Tre modelli di persecuzione. Cristianesimo e persecuzione nel XXI secolo

La giornata di mercoledì 25 al Congresso di Seul è stata dedicata al problema della chiesa perseguitata. Se è vero, come dice il Report, il cristianesimo è la religione di quasi un terzo della popolazione mondiale (con  le dovute differenze), è vero anche che si tratta della religione che ha più problemi nell’esplicitare il proprio annuncio, in quanto per le sue caratteristiche ha il bisogno che la Parola possa essere (per usare un’espressione di Lutero) “scatenata”. La lettura di Atti 11 e la meditazione seguente è servita per partire dall’esempio apostolico su come affrontare la persecuzione attraverso la preghiera ed il rinforzo dello Spirito Santo. 

Dopo la riflessione che è stata fatta nei tavoli a proposito delle situazioni di persecuzione nel mondo, abbiamo potuto ascoltare, nel mattino tre testimonianze, molto toccanti, di quello che, talvolta, accade ai cristiani nel mondo.

Babu Verghese dell’Uttar Pradesh (una delle regioni dove è maggiore la presenza cristiana in India) ha raccontato come, soprattutto nell’ultimo periodo, dal momento in cui i nazionalisti induisti hanno vinto le elezioni, la situazione nella sua regione è di gran lunga peggiorata e la popolazione induista ha iniziato a perseguitare la Chiesa che trova poi il governo (che, secondo la Costituzione indiana, dovrebbe difendere la libertà religiosa) indifferente o privo di interesse nell’intervenire. Si tratta, quindi, di una persecuzione da cui, in teoria la legge dovrebbe tutelare, e che, di fatto non viene rispettata. Nell’attuale mondo succede: l’insorgenza dei fondamentalismi di tutte le religioni rischia di non rendere valido quel principio di tolleranza che proprio i credenti nel corso dei secoli hanno costruito. Non bisogna infatti dimenticare che la libertà di religione è la prima delle libertà civili ad essere stata garantita e, prevista dagli umanisti (in primis Erasmo), era stata chiesta a gran voce dai calvinisti francesi, applicata dai Puritani inglesi ed ha avuto la sua massima espressione nelle idee antirepressive di Roger Williams. La costituzione indiana è stata scritta da un laico ispirandosi alla tradizione anglo-sassone ed il giornalista dell’Uttar Pradesh ha finito il suo discorso con la Bibbia sul leggio e la costituzione indiana in mano.

Il secondo discorso veniva da un pastore anglicano cinese che ha spiegato quali siano le difficoltà presenti in Cina, dove, a fronte di una crescita notevole del cristianesimo, i margini di manovra da parte dei credenti sono pochissimi. La libertà di espressione in Cina è vietata e le Chiese dovrebbero essere autorizzate per il loro ministerio ed essere sotto il controllo dello stesso Stato. Esiste però il fenomeno della Chiesa non ufficiale che è in forte crescita. Ogni anno diversi sono gli arresti. Si è ricordato nel discorso che, però, qualche passo avanti è stato fatto in quanto, al contrario di quanto successo a Città del Capo, dove a ben 200 delegati cinesi alla fine fu negato il permesso di viaggio, qui in Corea abbiamo ben 100 delegati autorizzati che provengono dalla Cina. Si tratta sicuramente di un passo avanti per un Paese in cui la repressione religiosa, da parte del governo centrale, è ancora piuttosto forte e gli arresti per motivi di fede rimangono frequenti. La relazione si è conclusa con la speranza che il prossimo Congresso di Losanna che si farà in Asia possa essere fatto in Cina.

La mattina (le testimonianze della mattina) si è conclusa con quella più toccante, proveniente dall’Iran. Il pastore Farshid Fathi ha esordito ricordando che dopo aver partecipato a Cape Town il regime teocratico iraniano lo ha arrestato per cinque anni e dicendo che la sua speranza sia quella che tutto ciò non accada più. Farshid ha raccontato che, nonostante la persecuzione, il cristianesimo iraniano è uno di quelli che ha la più forte crescita. La persecuzione qui è spietata ed il regime iraniano, oltre ad addurre motivi politici (come succede in Cina) ha anche motivazioni religiose, trattandosi di una repubblica islamica emergono quelle di tipo religioso (in questo Stato non si può non essere islamici). Si tratta probabilmente di uno modi più duri di subire la repressione. L’intervento sull’Iran si è concluso con la testimonianza di Sara Akhavan che ha dimostrato anche che convertirsi al cristianesimo può anche essere, in paesi come quelli di impronta islamico fondamentalista una forma di emancipazione femminile.

Le testimonianze pomeridiane sulla persecuzione (a dimostrazione di quanti casi ci possano essere) hanno fatto emergere altre tipologie, come la repressione del cristianesimo in alcune zone dell’Africa fatta da gruppi violenti di terroristi ed in cui tutto ciò può accadere per una debole presenza dello Stato, per concludersi con la menzione della situazione della Nord Corea: infatti, a pochi chilometri dal luogo in cui sto scrivendo queste righe, essere cristiano non è possibile a causa di uno dei regimi più autocratici ed autoritari ed in cui il culto della persona è quasi diventato una religione. In Corea del Nord i cristiani ci sono e vivono una vita “sotterranea” per evitare di venire inviati nei campi di rieducazione.

Come si può constatare la persecuzione del cristianesimo oggi è ripresa con vigore e investe Paesi di almeno tre continenti. Se la forza ed i messaggi delle testimonianze ascoltate dà speranza e mostra come le porte dell’Ade non possono sconfiggere la predicazione del Vangelo, allo stesso tempo, ci si chiede come poter aiutare questi fratelli che sono in difficoltà, oltre che con le preghiere (ausilio essenziale in queste circostanze), il modello missionale prevede anche l’impegno in azioni concrete che cercano di fermare queste situazioni. Se è vero che i credenti hanno avuto le loro colpe nella storia (l’impegno di Città del Capo lo confessava), oggi il cristianesimo evangelico proprio sulla base del suo mandato sa che il suo volto è quello dell’Amore e dell’apertura verso gli altri. Se la persecuzione è una cosa annunciata e sarà sofferta, il nostro compito è anche quello di cercare soluzioni affinché le afflizioni passino anche qui sulla terra e non soltanto in futuro escatologico.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Daniel Bourdanné (1959–2024) Lo studioso dei millepiedi, diventato leader di IFES, che amava i libri cristiani.

di Maude Burkhalter

L’articolo è stato pubblicato sul mensile Christianity Today (https://it.christianitytoday.com/) ed è qui tradotto con autorizzazione. (Traduzione di Luisa Pasquale)

 

Il leader del ministero studentesco, originario del Ciad, ha trascorso i suoi ultimi anni a promuovere l’editoria in Africa.

Daniel Bourdanné è morto il 6 settembre (2024) all’età di 64 anni, a causa di un cancro. È stato uno scienziato, originario della nazione centroafricana del Ciad, che ha ispirato i giovani evangelici di tutto il mondo in qualità di segretario generale di IFES e di promotore di lunga data dell’editoria cristiana in Africa.

Dopo anni di ministero tra gli studenti, Bourdanné è diventato nel 2007 segretario generale di IFES (International Fellowship of Evangelical Students), ricoprendo questo ruolo fino al 2019. Avido lettore (e talvolta scrittore), dal 2018 e fino alla sua morte Bourdanné ha collaborato con Africa Speaks per promuovere l’editoria cristiana nel continente.

Bourdanné ha trascorso gran parte della sua vita in nazioni francofone, tra cui Togo, Camerun e Costa d’Avorio, prima di trasferirsi a Oxford, in Inghilterra, quando è diventato segretario generale di IFES. Al momento della sua morte, viveva a Swindon, sempre in Inghilterra.

 

«Dio mi ha mandato nel mondo, partendo da questo continente e ora mi riporta avendo il mondo con me in questo stesso continente, affinché io possa completare il mio ruolo di missionario della Chiesa africana», ha affermato Bourdanné nel suo discorso di addio in Sudafrica nel 2019, in occasione dell’Assemblea Mondiale IFES.

 

Tiémoko Coulibaly, segretario generale dell’affiliato movimento nazionale IFES in Mali ha affermato che «Daniel era orgoglioso di essere africano». Anche se ha vissuto in Occidente, il suo cuore è rimasto in Africa, il continente in cui è nato e che non ha mai abbandonato».

 

Figlio di un pastore, Bourdanné è nato il 18 ottobre 1959 a Pala, nel Mayo-Kebbi Ouest, in Ciad. All’età di 10 anni perse il padre, la cui morte costrinse Bourdanné a iniziare a lavorare nei campi, a tagliare la legna e a coltivare ortaggi che poi la madre vendeva. A queste responsabilità si aggiunse una guerra civile che durò dal 1965 al 1979 e che causò la morte di migliaia di persone. Pochi mesi prima della fine della guerra, Bourdanné vinse una borsa di studio per proseguire gli studi in ecologia animale all’Università del Ciad. In seguito, conseguì una laurea in scienze naturali presso l’Università di Lomé, in Togo (ex Università del Bénin).

 

Nel 1983, Bourdanné si trasferì ad Abidjan, in Costa d’Avorio, per conseguire un dottorato in ecologia animale. Nel 1990 discusse la sua tesi sui millepiedi, diventando poi membro della Società internazionale dei miriapodologi.

 

Mentre proseguiva gli studi, Bourdanné iniziò a lavorare come insegnante di biologia nelle scuole superiori. Tuttavia, la sua passione per la condivisione del vangelo con gli studenti era nata molto prima. Una volta raccontò che «all’età di 14 anni, durante uno studio biblico su Apocalisse 1, ho colto per la prima volta la visione e la passione di vedere gli studenti salvati per il Signore».

«Le università influenzano e guidano profondamente, direttamente o indirettamente il futuro delle società umane», scrisse in un articolo sull’evangelizzazione degli studenti, pubblicato nel 2011 nel Dictionnaire de théologie pratique. «Gli studenti sono spesso in prima linea nei cambiamenti sociali in tutto il mondo. Infatti, quando si muovono insieme, alimentati dalla loro energia, vitalità, determinazione, passione, immaginazione e creatività, hanno la forza di muovere la società».

 

Nel 1990 Bourdanné iniziò a lavorare con IFES, come segretario itinerante; nel 1996 fu nominato segretario regionale per l’Africa francofona (GBUAF).

 

Quando divenne segretario generale, nel 2007, succedendo a Lindsay Brown che ricopriva la carica dal 1991, il movimento IFES aveva 60 anni ed era presente in oltre 150 Paesi. Tuttavia, durante il suo mandato durato 12 anni, il movimento è cresciuto in modo significativo, soprattutto nella diversità della sua leadership.

 

Sotto la guida di Bourdanné IFES ha dato più spazio ai teologi del sud del mondo. Nel 2007, nominò Christy Jutare delle Filippine come prima donna Segretario regionale di IFES per guidare la regione Eurasia. Nel 2011 nominò i primi due rappresentanti degli studenti in senso al Consiglio di Amministrazione di IFES. Nel 2016 rilanciò una rivista di riflessione teologica e missiologica globale (Word and World).

 

Quando gli è stato chiesto quali sono stati i punti salienti del suo mandato Bourdanné ha dichiarato che tra questi c’è l’aver testimoniato che Dio «prende strade insolite» allorquando invita persone inaspettate a unirsi al cammino con lui, oltre alla gioia di vedere Dio che apre porte in contesti difficili.

 

Ha identificato una sfida cruciale. «Celebriamo la nostra unità», ha scritto nella sua e-mail di addio al movimento, «ma siamo umani, e quindi non c’è da sorprendersi se a volte qualcuno cerchi di promuovere la propria linea o le proprie preferenze. … Essendo cresciuto in un contesto di guerra e di conflitti tribali, ero forse più sensibile a come tutto ciò potesse diventare una minaccia per l’unità di IFES».

