire dal presupposto che Dio non esiste, ma dal presupposto opposto, Dio esiste, e ci sono molte cose che lo dimostrerebbero. Addirittura, una vera e propria scuola apologetica si è intestata questa strategia, definendosi appunto, presupposizionalismo.

Ebbene, che cosa cambierebbe se, invece di considerare la posizione atea un punto di partenza, la considereremmo al contrario un punto di arrivo, a volte di vero e proprio approdo?

In primo luogo, avremmo un indizio sulla possibilità di costruire una eziologia dell’ateismo; e qui scopriremmo che molto spesso la posizione atea è seconda rispetto alle posizioni teistiche variamente articolate nel corso della millenaria avventura della teologia, ma anche filosofia, cristiana.

Scopriremmo anche che alcune posizioni atee sono, legittimamente, conclusioni raggiunte a partire da costruzioni dogmatiche che tanto dicono di Dio quanto si allontanano dall’esperienza diretta del divino e, in particolare, dall’esperienza del Dio della Bibbia.

In secondo luogo, si aprirebbe la possibilità di ripercorrere, con tanta umiltà da parte dell’apologeta, il percorso che ha condotto alla conclusione ateista. Che cosa voleva dire veramente Nietzsche, quando fa dire a Zaratustra che «Dio è morto»? Con chi ce l’aveva l’altro maestro del sospetto, collega del filosofo del nichilismo, quando affermava che la «religione è l’oppio dei popoli»? Possiamo far nostro l’avvertimento freudiano sulle tante illusioni che albergano il discorso religioso, incluso il gergo della teologia cristiana.

L’ontoteologia tanto aborrita da gran parte della filosofia contemporanea è veramente un frutto indigesto del lavoro della teologia cristiana che ci presenta un Dio davanti al quale non possiamo più rivolgere preghiere e, quindi, meglio da rimuovere come uno dei deliri della mentalità violenta del pensiero occidentale?

Ci vuole un grande bagno di umiltà per ascoltare la conclusione dell’ateo e poi chiedergli, va bene, le tue conclusioni appaiono corrette, ma vogliamo ripercorrere la strada insieme per vedere se il Dio della Bibbia coincida totalmente con il dio dell’ontoteologia? Se c’è ancora una differenza, una pascaliana differenza, tra il dio dei filosofi e il Dio di Abraamo, Isacco e Giacobbe?

Forse un aiuto in un simile rovesciamento di prospettiva può venirci dall’illuminante fatica di Paolo Ricca che nel suo Dio. Apologia (Claudiana 2022) ci fornisce un esempio, soprattutto nella prima parte, Dio nella modernità (pp. 31–151), in cui entra all’interno di molti percorsi ateisti della modernità tracciando bilanci e trovando inaspettate possibilità apologetiche.

Un libro sicuramente non esente da spunti su cui continuare a riflettere, soprattutto per il debito che paga a Karl Barth, pensatore non molto distante da quella corrente del presupposizionalismo a cui si faceva riferimento sopra, ma tuttavia un libro che dovrebbero leggere e meditare tutti coloro che hanno a che fare con gli studenti universitari nella speranza di condividere con loro Gesù da studente a studente.

Se poi non bastasse, allora non possiamo non segnalare che, proprio il tema dell’ateismo e del vivere con e insieme agli atei, è il tema del XVI Convegno di Studi GBU (7–10 dicembre 2023) «Vivere e confrontarsi con l’ateismo».

Raccogliamo la sfida: andiamo in cerca di coloro che, forse, un po’ anche per colpa nostra, pur non essendo nati atei, sono diventati tali!

Contro la marea 2 (La famiglia conta)

Prosegue la pubblicazione – settimanale – di otto paragrafi (qui il secondo) del libro del teologo di orgine croata Miroslav Volf, che sarà in libreria a Maggio, dal titolo Contro la marea. L’amore in un tempo di sogni meschini e di continue inimicizie. Il libro è una raccolta di brevi scritti, alcuni dei quali hanno poi visto un loro ampliamento in libri tematici.

Ma io non sono Abramo
Per qualche tempo sono stato sia attratto sia turbato dalla storia del viaggio di Abramo per presentare suo figlio Isacco come olocausto nella terra di Moria. Ero colpito dalla straordinaria devozione di Abramo verso Dio, ma avvertivo repulsione al pensiero che questa devozione lo portasse a volere il sacrificio del suo unico figlio. Così ho riflettuto con estremo interesse su un articolo di un numero dell’International Journal of Systematic Theology. Nel discutere la lettura di questa storia fatta da Kierkegaard, Murray Rea sosteneva che «mentre nessuna giustificazione dell’azione di Abramo… poteva essere offerta, era però da ammirare il suo fidarsi di Dio oltre i limiti della sua comprensione». Tale fiducia è comunque ammirevole, aggiungeva, «soltanto nel contesto di una lunga vita di ubbidienza e amore»

Leggevo il testo e in silenzio annuivo in quanto ero d’accordo con quanto scritto. Quando sono arrivato all’ultima pagina ho visto un disegno di una piccola mano. Pochi giorni prima stavo “leggendo” la rivista con mio figlio Nathanael, che allora aveva venti mesi. Annoiato perché non c’erano immagini di persone o animali, aveva deciso di aiutare i redattori e aveva aggiunto qualcosa di interessante nella rivista. «Papà, ruka [che in croato significa “mano”]», aveva detto mentre collocava la sua mano sulla porzione di pagine alla fine dell’articolo. Avevo preso allora una matita e avevo disegnato il contorno delle sue piccole dita.
«Lo avresti fatto?»; nella mia immaginazione pensavo a un Nathanael dodicenne, un ragazzo della stessa età di quella che aveva Isacco quando avrebbe potuto trasportare la legna per il sacrificio, che mi poneva questa domanda.

«No figlio» rispondevo rapidamente, rabbrividendo al solo pensiero di tutto ciò. «Non lo avrei mai fatto».
«Ma non eri d’accordo con il Sig. Rea?»
«Si, ma non sono Abramo».
«E se Dio ti avesse detto di “offrire il tuo solo figlio, Nathanael, che tu ami”? Non avresti ubbidito a Dio?».
«Non è facile riconoscere la voce di Dio. Ti ricordi la storia di Samuele? Pensava che il suo vecchio maestro lo stesse chiamando, quando in realtà Dio gli stava parlando. Il più delle volte capita esattamente il contrario».
«Sì, ma Samuele era allora soltanto un bambino»
«Se sentissi una voce che mi dicesse di offrirti come un olocausto, non penserei che fosse Dio. Non posso non pensare che Kant avesse in parte ragione»
«Kant?»
«Si, Immanuel Kant, il famoso filosofo. Pensava che Abramo avrebbe dovuto rispondere alla voce dicendo, “È quasi certo che io non devo uccidere un figlio innocente, ma non sono e non posso mai diventare certo che, il “tu” che mi sta apparendo”, sia Dio».
«Kant pensava che Abramo avesse torto, ma tu pensi che Abramo avesse ragione?»
«Si, Kant aveva torto su Abramo. Non tutti le sortite nel campo che va oltre l’etica sono proibite. Ma Kant avrebbe avuto ragione, se stesse parlando di qualcun altro. Paragonandomi ad Abramo, io spiritualmente sono come Samuele, un piccolo ragazzo che non sa».
«Oh dai, papà! Sei un grande uomo e insegni teologia a Yale!»
«No, Nathanael, Abramo era il più grande tra i grandi, Dio gli dice di lasciare la terra dei suoi genitori, non farti idee strane! Ubbidisce, e si scopre che era la cosa giusta da fare. Dio gli dice che avrà un figlio, anche se fisicamente lui e Sara non potevano avere figli, e nasce Isacco. Abramo sapeva come ascoltare Dio. Vedi, la sua abilità a riconoscere la voce di Dio e la sua volontà di avere fiducia in Dio si rinforzavano a vicenda».

«Significa che quando Abramo dice ad Isacco che “Dio provvederà all’agnello” non gli stava lanciando fumo negli occhi?»
«Non penso lo facesse. Abramo sapeva due cose: sapeva che Dio gli aveva parlato e sapeva che poteva avere fiducia di Dio».
«Quindi Abramo aveva ubbidito sapendo in anticipo che non avrebbe fatto ciò che Dio gli aveva comandato?»
«“Sapere” è troppo forte, “Avere fiducia” è meglio”».
«Ma ha quasi assassinato Isacco!»
«Quasi»
«Questo è bene. Isacco non è stato assassinato. Grazie a Dio la storia non ha niente a che fare con me e te. È una storia che narra di un grande uomo, un padre che potremmo ammirare ma non imitare».
«Giusto, non dovremmo imitare Abramo in questo aspetto. L’Antico Testamento proibisce specificatamente il sacrificio di bambini. Tuttavia, la storia ha qualcosa a che fare con me e te. “Suppongo”, continuavo, “che Dio mi chieda: ‘Chi è più importante per te, Nathanael o Io?’” Cosa pensi che dovrei dire?”».
«Dovresti dire “Dio”»!
«Perché?»
«Tu mi hai detto che il mio nome significa “Dio ha donato”, giusto»?
«Giusto».
«Bene, se non fosse per il donatore, non ci sarebbe nessun dono».
«Ragazzo sveglio! Per riceverti come un dono da Dio, giustamente, devo amare Dio più di te. In un certo senso è ciò che Dio ha fatto. Sei geloso?»
«No. Se non fosse stato per Dio, tu non mi avresti avuto e io non avrei avuto te; non potremmo giocare a pallone e sciare insieme, e tu non potresti insegnarmi a guidare anche se ho dodici anni, e tu…»
I miei pensieri furono interrotti dal suono dei piedini che stavano correndo verso di me. Ignaro della seria conversazione che stavo avendo nella mia mente con il suo io più creesciuto, il mio piccolo figlio strofinò la sua testa sulle mie gambe e richiese “Solletico!”. L’ho fatto, per metà rammaricandomi che non potevo andare avanti a dire al suo sé più adulto del Dio che, ben lontano dal richiedere di sacrificare i nostri bambini, sacrificò se stesso nella persona del Figlio per la nostra salvezza. Allora mi avrebbe probabilmente chiesto dell’abuso divino sul figlio e gli avrei dovuto dire qualcosa sul mistero della Trinità. Un’altra volta.