 

Una delle più grandi passioni di Bourdanné era quella di permettere alla Chiesa globale di ascoltare un maggior numero di cristiani africani. Lo fece incoraggiandoli a non seguire un’unica scuola di pensiero, ma a diventare voci di spicco in campo teologico.

 

«Alcuni di noi possono schierarsi con Billy Graham», dichiarò nel corso dello stesso discorso del 2019. «Altri [si allineano] con John Stott o con John Piper, e queste differenze ci arricchiscono più di quanto ci dividano». Ma aggiunse: «Tra questi tre nomi non c’è nessun africano. Non c’è nemmeno qualcuno proveniente dall’America Latina o dall’Asia».

 

L’amore di Bourdanné per gli studenti fu eguagliato solo dal suo amore per i libri. Lo scienziato ne possedeva centinaia, se non migliaia, custoditi con cura in tre diverse biblioteche: una nella sua casa in Inghilterra, una nel suo ufficio di Oxford e una in una residenza in Costa d’Avorio.

 

A un certo punto, la passione di Bourdanné per la parola scritta lo portò a fondare una rivista. Egli e quattro amici misero insieme le loro risorse per finanziare il primo numero e investire nella sua pubblicazione. La rivista operò senza debiti fino allo scioglimento del gruppo e, a parte una donazione di 80 dollari da parte di alcuni missionari, non fece mai affidamento su aiuti esterni.

 

Nel 1995, Bourdanné divenne direttore della Presses bibliques africaines. Nel 2018 entrò a far parte del Consiglio di amministrazione di Africa Speaks, dove continuò a prestare servizio fino alla sua scomparsa, promuovendo la crescita dell’editoria cristiana in Africa, incoraggiando gli scrittori cristiani africani a scrivere e pubblicare e promuovendo i loro libri.

 

Bourdanné credeva che per i cristiani africani i libri potessero essere catalizzatori di trasformazione. Scrisse che «L’Africa non vivrà la sua rivoluzione editoriale finché non saremo in grado di vincere la battaglia per l’amore per i libri». Ciò fara sì che questa passione “contaminerà” positivamente l’Africa dall’interno, affermò sempre Bourdanné, la cui metafora si ispirava alle parole di Gesù di Marco 7, secondo le quali ciò che contamina una persona viene dall’interno.

 

Bourdanné credeva fermamente che l’Africa dovesse attrezzarsi in vista del proprio progresso, il che richiedeva, a suo avviso, un cambiamento di mentalità accompagnato da fruttuose collaborazioni con l’Occidente.

«A cosa serve il fervore domenicale dell’Africa se il lunedì riemergono i demoni della corruzione, dei conflitti e dei genocidi?». Nel 2006 in occasione di una predicazione tenuta a Ginevra a un pubblico di leader evangelici, Burdanné affermò: «Che senso hanno il nostro culto e le nostre preghiere in Europa se le nostre vite sono ancora guidate dalla ricerca del massimo profitto e se le nostre chiese rimangono divise?».

 

Invitò i cristiani europei a lottare per il cambiamento: «Le nostre azioni parlano più delle nostre parole. Le vittime dell’ingiustizia devono vedere l’impegno dei cristiani occidentali in questo campo».

 

Sebbene sia stato più coinvolto nella promozione della letteratura cristiana in Africa che nella sua stesura, è stato autore di alcune opere: Ces évangéliques d’Afrique, qui sont-ils? (1998) e L’Évangile de la prospérité, une menace pour l’Église en Afrique (1999).

 

Nel 2018 il Calvin University gli conferì il Premio Abraham Kuyper per l’eccellenza nella teologia riformata e nella vita pubblica, sottolineando il suo impegno nell’editoria cristiana francofona e il suo ministero con IFES.

 

Jul Medenblik, presidente del Calvine Theological Seminary disse di lui: «Un quarto di secolo fa, Daniel vide la necessità per gli studenti cristiani di essere guidati da una visione cristiana del mondo in ordine a una varietà di temi che erano di grande interesse per loro, e agì di conseguenza».

 

Timothée Joset, professore di missiologia presso la Faculté libre de théologie évangélique (FLTE) in Francia, e membro dei Global Resource Ministries di IFES, ha raccontato che il suo amico Bourdanné lo ha introdotto alle complesse questioni che riguardano l’Africa francofona e alle relazioni globali tra nord e sud.

 

«Ciò che mi ha colpito è stata anche la sua resilienza. Non ha mai serbato risentimento, anche se ha sperimentato una grande quantità di razzismo», ha detto Joset, ricordando un episodio così eclatante che il teologo N.T. Wright lo ha persino citato in un sermone di Pasqua.

 

Wright raccontò che allorquando IFES aveva assunto Burdanné come Segretario Generale, «l’Alta Commissione britannica di Accra tirò per le lunghe la richiesta di Daniel di trasferirsi in Inghilterra, per poi rifiutarla con una spiegazione infima». «Daniel quindi chiese il permesso di recarsi nel Regno Unito con il visto turistico e gli fu detto che poteva farlo. Ma quando arrivò fu trattenuto per 22 ore, gli furono sequestrati i telefoni cellulari e fu rimandato in Africa».

 

Nonostante questi incidenti, Bourdanné ispirò i suoi compagni con la sua considerazione e la sua umiltà. Uno dei suoi studenti ricorda con affetto come Bourdanné gli inviasse personalmente dei libri, dopo che il sistema postale inglese continuava a confondere il suo indirizzo con uno di un altro Paese. Un altro collega internazionale ha ricordato come preferisse sedersi per terra durante le conferenze, per permettere agli altri di avere una sedia.

 

Questa modestia non ha mai impedito a Bourdanné di sfidare i suoi compagni cristiani su questioni che gli stavano molto a cuore, come l’evangelizzazione. Ha servito il Movimento di Losanna quale Vicedirettore internazionale per l’Africa francofona (21 Paesi), fino alla Conferenza di Losanna del 2010, a Città del Capo, in Sudafrica. Quando lasciò questo incarico, fu nominato membro del Consiglio di amministrazione del Movimento di Losanna.

 

«Possiamo essere credibili annunciando un vangelo che ignora lo sfruttamento dei deboli da parte dei forti? Possiamo continuare a preoccuparci solo della salvezza delle anime africane chiudendo gli occhi sulla loro condizione sociale?», chiese nel 2016. «In che modo il vangelo è una buona notizia per le comunità che lottano per soddisfare i propri bisogni di base? Come possiamo rimanere in silenzio di fronte alle crescenti disuguaglianze sociali in Africa o di fronte alle questioni ambientali? Proclamazione e azione devono andare di pari passo».

 

Daniel Bourdanné lascia la moglie Halymah, originaria del Niger, e i loro quattro figli.

 

 

L’Evangelo a Roma

(La Vedetta cristiana, 1–15 Ottobre 1870)

[Nel mentre il mondo protestante esultava per la Breccia di Porta Pia – 20 Settembre 1870 –, immaginando grandi conquiste per il protestantesimo e la caduta del Papa, si levava una voce di precauzione, che invitava tutti a fare attenzione]

Roma è libera: essa è aperta a tutti gli uomini e a tutte le cose, ai credenti ed agli atei, al bene e al male, alla verità e all’errore, alla luce ed alle tenebre, alla vita ed alla morte. È aperta la gran Babilonia onde gli uomini facciano colà prova del loro senno o della loro stoltizia; edifichino cose buone ovvero travolgano in rovina ogni cosa cara e diletta alla patria e all’avvenire eterno dell’anima. È aperta la Roma dell’apostolo Paolo, acciocché i servitori del Signore facciano di nuovo echeggiare nel cuore di Roma i soavi concenti dell’Evangelo della Grazia di Dio.

Fratelli, con quale spirito andrete voi a Roma per annunziare l’evangelo? – Non siate precipitosi nel decidervi, non correte all’impazzata, non siate animati dal vano proposito di essere i primi a portare l’evangelo ai Romani: – ma raccoglietevi piuttosto in voi stessi, mettetevi alla presenza del Signore, e investigate il carattere, i sentimenti e le affezioni dello spirito che è in voi. Voi lo sapete: da qualche tempo si è buttata via l’aurea semplicità cristiana per parere alcunché davanti agli uomini; ma questi scandalizzati dalla boria e dalla vanità, che par persona si sono ritratti da Cristo!

Voi lo sapete, da qualche tempo i vincoli di pace e di carità fraterna sono stati rigettati, per unire invece i Cristiani con catene umane di forme e di parole, con catene di carta e di carne! Voi lo sapete, da qualche tempo non è più lo Spirito di Dio, Spirito di pace e di grazia che anima alcuni evangelizzatori! Voi lo sapete: da qualche tempo non è Gesù Cristo ed esso crocifisso che si predica, ma la controversia clamorosa e beffarda i principi, le divisioni! Voi lo sapete: da qualche tempo, non è più la fede, potenza di Dio, che si annunzia ma la Fede e l’uomo, la fede e i principi, la Fede e la nostra Chiesa, e questa confusione sgomenta e fuga le anime da Cristo! Umiliamoci dunque sotto la potente mano di Dio, deponiamo ogni fascio ed ogni risentimento, le gelosie, le risse e le maldicenze; torniamo tutti alla primiera semplicità, torniamo al primiero amore, ricacciamo nell’ombra e principi e forme umane e ripieni di Spirito Santo e di fede, ognun di noi, che si sente chiamato a quell’opera, innalzi il grido di Paolo: «Io son presto ad evangelizzare eziandio a voi che siete a Roma. Perciocché io non mi vergogno dell’Evangelo di Cristo conciossiaché esso sia la Potenza di Dio in salute ad ogni credente: al Giudeo imprima poi anche al Greco.

Perciocché la giustizia di Dio è rivelata in esso di fede in fede secondo che egli è scritto: E il giusto vivrà per fede» (Rom. I, 15-17).

Ma se alcuno andrà a Roma per predicare la sua chiesa, i suoi principi, le sue forme, e cambierà la cattedra della Verità in una cattedra di maldicenze contro il Papa, i preti, i frati ec. la provincia romana diventerà campo di contenzione clamorosa come avvenne nell’Italia centrale e nella meridionale: – dopo un breve rumore gli uditori spariranno come pula sospinta dal vento, e gli evangelizzatori che sciupano e disertano il ricco campo della Grazia dovranno uno stretto conto del loro operato carnale davanti al tribunale di Cristo.

Scegliete!

E sappiate che con voi andranno a Roma coloro che predicano Cristo e le opere, Ia giustificazione per fede e per le opere e storcendo il senso del Vangelo rinverziranno la vecchia dottrina romana che è poggiata sulla fede carnale e le opere della carne.  Operai del Signore, rammentatevi che sta scritto: «Voi, siete salvati pet la grazia mediante la fede; e ciò non è da voi, è il dono ci Dio. Non per opere, acciocché niuno si glori» (Ef, II 8, 9).

Vi andranno di quelli che annunziano Cristo e la salvazione universale. Prendete guardia di non cadere in quest’arminianismo che rende nulla la predicazione della fede, nulla l’opera di Cristo. A chi vi parla di salute universale rispondete con le parole di Gesù: «Chi ode la mia voce e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna, e non viene in giudicio» «Chi non crede al Figliuolo, non vedrà la vita, ma l’ira di Dio dimora sopra lui» (Giov. III. 36).

Vi andranno di quelli che non credono che Gesù è Dio manifestato in carne, e copriranno il

desolante ateismo del loro cuore con parole vaporose, acciocché i peccatori non abbiano vita, – Ia Vita eterna – la Vita di Gesù ch’è Dio; e così restandone privi, restano altresì ne’ loro peccati, continuando a camminar nelle tenebre, e a vivere la vita diabolica del Serpente! Combattete quest’eresia rammentandovi che nel principio il, Verbo era, e il Verbo era appo Dio, e il Verbo era Dio … E il Verbo è stato fatto carne (Gio. I, 1–14).