(M. Volf, Contro la marea. L’amore in un tempo di sogni meschini e di continue inimicizie, Edizioni GBU, di prossima pubblicazione

Missione urbana

Missione urbana

(M. Volf)

Miroslav Volf, Contro la marea, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU

Quando nel 1997 visitai un sobborgo di Baltimora chiamato Sandtown, il ricordo più vivo che conservo è quello di un fastidioso e stridente contrasto. Ricordo un intero agglomerato di case abbandonate, ognuna somigliante a un grande teschio, con il vuoto buio che veniva fuori dalle porte e dalle finestre rotte e la vita che beffardamente l’aveva abbandonata. Nel mezzo di questi ruderi, comunque, c’era una strada brulicante di vita. Le case erano state riparate e dipinte con brillanti colori, i vicini chiacchieravano fra di loro, i bambini stavano giocando per le strade. Era come se in questo posto una sorta di risurrezione avesse rivestito le ossa secche della morte urbana con una pulsante carne di vita. Al cuore di questa improbabile trasformazione vi era una piccola compagnia di cristiani. Si chiamava New Song Community (Comunità del Canto Nuovo).

To live in Peace (2002) è un’opera che racconta la storia di questa comunità e offre una spiegazione per la sua missione all’interno della città. L’autore, Mark Gornik, rispondendo a una chiamata proveniente da Dio, è stato tra i primi ad andare ad abitare a Sandtown. Il libro dà un’eloquente testimonianza di vita, prendendo come modello l’amore di Cristo che si dona, ispirato dallo Spirito di vita, con vite che qui trasformano un panorama urbano senza speranza in un luogo del Dio della pace.

Per leggere in maniera appropriata questo libro, andate direttamente al quinto capitolo, dal titolo «Cantare un nuovo canto». Questo capitolo, con la storia della graduale risurrezione di Sandtown, è il cuore del libro. Senza di esso le importanti riflessioni teologiche e sociologiche che precedono e seguono non possono essere pienamente comprese. Ispirato dall’opera pioneristica di John Perkins sullo sviluppo delle comunità (le sue famose tre “R”: Ricollocazione, Riconciliazione e Redistribuzione), Gornik e Allan Tibbles si sono mossi nel vicinato non armati di qualche «piano o programma», ma solo con la convinzione che «la chiesa di Dio è la comunità riconciliata che porta giustizia nei punti di più grande sofferenza del mondo».

Iniziarono ad andare in giro nella comunità sin da quando, secondo una testimonianza che parlava «della capacità di grazia di Sandtown», si sentirono accolti. Da allora, come afferma Gornik, tutto dipese non tanto dallo sforzo di quei pochi che andarono ad abitare a Sandtown, quanto da quello dei molti che non l’avevano abbandonata «durante i tempi duri». Dapprima sorse una comunità ecclesiale, poi le case arrivarono a prezzi abbordabili per tutti, poi ancora il drastico miglioramento del sistema educativo e sanitario locale. Infine fu messa in piedi un’efficiente strategia per l’occupazione. Gli obbiettivi sono facili da enumerare, ma ogni passo raggiunto con successo ha richiesto un miracolo di coraggio e tenacia.

Ho finito il libro colpito e provocato in molte maniere. In primo luogo è una sfida personale. Gornik e Tibbles non hanno scelto di perseguire il confort del servizio cristiano in ambienti della classe media. Al contrario, hanno deciso di ricollocarsi in un posto desolato e senza speranza. Per Tibbles questa era una sfida molto speciale: è quadriplegico, sposato, e padre di due ragazze. Ciò che mi ha colpito non era soltanto la robusta santità dei due uomini, ma come se ne rivestivano con leggerezza, senza sforzo o autocelebrazione.

In secondo luogo, è una sfida ecclesiale. Nonostante la retorica del servizio reso al mondo, le chiese spesso soccombono alla tentazione di vivere in primo luogo per se stesse, far crescere i loro numeri, incrementare i loro programmi, costruire nuovi edifici. Per la New Song Community, la chiesa significa essere per gli altri, con gli altri, specialmente con i più bisognosi. «I ministeri di giustizia e riconciliazione non sono aggiunte che stanno fuori dal campo della chiesa», ma sono «costitutivi della vita ecclesiale unita a Cristo».

La terza sfida concerne il carattere del servizio. Troppo spesso tutti aiutiamo i bisognosi in una maniera tale da umiliarli. Anche il discutere di “potenziamento” è un qualcosa che ti lascia un sapore amaro di condiscendenza. Il libro To live in Peace è tinto di profondo rispetto per la dignità dei bisognosi. Non sono gli “altri” per cui deve essere fatto qualcosa, ancor meno gli ignoranti che devono essere istruiti o gli indisciplinati che devono essere disciplinati. Sono membri di famiglia che sono incappati in tempi difficili e devono essere  incoraggiati e aiutati.

In quarto luogo, la sfida di collegare la fede con la vita. Gornik argomenta ripetutamente contro l’idea di affrontare il problema delle periferie con progetti preconfezionati che, o derivino dalla fede o siano informati da tesi secolari (sebbene il libro faccia un grande uso di suggestioni teologiche e sociologiche). Al contrario, suggerisce una duplice strategia: 1. mantenere l’attenzione sul punto verso cui è necessario che la comunità si muova (lo shalom della nuova creazione di Dio) e sul sentiero su cui bisogna camminare (l’amore di Cristo che si dona) e 2. concentrarsi «sul fare fedelmente mille piccole cose in un periodo di diversi anni».

Infine, il libro è una sfida per chi pensa a iniziative basate sulla fede. Gornik sa che la chiesa ha risorse significative e uniche per rivolgersi ai bisogni delle periferie; il suo libro è una spiegazione di queste risorse. Tuttavia avverte che l’attuale enfasi sulle iniziative basate sulla fede personalizza eccessivamente la povertà e il cambiamento sociale e non dà attenzione sia «ai bisogni di infrastrutture e capitali» sia alla dimensione strutturale della povertà. Gornik si rifiuta di essere preso da false alternative tipo l’attenzione per le persone o per le strutture. Se le comunità devono vivere in pace bisogna indirizzarsi su entrambe, e perciò sia la chiesa sia i governi hanno un ruolo da giocare.

La saggezza cristiana, l’impegno e il coraggio inscritti nel libro di Gornik e incarnati nella New Song Community sono straordinari. Spero che tutti possano cogliere qualcosa dalla visione di Gornik: «Guidati dalla convinzione che Cristo crocifisso crea spazio per l’abbraccio degli altri e che lo Spirito del Cristo risorto porta nuova vita», le chiese possono e devono servire «a portare avanti lo shalom nelle periferie cittadine».

 

L’articolo è tratto dal libro Contro la marea, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU

Lotta, pace e riconciliazione. In ricordo di Desmond Tutu.

E’ notizia di ieri che il vescovo anglicano Desmond Tutu ha lasciato questa terra. Tutu è stata una delle figure più rappresentative del cristianesimo alla fine del secolo scorso ed ha dato un contributo importante al processo di cancellazione delle regole dell’apartheid in Sud Africa, aiutando una delle più pacifiche “rivoluzioni” avvenute negli ultime decenni.

Bisogna però ricordare che, al contrario di Mandela, Tutu è stato ed è voluto essere in primo luogo un uomo di chiesa. Formatosi nell’infanzia in un ambiente metodista (quello che in Sudafrica ha sempre avuto una posizione di netta condanna nei confronti della segregazione razziale), l’incontro con il vescovo anglicano Tom Huddleston lo avvicinò a questa denominazione e gli permise (lui proveniente da una famiglia di umili origini) un’ottima formazione teologica al King’s College di Londra.

Tornato nel proprio Paese, Tutu nel suo primo periodo ministeriale, rimase piuttosto “indifferente” alla questioni più squisitamente politiche e cercò, in una situazione di chiara difficoltà, di predicare un Vangelo che fosse separato dai problemi che iniziavano ad attraversare il Paese e che avevano esautorato la popolazione di colore da qualsiasi possibilità di decidere il proprio futuro. La sua concezione del rapporto tra Stato e Chiesa era piuttosto laica ed a favore di una separazione delle due sfere. Questo, però, non impediva un impegno nel sociale e nella ricerca di alleviare dai problemi le fasce più svantaggiate della società. 

La svolta avvenne nel 1975, quando Tutu si trovò a ricoprire il ruolo di Decano della chiesa anglicana di Johannesburg, proprio quando scoppiarono le rivolte nel ghetto di Soweto che videro come risposta una durissima repressione da parte del governo bianco. Fu in quel momento che Tutu intensificherà la sua militanza teologico-politica che lo porterà ad una dura condanna del regime di apartheid ed al tentativo di cercare di “predicare” una società dove la razza non dovesse giocare alcun ruolo. Pur propendendo per una soluzione non violenta, non respinse anche la possibilità di azioni forti da parte di coloro che erano oppressi.

Divenuto vescovo di Città del Capo (il primo vescovo di colore anglicano in Sudafrica), Tutu continuò la sua militanza ed il suo essere schierato a favore della giustizia razziale e del ripristino di un regime giusto ed uguale per tutti. Le sue battaglie di questo periodo portarono l’Accademia di Oslo a conferirgli nel 1984 il Premio Nobel per la Pace. Si trattò di una chiara scelta politica dove gli Svedesi da una parte vollero mettere pressione sul regime dell’apartheid, dall’altra decisero di scegliere un esponente che lottava per la giustizia senza però posizioni di radicalizzazione e di violenza presenti in alcuni esponenti dell’African National Congress (di cui Tutu non ha fatto mai parte) e anche da parte di alcuni esponenti di chiese che erano più radicali nelle loro scelte, forse anche perché il loro ministerio non era all’interno di chiese multirazziali come lo è la Chiesa Anglicana in Sud Africa (mi riferisco qui ad esponenti teologicamente significativi ma anche discussi come il riformato Allan Boesak).

Nel 1994, con Nelson Mandela presidente (a cui lo legherà una profonda amicizia), Tutu sarà chiamato a coordinare e presiedere la Commissione per la Verità e la Riconciliazione che doveva cercare di dare un contributo alla nascita del nuovo Sudafrica, ricordando le ingiustizie commesse, ma cercando soprattutto la pacificazione tra le diverse componenti della società della nuova nazione. Il lavoro della Commissione è diventato un modello per le transizioni pacifiche da una situazione di regime autoritario e democratico, cercando di superare il modello di semplice condanna del passato (lo stesso Tutu affermava che il tentativo è stato quello di superare il modello Norimberga, in cui coloro che avevano perpetrato il male venivano semplicemente condannati) e volendo trovare la Verità per partire da questa per una riconciliazione tra le parti senza dimenticare il passato ma andando avanti. I lavori della commissione che sono ancora oggi un modello per il dibattito democratico odierno possono essere consultati al sito https://www.justice.gov.za/trc/. Nonostante gli sforzi fatti e la pubblicazione di diversi volumi da parte della Commissione, il lavoro non è stato accettato da tutte le parti, anche se ha permesso una transizione pacifica al Paese che, pur vivendo ancora oggi diverse difficoltà, è diventata una democrazia piuttosto solida. Tutu ha continuato per il resto della sua vita, anche quando si è ritirato come negli ultimi anni, a combattere per le ingiustizie nei confronti dei più deboli.

Il vescovo sudafricano è noto soprattutto per le sue azioni che per le sue idee e per questo va ricordato e può essere oggi, senza retorica, affiancato (come già in molti hanno fatto) a uomini come Martin Luther King jr per quello che ha fatto. Questo, però, non impedisce di fare una rapida analisi del suo pensiero, contenuto soprattutto in opere che sono essenzialmente raccolte di discorsi e di predicazioni. In una interessante intervista rilasciata nel 1992 a Christianity Today (consultabile al link https://www.christianitytoday.com/ct/1992/october-5/prisoner-of-hope.html), Tutu mostra come il suo pensiero ha profonde radici bibliche e, in particolare, come spesso è accaduto per pensatori che hanno collegato le loro battaglie a percorsi di liberazione, fa riferimento ai libri profetici, abbondantemente citati nell’intervista. Non manca però un riferimento alla teologia paolina della riconciliazione e del perdono che è stata alla base dell’ultima parte del suo operato e che ha avuto come frutto il lavoro della commissione succitata, ancorata a sicuri valori cristiani. Il suo percorso è sempre stato “ecumenico” (ha anche lavorato per un certo periodo per il Consiglio Ecumenico delle Chiese) ed attento alle problematiche sociali e politiche, non dimenticando però il suo ruolo pastorale che è sempre rimasto al centro delle sue idee. 

Il lascito di Desmond Tutu è importante e deve far riflettere tutti noi come il cristianesimo si possa veramente mettersi al servizio della società in cui vive per renderla migliore e più giusta, senza per questo compromettere il messaggio di redenzione. Tutu, pertanto, rimane uno dei “profeti” del nostro tempo cui bisogna guardare quando ci si vuole realmente impegnare nella società, senza per questo compromettere la propria fede ed essere fedeli testimoni dell’annuncio di Cristo.

                                                                                                                                                      

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Il razzismo da Robinson Crusoe ad Atticus. Percorso storico letterario

di Filippo Falcone

Nella sua bozza iniziale della Dichiarazione di Indipendenza, Thomas Jefferson aveva incluso un formidabile attacco frontale all’istituto della schiavitù. Dopo un intenso dibattito tra i delegati radunati a Philadelphia nella primavera e inizio estate del 1776, il passaggio venne stralciato. Non così, però, il principio da cui quel passaggio discendeva: “I hold this truth to be self-evident, that all men are created equal” (“Considero questa verità in sé ovvia – che tutti gli uomini sono creati uguali”). Si dovette attendere, tuttavia, quasi un secolo e una Guerra Civile (1861-65) perché quel seme germogliasse – la schiavitù fu abolita dal tredicesimo emendamento alla Costituzione ratificato sotto gli auspici del presidente Lincoln il 6 dicembre del 1865. La legislazione non pose immediatamente fine a tutte le forme di schiavitù, specie negli stati del sud, dove ragioni economiche si sommavano alla discriminazione razziale quali fattori di preservazione di fenomeni schiavistici. Ciononostante, il paese aveva posto le basi per un cambiamento di rotta. Lo stesso non può dirsi per la discriminazione e la segregazione razziale. Fenomeni di discriminazione e segregazione segnarono l’intero secolo successivo in un inesorabile crescendo che conduce idealmente al Movimento per i Diritti Civili degli anni ’50 e ’60 del Novecento. La battaglia non violenta di Martin Luther King Jr. fu tutta tesa ad ottenere pari dignità e diritti di cittadinanza per gli afro-americani. L’elezione di Barack Obama alla presidenza del paese nel 2008 pare segnare simbolicamente la fine di un percorso, un punto d’arrivo, la presa di coscienza definitiva di quel principio creazionale enunciato più di due secoli prima. I fatti recenti di Minneapolis paiono smentire questa conclusione e ci riportano drammaticamente alle pagine più buie della storia americana. Culturalmente questa pagina di storia risale a un tempo antecedente la Dichiarazione di Indipendenza in Inghilterra.

 

Siamo a Londra, nel 1719, quando viene pubblicato Robinson Crusoe, primo romanzo di Daniel Defoe, da molti considerato il primo romanzo della letteratura inglese (alcuni ravvisano in Oroonoko di Aphra Behn il precursore del romanzo moderno). Robinson incarna la classe media puritana inglese in grado, con pragmatismo, ragione e fiducia nella provvidenza, di controllare e governare una realtà avversa e apparentemente irreversibile. Quando avviene l’incontro tra Robinson e Friday, il primo soccorre il secondo da morte certa. Subito il rapporto tra i due si delinea come relazione tra salvatore e salvato. Subito Robinson dà un nome al nativo, ridefinendone l’identità in relazione a se stesso. Ogni identità precedente viene obliterata. L’uomo ora è Friday, giorno in cui Robinson l’ha soccorso. E Friday si rivolgerà a Robinson chiamandolo “master” (padrone). Il ruolo di subordinazione dell’indigeno all’uomo inglese viene così immediatamente sancito, ma si completa soltanto con la totale ridefinizione culturale di Friday. Robinson dà a Friday vestiti lisi e strappati, ma pur sempre europei, con cui coprirsi e Friday è ben lieto di riscoprirsi vestito come il suo padrone. Robinson non si cura poi di apprendere la lingua di Friday, ma gli insegna la sua. Solo i rudimenti, però, soltanto quanto basti a comprendere gli ordini del padrone ed eseguirli. Robinson ha delle armi, ma non permette a Friday di usarle, così come ha utensili e una conoscenza tecnico-pratica che segnano uno scarto ulteriore rispetto al suo sottoposto. I giudizi estetici di Robinson confermano un’intera visione del mondo: se Friday è bello, è perché i suoi tratti non sono grossolani come quelli di un africano, ma fini, come quelli di un europeo. Infine, la religione. Robinson istruisce Friday negli elementi della vera religione, la religione cristiana e riformata, in contrapposizione con le credenze pagane e primitive di Friday. Si scorge qui un movimento di affermazione ideologica e identitaria, che poco ha a che fare con la testimonianza evangelica. Se in Robinson non c’è in nessun caso malevolenza, né volontà di sopraffazione, dall’inizio alla fine il nativo è percepito come una tabula rasa su cui scrivere la propria storia. Da un lato Friday è parte di quella realtà irregolare che Robinson deve dominare o porre sotto il proprio controllo, dall’altro si definiscono già i contorni di quella volontà civilizzatrice che, nelle parole di Kipling, è il fardello dell’uomo bianco – una sorta di dovere morale di trasmissione di valori, conoscenze, costumi e strumenti propri di una civiltà, quella inglese, considerata superiore.

 

Sono queste e altre le dinamiche di una mentalità coloniale che non si configura come meramente culturale. Esiste un dettaglio spesso trascurato in quella che può essere considerata cornice narrativa, che rimanda drammaticamente al contesto storico che fa da sfondo alla vicenda. Robinson possiede una piantagione in Brasile e, quando la sua nave fa naufragio, è diretto alla volta del continente africano verosimilmente con l’intento di fare incetta di schiavi che coltivino le sue terre. È il secolo della tratta degli schiavi. Ce ne dà massimamente conto Olaudah Equiano (Gustavus Vassa), abolizionista originario dell’allora Regno del Benin. Venduto due volte come schiavo, Equiano si convertì al cristianesimo, battezzandosi nel 1759, e riuscì ad acquistare la libertà nel 1766. Le sue memorie (The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano, or Augustus Vassa, the African, 1789) forniscono uno spaccato dei disumani orrori della tratta – in particolare di quello che era conosciuto come il “middle passage”, il viaggio verso l’America – che tanta parte avrà nello smuovere le coscienze in funzione dell’approvazione dello Slave Trade Act americano (1794), ratificato da George Washington, e quindi di quello inglese (1807), frutto dell’infaticabile sforzo di un gruppo di pressione di evangelici e quaccheri, che godeva di una nutrita rappresentanza in parlamento e di una voce incisiva come quella di William Wilberforce.