Vi andranno coloro che non credono alla punizione eterna, e conseguentemente, annullano l’opera dell’espiazione, espongono al ludibrio di Satana il giudicio di Dio, disprezzano il sangue del patto eterno! Rammentatevi che la Parola parla del fuoco eterno (Matt XVIII, 8) delle pene eterne (ibid. XXV, 46), del fuoco inestinguibile (Mar IX, 43) dell’eterno giudicio (Ibid. III, 29), della pena e perdizione eterna (2 Tess. I, 9), di legami eterni (Iuda 6), e combattete l’eresia con la parola della Vita.

Che il Signore vi renda dunque savi e prudenti, vi fortifichi nella grazia acciocché sappiate soffrire, come buoni guerrieri di Gesù Cristo. Rammentatevi che: niuno che va alla guerra s’impaccia nelle faccende della vita, acciocché piaccia a colui che l’ha, soldato. Rammentatevi di tagliar dirittamente la parola della verità; di schifare le profane vanità di voci (2 Tim. II); e specialmente rammentatevi che tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati (ibid. III, 12).

 

(Teodorico Pietrocola Rossetti ?)

 

Aveamo di già composto il, precedente articolo quando ci giunse la lettera seguente che di

gran cuore pubblichiamo. Essa segna una bella data nella Storia della Chiesa Cristiana in ltalia:

addi 30 settembre l870, per la prima volta, alcuni convertiti italiani si riunirono a ROMA per adorare il Signore in Ispirito e Verità.

 

DOPO TANTI SECOLI

(Mantova 5 ottobre 1870)

L’anfiteatro di Flavio che fu infiammato col sudore e col sangue di tanti poveri schiavi e martiri cristiani, che ha servito di teatro a tante scene del più orribile e barbaro strazio de’ medesimi, fatto dalle belve, davanti agli ammolliti ma feroci idolatri romani, «dopo tanti secoli» è stato testimonio d’un fatto che merita d’esser registrato nella storia delle conquiste della verità sull’errore, «dell’adorazione di Dio in ispirito» (Gioa, w, 2O a 24).
Un fratello che fu qui a Mantova per qualche tempo, mi scrive da Roma. in data delli 30 settembre: «A riguardo dell’Evangelo le dirò che, Dommica p.p. ci siamo raunati in sei o sette di noi nel grande Anfiteatro di Flavio (Colosseo), e là abbiamo passato circa due ore nella lettura della Parola di Dio, in preghiere, orazioni e ringraziamenti al Signore pe’ grandi benefici che Egli si compiace impartirci, e così dopo tanti secoli, anche qui, in questa grande Babilonia abbiamo potuto per la prima volta, Domenica scorsa, innalzare le nostre preci all’Iddio vivente, in ispirito e verità…., ne sia dunque lodato e ringraziato Iddio, di questo grande ed impareggiabile benefizio!

Questo fatto, nella sua semplicità, per la circostanza in cui succede, io lo credo fecondo di profonde meditazioni, di molti ammaestramenti e di molto conforto.

È un conforto pe’ cristiani il vedere che, quantunque gli uomini si servano delle armi carnali, pur tuttavolta trionfarono su Roma i soli principi dell’Evangelo. Poiché, possiamo dire che quelle parole: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare» ricevettero dai Romani, a loro insaputa; il più splendido adempimento che mai siasi veduto. Ebbene, poco prima, quei sei o sette fratelli nel Colosseo avevano di già eseguito il compimento della frase del Signore Gesù, «rendendo a Dio ciò che è di Dio» (Matteo XXII, 21). Se dunque sono i principi dell’Evangelo che trionfarono su Roma, speriamo che saranno ancora gli stessi principi che trionferanno di Roma, in Roma.

(Carlo Zanini)

Queste sono le nostre convinzioni evangeliche

Nel mentre è in corso negli Stati Uniti la Campagna per le presidenziali di Novembre, con la polarizzazione che tutto il mondo conosce, un gruppo di intellettuali evangelici ha elaborato questa professione di fede alla quale si stanno aggiungendo tantissimi altri intellettuali, sempre di area evangelica. Tra loro spiccano i nomi di Russell Moore, Richard Mouw, Nichoals Wolterstorff e tanti altri (la lista è on line e consultabile). La traduzione è stata autorizzata.

La professione di  fede si trova a questo indirizzo: https://www.evangelicalconfession2024.com/

 

Il vangelo ci convince di queste cose

In questo frangente storico segnato da conflitti e divisioni politiche, vogliamo far conoscere l nostre, seguenti convinzioni cristiane:

Primo: la nostra totale fiducia è posta unicamente in Gesù Cristo

Affermiamo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio e l’unico capo della Chiesa (Col 1:18). Nessuna ideologia politica o autorità terrena può rivendicare l’autorità che appartiene a Cristo (Fil 2:9–11). Ribadiamo di attenerci al suo vangelo che si distingue da ogni agenda faziosa. È acclarato che Dio non condivide la sua gloria con qualcun altro (Is 42:8). Il nostro culto si rivolge solo a lui (Es 20:3–4) poiché la nostra speranza più profonda non si appunta su qualche partito, leader, movimento o su qualche nazione ma sulla promessa del ritorno di Cristo quando egli rinnoverà il mondo e regnerà su tutte le cose (1 Cor 15:24–28).

Respingiamo il falso insegnamento secondo il quale qualcun altro, che non sia Gesù  Cristo, sia stato unto da Dio come nostro Salvatore  e che la lealtà cristiana debba essere indirizzata verso qualche partito politico. Respingiamo qualsiasi messaggio che promuove la devozione a un leader umano o che tenta di adattare il culto a una forma di partigianeria.

 

Secondo: ci facciamo guidare dall’amore e non dalla paura

Affermiamo che la potenza salvifica rivelata in Gesù sia motivata dal suo amore per il mondo piuttosto che dall’ira (Gv 3:16). Poiché Dio ha profuso il suo amore su di noi, possiamo amare gli altri (1 Gv 4:19). Riconosciamo che questo mondo è pieno di ingiustizia e di sofferenza, ma non siamo intimoriti poiché Gesù Cristo ci ha promesso che non ci abbandonerà mai (Gv 16:33). A differenza delle false sicurezze promesse dall’idolatria politica e dai suoi araldi, l’amore di Cristo caccia via da ogni paura (1 Gv 4:18). Per questo, non ricorriamo alla paura, alla rabbia o al terrore quando ci impegniamo nella nostra missione; al contrario, seguiamo la via più eccellente di Gesù che è quella dell’amore (1 Cor 12:31––13:13).

Respingiamo lo strumento della paura e il ricorso ai pericoli ritenendo tutto ciò una forma illegittima di santa motivazione e ripudiamo l’uso della violenza per il conseguimento di fini politici, considerandola incongruente con la via di Cristo.

 

Terzo: ci sottomettiamo alla verità della Scrittura

Sosteniamo che la Bibbia sia l’ispirata Parola di Dio, autorevole in materia di fede e di condotta (2 Tm 3:16–17). Ci impegniamo a interpretare e ad applicare la Scrittura fedelmente, guidati dallo Spirito Santo per l’edificazione del popolo di Cristo e la benedizione del suo mondo (Gv 16:3). Crediamo che ogni autentica parola profetica debba allinearsi all’insegnamento della Scrittura e al carattere di Gesù (1 Gv 4:1–3). Parallelamente, riteniamo che mentire sugli altri, incluso gli oppositori politici, è un peccato (Es 20:16). Per questo motivo ci impegniamo a esprimerci con verità e amore (Ef 4:15), sapendo che l’inganno disonora Dio e nuoce alla reputazione della Chiesa.

Respingiamo l’uso sbagliato della Scrittura per sanzionare una singola agenda politica, provocando odio o seminando dissensi sociali, mentre crediamo che usare il nome di Dio per promuovere la disinformazione o la menzogna al fine di ottenere un guadagno politico o personale equivalga a usare invano il nome di Dio (Es 20:7).

 

 Quarto: crediamo che il vangelo sani e possa sanare le divisioni presenti nel mondo

Affermiamo l’unità di tutti i credenti in Gesù Cristo (Gal 3:28) e che per mezzo del suo sacrificio sulla croce, egli ha rimosso le barriere che ci separavano (Ef 2:14–18), facendo si che gente di ogni nazione, tribù, popolo e lingua costituissero una nuova famiglia (Ap 7:9). Siamo chiamati a essere operatori di pace (Mt 5:9) mentre l’unità controculturale della chiesa deve essere un segno per il mondo dell’amore e della potenza di Dio (Gv 13:35; 17:20–21).

Respingiamo ogni tentativo di dividere la Chiesa, che è il Corpo di Cristo, con barriere e confini di parte, etnici o di nazione mentre consideriamo ogni messaggio, che ritiene essere un desiderio di Dio la perpetua segregazione dell’umana famiglia sulla base di razza, cultura o etnia, non sia altro che un messaggio contrario al vangelo.

 

Quinto: ci atteniamo alla missione profetica della chiesa

Sosteniamo che il regno di Cristo non sia di questo mondo (Gv 18:36) e per questo, necessariamente, la Chiesa sia separata da ogni potere politico terreno, di modo che possa parlare profeticamente a tutta la gente, a tutta la società e alle autorità. Alla Chiesa è stata affidata la divina missione della riconciliazione (2 Cor 5:18–21). In primo luogo, invitiamo chiunque a essere riconciliato con Dio mediante la proclamazione del vangelo, nel mentre insegniamo ovunque e a tutti di seguire la via di Gesù (Mt 28:19–20). In secondo luogo, cerchiamo di riconciliare le persone fra di loro, affrontando i temi della giustizia, dell’uguaglianza e della pace (Am 5:24). Svolgiamo questo compito amando il nostro prossimo (Mc 12:31), e impegnandoci pubblicamente con umiltà e integrità, avendo di mira il bene comune così come esso è definito dalla nostra fede in Cristo (Rom 12:18).

Rigettiamo sia l’invito a che la Chiesa si tenga in disparte nei confronti delle problematiche sociali o per paura della contaminazione politica, così come respingiamo qualsiasi tentativo di distorcere la Chiesa rendendola un mero strumento del potere politico o sociale.

 

Sesto: consideriamo ogni persona fatta all’immagine di Dio

Sosteniamo che ogni persona porta l’immagine di Dio e possiede un’intrinseca e infinita dignità (Gen 1:27). Gesù conferì dignità a coloro che la sua cultura svalutava e ci ha insegnato che il nostro amore, al pari di quello di Dio, deve estendersi ai nostri nemici (Mt 5:43–48). La nostra fede in Cristo, dunque, ci costringe ad agire con amore e misericordia verso tutti, dall’inizio della vita alla sua conclusione, e ad onorare chiunque quale portatore dell’immagine di Dio, indipendentemente dall’età, dalle sua capacità, dalla sua identità, convinzione politica o affiliazione (Gv 13:34–35). Ci impegniamo a schieraci in favore del valore di chiunque la nostra società ferisca o ignori.

Rigettiamo ogni pronunciamento che fa ricorso a una retorica disumanizzante che tenta di restringere il campo di chi è degno dell’amore di Dio o che impone limitazioni al comando di «amare il prossimo», dopo che Cristo ha rimosse tali limitazioni.

 

Settimo: i leader saggi li riconosciamo dal loro carattere morale

Riteniamo che il carattere dei leader, sia politici sia spirituali, sia una cosa che conti. Nella Chiesa, seguiamo come leader coloro che mostrano un’evidenza del frutto dello Spirito – amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo (Gal 5:22–23). Gesù ci ha messo in guardia contro i falsi insegnanti che vengono a noi come lupi vestiti da pecore (Mt 7:15). Voci del genere ci tenteranno con l’adulazione, con la cattiva dottrina e con messaggi che a noi fa piacere ascoltare (2 Tm 4:3). Essi servono i falsi idoli del potere, della ricchezza e della forza piuttosto che il vero Dio. Al di fuori della Chiesa prendiamo in considerazione i leader sulla base delle loro azioni e del frutto del loro carattere, non semplicemente sulla base delle loro promesse o del loro successo politico (Mt 7:15–20). Quando qualche leader sostiene di avere l’approvazione di Dio, si trovi egli nella Chiesa o nella politica, noi non vogliamo scambiare l’efficacia con la fedeltà, ma vogliamo discernere attentamente chi è veramente da Dio (1 Gv 4:1).

Respingiamo l’idea che il potere, la popolarità e l’efficacia politica di un leader sia una conferma del favore di Dio o che ai cristiani sia permesso di ignorare l’insegnamento di Cristo sul fatto che essi debbano guardarsi dal potere mondano.

 

Conclusione

Siamo unanimi nella nostra professione di fede in Gesù Cristo, determinati a sostenere la verità del vangelo nei confronti delle pressioni politiche e delle derive culturali. Ci impegniamo per essere una luce nel mondo (Mt 5:14–16) e dei fedeli testimoni della potenza dell’amore di Cristo che trasforma. Preghiamo affinché lo Spirito di Dio faccia rivivere la sua Chiesa e rafforzi il popolo di Dio affinché siano agenti della sua presenza e della sua benedizione, in un tempo così turbolento.

 

A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire irreprensibili e con gioia davanti alla sua gloria,  al Dio unico, nostro Salvatore per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, siano gloria, maestà, forza e potere prima di tutti i tempi, ora e per tutti i secoli. Amen (Gd 24–25)

 

 

 

Prestito o eredità (Vivere e confrontarsi con l’Islam)

Andy Bannister

Solo perché un racconto utilizza gli stessi nomi e personaggi di un altro non significa automaticamente che le due storie siano collegate. Anzi, dobbiamo capire se questi elementi sono stati presi in prestito o se sono stati ereditati.

Per comprendere la differenza fra eredità e prestito consideriamo un esempio architettonico. Uno dei miei edifici preferiti è il duomo di York, probabilmente la più bella cattedrale d’Inghilterra. La sua storia è affascinante: la splendida chiesa normanna, poi cattedrale, fu costruita al di sopra di una chiesa sassone più antica; l’edificio medievale cresceva mentre la chiesa più antica fu ampliata e rimodernata. Sotto la chiesa sassone, però, c’è qualche cosa di ancora più antico: le rovine di un presidio militare romano. Se fate il tour della cripta, potete scendere attraverso strati di storia fino alle rovine romane nelle fondamenta.

C’è però una differenza sostanziale fra le rovine romane, sassoni e normanne. Nel suo processo di ampliamento, il duomo di York si è sviluppato organicamente dalle chiese più antiche, parallelamente al loro accrescimento e arricchimento. Che dire, però, delle rovine romane nella cripta? Certo, sono state utilizzate delle pietre romane, in quanto era agevole per le maestranze della chiesa sassone avere tonnellate di pietre squadrate sparse intorno e inutilizzate[1]. I Sassoni, però, usarono il materiale romano solo come mattoni da costruzione, non c’è nessuna continuità fra le rovine romane e la chiesa.

In altre parole, il duomo medievale di York ha preso in eredità dalle chiese normanna e sassone, mentre ha preso in prestito dal presidio romano, modificando la funzione delle pietre e gettandole senza troppe cerimonie nelle fondamenta della nuova costruzione.

Nel suo libro The Qur’an and Its Biblical Reflexes, Mark Durie propone un altro esempio che può aiutarci a comprendere la differenza fra eredità e prestito, stavolta preso dalla linguistica. Quando due lingue derivano da una fonte comune, condividono non soltanto delle parole ma anche delle strutture profondamente correlate. Consideriamo, per esempio, le parole per dire «topo» in inglese, islandese e tedesco[1]. In inglese il singolare è “mouse” e il plurale “mice”; in islandese è mus/mys e in tedesco Maus/Mause. Si noti come le forme singolare e plurale mostrino tutte lo stesso schema: una variazione vocalica interna. Questo tratto strutturale condiviso è indizio della derivazione di queste lingue da una fonte comune; hanno, cioè, una comune eredità.

Il prestito, al contrario, di solito è altamente distruttivo. Si pensi alla parola “juggernaut” [furia devastante, ndt], presa in prestito dalla lingua inglese dal sanscrito tramite l’Hindi. Originariamente era Jagannatha, nome sanscrito di una divinità indù il cui culto prevedeva di schiacciare i fedeli sotto le ruote di enormi carri. Quel contesto si era però totalmente perso quando l’inglese ha distruttivamente preso in prestito il termine.

Il Corano e la Bibbia: prestito o eredità?

Un lettore del Corano che abbia anche dimestichezza con la Bibbia noterà presto i frequenti riferimenti coranici a racconti e personaggi biblici. Fra i personaggi presenti nelle pagine del Corano[1] possiamo trovare Aaronne, Abraamo, Adamo, Davide, Elia, Eliseo, Esdra, Gabriele, Golia, Isacco, Ismaele, Giacobbe, Gesù, Giovanni, Giona, Giuseppe, Lot, Maria, Mosè, Noè, Faraone, Saul, Salomone e Zaccaria.

Oltre ai nomi compaiono anche idee e nozioni bibliche: di tutto, dal monoteismo all’adorazione, dall’idolatria al peccato, dalla legge alla Scrittura. Nulla di sorprendente se qualcuno, osservando questo fenomeno, ha concluso che il Corano deve essere un sequel della Bibbia e l’Islam il terzo atto dell’opera, dopo l’Ebraismo e il Cristianesimo. Queste idee e queste nozioni di provenienza biblica, però, sono per il Corano un’eredità o un prestito? Nella mia tesi, la teologia coranica non scaturisce organicamente dalla Bibbia; anzi, come le fondamenta romane del duomo di York, la parola “juggernaut” o la versione fantascientifica del Macbeth, il Corano ha fatto un ricorso massiccio e distruttivo al prestito, perdendo nel processo il contesto e il senso. Il risultato è una grande confusione, fra l’altro, su Dio, la sua natura e la sua identità. Come possiamo dimostrare la mia tesi secondo cui nel Corano non troviamo un’eredità ma un prestito? L’esempio per eccellenza per provarlo è Gesù.

 

…. Continua la lettura prenotando il libro di Bannister che sarà presentato al 17° Convegno Studi GBU: Cristiani e Musulmani adorano lo stesso Dio?, Edizioni GBU

 

[1] Molti dei quali con nomi arabizzati; per esempio, Aaronne è Harun, Elia è Elias e Giona è Yunus.

[1] Mark Durie, The Qur’an and Its Biblical Reflexes, op. cit., p. XL.

[1] «Guardate che cosa i Romani hanno fatto per noi!»

 

*Immagine di jeswin su Freepik

O si sceglie la guerra o si sceglie la pace

di Marcello Favareto

La lunga scia di attentati di matrice islamista in Europa nonché l’orrore del 7 Ottobre in Israele e la conseguente distruzione nella striscia di Gaza mantengono alta l’attenzione sulla presenza degli islamici di casa nostra e sul rapporto tra religione islamica e civiltà occidentale, sulla compatibilità degli insegnamenti del Corano con le società laiche occidentali.

Nel tempo, qua e là si sono registrate manifestazioni di musulmani con i cartelli “Not in my name”, forse segni di un ripensamento e per l’affermazione di un islam pacifico con la distinzione dai fondamentalisti violenti, dichiarati “sedicenti islamici” o addirittura “non islamici”.

Ci sono enormi, forse insormontabili difficoltà in questa operazione. Gli studiosi (Colin Chapman, p. 60) distinguono in proposito tra un Islam popolare, un Islam liberale e modernista e un Islam tradizionalista e ortodosso. Tuttavia nel decidere, ammesso che lo si possa fare, quale sia l’Islam con il quale preferiremmo interagire vorrei fare qualche considerazione che riguarda anche il cristianesimo.

 

Guerra santa e/o convivenza pacifica

Il primo punto che dobbiamo dirimere è l’alternativa tra guerra santa e/o convivenza pacifica. È possibile una riforma dell’Islam che vada nella direzione della seconda alternativa? È possibile leggere il Corano in maniera diversa da come è stato interpretato e applicato finora? Come si possono conciliare la jihad con un islam pacifico?

Ho deciso di rendermene conto direttamente e mi sono letto tutto il Corano, con un’attenzione particolare all’atteggiamento che i fedeli devono avere verso gli infedeli.

Ecco alcune Sure che parlano esplicitamente di questo.

 

Guerra santa

Sura II

190-193 “Combattete i vostri nemici nella via di Dio e non uscite mai da essa. Sappiate che Egli non ama chi esce dal Retto Sentiero. Uccideteli ovunque li incontrate e cacciateli via da dove essi hanno cacciato voi: subire passivamente una persecuzione è cosa peggiore dell’incontrare la morte. Ma evitate di ucciderli vicino alla Santa Casa, salvo che non siano essi i primi ad attaccarvi. In questo caso vi è lecito ucciderli e la morte sarà la ricompensa della loro iniquità. Se però i vostri nemici depongono le armi, allora anche voi deponetele e perdonate loro. Dio, infatti, è il Clemente e il Misericordioso! Combattete sino a che i Credenti non saranno più perseguitati e la sola religione sarà quella di Dio. Da quel momento i vostri nemici saranno i miscredenti e gli iniqui.”

Sura III

127-128 “Il vostro Signore vi renderà vittoriosi e ciò per uccidere ed umiliare i miscredenti, i quali saranno così i perdenti in questa e nell’altra vita . Lascia, Mohammad, che Dio accetti il loro pentimento o che li punisca, a Suo piacimento. In verità essi sono degli empi e degli iniqui!”

Sura IV

89 “I miscredenti vorrebbero che foste come loro, ma voi non scegliete fra di essi i vostri amici a meno che non abbiano riconosciuto la loro colpa e fatto ritorno sul Retto Sentiero. Ma se dovessero ritornare nella loro precedente condizione, allora vi è lecito prenderli ed ucciderli, ovunque si trovino.”

 

Ma subito dopo è scritto anche:
90-91 “Tra i miscredenti abbiate ad amici o a protettori solo quelli che appartengono a gente con cui esiste un patto di alleanza …. Se il vostro Signore avesse voluto, essi avrebbero prevalso su di voi, per cui se restano neutrali, non vi combattono o vi offrono la pace, non è lecito che voi li combattiate e, se lo farete, la vostra lotta non sarà sulla Via di Dio. Troverete altra gente che vorrà vivere in pace con voi, ma che coglierà in seguito ogni occasione per nuocervi. Accettate di buon grado la loro pace, ma se accadrà che essi non osservino le promesse e vi attacchino, allora combatteteli ed uccideteli, ovunque li troviate. Dio vi rende lecito un simile comportamento!”
93 “Ma per chi uccide intenzionalmente un Credente la punizione sarà il fuoco dell’Inferno ed in quel luogo troverà la sua eterna dimora.”

 

Sura IX
5 “O voi che credete! Osservate il patto concluso con gli idolatri, ma, allo spirare dei mesi sacri, combatteteli, ovunque li troviate. Non date loro tregua ed uccidete quanti di essi cadranno nelle vostre mani. Ma se quella gente si pentirà, crederà in Dio e nel giorno del Giudizio, osserverà la preghiera e pagherà la Tassa, allora cessate di combatterla. In verità Dio è il Clemente ed il Misericordioso!”

Sura XXXIII
60-62 “Se gli ipocriti, i miscredenti ed i sediziosi di Medina non cesseranno le loro provocazioni, ti sia lecito, Mohammad, muovere contro quella gente ed infliggere ad essi la giusta punizione. Essi sono dei Maledetti da Dio, per cui debbono essere uccisi dai Credenti allo stesso modo che, in passato, fu fatto – per Ordine Suo – nei confronti di altri negatori.”