 

Le memorie di Olaudah Equiano stanno all’abolizione della tratta degli schiavi come l’autobiografia del metodista-episcopale Frederick Douglass (A Narrative of the Life of Frederick Douglass, an American Slave, 1845) all’abolizione della schiavitù in America. La descrizione delle brutalità e ingiustizie subite da Douglass, schiavo dalla nascita, per mano dei padroni, sedicenti cristiani, e dei tentativi di fuga verso una libertà negata e repressa ancora e ancora, contribuirono alla formazione di una coscienza nuova, di cui si sarebbe fatta interprete, tra gli altri, Harriet Beecher Stowe, figlia di un ministro calvinista congregazionalista, con il romanzo abolizionista Uncle Tom’s Cabin (1852; tr. it. La Capanna dello zio Tom). Vi si denunciava, tra le altre cose, l’assurdità che un essere umano, venuto a Gesù ed entrato nella compagnia dei santi, fosse venduto come merce a un’asta. Lo scontro tra questa nuova coscienza e la vecchia avrebbe prodotto le sanguinose pagine della Guerra Civile.

 

In seguito, la battaglia per l’anima dell’America si sarebbe progressivamente spostata sul terreno dei diritti civili. Il Movimento per i Diritti Civili, che a circa un secolo dall’abolizione della schiavitù ha lasciato un segno indelebile nella coscienza americana, non è stato il prodotto dell’azione di un singolo uomo, ma è forse più corretto dire che l’uomo Martin Luther King Jr. sia stato il prodotto di un movimento che affonda le sue radici nella storia e nella cultura cristiana afro-americana e che ha trovato in lui un portavoce capace di raccogliere un popolo attorno a una visione comune. Formidabile espressione letteraria di quella visione è To Kill a Mockingbird (1960; tr. it. Il buio oltre la siepe). Harper Lee ambienta il suo romanzo nell’Alabama degli anni ’30, gli anni della Grande Depressione, ma è da subito chiaro il suo intento di parlare a un presente così fortemente scosso da tensioni razziali. La vicenda è narrata dal punto di vista di due bambini, Scout e Jem, intuizione narrativa, questa, che consente all’autrice di porre in ancor maggiore risalto la perniciosità e l’assurdità del razzismo che permea il mondo degli adulti. La vita di Maycomb, tranquilla cittadina immaginaria – e che pertanto potrebbe essere Montgomery come Minneapolis –, è scossa dalla notizia di una violenza sessuale su una ragazza bianca, Mayella Ewell. Tom Robinson, un afro-americano, viene ingiustamente accusato del crimine. Incaricato di difenderlo è Atticus, padre di Scout e Jem. L’avvocato bianco riesce a dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che responsabile delle percosse e della violenza sessuale di cui è stata vittima la ragazza è il padre Bob. Per tutto il tempo Atticus è solo nella sua battaglia, che si consuma tra l’ostilità diffusa della comunità bianca nei suoi confronti. Per tutti è “l’amico dei negri”, ma lo sguardo dei bambini lo trasfigura in un eroe. La sua identificazione con la causa di Tom e della comunità nera diventa anche integrazione in quella comunità. Questa si esprime non soltanto in termini emotivi, ma anche fisici, quando Scout e Jem assistono al processo dalla balconata del tribunale riservata agli afro-americani. Nonostante la solidità dell’impianto difensivo, Tom viene ugualmente condannato e, colto dallo sconforto e dalla sfiducia nella possibilità che il verdetto venga ribaltato in appello, tenta la fuga dal carcere e viene ucciso a fucilate. Bob Ewell, divorato dall’odio per chi si è schierato dalla parte dei neri contro un bianco, tenta di uccidere Scout e Jem, ma viene a sua volta ucciso da un vicino di casa di Atticus, il misterioso Boo, figura che incarna a sua volta l’emarginazione sociale, ora redenta da Harper Lee.

In termini di coscienza collettiva, il cammino che porta da Robinson ad Atticus è lungo e tortuoso. Il percorso inverso, quello che da Atticus riconduce a Robinson, pare significativamente più breve. Se tutti gli uomini sono creati liberi e uguali, libertà e uguaglianza necessitano del sostegno continuo della memoria storica e di un’incisiva elaborazione culturale contro una visione retriva che continua ad affiorare. Memoria storica ed elaborazione culturale non sono, tuttavia, sufficienti a estirpare prevaricazione, oppressione e odio, perché hanno capacità di rapportarsi unicamente con gli effetti di un problema che affonda le sue radici in profondità e necessitano a loro volta di essere continuamente liberate da sovrastrutture e manipolazioni identitarie. Le radici del problema sono da ricercare nel cuore dell’uomo, in una natura caduta che costitutivamente distorce il principio creazionale di uguaglianza e libertà. Quale che sia il grado di coscienza storica e culturale individuale o collettiva, l’io continua a esigere il sacrificio dell’altro sul proprio altare, annientandolo, sottomettendolo o assimilandolo a se stesso. Il messaggio cristiano addita il bisogno di un intervento radicale. È necessario un cuore nuovo, capace di cercare il bene dell’altro e di interpretare il mondo, con la sua storia e cultura, in funzione di quel bene. Ecco, allora, l’invito rivolto a ogni uomo a sperimentare, in Cristo, una nuova nascita, e con essa il dono di un cuore nuovo in cui abita lo Spirito e che declina l’intera legge di Dio in amore (Ez. 36:26-7; 2 Cor. 15:17). A questo invito si affianca la chiamata rivolta al credente a resistere agli effetti del male nella società, riflettendo i tratti della giustizia, della pace e dell’amore propri del regno di Dio e della nuova creazione inaugurata in Cristo (vd. Mt. 5–7).

 

Se Robinson e Atticus rappresentano due fermalibri, gli opposti letterari di questa vicenda di creazione, caduta e redenzione, con Jefferson, Equiano, Wilberforce, Douglass, Stowe, King e molti altri ancora, essa si fa largo nella storia e la comprende e ridefinisce nel segno di una nuova creazione.

Filippo Falcone è Dottore di ricerca in Letteratura inglese e si è specializzato presso la Oklahoma State University. E’ stato professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano; ha pubblicato una monografia sul concetto di libertà in John Milton e saggi sul poeta inglese; collabora con la Società Biblica di Ginevra e con le Edizioni GBU, cone le quali ha curato l’opera di George Herbert, Il cielo nell’ordinario. Antologia ragionata e lettura critica (2020).

“Il mondo non è più per me”. Un richiamo ai cristiani evangelici

di Roger E. Olson

Immagino quale sarà l’immediata reazione di alcuni evangelici e non solo. L’ho pensato anche io. Il vecchio inno “Il mondo non è più per me” deve essere messo da parte perché ci porta a dimenticare il mandato biblico che ci spinge a prenderci cura di questo mondo, in questo “tempo tra i tempi”.

Non posso citare qui tutte le parole del canto ma, per quelli che non lo conoscono, si tratta di un canto molto popolare nelle chiese, quando ero ragazzo, negli anni ’50 e poi ancora successivamente. Era cantato dalle comunità locali così come da artisti che lo registravano per composizioni musicali e da “trio” che lo eseguivano dal vivo. Fu scritto nel 1908 da John T. Benson.

Anni fa e forse ancora oggi in qualche chiesa evangelica il tema della “mia patria celeste” (un altro canto recitava “My treasures are laid up somewhere beyond the blue” tr. lett. Il mio tesoro si trova da qualche parte oltre il cielo) era molto popolare e sentito. Questo era il caso per me, per la mia famiglia e per la mia chiesa, quando eravamo poveri e indigenti. Infatti la “mia” esperienza evangelica è stata molto dura. La nostra unica speranza di vita confortevole, di libertà nei confronti dei lacci del decadimento (che era la nostra condizione) era appunto il cielo.

Questo non significa che non ci preoccupassimo di questo mondo, ma noi combattavamo per sopravvivere tanto da non avere tempo o forza per influenzare il mondo “significativamente”. La nostra preoccupaizone per questo mondo equivaleva a pregare per la nostra nazione per i suoi governanti e a fare la carità. Molti degli evangelici di oggi non ricordano e neanche immaginano a cosa somigliava quel tipo di vita – per molti evangelici di quel tempo. Era una “vita grama”.

Un altro, popolare canto di quei tempi, popolare tra gli evangelici, era “Son soddisfatto della semplice vita” di Ira Stanphill, un prolifico autore di canti evangelici degli anni ’50. C’era una piccola controversia nella chiesa ai tempi della mia infanzia, vale a dire se fosse appropriato cantare quel canto in chiesa. Alcuni infatti volevano che in chiesa si cantasse un altro canto, “Lord give me just a cabin in the corner of gloryland tr. lett. Signore dammi solo un posticino in un angolo della gloria”. Mi rendo conto che tutto questo è un po’ pittoresco, ma si trattava di un disaccordo teologico sul fatto se i cristiani dovessero aspirare alla ricchezza anche in cielo.

Da allora, qualcosa è cambiato per molti evangelici. Siamo diventati agiati e siamo ora di comodo e abbiamo dimenticato tutto del cielo – a parte forse pensarlo come un luogo di pace in cui andare quando si muore. Ma raramente cantiamo ancora di esso e non ho più ascoltato un sermone sul cielo nel corso degli anni. Non ricordo quando è stata l’ultima volta. So per certo che non l’ho ascoltato da molto tempo.

Oggi, naturalmente, poiché la nostra nuova condizione di benessere ci ha dato la capacità di rendere questo mondo un posto migliore per chiunque e specialmente per i poveri e gli svataggiati, e poiché ci ha dato anche la capacità di preoccuparci dell’ambiente, va tutto bene. Ma in questo processo, per come si è verificato o si sta verificando (tra gli evangelici) temo che abbiamo perso nell’insieme ogni interesse per il cielo, eccetto quando muore qualcuno. Ma la speranza per il cielo, per la “cittadinanza celeste”, l’aspirazione al cielo è ampiamente scomparsa dalle chiese così come dalle case degli evangelici. Dove sono i canti che parlano del cielo? Una volta erano frequenti nelle chiese o nelle radio evangeliche, nella devozione e nei “sermoni”.

Certo, anche oggi potrei cantare e citare strofe e inni relativi al cielo. Autori evangelici hanno interi DVD/CD di canti sui cieli nei quali una serie di pastori e altri ancora parlano di ciò che significano per loro i cieli per il fatto che hanno da poco perso qualche loro caro o perché sanno che i loro giorni sulla terra sono contati. Ma questo mi pare un pallido tentativo di ravvivare l’interesse per il cielo.