Sura LIX
2 “E’ Lui che, chiamando alla Guerra Santa i Credenti, ha cacciato dalle loro dimore quanti, tra la Gente del Libro, rifiutarono di credere alle tue parole, Mohammad.”

Sura CX
1-2 “O Inviato! Quando, coll’aiuto di Dio, voi otterrete il desiderato trionfo sugli idolatri, allora tutti entreranno nella nostra religione.”

Mi sembra che i versetti siano, purtroppo, piuttosto espliciti.

 

Convivenza pacifica

Però, per rispetto della verità, dobbiamo anche riconoscere che coloro che difendono l’islam pacifico e rifiutano il terrorismo non raccontano frottole e fanno riferimento ad altri versetti. Tra i più noti possiamo ricordare:

Sura II
62 “In verità, coloro che, Ebrei, Cristiani e Sabei, credono in Dio e nel Giorno del Giudizio e compiono le buone opere, avranno la ricompensa presso il loro Signore. Essi nulla avranno da temere da lui e non vivranno nella tristezza.”

256 “Non vi dà alcuna costrizione nella Fede, poiché il Retto Sentiero si distingue da solo dal Sentiero dell’Errore. …”

Questo versetto viene spesso citato (v. anche ciò che ha scritto il filosofo francese nel testo precedente) ed enfatizzato più di quanto non sembri nel suo contesto.

Sura III
3-4 “Egli ha fatto scendere su di te, Mohammad, il Libro di Verità, a conferma delle precedenti Rivelazioni. Egli è colui che ha fatto scendere la Torah e il Vangelo,  affinché quei Libri fossero guida per i Credenti. …”

20 “… Dì poi alla gente del Libro ed agli idolatri: “Volete voi abbracciare l’Islam?” Se lo faranno, i loro passi percorreranno il Retto Sentiero, ma se rifiuteranno di farlo, tu lasciali al loro destino. Tuo compito è solo quello di mostrare i Segni di Dio a chi è in grado di coglierli. Il tuo Signore osserva ogni azione umana.”

64 “Dì, Mohammad, alla Gente del Libro: “Cerchiamo di trovare una soluzione che ci accomuni. Noi adoriamo un Unico Dio e non abbiamo altro Dio all’infuori di Lui.”

113-115 “Non tutta la Gente del Libro appartiene al numero dei miscredenti. Nel suo seno vi è infatti una comunità di Credenti che prega continuamente il suo Signore, prosternandosi in adorazione nelle ore della notte.  Essi credono in Dio e nel giorno del Giudizio, amano la Verità, rifuggono dall’Errore e compiono le buone opere. Essi sono Virtuosi e Timorati di Dio.  Il vostro Signore li ricompenserà, poiché Egli premia chi fa la Sua Volontà e Gli si mostra ubbidiente.”

 

Sura V

13-14 “In seguito gli Ebrei violarono questo patto e Noi li maledicemmo, indurendo i loro cuori. Fu così che essi falsarono il significato delle parole del loro Libro, giungendo fino a dimenticarne una parte: solo un piccolo numero evitò una simile miscredenza. Sii dunque benevolo, Mohammad, verso questi Credenti, perché Dio ama chi crede in Lui.

Noi stringemmo pure un Patto di Alleanza con i Cristiani, ma anche essi hanno dimenticato una parte del loro libro. Per punirli di ciò Dio ha fatto sorgere tra di essi le divisioni e l’odio perdurerà nel loro seno sino al Giorno del Giudizio.”

Ironia della sorte Maometto non poteva sapere quale drammatica divisione sarebbe emersa pochi anni dopo la sua morte tra i suoi seguaci: ancora oggi Sunniti e Shiiti si odiano profondamente.

32 “Fu a causa di questo delitto [Caino] che Noi dicemmo ai figli di Israele che l’uccisione di un essere umano, salvo il caso di un errore o di una disgrazia, sarebbe stato da noi considerato come un delitto contro l’intera umanità.”

Questo è il versetto che viene spesso citato quando si vuole dimostrare che l’islam è pacifico e che il Corano condanna quindi gli attentati e gli assassinii.

46-48 “Noi mandammo Gesù, Figlio di Maria, a confermare il Libro che già avevamo loro dato. Demmo a lui il Vangelo, in cui vi sono Luce e Guida, affinché i Virtuosi lo seguissero e credessero nelle sue parole.
Giudichino perciò i Cristiani secondo il Vangelo, poiché solo i miscredenti e gli iniqui prescindono dalla Parola di Dio nel dare i loro giudizi.
E su di te, Mohammad, facemmo scendere il Libro di Verità, a conferma delle Rivelazioni da Noi fatte agli Inviati che ti hanno preceduto. Giudica dunque Ebrei e Cristiani alla luce del Libro e le passioni non offuscheranno il tuo giudizio. In verità, Dio ha assegnato ad ognuno una via da seguire, mentre, se avesse voluto, Egli avrebbe fatto degli uomini una sola comunità con una sola Fede. Ma ciò non è , perché Dio vuole mettervi alla prova. Gareggiate dunque nel compiere buone opere, e nel Giorno del Giudizio tutti sarete radunati davanti a Lui. In quel giorno conoscerete da Dio le cose che vi hanno tenuti divisi su questa terra.”

 

65-66 “In verità, quanti tra la Gente del Libro crederanno ed agiranno da Virtuosi, avranno il perdono del loro Signore e saranno da Lui accolti nel Suo Paradiso.
In verità, se essi metteranno in pratica la Torah ed il Vangelo e quanto Dio ha rivelato loro, i Cieli e la Terra saranno benevoli verso di loro. Fra la Gente del Libro vi è chi è Credente, ma la maggior parte non crede e non compie le buone opere!”

E ancora una piccola chicca, sorprendente rispetto all’immagine dell’islam che riceviamo oggi.

82 “Tu troverai negli Ebrei e negli Idolatri i più accaniti nemici dei Credenti, mentre tra i Cristiani troverai i più sicuri amici. Questo avviene in quanto tra i Cristiani vi sono sacerdoti e monaci che servono Dio in umiltà e la superbia non regna tra chi segue Gesù, Figlio di Maria.”

Non pretendo certo di interpretare il Corano e non basta leggerlo una volta per capire l’islam. Maometto ricevette le “rivelazioni” nel corso di tre anni ma non scrisse mai nulla. I suoi seguaci imparavano a memoria i versetti pronunciati da Maometto e li scrivevano poi sui più svariati supporti. Fu Uthman, terzo Califfo, dopo la morte di Maometto, a raccogliere tutti i testi in un corpo unico di cui fece fare 4 copie e fece distruggere tutti i testi parziali precedenti.

Data la struttura della scrittura araba (senza consonanti) esistono ben 14 letture diverse del testo, prodotte dal 650 all’850 d.C. Inoltre il testo non ha una sua organizzazione logica o cronologica: le sure sono disposte per ordine di lunghezza, dalla più lunga alla più breve. Si sa soltanto quali sono state rivelate prima dell’esilio (meccane) e quali dopo (medinesi).

Cosa possiamo concludere? Come si possono conciliare versetti così contrastanti? Da come stanno le cose non sembra che i musulmani ci siano finora riusciti: o si sceglie la pace o si sceglie la guerra.

Ma come è fattibile una cosa di questo genere se il Corano originale è in Paradiso, non si può toccare e la sua interpretazione è stata congelata nel 14° secolo?

 

 Ma anche la Bibbia…

Una obiezione che si sente fare spesso da parte dei musulmani è: ma anche voi, Ebrei e Cristiani, avete nella Bibbia istruzioni a uccidere, a sterminare i nemici ecc.! In parte dobbiamo ammettere che è vero anche se ci sono differenze non trascurabili.

La prima è certamente il fatto che gli Israeliti nella fase della conquista di Canaan combattevano per un territorio: p.es. Deuteronomio 2:31-32 e 34 Mosè racconta come gli fosse stato rifiutato dal re locale il passaggio nel paese degli Amorrei: “E l’Eterno mi disse: Vedi, ho principiato a dare in tuo potere Sihon e il suo paese; comincia la conquista, impadronendoti del suo paese. Allora Sihon uscì contro a noi con tutta la sua gente per darci battaglia a Jahats. … E in quel tempo prendemmo tutte le sue città e votammo allo sterminio ogni città, uomini, donne, bambini; non vi lasciammo anima viva.

Ma, finito quel periodo, gli Ebrei non avevano particolari mire espansionistiche e, soprattutto, non miravano a convertire gli altri popoli al Dio d’Abramo. Le loro battaglie non erano contro gli infedeli in quanto tali. Non erano guerre di religione. E noi possiamo leggere oggi quegli ordini come parte di fatti storici che rientrano nella cultura dell’epoca e siamo ben lontani dal pensare che dovremmo fare così anche noi nel nostro tempo. Nella Bibbia i passaggi violenti sono descrittivi, mentre nel Corano sono prescrittivi.

Però… purtroppo, non è sempre così…
Deut. 13.6-8 “Se il tuo fratello,… o il tuo figliuolo… ti inciterà in segreto, dicendo: andiamo, serviamo ad altri dei … tu non acconsentire, tu non gli dar retta; l’occhio tuo non abbia pietà per lui; non lo risparmiare, non lo ricettare; anzi uccidilo senz’altro; la tua mano sia la prima a levarsi su lui, per metterlo a morte…

E questo ricorda uno dei versetti del Corano che abbiamo visto…

Num 15.30 “Ma la persona che agisce con proposito deliberato, sia nativo del paese o straniero, e oltraggia l’Eterno; quella persona sarà sterminata di fra il suo popolo. Siccome ha sprezzato la parola dell’Eterno e ha violato il suo comandamento, quella persona dovrà essere sterminata; porterà il peso della sua iniquità.

Non ricorda da vicino la legge contro la blasfemia, applicata nei paesi islamici? E non possiamo dimenticare che Gesù fu condannato a morte dal sinedrio, proprio con l’accusa di bestemmia per essersi dichiarato il Cristo, il figliuol di Dio! Oppure possiamo citare un Salmo splendido come il 139 che trova inseriti questi versetti (21,22): “O Eterno, non odio io quelli che t’odiano? E non aborro io quelli che si levano contro di te? Io li odio di un odio perfetto; li tengo per miei nemici.” O, ancora, il Sl 137.8-9 “O figliuola di Babilonia, che devi essere distrutta, beato chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto! Beato chi piglierà i tuoi piccoli bambini e li sbatterà contro la roccia!

Terribile. Anche se non sono ordini a fare cose del genere, comunque sembra indubbio che esse vengono approvate, e ci lasciano con la pelle d’oca.
Nel leggere questi testi, anche se ci sentiamo un po’ a disagio, dobbiamo anche dire che non ci sentiamo realmente coinvolti da essi.
Perché? Perché non pensiamo che riguardano anche noi, che sono regole che anche noi dobbiamo seguire? Perché non ci toccano?

 

Perché non ci toccano?

Non so come gli ebrei, dalla diaspora in poi, abbiano elaborato questi testi ed abbiano resi innocui o non applicabili gli ordini della Legge che prescrivevano la condanna a morte, o altre punizioni violente.
Ma, per i cristiani, per me come cristiano, trovo una sola spiegazione: perché fra allora e oggi, fra loro e noi, è passato Gesù.
È lui che ha detto più volte: “Voi avete udito che fu detto agli antichi… Ma io vi dico…” E in particolare possiamo ricordare in Mt 5.43 “Voi avete udito che fu detto: ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figliuoli del Padre vostro che è nei cieli; poiché Egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.”