Quando ero bambino mio padre, il pastore della chiesa e anche colui che intonava gli inni, avrebbe fatto cantare “When We All Get to Heaven” e poi subito dopo “But Until Then, My Heart Will Go on Singing”. Questa enfasi sul cielo era così forte nel cristianesimo in cui sono cresciuto da aver dovuto combattere per molto tempo per riconoscere come mio anche il cristianesimo che virtualmente ignora il cielo. E mentre invecchio e qualche mio caro parente muore per vecchiaia o per malattia (cancro, infarto, ictus) la mia mente torna indietro a quella enfasi sul cielo considerato come la nostra vera casa, “una patria più dolce del sole”.

Sì, lo ammetto, mi sono allontanato da tutto questo per molto tempo, considerandolo un pensiero grossolano, poco sofisticato a causa della sua enfasi sull’eternità che si colloca oltre questo mondo, ma nella mia “seconda ingenuità” (o terza o quarta) lo sto riconsiderando. Come evangelici abbiamo forse oscillato verso l’altra, opposta direzione in cui siamo così radicati in questo mondo, pienamente a nostro agio da dare semplicemente per scontato il cielo? Forse così va bene, ma ho qualche dubio, data la grande enfasi che la Bibbia pone sul cielo come la nostra vera patria.

Martin Lutero credeva fermamente che Gesù sarebbe tornato durante la sua vita. Egli attendeva sempre il ritorno di Cristo. Pensava di vivere nei biblici “ultimi tempi”. Ma quando qualcuno gli chiedeva che cosa avrebbe fatto durante la giornata dal momento che sapeva che Gesù poteva tornare all’indomani, si pensa che rispondesse: “Pianto un albero”. In altre parole, una forte convinzione a proposito del cielo e del ritorno di Gesù Cristo non porta le nostre menti completamente fuori da questo mondo al punto da divenire “così celestiali da non essere puà dei buoni terrestri” .

(Roger E. Olson, 1 Aprile 2020)
Tradotto con permesso

#andràtuttobene

(Giacomo C. Di Gaetano)


1. #Andràtuttobene

Questo è l’hastag che imperversa maggiormente e che esprime tutta la speranza e la fiducua degli italiani. Che cosa c’è dietro questa panacea collettiva? Sicuramente la voglia di shierarsi dalla parte dell’ottimismo, e contro il pessimismo. Sappiamo che si sta combattendo in tutto il mondo, nei laboratori e nei dipartimenti di medicina, affinché si trovi un vaccino e una cura contro il COVID 19. Nelle più rosee previsioni si parla però di mesi. Si studiano i modelli di diffusione epidemiologica e le strategie di contenimento. Andrà tutto bene? Forse, speriamo. In realtà non lo sappiamo! Ma facciamo bene a nutrire questa speranza. Essa manifesta un tratto antropologico ben preciso che è uno dei motori della storia dell’umanità.
Come cristiani non possiamo ignorare questo dato di fondo della nostra natura creata “molto buona” (Gen 1––2). Paolo, l’apostolo, ha una parola precisa per l’approccio che i cristiani devono avere a tutto ciò che è buono e positivo.

Quindi, fratelli, tutte le cose vere, tutte le cose onorevoli, tutte le cose giuste, tutte le cose pure, tutte le cose amabili, tutte le cose di buona fama, quelle in cui è qualche virtù e qualche lode, siano oggetto dei vostri pensieri. (Fil 4:8)


2. #Nonvapernientebene

L’ottimismo cerca fondamenti oggettivi che ci permettano di essere razionali; ci guardiamo intorno, scrutiamo la realtà, cerchiamo di intuire le sue mosse (dalle faglie della crosta terrestre ai meccanismi di riproduzione dei virus); usiamo modelli (la struttura matematica), ricorriamo a metafore (l’organismo). E dopo aver fatto tutto ciò, a meno di non voler finire nelle ideologie degli “ismi”, ci troviamo con una constatazione: le cose non vanno per niente bene!
Perché vadano in un certo senso è necessario che si mantengano equilibri infinitesimali della realtà. Quelli che studiano l’universo ci parlano di fine tuning (ve la ricordate la manopola – tune – con la quale si cercava di affinare la ricezione di una stazione radio giocando sulla modulazione delle onde in FM?). La realtà dipende sempre da piccoli aggiustamenti, a tutti i livelli.
Qualcosa è andato storto in questi aggiustamenti se un banale virus da raffreddore sia balzato da una specie all’altra (dagli animali all’uomo) trasformandosi in un killer letale. Nel mentre scrivo le città sono completamente deserte: dove sono finiti gli umani? Di nuovo, antropologi e scienziati (evolutivi) della storia dell’umanità ci dicono che non è la prima volta. Un tempo circolavano predatori formidabili che non avrebbero potuto convivere con la specie umana. Oggi dei piccoli organismi, rompendo equilibri per noi inimaginabili, ci hanno messo all’angolo.
Non va per niente bene!
Come cristiani osserviamo tutto ciò e, sommessamente, mentre sosteniamo l’afflato ottimistico dell’andrà tutto bene, ci permettiamo di segnalare una peculiartià della nostra visione del mondo. Ce lo ricorda di nuovo Paolo da Tarso che nella splendida Lettera scritta ai cristiani di Roma indica che cosa, in realtà, sta accadendo e accade in continuazione al nostro mondo:

ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo. (Romani cap. 8)

3.#Andràmeglio? Dipende!
Questo pensiero ha bisogno di ramificarsi: davanti a un cristiano si presentano almeno tre strade, tutte da affermare contemporaneamente, pur nella consapevolezza che i collegamenti tra di esse non risultano sempre chiari.

3a. Dipende dalla provvidenza di Dio. Proviamo a guardare le cose con un occhio senza fede. Quante volte l’umanità è stata sull’orlo del baratro? Tantissime volte! Per mano degli uomini con le guerre; per mano della natura malvagia con sconvolgimenti di ogni genere e grado. Eppure ogni volta l’umanità ne è venuta fuori. A volte anche sconvolgendo le chiavi di lettura evoluzionistiche, che sono quelle che vanno per la maggiore. È risaputo, per esempio, che l’altruismo umano, che giocato un ruolo in molte crisi, sia uno di quei vulnus concettuali che spiazzano le teorie darwiniste.
Ebbene i cristiani hanno una visione della storia in cui è possibile intravedere una mano invisibile. Parlano della provvidenza di Dio (alcuni dell’attributo della sovranità). Il testo biblico è saturo di affermazioni relative al fatto che l’umanità corre lungo i binari di una storia, dietro a una locomotiva, alla cui guida c’è il Dio della rivelazione ebraico–cristiana. Anche in questo caso, soprattutto in questo caso in cui stiamo assistendo al trionfo (speriamo temporaneo –#andràtuttobene) del coronavirus. Che tipo di male è il male che stiamo combattendo? È evidente che sia un male della nostra fragilità di specie (ricordate gli equilibri di cui abbiamo parlato sopra). Questo male ci colpisce, così appare, perché sembra essere stata rimossa una sorta di cintura di protezione provvidenziale della nostra fragilità. Affermazione questa sicuramente forte (fa subito sorgere due ulteriori pensieri: ma perché e chi ha tolto questa protezione? Preghiamo e chiediamo a Dio di tornare a proteggerci).

Quanto sono numerose le tue opere, SIGNORE! Tu le hai fatte tutte con sapienza; la terra è piena delle tue ricchezze.
Tutti quanti sperano in te perché tu dia loro il cibo a suo tempo.
Tu lo dai loro ed essi lo raccolgono; tu apri la mano, e sono saziati di beni.
Tu nascondi la tua faccia, e sono smarriti; tu ritiri il loro fiato e muoiono, ritornano nella loro polvere
. (Salmo 104)

3b. No, andrà peggio. Dopo che la natura, la realtà, ci svela in che modo dipendiamo da equilibri imponderabili si apre alla riflessione il grande campo dell’agire dell’uomo. Che cosa fanno gli uomini per il mantenimento di questi equilibri? Ancora: guardiamo con un occhio senza fede. A prescindere da quello che pensiamo è innegabile l’incombere di crisi ecologica dalla radice antropica. Non c’è bisogno di Eva Thunberg. Viviamo in un mondo malato la cui malattia peggiore siamo noi, gli esseri umani. Uno sguardo onesto potrebbe passare dalla contemplazione della crisi ecologica alla rilevazione dei tanti disagi e drammi delle relazioni umane, per costruire così una triste mappa dell’orrore. Quella locomotiva in realtà ha ai comandi dei folli che la stanno facendo correre verso il baratro.
I cristiani si trovano sul loro campo privilegiato quando provano a spiegare questa contraddizione. La morte, segno estremo di tutte le crisi, in tutte le sue forme, non può essere solo spiegata come una sorta di sinapsi cosmica che permette lo scambio di energie tra ordini e gradi diversi della realtà. È una tragedia, un castigo cosmico! L’avvertiamo come tale. Cosa pensiamo si possa provare nel vedere la colonna dei mezzi dell’esercito a Bergamo che porta via decine di bare in cui ci sono esseri umani che hanno vissuto gli ultimi attimi della loro vita nella solitudine più assoluta? Lontani dai loro cari? Non è giusto!
I cristiani non si fanno illusione: siamo animati da una brutta bestia a cui i profeti e i santi di ogni tempo hanno dato un nome: il peccato! Siamo peccatori, in lotta con il guidatore della locomotiva. Il convoglio è in subuglio, in rivolta. Nella visione cristiana c’è perfino spazio per pensare alla collera di Dio.

è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio (Eb 9:27)

3c. C’é una buona notizia. Alcuni testimoni raccontano di un evento di duemila anni fa che sfugge alla presa scientifica della realtà. Una domenica mattina delle donne e degli uomini hanno affermato di essere venuti in contatto con un uomo appena giustiziato e ucciso con uno dei supplizi più terribili inventati dall’umanità, la crocifissione. La risurrezione irrompe nella storia degli uomini! Non più un evento mitico, una leggenda, visto che i testimoni si premuniscono nel fornirci resoconti di tipo empirico (Tommaso), e ricorrono a formule di trasmissione della notizia degne delle migliori imprese giornalistiche dei nostri giorni (i Vangeli).
I cristiani, pur affermndo nello stesso momento: #andràtuttobene; #nonvapernientebene#; potrebbeandaremglio_forse, a un certo punto devono proclamare la meravigliosa buona notizia. Dio è venuto nel mondo e lo ha visitato, e ci ha lasciato una traccia ben visibile che lo esprime al massimo e che ha un nome preciso: Gesù Cristo. È una buona notizia: gli uomini alle prese con qualsiasi crisi lo possono cercare (lo trovano nei Vangeli … e da nessun’altra parte!); lo possono invocare (lo fanno con la preghiera e con la Bibbia tra le mani); ne possono fare esperienza (sperimentano la trasformazione delle loro vite); ne possono avvertire la presenza (gioscono nel pensare che #andràtuttobene; avendo pena nel vedere la morte avvicinarsi ma scoprendo la speranza della propria destinazione).

Infatti la grazia di Dio, salvifica per tutti gli uomini, si è manifestata, e ci insegna a rinunciare all’empietà e alle passioni mondane, per vivere in questo mondo moderatamente, giustamente e in modo santo, aspettando la beata speranza e l’apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore, Cristo Gesù. Egli ha dato se stesso per noi per riscattarci da ogni iniquità e purificarsi un popolo che gli appartenga, zelante nelle opere buone. (Lettera a Tito, cap. 2)

4. #Comestaitu
Questo è l’ultimo pensiero, dall’Italia in lockdown, con lo sguardo che scruta dalla finestra per “vedere” l’avvicinarsi del contagio tramite i numeri dei briefing della Protezione Civile. Come stiamo, veramente? Dopo i giorni dell’incredulità (avete sentito cosa sta accadendo in Cina?) sono arrivati i giorni della curiosità (sentito Codogno?) e poi i giorni della mobilitazione (abbiamo inparato cosa significa l’acronimo dpcm). Adesso sono i giorni della paura: i morti aumentano; ci guardiamo e cerchiamo di andare oltre; si moltiplicano a 360 gradi i riti religiosi. Pregano tutti; dal Papa agli Evangelici. I laici oscillano tra la fesseria dell’immunità di gregge e il dibattito su dove si debba spingere la restrizione delle libertà. Ma tu come stai?

Un’antica Confessione di fede dei tempi della Riforma, redatta in una delle più belle città d’Europa, Heidelberg (1563), inizia l’elenco dei punti da credere con un’affermazione che ritengo sia una delle più complete per aiutarci a rispondere alla domanda: Tu come stai?

Domanda. Qual è il tuo unico conforto in vita e in morte?
Risposta. Che io, con il corpo e con l’anima (1), sia in vita sia in morte, non sono mio (2) ma appartengo al mio fedele Salvatore Gesù Cristo (3), il quale, con il suo prezioso sangue (4), ha dato piena soddisfazione per tutti i miei peccati (5), mi ha liberato da ogni potere del diavolo (6) e mi preserva (7) così che, senza la volontà del Padre mio che è nei cieli, neppure un capello possa cadermi dal capo (8); sì, così che tutte le cose debbano cooperare per la mia salvezza (9). Pertanto, per mezzo del suo Santo Spirito, egli mi assicura anche della vita eterna (10) e mi rende di cuore volenteroso e pronto, d’ora innanzi, a viver per lui (11).


Qui tutti i brani biblici a cui la risposta allude o fa riferimento: (1) I Corinzi 6:19-20. (2) Romani 14:7-9. (3) I Corinzi 3:23. (4) I Pietro 1:18-19. (5) I Giovanni 1:7. (6) I Giovanni 3:8; Ebrei 2:14-15. (7) Giovanni 6:39; Giovanni 10:28-29. (8) Luca 21:18; Matteo 10:30. (9) Romani 8:28. (10) II Corinzi 1:22; II Corinzi 5:5.11 Romani 8:14; Romani 7:22.

La fede e la scienza ai tempi del coronavirus

Nicholas Wolterstorff, filosofo americano, all’inizio della sua carriera scrisse un piccolo libretto dal titolo The reason within the bounds of Religion (1976): il titolo faceva il verso alla ben più famosa opera di Immanuel Kant, La religione nei limiti della semolice ragione (1792). L’intento era abbastanza chiaro: rilevare che, contrariamente al programma illuministico, esemplificato dal pensiero del filosofo di Konigsberg, la religione continuava ad allungare le sue propaggini in tutti gli ambiti dell’esistenza umana; la ragione, lungi dall’essere autonoma e deliberante in maniera assolutistica nel campo del sapere e dell’etica (tentativo questo già compiuto, per altri versi, da Schleiermacher) doveva fare i conti con quei “motivi di fondo” che molte correnti di pensiero dell’inizio del ‘900 rimandavano alla religione.

La neutralità in campo filosofico, ma anche scientifico, era un “mito” (per citare il titolo di un’altra opera del 1991, (The myth of religious neutrality) per certi versi riferibile al testo di Wolterstorff.

Ma proprio in quel piccolo libretto il filosofo nordamericano, nel tentativo di spiegare in che modo interagiscono queste due mega–strutture dell’esistenza umana, la religione e la ragione, e fondando la tesi dell’imprescindibilità della dimensione religiosa, pronuncia una piccola parola di precauzione. Nel dire ai sostenitori della ragione pura e, di conseguenza, della sola scienza considerata guida per la propria vita, che è necessario prendere in carico i motivi di fondo religiosi, afferma anche che ci sono momenti in cui la comunità di fede deve prestare attenzione alla ragione, alla scienza e alla comunità scientifica. Arrivando addirittura a modificare le proprie convinzioni “religiose” e, al limite, anche le proprie interpretazioni della Bibbia.

L’esempio per questo audace pronunciamento – audace per un credente – è, naturalmente, l’affaire Galileo, un passaggio storico in cui venne richiesto esplicitamente alla comunità di fede un cambiamento di lettura del testo biblico sulla base di precise indicazioni scientifiche e filosofiche.

Il matematico di Oxford John Lennox, negli ultimi anni, ha fatto molto per dimostrare la tesi secondo la quale dietro le rivoluzionarie assunzioni di Galileo c’era una visione del mondo cristiana, ergo, che dietro la scienza moderna c’è la Bibbia (I sette giorni della creazionexi, Edizioni GBU). Ma tuttavia il clima che la vicenda Galileo provocò rivelò quanto fosse difficile e complicato per la comunità di fede sottomettersi all’autorità della scienza empiricamente affermata e modificare le peroprie convinzioni e la propria lettura del testo biblico.

Nel Vangelo di Matteo viene narrato un miracolo compiuto da Gesù e consistente nella guarigione di un lebbroso (cap 8): questi, rompendo le convenzioni della profilassi del tempo, si avvicinò a Gesù giungendo fino a un contatto fisico con il Maestro. Nel breve dialogo di cui rende conto il Vangelo il lebbroso ha modo di esprimere la sua forte convinzione di fede, (convinzione che riecheggia anche negli altri miracoli dei capp. 8 e 9 di questo Vangelo: il centurione, il paralitico, la donna dal flusso di sangue, etc.): se tu vuoi tu puoi. Alla fine, il lebroso è guarito e il tocco di Gesù con il quale fu operato il miracolo ha avuto un’enorme risonanza nella storia degli effetti del testo (dalle pagine de I promessi sposi a Madre Teresa di Calcutta, etc.).

La fede, la fede cristiana biblica, quella che prende sul serio la narrazione biblica considerandola Parola rivelata di Dio, è il luogo dell’impossibile, il campo in cui tutto ciò che l’uomo costruisce o che riesce a spiegare può essere sconvolto dall’azione potente del Dio vivente (a Dio ogni cosa è possibile, Mt 19:26). Da sottolineare: la nozione di un Dio vivente per i cristiani non è una nozione astratta ma una che prende corpo e si rafforza grazie al racconto evangelico della risurrezione dai morti di un essere umano (Gesù di Nazaret), il quale proprio in virtù della risurrezione fu proclamato Signore (Atti 2 – lo era anche prima). La fede cristiana crede dunque nella rottura dei vincoli, nello scompaginamento delle barriere, anche sanitarie, che l’uomo può erigere in virtù della potenza di Dio. Interi movimenti di risveglio nella storia del cristianesimo stanno lì a dimostrare che la potenza di Dio, e dello Spirito, è attiva, quando si hanno le lenti giuste per identificarla. Il dibattito cessazionista (se cioè i doni spettacolari e miracolosi dello Spirito non fossero limitati esclusivamente – fossero cessati – all’epoca apostolica) a fronte della crescita esponenziale del movimento carismatico appare anacronistico.

Queste convinzioni cristiane sono divenute particolarmente battagliere negli ultimi vent’anni, nella stagione di quello che è stato definito il nuovo ateismo, quando cioè pensatori di varia estrazione hanno messo sul banco degli imputati la fede in un Dio onnipotente (in inglese si dice dock e God in the dock era già il titolo di un saggio di C.S. Lewis, ed 1979). La fede in un Dio onnipotente, di fatto inesistente, hanno sostenuto questi pensatori, è una fede pericolosa, dannosa. L’orizzonte principale di questa polemica era la violenza terroristica – le religioni e il cristianesimo in particolare sono la madre di tutta la violenza umana (si veda in proposito Dio è un Dio violento?, Edizioni GBU, 2018). L’accusa era rivolta a quella fede che, partendo dall’esistenza non provata di Dio, costruiva una vera e propria visione del mondo. Lo scontro è stato molto duro. Da questa stagione, e dai dibattiti Dio esiste/Dio non esiste, è emerso una sorta di nuovo dilemma etico: sottomettersi alla scienza o sottomettersi alla religione e alla fede cristiana? Le forze in campo infatti si confrontavano come forze onnicomprensive che richiedevano una vera e propria adesione totale.


Poi sono arrivate le notizie da Wuhan, e il paziente 1 di Codogno, e il coronavirus ha imperversato!

Che ne è del dibattito tra scienza e fede alla luce dello scenario che stiamo vivendo? Sto scrivendo all’indomani della dichiarazione da parte del Governo italiano dell’Italia “tutta” come zona protetta (10 marzo 2020).

La parola d’ordine oggi è quella di seguire una serie di regole di comportamento tutte discendenti da alcune assunzioni scientifiche. Ci viene chiesto, in soldoni, di sottometterci all’autorità della scienza.

Dawkins sembra essere in vantaggio, a questo punto!

Continua la lettura in Lutero e l’epidemia. La fede ai tempi del coronavirus

Grazie Ed (Shaw): una voce profetica

Sono arrivato al XIV convegno GBU aspettandomi delle dissertazioni sulla sessualità secondo la prospettiva biblica. Sono tornato a casa con una moltitudine di stimoli, di prospettive e di sfide inattesi. Sul combattimento spirituale; su cosa sia l’intimità autentica e su cosa renda autentica la chiesa; su cosa renda plausibile non solo la sessualità secondo la Bibbia, ma la vita cristiana nella sua globalità, vissuta al seguito del Signore morto e risorto. E l’elenco potrebbe continuare.

Le righe che seguono vogliono essere una grata condivisione di questo inatteso sovrappiù. Sono grato al Signore, che non si stanca di mostrarmi come la sua grazia esorbiti sempre le mie ristrettezze mentali e la mia presunzione di sapere.

Ed Shaw al XIV Convegno si Studi GBU

Sono grato a Ed Shaw, per il suo radioso esempio di quanto possa essere contagioso -quand’è autenticamente vissuto- il desiderio di essere “più simile a Gesù”. Sono infine grato a coloro che hanno avuto l’audacia e la lungimiranza di realizzare un convegno simile.

Che il convegno avrebbe assunto risvolti imprevisti fu chiaro dalla prima sera, quando l’oratore (a me del tutto ignoto) si dichiarò attratto dal suo stesso sesso.

Poiché mi attendevo tre giorni di conferenze che fossero più o meno il corollario della semplicistica formula “Sesso etero in ambito matrimoniale” (non ne vado fiero, ma tant’è), fui piuttosto sconcertato dalla dichiarazione.

Certo, le mie categorizzazioni contemplavano l’opzione dell’omosessualità: nel catalogo delle perversioni. Punto. Sapevo anche di coloro che ritengono conciliabile la professione del cristianesimo con lo stile di vita omosessuale, purché nell’ambito di una relazione stabile e fedele. Ed Shaw rappresenta una minoranza di cui sapevo l’esistenza, senza però averne mai ascoltato la voce. Coloro che, fronteggiando la tentazione omosessuale, ritengono il celibato l’unica condizione compatibile con la fede in Gesù.

E la sua è stata una voce profetica, nientemeno.

Come un profeta, mi ha ripulito da alcune cianfrusaglie mentali di cui ero solo vagamente consapevole. Una fra tutte: la convinzione secondo la quale la tentazione omosessuale, a differenza d’ogni altra, viene invariabilmente cancellata dalla conversione. E perché, poi? Il mio orientamento etero mi esenta forse dalla lotta per la purezza? E’ stato salutare rivedere biblicamente la mia percezione del peccato in quest’ambito.

Ed Shaw è un uomo che trasmette l’esperienza autentica di come la lotta per vivere il celibato in questa tensione lo apra maggiormente alla grazia di Dio e lo disponga a dipendere davvero da Lui. Per diventare più simile a Gesù, in un cammino di ubbidienza e purezza. La plausibilità di questa vita controcorrente è possibile solo in una comunità illuminata e sorretta dalla grazia di Dio. Un luogo amorevole dove l’intimità sia una realtà sperimentabile anche dai celibi, etero o omosessuali che siano, attraverso relazioni sante e profonde, di amicizia e di fraternità.

E, come un profeta, Ed mi ha spezzato il cuore. Perché, confrontato con le sue parole, mi pento di aver talvolta introdotto nella chiesa i modelli svianti del perbenismo e del perfezionismo. Ma ho udito l’appello, e raccolgo la sfida.

Voglio re-imparare l’antica lezione della vulnerabilità onesta che accoglie la grazia. Voglio contribuire a rendere la chiesa una famiglia plausibile e desiderabile. Dove si abbraccia la croce e si respinge la seduzione del male in ogni ambito. Dove ci si incoraggia a vicenda ad essere più simili a Gesù.

(Marco Arturo, Responsabile di una Chiesa evangelica di Trezzano Rosa)

Il concetto di plausibilità in apologetica

Plausibile / plausibilità
Il termine “plausibilità” rimanda a due universi di significati ben precisi, secondo la concisa presentazione che ne fa l’enciclopedia Treccani: il primo è un universo logico e argomentativo in cui plausibile è quasi sinonimo di razionale. Il secondo universo di significati, più fedele all’etimologia, rimanda al piano del processi sociali: plausibile è ciò che è degno di plauso, di essere apprezzato, approvato e ciò richiama alla mente uno scenario in cui il plauso viene fatto da qualcuno in carne e ossa nei confronti di qualcun altro o di altri. Nella plausibilità si esprime dunque una dinamica sociale e non una semplicemente logico–intellettiva.

Ecco le due definizioni della Treccani:
«plauṡìbile agg. [dal lat. plausibĭlis, der. di plaudĕre, part. pass. plausus]. – 1. letter. Degno di plauso, di approvazione, meritevole d’essere apprezzato. 2. Che è accettabile dal punto di vista logico, che appare ragionevole e convincente: ha dato una spiegazione p. delle sue azioni; spesso fa le cose senza una ragione p.; una teoria p., anche se non dimostrabile».

Il concetto di struttura di plausibilità è stato elaborato da Peter Berger e Thomas Luckmann in un famoso testo degli anni ’60, La realtà come costruzione sociale (Il Mulino, 1969, abbr. RCS) e da allora in poi ha continuato a emergere in continuazione in molti discorsi concernenti soprattutto, per quello che ci concerne qui, la riflessione teologica e apologetica[1].

Ed Shaw, per esempio, introduce il concetto di plausibilità nella riflessione relativa alla sessualità umana (L’etica sessuale nella Bibbia. Una questione di plausibilità, Edizioni GBU, 2019); egli presenta un’accezione di sessualità molto ampia che include non solo il suo disegno generale secondo una visione d’insieme della Bibbia – il sesso è per il matrimonio, e il matrimonio è l’unione permanente tra un uomo e una donna ­– ma anche le aree critiche (p.es. l’attrazione verso lo stesso sesso). Ecco le sue parole
«Abbiamo un problema di plausibilità: ciò che la Bibbia inse­gna chiaramente sembra irragionevole per molti di noi oggi. E quindi viene respinto (non irragionevolmente!) dappertut­to. … cosa possiamo fare? … dobbia­mo solo rendere nuovamente plausibile ciò che la Bibbia comanda chiaramente» (p. 21).

In questa accezione, e astraendo per il momento dallo scenario in cui Shaw la introduce, è evidente che il concetto di plausibilità viene richiamato e introdotto in un contesto apologetico: la plausibilità viene convocata per la difesa della fede cristiana e delle sue conseguenze etiche.

Apologetica
Se pensiamo all’apologetica non può sfuggirci un elemento problematico nell’incastro con il tema delle strutture di plausibilità. L’apologetica è un’impresa preminentemente logico–argomentativa.

«La parola greca apologia, dalla quale deriva il termine italiano apologetica, viene spesso tradotta “dare una riposta”, ma il suo significato è molto più intenso. Nel greco classico, era un termine legale e voleva dire difendersi da un’accusa, significato avvalorato da diversi esempi biblici» (Dictionary of Christian Apologetics, IVP, 2006)

Essa si inserisce nella più ampia impresa di condivisione del vangelo, l’evangelizzazione.

«L’apologetica cristiana non è altro che il compito di difendere e raccomandare la veridicità del vangelo di Gesù Cristo in una maniera che sia cristiana (christlike), sensibile al contesto e adatta al tipo di interlocutore (audience)».
«Nella maggior parte dei casi, i nostri sforzi apologetici non sono altro che un piccolo tratto nel viaggio lungo e tormentato di qualcuno, viaggio che si spera possa culminare in una relazione di questo qualcuno con Gesù Cristo». (J. Beilby)

Considerando la seconda definizione, che ci pare più pertinente anche al recupero del senso autentico dell’apologetica cristiana dei primi momenti della diffusione del cristianesimo (si veda A. Dulles e la sua Storia dell’apologetica), potremmo giungere a una conclusione del genere:

L’evangelizzazione senza l’apologetica presenta dei vuoti!
L’apologetica senza l’evangelizzazione è cieca e non raggiunge il suo obiettivo!

Non sfugge però il fatto che l’apologetica resta pur sempre un’impresa dal carattere logico, intellettivo, argomentativo, proposizionale. E l’impressione si rafforza se passiamo in rassegna tutte le forme assunte dall’pologetica cristiana negli ultimi cinquant’anni: evidenzialista, coerentista, probabilistica, presupposizionalista.

Strutture di plausibilità
Se al contrario andiamo a ripercorrere la genesi del concetto di plausibilità troviamo che l’orizzonte di riferimento (la solciologia della conoscemza) è completamente diverso: «La sociologia della conoscenza si deve occupare di tutto ciò che passa per “conoscenza” nella società» (RCS, p. 29, enfasi aggiunta). Deve occuparsi della costruzione sociale della realtà, in quanto concerne quello che la gente “conosce” come “realtà” nella vita quotidiana a livello pre–teoretico o non–teoretico. Questa “conoscenza” della gente comune costituisce il «tessuto di significati senza il quale nessuna società potrebbe esistere» (RCS, p. 30). Da questo sapere, da questa “conoscenza”, sono escluse le dimensioni teoretiche, filosofiche o anche mitologiche della realtà.
La tesi centrale di Berger è che mediante i tre momenti della esteriorizzazione, oggettivazione e interiorizzazione giungiamo al cospetto di una realtà oggettiva che si è alienata da chi l’ha generata ma che nel contempo mantiene nel soggetto una sua dimensione coscienziale: la realtà costruita è oggettiva e soggettiva.
Dopo questo primo momento Berger introduce il tema della legittimazione della realtà costruita socialmente e snocciola tutte le fasi di un tale processo mediante i canali della socializzazione – primaria, avanzata, etc. – (vocabolario; proverbi e massime; educazione; universo simbolico).
Gli universi simbolici sono ciò che viene oggettivato; si sedimentano e si accumulano. E naturalmente svolgono una funzione sociale, sono una sorta di cupola al di sotto della quale si svolge la vita degli individui. Gli universi simbolici sono poi teorizzati, in ragione di alcuni fenomeni storici, epocali, culturali quali: l’eresia; il confronto culturale; la presenza di universi simbolici alternativi.
A questo punto sorge la necessità di preservare tali universi simbolici (che, ricordiamo, sono apparati legittimanti della realtà socialmente costruita); la conservazione è anch’essa di ordine sociale e agisce a livello della realtà soggettiva, come è percepita e pensata la realtà dal soggetto.
È a questo punto che incontriamo il concetto di struttura di plausibilità (SP):

«La realtà soggettiva dipende da precise strutture di plausibilità, cioè dalla particolare base sociale e dai processi sociali richiesti per la sua preservazione» (RCS, p. 229).

Berger tenta di rilevare la consistenza delle SP andando ad analizzare i fenomeni di ristrutturazione, vale a dire allorquando un individuo muta la realtà soggettivamente intesa; l’esempio per eccellenza è la conversione religiosa (si sofferma su Saulo/Paolo) e in questo contesto individua la SP nella comunità cristiana:

«Fare l’esperienza di una conversione non è poi una gran cosa: il difficile è essere capaci di continuare a prenderla sul serio, di osservare il senso della sua plausibilità. È qui che interviene la comunità religiosa: essa fornisce l’indispensabile struttura di plausibilità per la nuova realtà» (RCS, p. 234).

La religione è pensata da Berger (si veda il testo successivo, La sacra volta, tr. it. Sugarco, 1984, abbr. SV) come uno di quegli universi simbolici che servono a conservare il mondo socialmente costruito (SV,  p. 54); il suo potere legittimante consiste nella capacità di trasformare un cosmos in un nomos trascendente (la realtà viene giustificata a partire da una realtà trascendente) e il nomos della religione è potente perché capace di integrare le situazioni marginali che mettono in discussione la realtà della vita quotidiana (malattie, disturbi emotivi, morte).
È dunque ancora nel contesto della conservazione e stabilità dei mondi (che non significa fissità in quanto sono prevedibili anche sommovimenti, riforme o rivoluzioni) questa vota legittimati dalla religione e dunque dei mondi religiosi, che Berger afferma:

«i mondi sono socialmente costruiti e socialmente conservati [e] la loro persistente realtà, sia oggettiva (come fattualità comunque accettata per data) che soggettiva (come fattualità che s’impone alla coscienza individuale) dipende da specifici processi sociali, cioè da quei processi che incessantemente ricostruiscono e mantengono i particolari mondi in questione … Pertanto ciascun mondo richiede una “base” sociale per continuare a esistere come mondo che sia reale per i reali esseri umani. Questa “base” può venire definita come la sua struttura di plausibilità» (SV, p. 58).

Come si vede da quste citazioni il contesto di origine del nostro concetto di stutture di plausibilità e dunque dello stesso concetto di plausibilità è chiaramente sociologico, una sociologia o una teoria sociale che cerca di spiegare la realtà come “costruzione”.
Siamo agli antipodi di una visione cristiana in quanto in essa la società e il vivere sociale contemplano almeno tre elementi di fondo:

  1. Dio ha creato (il giardino come prima comunità sociale, Gen 1)
  2. L’uomo ha rovinato (il peccato che ha come conseguenza la vergogna e il conflitto, Gen 3)
  3. Dio fa patti e ricostruisce una dimensione sociale in cui egli è presente (il popolo di Dio, Gen 12).

Emerge dunque il divario tra rivelazione e costruzione sociale della realtà. La rivelazione è tra i presupposti più profondi dell’apologetica cristiana. Se volessimo sintetizzare questo divario e il conseguente contrasto tra il concetto di plausibilità e l’apologetica, potremmo ricorrere a due figure, quella della roccia di chiara derivazione biblica (Dio e la sua parola, la sua rivelazione, sono una roccia) e la sacra volta, immagine usata da Berger per descrivere l’universo simbolico della religione che legittima la costrzione sociale della realtà.

Non mancano i tentativi di coniugare il concetto di struttura di plausibilità e apologetica trasmutando il primo e sottraendolo al suo universo culturale e sociologico; per esempio Joe Carter, in una comunicazione sul network TGC (18 luglio 2014), ritiene che le strutture di plausibilità siano una sorta di filtro per le convinzioni di fede: ogni cosa che crediamo è filtrata dalle nostre stutture di plausibilità (apparati di formazioni delle credenze che fungono da custodi che lasciano passare convinzioni che si combinano con ciò che già crediamo essere vero). In questo modo però le strutture di plausibilità non determinano la verità (non la difendono né l’argomentano) ma semmai mirano alla loro coerenza; assomigliano a visioni del mondo. Si tratta dunque di una intellettualizzazione delle strutture di plausibilità, rispetto a Berger.

Come dunque adoperare una concezione chiaramente di matrice sociologica in uno scenario proposizionale come l’apologetica?
L’unica strada è quella di lasciarsi sfidare dal concetto di plausibilità come è stato ideato da Berger, vale a dire accettando l’idea che una verità sia sostenuta in buona sostanza da una base sociale, da una comunità, per dirla tutta. Una verità è tale perché quella comunità la ritiene tale; al suo interno essa è giustificata e giustificabile (corrisponde alla visone del mondo di quella comunità). Naturalmente questo scenario presta il fianco alle obiezioni che provengono dal versante del pluralismo e del relativismo: un’altra comunità non ritiene plausibile e dunque accettabile la stessa verità!

Eppure la sfida, da un punto di vista biblico, non è assolutamente improponibile.

Se pensiamo alla forma ultima che la dimensione sociale della comunità di fede che fa riferimento al Dio d’Israele come si è manifestato in Gesù, vale a dire la comunità cristiana, scopriamo che essa è il contesto in cui le verità di rivelazione dovrebbero riverberarsi (la luce del mondo e il sale della terra, secondo il Sermone sul monte):

Si pensi all’insegnamento di Gesù sull’amore di Giovanni 13:35 Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri.

Si tratta, a tutti gli effetti, di una strategia apologetica vera e propria. La gente non deve chiedersi se sia possibile un mondo in cui gli uomini possano vivere senza conflitti e nel segno dell’amore ma devono semplicemente constatare la realtà, e di conseguenza la plausibilità, di un simile mondo nella comunità di fede. Il soggetto dell’apologetica diviene dunque plurale e sociale; il suo linguaggio non è più l’argomentazione ma l’azione pratica e la testimonianza di vita!

È possibile andare oltre alla constatatzione della plausibilità, andare oltre la sua base sociale, per aggirare l’alibi relativista? Nella teoria di Berger  c’è un racconto relativo alle origini della realtà socialmente costruita (sono le dimensioni marginali dell’esistenza) ma anche un discorso sulle origini degli universi simbolici.

Si direbbe che un passaggio eziologico sia inevitabile: posto che una verità sia socialmente accettabile, sia plausibile in virtù di una comunità sociale che l’incarna, il passo è quello di chiedersi quale sia l’origine della particolare verità che incarnata si dimostra plausibile. Per non dire nulla sull’origine della comunità stessa che incarna plausibilmente quella verità.

La risposta della visione biblica, anche di una che ha introiettato la lezione relativa alla plausibilità, è quella di riferirsi a un altro racconto delle origini; a questo punto, forse, ricominicia (giustificato) il ciclo dell’impegno apologetico tradizionale.

(Giacomo Carlo Di Gaetano)


[1] Riferimenti in A.E. McGrath: «I socio­logi della scienza ipotizzano che in ogni società umana vi sia quella che Peter Berger definisce «una struttura di plausibili­tà», vale a dire, una struttura di assunti e di pratiche, avvalo­rata dalle istituzioni e dalle loro azioni, che definisce quali cre­denze sono persuasive. Non la si deve confondere con il puro idealismo di una «visione del mondo». Quello a cui Berger si sta riferendo è un perimetro socialmente costruito che è me­diato e supportato dalle strutture sociali» (La Riforma protestante e le sue idee sovversive, p. 33). «È ormai am­piamente riconosciuto che la plausibilità, legittimità e coesio­ne interna dei sistemi di credenze sono create mediante stru­menti sociali e culturali» (Idem, p. 317).
E in D.A Carson, «Per quanto ne so, l’espressione «struttura di plausibilità» è stata coniata dal sociologo Peter L. Berger. Questi l’adotta per indicare modelli di pensiero ampiamente recepiti e accolti, quasi senza fare domande, all’interno di una particolare cultura. Uno dei corollari della sua argomentazione è che in culture più rigide e monolitiche (come quella giapponese), le strutture di plausibilità fondanti possono essere incredibilmente complesse – quello che intendo dire è che vi può essere una rete di posizioni vincolanti che costituiscono un sostrato di convinzioni, il quale raramente viene messo in discussione. Per contro, in una cultura fortemente eterogenea come quella che caratterizza molti paesi del mondo occidentale, le strutture di plausibilità sono necessariamente più limitate per la semplice ragione, un’ottima ragione a dire il vero, che esiste un numero minore di posizioni comuni. Le strutture di plausibilità che invece permangono tendono a essere ritenute con particolare forza, quasi che vi sia il riconoscimento che senza tali strutture la cultura correrebbe il rischio di sfaldarsi» (L’intolleranza della nuova tolleranza, p. 28)