È lui:

  • che ha lasciato mangiare con le mani non lavate,
  • che ha detto che si può mangiare di tutto,
  • che ha affermato che il Sabato è per l’uomo e non l’uomo per il Sabato,
  • che ha completato e riassunto la legge ed i profeti nei due comandamenti “Ama il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua e con tutta la mente tua” e “Ama il tuo prossimo come te stesso”
  • che ha reso il suo messaggio universale dicendo alla Samaritana “l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in ispirito e verità, perché tali sono gli adoratori che il Padre richiede. Iddio è spirito; e quelli che l’adorano bisogna che l’adorino in spirito e verità.”

 

Quindi non sul monte dei Samaritani, non nel tempio di Gerusalemme e nemmeno alla Mecca è necessario adorare il Signore.
Ecco, secondo me, il problema della riforma dell’islam sta proprio qui: avrebbero bisogno di un nuovo profeta, di uno come Gesù che possa correggere e completare il messaggio di Maometto. Ma Maometto è nato 600 anni dopo Gesù e, mentre ha pescato abbondantemente dall’Antico Testamento, non ha preso niente dal Nuovo.

Ora mi sembra difficile che appaia un nuovo profeta… quindi come uomo, cittadino di questo mondo, spero sinceramente, per il bene di tutti, che questa riforma, questa rivoluzione, questa liberazione da una ideologia soffocante e sacralizzata, come la definì il Presidente egiziano al Sisi in una prolusione all’Università Al–Azar a Il Cairo, il 28 dicembre 2014, possa realizzarsi, e presto.

Tutto a posto per noi?
Potremmo chiudere il discorso a questo punto. Tutti contenti perché la risposta ai problemi che abbiamo considerato sta in Cristo, nell’essere suoi seguaci. Ma saremmo dei disonesti se non ci chiedessimo se nel corso di duemila anni i cristiani abbiano dimostrato di essere indenni dal pericolo dell’odio in nome di Dio. E la risposta, purtroppo, sappiamo che è: NO, non ne siamo stati indenni.

Non è il caso di rifare la storia delle persecuzioni esercitate da cristiani nei confronti di altri esseri umani, cristiani o meno che fossero. Sembra banale e ovvio ricordare le stragi dei Catari, dei Dolciniani, piuttosto che degli Ugonotti o dei Valdesi, qui a casa nostra, che hanno riacquistato i diritti civili soltanto con lo Statuto Albertino del 1848. Quando si dice Inquisizione si dice tutto. Gli esempi che ho citato riguardano il mondo cattolico, ma anche i protestanti non si sono fatti mancare questi piaceri. Uno per tutti, possiamo citare il caso Michele Serveto, arrestato a Ginevra e poi condannato al rogo il 27 Ottobre 1553. Sebastien Castellion scrisse all’epoca: “Uccidere un uomo per difendere un’idea significa solo uccidere un uomo”.

Questa è la storia…

Conclusione
Alcuni nuovi atei hanno scritto libri per affermare che sono le religioni, che è l’idea stessa di Dio ad alimentare questo tipo di violenza. Dovrebbero allora dirci da quale Dio sono stati ispirati i lager nazisti, o i gulag sovietici, piuttosto che gli omicidi di Pol-Pot o, più modestamente, gli attentati delle nostrane Brigate Rosse o Nere.

No. Il problema è più profondo e universale, è dentro di noi, dentro ogni uomo. Potete anche chiamarlo peccato e si è manifestato già in Caino.
La tentazione di far valere le proprie idee con la forza è quasi irresistibile per l’uomo. Ed è indescrivibile l’euforia che può provare l’uomo quando è convinto di difendere Dio con le proprie azioni (come se Dio ne avesse bisogno…).

Ed era ovviamente così già ai tempi di Gesù.

In Luca 9:51 leggiamo: “Poi, come si avvicinava il tempo della sua assunzione, Gesù si mise risolutamente in via per andar a Gerusalemme. E mandò davanti a sé dei messi, i quali, partitisi, entrarono in un villaggio dei Samaritani per preparargli alloggio. Ma quelli non lo ricevettero perché era diretto a Gerusalemme. Veduto ciò, i suoi discepoli Giacomo e Giovanni, dissero: Signore, vuoi tu che diciamo che scenda fuoco dal cielo e li consumi? Ma egli, rivoltosi, li sgridò.”

E in Marco 9:40 “Giovanni gli disse: Maestro, noi abbiamo veduto uno che cacciava demoni nel nome tuo, il quale non ci seguita; e glielo abbiamo vietato perché non ci seguitava. Ma Gesù disse: Non glielo vietate, poiché non v’è alcuno che faccia qualche opera potente nel mio nome, e che subito dopo possa dir male di me. Poiché chi non è contro a noi, è per noi.”

E in Matteo 26.50 Gesù è nel Getsemane e sta per essere preso: “Allora accostatisi, gli misero le mani addosso, e lo presero. Ed ecco, uno di coloro che erano con lui, stesa la mano alla spada, la sfoderò; e percosso il servitore del sommo sacerdote, gli spiccò l’orecchio. Allora Gesù gli disse: riponi la spada al suo posto, perché tutti quelli che prendon la spada, periscono per la spada. Credi tu forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in quest’istante più di dodici legioni di angeli?”

Ecco i tre classici casi: distruzione di chi non vuole il nostro Dio, rifiuto di chi non sta col nostro gruppo, uso della forza per difendere Dio, che, invece, non ha proprio bisogno di noi.

Ma la lezione di Gesù è inequivocabile. Quindi?

La nostra responsabilità è tornare sistematicamente a confrontare i nostri atteggiamenti, i nostri comportamenti, i nostri pensieri con l’insegnamento che Gesù ci ha dato. La storia ce lo insegna e ce lo chiede.
E speriamo, preghiamo, che anche i musulmani, che cercano consapevolmente o inconsapevolmente un riformatore, lo possano trovare in Cristo, indagando nel Vangelo di cui Maometto ha pur parlato così bene. Questo potrebbe essere l’atteggiamento da tenere nei loro confronti: invitarli a leggere le parole di Gesù, che Maometto, pur non citandole, non rifiuta.

Quando la chiesa non si lamenta

di Vinoth Ramachandra

(Tratto dal libro Il riso di Sara, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU)

Fin dai suoi inizi, la chiesa occidentale ha usato il salterio quale proprio innario. Agostino, Lutero e Calvino hanno scritto dettagliati commentari sui Salmi, compresi quelli di lamento. L’opera più lunga di Agostino è il suo Enarrationes in Psalmos, una raccolta di sermoni sui Salmi in cui sollecitava le comunità cristiane a fare proprie le parole di lamento dei salmisti: «Se il Salmo è una preghiera, pregate; se è un lamento, lamentatevi»[1]. I Salmi penitenziali di Lutero (1517) sono stati la sua prima opera originale a essere pubblicata e il primo libro pubblicato nelle colonie americane fu il Bay Psalm Book, nel 1640. Dietrich Bonhoeffer, pastore e martire tedesco, apprezzava i Salmi; per lui erano la principale forma di preghiera, sia individuale sia comunitaria. In una lettera ai genitori dalla cella in cui era prigioniero, scrisse: «Leggo i Salmi ogni giorno, come faccio da anni; li conosco e li amo più di qualsiasi altro libro»[2].

La sostanziale scomparsa del lamento dalle predicazioni, dalle preghiere e dalle liturgie comunitarie nelle chiese asiatiche, in una pedissequa imitazione degli stili d’adorazione delle opulente chiese occidentali, è oggetto di grave preoccupazione, se non altro perché incoraggia la disonestà nelle nostre relazioni con Dio e fra di noi. Dire alle madri che hanno perso i loro figli di non piangere perché «Dio ha il controllo» o che «Dio sta insegnando loro qualche cosa attraverso la sofferenza» non è solo pastoralmente dannoso ma teologicamente inesatto. Non soltanto viviamo in società dilaniate da rivalità etniche e religiose e provate da severi eventi climatici, crescenti disparità economiche e politici corrotti. Molti, nelle nostre comunità, schiacciati da queste realtà sociali non meno che dagli abusi domestici, sono tormentati dai dubbi sull’affidabilità delle promesse di Dio contenute nella Scrittura o sulla rilevanza del vangelo per i contesti culturali da loro abitati e lottano con preghiere inesaudite e con il silenzio di Dio di fronte ai loro traumi più profondi. Costoro non hanno un vocabolario con cui dare voce al loro dolore, perché nelle loro chiese la tradizione biblica del lamento è stata ignorata. Come rilevato dal pastore e teologo di Singapore Gordon Wong, «le nostre chiese enfatizzano la preghiera e la lode a Dio. Quasi sempre, però, pensiamo che le sole preghiere accettabili a Dio siano parole di lode e ringraziamento»[3]. Nulla di strano, allora, se tanti giovani sensibili e riflessivi scelgono di “ritirarsi” dalla chiesa, dove non ci si cura dei loro onesti dubbi e delle loro lotte.

Nancy Lee racconta la storia di un giovane cristiano traumatizzato dalla guerra, esperienza fin troppo comune, ovunque abbiamo la ventura di vivere.

 

«Nel 1996 ho abitato in Croazia; subito dopo la fine delle varie guerre ho percorso gran parte della Bosnia grazie a una borsa di studio Fulbright[4]. La gente lottava con i traumi della devastazione della guerra. Era normale imbattermi in esempi di straordinaria fede e coraggio a fronte di atrocità e orrori inenarrabili. Un giovane impegnato nel ministero musicale in una chiesa protestante, un giorno, mi confidò che al tempo del servizio militare, durante la guerra, aveva prestato servizio nell’esercito in difesa del suo paese. La sua esperienza della violenza era stata devastante e lui era molto angustiato. Quello dei veterani di guerra caduti nell’alcolismo per non essere riusciti a elaborare il trauma e il dolore da loro subiti era comune. In quella cultura tradizionale dell’est Europa, la terapia era vista ancora come una sorta di tabù. Il giovane pensava di poter guardare alla chiesa e al suo pastore come a un luogo in cui, grazie al suo ministero musicale, o almeno grazie al canto, avrebbe potuto trovare un po’ di sollievo per la sua guarigione e anche un modo per aiutare altri. Quando propose al pastore alcuni canti tristi, fu subito liquidato: gli fu detto che la chiesa deve concentrarsi sulla musica positiva e sulla lode di Dio. A questo rimprovero, il cupo scoraggiamento in cui il giovane cadde si sovrappose al suo irrisolto trauma interiore; tristemente, dovette prendere atto della sostanziale inutilità della musica della sua chiesa come aiuto per chi, come lui, fosse psicologicamente ferito»[5].

 

A chi rifiuta di affrontare la sofferenza di coloro fra cui vive o si vergogna delle loro fragilità, le grida di lamento sembrano così poco “spirituali”, imbarazzanti, perfino fastidiose! Quanto poi alla soppressione, da parte di alcune chiese, della tradizione biblica del lamento nella predicazione e nella liturgia, sono chiese per lo più adagiate sullo status quo, che hanno massicciamente investito nella preservazione di relazioni sociali basate sullo sfruttamento e sull’oppressione.

Questo tragico rigetto verso il lamento nella nostra predicazione e adorazione non è solo un problema d’ignoranza; è una mancanza di fede nel Dio della Scrittura. Un bambino sa di essere amato incondizionatamente dai suoi genitori e di godere della libertà di parlare apertamente con loro, di esprimere non meno il suo disagio e la sua rabbia della sua gratitudine e del suo amore. Abbiamo osservato che, nella fede dell’Israele veterotestamentario, il Dio di tutta la creazione aveva istituito un patto con loro, un patto assimilabile a quello di una relazione matrimoniale; fu proprio questa convinzione a consentire ai profeti e agli scrittori d’inni israeliti di inquadrare tutte le loro esperienze di vita individuali e comunitarie, nessuna esclusa, in quella relazione. Se in tempi di sofferenza e tumulti anche noi sappiamo di essere oggetto dell’amore incondizionato di Dio, siamo liberi di fare domande, di sfidare e anche di manifestare la nostra rabbia a Dio. È la sicurezza dell’amore a produrre e incoraggiare il lamento.

Ecco il consiglio del pastore australiano Malcolm Gill ai suoi colleghi pastori.

 

«Far leggere in chiesa un Salmo di lamento, anche senza commentarlo, dà voce a quanti affogano in silenzio sotto il peso del dolore. Recitare collettivamente una preghiera di dolore incoraggia quanti sono abbattuti: non sono i soli a portare il peso del dolore. Per quanto molto raro, anche un lamento musicale tramite un inno tradizionale o un canto contemporaneo può dare voce agli abissi del dolore, quando non si possono trovare le semplici parole»[6].

 

Da ultimo, ai conduttori di chiesa evangelici tentati dal fascino di una cultura dell’intrattenimento o semplicemente timorosi dei rischi dell’esposizione all’intenso dolore del mondo, raccomando il monito di papa Francesco nella sua enciclica Evangelii Gaudium («la gioia del vangelo»):

 

«Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze […] Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6:37)»[7].

NOTE

[1] Augustine, Enarrationes in Psalmos 30.2.3, cit. in Rachel Ciano, “Lament Psalms in the Church” in Finding Lost Words: The Church’s Right to Lament, a cura di G. Geoffrey Harper e Kit Barker, Wipf & Stock, Eugene, 2017, p. 11. Fra le possibili ragioni per il venir meno del lamento nell’adorazione della chiesa occidentale a partire dal diciottesimo secolo, Ciano propone il declino della fede nella divina sovranità, le spiegazioni scientifiche della sofferenza e gli stereotipi culturali della «mascolinità» [L’opera citata di R. Ciano non è disponibile in Italiano; è tuttavia disponibile il testo di Agostino: Commento ai Salmi, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano. 2001, ndt].

[2] Dietrich Bonhoeffer, Letters and Papers from Prison, SCM, Londra, 1953; tr. it., Resistenza e resa, Queriniana, Brescia, 2002, lettera del 15 maggio 1943, p. 18.

[3] Gordon Wong, God, Why?: Habakkuk’s Struggle with Faith in a World out of Control, Armour, Singapore, 2007, p. 7.

[4] Il programma Fulbright nasce negli Stati Uniti nel 1946 grazie alla legge proposta dal Senatore dell’Arkansas J. William Fulbright. La legge, approvata dal Congresso degli Stati Uniti, si prefigge l’obiettivo di finanziare borse di studio per lo studio, la ricerca e l’insegnamento in modo da favorire il processo di pace attraverso lo scambio d’idee e di cultura fra gli Stati Uniti e le altre nazioni nel mondo; fonte: http://www.fulbright.it/il–programma–fulbright/

[5] Lee, Lyrics of Lament, p. 14.

[6] 30. Malcolm J. Gill, “Praying Lament”, in Harper e Barker, Finding Lost Words, op. cit., pp. 232–233.

[7] Papa Francesco, Evangelii Gaudium, Catholic Truth Society, Londra, 2013, pp. 29–30; § 49; testo italiano liberamente consultabile on line sul sito http://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa–francesco_esortazione–ap_20131124_evangelii–gaudium.html.

Le donne nella vita di Gesù

[Redazione: in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne e in concomitanza con il sentire generale della nazione dopo i gravi fatti riportati dalle cronache e relativi ai tanti femminicidi, ascoltiamo molte riflessioni sulla cultura “patriarcale” che sarebbe tra le cause di ciò che sta accadendo. E non sono poche le occasioni in cui dietro la cultura patriarcale si prende di mira la narrazione biblica in cui sarebbe espressa una tale cultura, addirittura racocmandata da Dio stesso. Questo breve contributo che qui pubblichiamo vuole segnalare come tutta la rivelazione ebraico–cristiana ha un punto focale nella persona di Gesù. In lui troviamo un approccio rivoluzionario alla condizione della donna dei suoi tempi. La sua figura e il suo agire emergono dal tessuto dei racconti biblici, rivelando un intento divino diverso dalle vicende che pure sono narrate senza infingimenti nel corso della progressione della rivelazione]

 

di Derek e Dianne Tidball
(tratto da Bibbia e quote rosa, Edizioni GBU, 2021)

 

Nella vita e nel ministero di Gesù le donne sono tutt’altro che invisibili. Sono testimoni di prim’ordine degli eventi della sua vita, discepole fedeli fino alla fine, destinatarie della sua gra­zia, protagoniste partecipi del suo insegnamento e beneficia­rie della sua giustizia. Diciassette donne sono ricordate per nome ma una schiera di altre, che pure restano nell’anonima­to, non sono certo meno apprezzate1. Incoraggiate da Gesù, non si appostano ai margini, anche se in un primo momento alcune, per la pressione della loro cultura, si rifugiano timo­rosamente nell’ombra; diventano però persone la cui presenza si nota, la cui voce è ascoltata e le cui vite sono rese complete. Le tratta con un rispetto e un apprezzamento che non han­no precedenti e ribalta il giudizio negativo cui di solito erano soggette nel resto della società.

Diverse donne giocano un ruolo importante negli eventi della vita di Cristo. Godono di una particolare visibilità alla sua nascita, nonché alla sua crocifissione e risurrezione. In corrispondenza di entrambi questi momenti cruciali, gli uo­mini devono accontentarsi di cercare di tenere il passo con loro. Elisabetta e Anna, oltre a Maria, sua madre, sono pre­senze importanti nei racconti relativi alla sua nascita. Maria Maddalena, Giovanna, Salome e Maria madre di Giacomo furono le prime improbabili ma veritiere testimoni della ri­surrezione. Fra questi due estremi le donne prendono parte ad alcuni dei più memorabili episodi della sua vita e costi­tuiscono per noi dei modelli esemplari di discepolato.

Le donne negli incontri di Gesù
Lo storico ebreo Giuseppe Flavio riassunse succintamente l’atteggiamento generale da parte degli Ebrei verso le donne ai tempi di Gesù, quando scrisse che «la donna … è in tutte le cose inferiore all’uomo»1. Quasi tutti gli Ebrei di sesso ma­schile guardavano con disprezzo le donne. Avere un figlio era motivo di ringraziamento, avere una figlia era motivo di ram­marico. Gli uomini erano creature razionali, mentre le don­ne erano creature sensuali2. Si reputava che le donne contas­sero poco e la loro posizione era sempre in bilico fra quella di figlie e quella di schiave. Il loro posto era per lo più in casa, dove restavano segregate, essendo «più adatte», per dirla con Filone, «a vivere dentro le mura domestiche e a non allonta­narsene mai»3. Anche lì erano soggette all’autorità patriarcale e quando fossero cadute in disgrazia con i loro mariti, si po­teva divorziare senza preoccuparsi del loro futuro benessere. L’idea assolutamente dominante era che non valesse la pena istruirle e per lo più si pensava che non fosse possibile inse­gnare loro niente. Gli uomini le accusavano di tutta una serie di malattie e non da ultimo di essere fonte di tentazione ses­suale. Dal momento che questo andava evitato a tutti i costi, era considerato sconveniente parlare a una donna per strada, anche se la donna in questione era la propria moglie. Un’at­tenzione ancora maggiore si doveva prestare quando ci s’in­contrava con loro in privato.

Gesù si mostra del tutto incurante di tali limitazioni e prende una posizione rivoluzionaria nel suo modo di relazio­narsi con le donne. I Vangeli riferiscono di numerosi incon­tri che ha con loro, sia in pubblico sia in privato, incluso alcu­ne allusioni al fatto che fra i suoi discepoli itineranti ci sono delle donne5. Non pare affatto a disagio in loro compagnia e le tratta con dignità e rispetto. Non le accusa di essere fon­te di tentazione sessuale; prende anzi le difese di una donna sorpresa in adulterio, contro le accuse degli uomini6 e fa ri­cadere sugli questi l’onere di disciplinare la propria concupi­scenza (Mt 5:27–30)7. Arreca loro salvezza e guarigione pro­prio come agli uomini, così, se fanno la volontà di Dio, di­ventano preziose sorelle o madri in quella che è la sua vera fa­miglia, che è una cosa diversa dalla sua famiglia naturale (Mc 3:34–35). Sono in grado e meritano di ricevere istruzione (Lc 10:38–42). Inoltre, decisamente in polemica con la costuma­ta cultura dei maestri d’Israele, può anche affermare audace­mente che «i pubblicani e le prostitute entrano … nel regno di Dio» prima dei sacerdoti e degli anziani d’Israele8.

Spesso una cosa è quello che si afferma, altra cosa è il modo con cui lo si mette in pratica; in Gesù, invece, trovia­mo una perfetta armonia. L’importanza da lui attribuita alla loro dignità fu più che teorica, come si può vedere dai vari in­contri riportati da Vangeli, dove si prende liberamente e amo­revolmente cura delle donne.
Bibbia e quote rosa, Derek e Dianne Tidball
Collana Il duplice ascolto
p. 424 | € 20,00
ISBN: 9788832049060
Edizioni GBU, 2021
Disponibile anche in ebook

Vedi il Lunedì Letterario

Una cultura apologetica

di Stefan Gustavsson

Che aspetto ha una cultura apologetica nell’ambito di una comunità? Ha almeno cinque caratteristiche.
La prima è l’apertura. Una cultura apologetica non significa costruire un’atmosfera autoritaria in cui qualcuno ti dice come stanno le cose. Al contrario, si tratta di creare apertura e dare alle persone la libertà di pensare e di riflettere al cospetto di Dio e tirare le proprie conclusioni. Come scrive Paolo:

«abbiamo rifiutato gli intrighi vergognosi
e non ci comportiamo con astuzia
né falsifichiamo la parola di Dio,
ma rendendo pubblica la verità,
raccomandiamo noi stessi
alla coscienza di ogni uomo davanti a Dio» (2 Cor 4:2).

La seconda caratteristica è l’umiltà. Avevo un buon amico che ironicamente mi diceva: «Pensa che strano, proprio noi abbiamo ragione in tutte le questioni teologiche!» Il punto è che tutti abbiamo motivo di testare le nostre posizioni ed essere pronti a riconsiderare cose che si rivelano infondate o errate. Qui bisogna dare alle persone lo spazio per cercare la verità e ottenerla dando loro tempo di arrivare a delle convinzioni. La comunità deve essere un luogo che accoglie sia il credente sia il dubbioso. Come scrive Giuda nella sua lettera: «Abbiate pietà di quelli che sono nel dubbio» (Gd v. 22). Fondamentalmente non c’è una contraddizione tra una chiesa e le sue guide che hanno un profilo chiaro, con un chiaro insegnamento biblico e che allo stesso tempo creano un clima aperto in cui le domande oneste ricevono risposte oneste e le persone vengono prese sul serio nella loro ricerca.

La terza caratteristica è la veridicità. Non si tratta di difendere tradizioni o stabilire un sistema di opinioni: si tratta della verità. Riguarda ciò che è sempre vero, su come stanno veramente le cose, indipendentemente da noi, e prima ancora che esistessimo e dopo che saremo morti. Dobbiamo concentrarci sulla verità, tutta la verità e nient’altro che la verità, il che significa che dobbiamo essere pronti a ravvederci per tutto ciò è falso ed erroneo.

La quarta caratteristica è la sete di conoscenza. Per poter raggiungere ciò che è vero, dobbiamo imparare a pensare meglio e dotarci di strumenti per cercare la conoscenza. La comunità cristiana deve diventare un luogo in cui crescere anche in conoscenza e competenza. Un luogo in cui diventiamo tutti più abili a comprendere il mondo creato da Dio e il nostro posto in esso, e sempre più reattivi verso la Parola rivelata di Dio e ciò a cui essa ci chiama. La fiducia nella Parola di Dio e il suo studio sono assolutamente cruciali, perché insieme a Gesù nella sua posizione di sommo sacerdote, confessiamo: «la tua parola è verità» (Gv 7;17).
Vale la pena notare l’atteggiamento di Martin Lutero quando riformò l’istruzione universitaria a Wittenberg, all’inizio del XVI secolo. Scelse deliberatamente di mantenere il libro di testo della logica di Aristotele, perché era importante che il cristiano imparasse a pensare con chiarezza4. La fiducia nella Parola di Dio e l’enfasi su un pensiero chiaro stanno nelle fondamenta, non l’uno contro l’altro! (Ernest George Schwiebert, Luther and His Times, Concordia Publishing House, St. Louis, 1950, p. 299.)

La quinta caratteristica è la prospettiva. Il numero di domande è grande, ma non tutte le questioni sono ugualmente importanti e ugualmente fondamentali. Dobbiamo quindi aiutarci a vicenda a vedere cosa è centrale e cosa è periferico, cosa è fondamentale per la fede cristiana e cosa è meno decisivo. Il punto in cui come cristiani possiamo convivere senza problemi con diverse interpretazioni delle singole parti della Bibbia e dove invece si trovano i pilastri. Allo stesso modo, dobbiamo acquisire una prospettiva relativa alla cultura che ci circonda e vedere dove siamo sotto attacco e dove, a un certo punto, registriamo una tregua.

Oggi sono i fondamenti della fede a essere sotto attacco, non il modo in cui formuliamo la nostra visione del battesimo o cosa pensiamo del millennio. Dio esiste davvero o è tutta immaginazione e suggestione, una forma di autoinganno religioso? Se Dio esiste, come possiamo sapere chi egli è? Come possiamo metterci in contatto con lui? Possono avvenire miracoli in un mondo in cui possiamo descrivere tutto  utilizzando le leggi della natura? I testi biblici sono attendibili? Sono parole venute da Dio? Gesù è esistito e, se è esisto, chi era? Cosa è successo dopo la sua morte e sepoltura? È vivo oggi – e dove si trova? Perché una persona non si può relazionare direttamente con Dio senza la “mediazione” di Gesù? Come possono le nostre mancanze, i nostri errori e i passi falsi – il nostro “peccato” – essere qualcosa di così grave da separarci da Dio? E come può la morte di Gesù sulla croce cambiare la situazione? È ragionevole considerare le altre religioni come vicoli ciechi? L’uomo è influenzato dall’ereditarietà e dall’ambiente, dalla biologia e dalla sociologia, è davvero libero e responsabile? E non è umiliante sottomettersi a Dio rinunciando al proprio diritto all’autodeterminazione? In poche parole, si tratta dello scontro frontale tra la fede cristiana e la visione laica della vita, indipendentemente dal fatto che essa arrivi a noi sotto forma di culto della ragione dell’umanesimo illuminista o del relativismo postmoderno.

L’apologetica deve tornare a essere una parte centrale del compito di una comunità locale. Perché? Perché l’apologetica è biblica e perché l’apologetica è necessaria! Per alcuni l’apologetica ha un ruolo importante nel processo di avvicinamento alla fede, per altri l’apologetica gioca un ruolo importante nel processo di crescita nella fede. L’apologetica può arrivare prima o dopo la conversione, può portare le persone alla fede e può approfondire la fede. Ma senza apologetica rimaniamo – senza motivo – indifesi e senza armi.

Glover, storico dell’Università di Cambridge, descrive il successo del cristianesimo nell’Impero Romano in modo affascinante, evidenziando tre peculiari aspetti che si trovavano alla base. I cristiani vivevano una vita nuova (amore), avevano un pensiero migliore (verità) e avevano trovato una via di fuga dalla morte (speranza). Nelle parole di Glover: «Il cristianesimo fu vittorioso perché i primi cristiani superarono il mondo che li circondava nel suo modo di vivere, nel pensiero, e superarono la sua fine»5. Oggi abbiamo la stessa chiamata, incluso l’impegno “a “superare nel pensiero” il nostro tempo (T.R. Glover, The Jesus of History, Association Press, New York, 1917, p. 213.).

Stefan Gustavsson,
Vivere e confrontatsi con l’ateismo,
7-10 Dicembre Montesilvano,
16° Convegno Studi GBU

Oppenheimer. Riflessione a margine di un film sulla scienza, sul potere di morte e sulla speranza

L’estate che sta volgendo al termine è stata interessante da un punto di vista cinematografico, soprattutto per l’uscita (insolita soprattutto per l’Italia) di diversi blockbuster che hanno portato molte persone a frequentare le sale cinematografiche. E’ stata l’estate di Barbienheimer, coniando un termine che vuole unire i titoli dei due film che hanno fatto più cassa e suscitato più discussioni.

Tralasciando per il momento di parlare di Barbie, mi soffermerò nel fare alcune osservazioni personali sull’ultimo film di Christopher Nolan, Oppenheimer, uscito solo di recente in Italia e che ha avuto un discreto successo nei diversi Paesi dove è stato proiettato, nonostante la sua lunghezza (3 ore che però meritano).

Il film, al contrario degli altri di Nolan che oggi è uno dei maggiori registi viventi, è un biopic ed ha al centro della storia il fisico che, coordinando il progetto Manhattan, ha permesso la costruzione della bomba atomica che è poi stata usata nel bombardamento di Hiroshima e Nagasaki e che ha, di fatto, portato al termine del secondo conflitto mondiale. Non si tratta di una sceneggiatura originale ma è basato su una biografia intitolata Il Prometeo americano

Al contrario di quello che si possa pensare delle moderne produzioni di Hollywood, il film non è pacifista e, come accade anche in altri film di Nolan (mi riferisco soprattutto a Dunkirk), pur non indulgendo nella guerra, mostra tutte le ragioni e le scelte che portarono all’uso dell’arma di distruzione di massa da parte dell’esercito USA e di come lo stesso scienziato fosse assolutamente favorevole a questa scelta, salvo poi pensare che non bisognasse andare oltre con la ricerca scientifica ed arrivare alla produzione della bomba H (si ponga attenzione ai suoi dialoghi con Teller nel film).

La ricostruzione storica, come accade quasi sempre nei film del regista inglese, segue una linea cronologica solamente all’inizio quando si parla della formazione del fisico statunitense, per poi lavorare su due piani cronologici diversi: quello della progettazione della bomba e della costruzione dell’equipe che vi ha lavorato a Los Alamos e quello dell’inchiesta durante la Paura Rossa americana contro lo stesso Oppenheimer che sono scanditi anche dall’uso del colore nella prima parte e del bianco e nero soprattutto durante l’inchiesta del Senato americano.

Il film fa un’ottima ricostruzione di ambientazione storica soprattutto nella linea temporale che riguarda le attività a Los Alamos e lavora molto, in maniera inconsueta per l’autore britannico, sui dialoghi nella parte concernente la Paura Rossa. Ne esce fuori un monumentale film che non annoia e che, però, per essere compreso appieno avrebbe bisogno di una base di conoscenza della fisica, soprattutto quando si sofferma (anche se brevemente) sugli aspetti teorici della costruzione della bomba. Il conflitto ed il richiamo al Nazismo è ben fatto e mostra come per Nolan la Seconda Guerra Mondiale sia stata una guerra giusta contro la malvagità, senza lasciare remore su questo. 

Gli attori usati dimostrano la loro bravura, soprattutto il protagonista, Cillian Murphy e, a mio parere (contro quello di molti), anche Robert Downey Jr quasi irriconoscibile nella parte del cattivo repubblicano anticomunista. Forse qualche scena di nudo poteva essere evitata, non comprendendone il bisogno, anche se il rapporto con il mondo femminile dello scienziato risulta interessante.

Gli interrogativi che può suscitare la visione del film sono molteplici e di vario tipo e vanno da quello del nostro rapporto con la scienza, alle questioni etiche, a quelle politiche e, non ultime a quelle religiose. Cerchiamo di passarle in rassegna con ordine.

Buona parte del film è basato su quella che potremmo chiamare l’età dell’oro della fisica moderna, il periodo in cui hanno sviluppato le loro idee alcuni dei maggiori esponenti di questa disciplina che nel film sono quasi tutti presenti in dei camei efficaci (Bohr, Heisenberg, Einstein con cui vi è il dialogo più interessante) e mostra un rispetto notevole nel far percepire il potenziale delle capacità umane nello studio della natura e nelle sue applicazioni. Le discussioni a Los Alamos tra i fisici dimostrano che il regista crede veramente che siamo nell’età della scienza e che le possibilità siano infinite, ma, allo stesso tempo, non sono lesinati interrogativi sulle questioni etiche.

Quanto è stato giusto usare la bomba atomica sui civili? Questo interrogativo, come è giusto che sia, viene lasciato aperto nel film e non vi è una risposta chiara. Lo stesso Oppenheimer sembra oscillare tra l’idea che la scelta sia giusta e utile, al turbamento per quello che è stato fatto ed all’idea che una tale scelta vada assolutamente condivisa con altri e non possa essere esclusiva di una sola nazione. Sicuramente la bomba atomica non può rappresentare il bene e sta lì a mostrare tutta l’ambiguità dello sviluppo umano che può produrre grandi cose che possono essere assolutamente dannose, sulla base di scoperte che possono avere anche applicazioni positive. 

L’immagine di Prometeo è qui calzante: il mito greco parla di un uomo che sfida gli dei tramite la tecnologia. Nello studio delle religioni comparate Prometeo è stato spesso paragonato ad Adamo per il suo “peccato” di orgoglio: la domanda che sorge a colui che vede il film è proprio quella di chiedersi se imbrigliare il potere dell’atomo non sia stato, da parte del genere umano, un peccato di orgoglio. Appare anche interessante il conflitto tra mondo americano ed europeo che è latente: a parte i cattivi nazisti, i fisici europei (quelli storici come Bohr e Einstein) avranno delle remore a partecipare al progetto Manhattan, al contrario di Oppenheimer che non avrà alcun dubbio. 

Vi è poi il motivo politico: Oppenheimer aveva chiare simpatie comuniste e se questo non era stato un problema durante il secondo conflitto mondiale (bisognava comunque utilizzare le sue capacità), lo diventa allo scoppio della Guerra Fredda e della Paura Rossa: è questo il filo conduttore del secondo piano temporale del film. Non è una scelta casuale perché si vuole far vedere, almeno in parte, come siano le scelte politiche di tipo umano a condizionare quello che succede. L’idea che un “eroe” che ha avuto il merito (nella prospettiva USA) di aver accelerato la fine della guerra, possa essere processato per motivi politici e ingiustamente era una parte importante del libro da cui è tratto il film. Qui Nolan forse appare un po’ scontato, mostrando una politica corrotta e gretta rispetto alla grandezza dello scienziato. L’interrogatorio fatto a Oppenheimer rimane però una parte interessante del film ed i dialoghi di questa parte sono molto interessanti.

“Ora sono morte, il distruttore dei mondi” è una frase della Bhagavad Gita, uno degli scritti più importanti delle Upanisad che, secondo alcuni, il fisico americano avrebbe pronunciato poco prima del testo Trinity, ovvero della prima esplosione atomica. Pur non essendo certi di questa citazione, essa ci porta alla finale riflessione teologico-religiosa. In un’intervista del 1963 rilasciata al Christian Century, Oppenheimer diceva che tra le sue letture preferite, oltre Platone, vi erano i testi induisti. La differenza tra il significato della frase detta da Krishna e quello che pensava Oppenheimer è molto differente: Krishna può rimanere indifferente alla morte ed alla distruzione del mondo perché tutto torna come prima. Benché non credente Oppenheimer rimaneva fortemente legato alla sue radici ebraiche e, pertanto, non poteva “perdonarsi” l’essere causa della morte di diverse persone. E’ proprio questa una delle questioni chiave del film: la responsabilità umana di fronte a delle scelte tremende che sono fatte in nome della scienza e con una presenza divina del tutto assente.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU