La vittimizzazione delle donne

Derek e Dianne Tidball
(Bibbia e quote rosa, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU)

Giudici 19:1 – 30
La Bibbia non è nient’altro che realistica. Presenta il mondo così com’è, sia quando le relazioni umane sono bellissime sia quando sono caratterizzate da una spaventosa brutalità. Le sue storie recano frequentemente testimonianza a quanto tali relazioni si siano deteriorate dal tempo dell’iniziale disubbidienza di Adamo ed Eva; quanto sono caduti in basso, uomini e donne, rispetto ai propositi creazionali di Dio! Questo è vero più che mai nelle descrizioni dei numerosi e raccapriccianti episodi che coinvolgono le donne, che Phyllis Trible ha appropriatamente definito testi di terrore.

Leggere la Scrittura
Le tremende esperienze di alcune donne sono in genere riportate come dei dati di fatto, senza interpretazioni e spesso anche in modo asettico. Raccontare una storia non può mai essere un’operazione totalmente neutra. L’atto di raccontare storie comporta necessariamente l’adozione, da parte del narratore, di una certa prospettiva, che lo porta a selezionare alcuni aspetti in quanto più significativi di altri e a prestare più attenzione a certi personaggi che ad altri. Nondimeno, l’approccio espositivo prevalente della Bibbia, in linea con la migliore tradizione narrativa, è quello di lasciare che la storia parli da sola. Così, le storie in cui le donne sono vittime sono raccontate senza interpretazioni, senza essere corredate di lezioni morali e di solito senza che siano attribuite delle colpe. Si lascia che siamo noi a farci la nostra idea su quello che è giusto e quello che è sbagliato, su ciò che è bene o su ciò che è male. A volte il verdetto è chiaro o il contesto ci guida a una particolare, ineluttabile conclusione. Spesso, però, non è così.

Come lettori, naturalmente, dobbiamo essere consapevoli del fatto che non possiamo evitare di applicare le prospettive che ci sono proprie al nostro approccio alla lettura dei racconti. Dato che la stragrande maggioranza degli insegnanti e dei predicatori, tradizionalmente, erano uomini, spesso questi racconti (anche i testi dove le donne sono evidentemente oggetto di atrocità) sono visti in una prospettiva maschile: il risultato è che l’esecrabilità a carico degli uomini per quegli atti di crudeltà è minimizzata e se ne fa addirittura ricadere la colpa sulle donne o si sorvola sull’obbrobriosità del comportamento maschile. Il passo che sarà più sotto esaminato in modo più particolareggiato è stato spesso spiegato nel senso di un difetto d’ospitalità, il ché è vero. Solo che la donna, che nel racconto è quella che soffre di più, a volte può essere quasi vista come se, nella storia, non fosse neppure una persona.

Vittimizzazione delle donne
Nell’Antico Testamento varie importanti donne sono vittime. Fra loro c’è Agar, vittima dell’impazienza di Abramo e dell’insofferenza di Sara. Dina, figlia di Giacobbe e Lea, è un’altra vittima. Fu rapita da Sichem con fatali conseguenze per lui e i suoi concittadini. Anche Tamar è vittima dell’indifferenza della sua famiglia e poi quasi vittima della giustizia dell’uomo, finché non ne mette allo scoperto l’ipocrisia. Più tardi, c’è un’altra Tamar che fu rapita dal principe reale Amnon e vendicata due anni dopo da suo fratello Absalom. La storia più sconvolgente di tutte, però, riportata in Gdc 19, è quella dell’anonima vittima della lussuria di un Levita, della violenza di gruppo da parte di un’intera città e della fredda indifferenza del suo padrone.

L’anonima protagonista
a. In quel tempo… (1)
L’ambientazione di quest’episodio è significativa. In quel tempo non c’era re in Israele (1) non si limita a segnalare che quest’episodio ebbe luogo nel periodo precedente l’esistenza di una monarchia. La clausola, che ricorre quattro volte alla fine del libro dei Giudici, fotografa il dilagare dell’illegalità, della violenza e dell’immoralità nella vita degli israeliti e ne attribuisce la colpa soprattutto alla mancanza di una buona leadership. I primi giudici avevano messo qualche freno ai peccati del popolo ma gli ultimi erano stati sempre meno incisivi nel farlo, non da ultimo perché la loro stessa personale vita di pietà era in rapido declino. Il sentiero su cui Israele si era incamminato, portò inesorabilmente al rovinoso quadro, dipinto negli ultimi capitoli del libro dei Giudici, di una società che aveva rigettato Dio; una società dove regnava l’anarchia e le persone avevano perso la loro umanità. Lungo questa china, le donne diventarono sempre di più le vittime.

Nel libro dei Giudici le donne svolgono un ruolo di tutto rilievo. Per cominciare, eroine come Debora o Iael salvano la nazione in tempo di crisi e nel caso di Debora prestano servizio come guide anche in periodi meno turbolenti. Con il venire meno della legge e il declino della pietà, però, sempre di più sono presentate come vittime del folle comportamento degli uomini; una follia che la figlia di Iefte paga con la vita, al di là delle buone intenzioni del voto di Iefte. Anche l’anonima madre di Sansone deve avere pianto, quando il suo tanto atteso figlio finì col comportarsi in modo spiritualmente tanto avventato. Il finale, punto culminante in ogni senso del messaggio del libro dei Giudici, è la descrizione della violenza esercitata sulle donne da parte dei Beniaminiti. Nell’immediato, a portarci a un tale scenario è la storia di una donna senza nome che subì la più atroce e terribile delle sorti per mano di alcuni uomini.

Dennis Olson coglie bene il significato del ruolo delle donne nel libro dei Giudici:
Il mutare dei rapporti di forza, l’indipendenza e il modo con cui sono trattati i tanti personaggi femminili all’interno del libro fanno da test sul quale misurare il livello di spiritualità e la fedeltà del popolo di Dio… Al generale declino delle donne, nel libro dei Giudici, da soggetti di azioni indipendenti a oggetti delle azioni e dei desideri dell’uomo, corrisponde il graduale declino, nell’età dei Giudici, della vita sociale e religiosa d’Israele. Declino che culmina con l’atrocità dello stupro e dell’omicidio perpetrati contro la concubina del Levita in Giudici 19, certamente una delle scene più brutali e violente di tutta la Scrittura.

Il modo con cui sono trattate le donne, dunque, fa da termometro per misurare la temperatura spirituale d’Israele.

b. Un Levita… si prese per concubina una donna (1 – 2b)
Il soggetto del racconto è un Levita, un uomo dalla forte personalità e di rango. In altre parole, il protagonista della storia è lui. Quest’uomo, pur abitando nella lontana Efraim, si prese per concubina una donna di Betlemme, che doveva essere a quel tempo molto più popolosa e dove le donne dovevano essergli risultate più accessibili che nella sua comunità di provenienza. In questa fase, non c’è nulla di allarmante che emerga dal racconto, anche se, appena scaviamo un po’ più in profondità, incomincia a suonare un campanello d’allarme. Potrebbe darsi che abbia sfruttato a proprio vantaggio la sua posizione di Levita, quantunque prendere una concubina, a quel tempo, dovesse essere reputata una pratica accettabile e non dovesse essere visto come un comportamento sessuale discutibile. Trent Butler sottolinea che Gedeone lo aveva fatto e il ruolo della concubina potrebbe meglio essere compreso se era vista come una «moglie secondaria». Accettabile o no, si rimane colpiti dal fatto che la concubina sia presentata come l’oggetto silenzioso e passivo della storia. Non le è neppure dato un nome. Nella sua vita è proprietà degli uomini, che possono quindi disporre di lei secondo i loro desideri.

Non passa molto tempo prima che scappi dal Levita e torni da suo padre. Il gli fu infedele (2) della NIV (e della maggior parte delle versioni italiane; ndt) implica che sia stata lei la responsabile della rottura della loro relazione. Il termine ebraico chiave può significare che fu «arrabbiata», piuttosto che «infedele» verso di lui. Potrebbe darsi benissimo che sia stato lui, con il suo comportamento, ad averla indotta ad andarsene e che abbia fatto quello che tutti gli altri facevano, vale a dire, quello che le pareva meglio.

c. Quattro mesi dopo… (2c – 10)
Quattro mesi dopo, il Levita si mise alla sua ricerca. Questa semplice affermazione solleva diverse domande, cui non ci sono risposte. Perché aspettò quattro mesi (2)? È indice d’indifferenza o stava cercando di porsi nella giusta attitudine mentale prima di mettersi in viaggio? Aspettava che il suo vero carattere si manifestasse, se davvero aveva commesso adulterio? Perché si mise alla sua ricerca? Era perché la amava o cercava una fredda giustizia, spinto dal desiderio di riprendersi quello che «gli apparteneva»? Se era in cerca di una vera riconciliazione, perché nel suo successivo comportamento la ignora tanto spesso? Perché il padre lo accolse così calorosamente (3)? Era perché si sentiva «solo e cercava un compagno di bevute»? Le domande si susseguono ma le risposte ci sfuggono.

Quali che siano le sue motivazioni, il Levita è bene accolto dal padre della concubina e sembra legare subito con lui. Per qualche giorno il Levita si gode l’ospitalità dei genitori di lei. Il vino è abbondante, il cibo continua ad arrivare e la compagnia è piacevole. Della concubina non si dice nulla. I riflettori sono puntati sugli uomini, che rimangono il soggetto, gli attori principali; lei è una semplice comparsa.

Pochi giorni dopo, questo clima conviviale incomincia a deteriorarsi; il Levita ha fretta di partire e di tornare a casa sua, con la concubina al sicuro al suo seguito. Il padre impone al suo sempre più impaziente ospite la propria ospitalità fino a quando il Levita non ne può più. Il loro legame, come osserva Trible, si sfalda ed è sostituito dalla rivalità e da una prova di forza in cui la figlia / concubina è una pedina silenziosa che «tutto subisce senza che nessuno si curi di lei». Ma il marito non volle passarvi la notte; si alzò, partì, e giunse di fronte a Gebus, che è Gerusalemme (10). È una voluta ironia, quella dell’autore, quando aggiunge con i suoi due asini sellati e con la sua concubina? Non ha lei, ai suoi occhi, più valore di loro?

d. Andremo fino a Ghibea (11 – 21)
Se la decisione di partire da Betlemme di sera fu folle, quella di passare oltre Gerusalemme e di forzare le tappe fino a Ghibea fu disastrosa. I preparativi per dirigersi verso Ghibea sono fatti non con la concubina ma con il servo (11 – 12). È evidente che lei non viene consultata e che i suoi desideri non sono presi in considerazione. La ragione fornita è che Gebus non sarebbe stato un rifugio sicuro per loro, dal momento che non c’erano Israeliti residenti. Così presero la via di Ghibea e la raggiunsero quando il sole tramontò (14). I moderni timori di giungere di notte senza aver predisposto nulla per l’ospitalità non devono essere stati per loro motivo di preoccupazione. L’obbligo di offrire ospitalità agli stranieri affondava le proprie radici in profondità nelle vene degli Israeliti; erano fiduciosi che se si fossero recati nella piazza della città sarebbero subito stati invitati in casa di qualcuno. Così questo è quello che fecero, solo, ahimè, per un po’, senza successo.

Alla fine un uomo che non era del posto, un vecchio… della regione montuosa d’Efraim (16) e dunque originario dello stesso territorio del Levita, che aveva lavorato fino a tardi, giunse in loro soccorso e si offrì di ospitarli. È evidente come, nell’accogliere l’invito, il Levita cerchi d’ingraziarselo parlando di se stesso e dei suoi compagni come dei tuoi servi e dicendo che hanno abbastanza provviste con loro e dunque non saranno di nessun impaccio: «A noi non manca nulla» (19). Quando si riferisce alla concubina, però, è condiscendente e parla di lei come di una «serva» (la NIV rende la parola da lui utilizzata semplicemente come «donna»), che è un «termine negativo e sprezzante». Ha quindi inizio una tranquilla notte di riposo, o almeno, questo è quello che loro pensano.

 e. Fa’ uscire quell’uomo… (22 – 26)
Quello che seguì fu terribile per tutte le persone coinvolte ma più di tutti per la concubina. La loro piacevole e tranquilla nottata fu bruscamente interrotta quando una folla di uomini del posto assolutamente privi di qualsiasi ritegno bussarono alla porta e chiesero che il visitatore maschio fosse fatto uscire in modo che potessero farne l’oggetto del loro sollazzo sessuale (22). Si trattava sotto ogni aspetto di una sconsiderata violazione delle regole dell’ospitalità. La tragica ironia era che «avendo sdegnato l’ospitalità degli stranieri ed essendosi affidato agli Israeliti, viene a trovarsi in una virtuale Sodoma». Chi lo ospita si rivela coraggioso, dato che esce a trattare con quella folla e rifiuta di cedere loro il suo ospite maschio. Ogni sensazione di avere a che fare con una persona per bene che sta facendo la cosa giusta, svanisce però rapidamente, non appena si affretta a usare la sua stessa figlia e la concubina del suo ospite come merce di scambio: due donne al posto di un uomo. Comportandosi in linea con i valori  le abitudini del suo tempo, l’ospite prese la sua posizione. Abusare di un uomo era inaccettabile. Lo stupro omosessuale sarebbe stata una palese violazione delle regole dell’ospitalità, che erano pesantemente sbilanciate in favore degli uomini. Violentare una o due donne, invece, non sembrava avere le stesse implicazioni o caricarsi dello stesso peso.

L’aspetto più sconcertante di quest’episodio della storia è la facilità con cui gli uomini sono pronti a consegnare le donne perché diventino dei giocattoli nelle mani del branco. Viene loro detto: «Fatene quel che vi piacerà». Letteralmente tradotto, l’ospite fa l’inquietante affermazione: «Fate loro quello che è giusto agli occhi vostri». Le donne sono delle pedine impotenti fatte per essere spostate sullo scacchiere a piacimento degli uomini che brandiscono il potere in una relazione assolutamente impari. Gli uomini devono essere protetti. Delle donne, tutte le volte che fa comodo, si può fare a meno. La donna diventa una vittima del vigliacco ospite maschio, dell’indifferente Levita di Efraim e dei depravati uomini di Ghibea, che, nella sciagura che segue, sono tutti complici.

La folla sembra essere lasciata fuori della porta mentre gli uomini discutono sul da farsi dentro. La figlia dell’ospite esce di scena. Quando però la folla si fa più irrequieta, il Levita non ha esitazioni: offre la sua concubina perché sia loro preda. Apre la porta e la spinge fuori, dove è soggetta a un prolungato stupro di gruppo (25). Come sottolineato da Tammi Schneider: «Il testo, non cerca di minimizzare o di edulcorare quello che le è successo»; tuttavia, non ne va però neppure fiero. Riferisce in poche parole quanto è avvenuto, senza alcun incoraggiamento al voyeurismo. Dopo ore di supplizio, una volta che gli uomini ebbero finito con lei, lasciarono il suo corpo sulla soglia, come se fosse un topo con cui un gatto ha appena finito di giocare. Come il topo, avendo servito al suo scopo, ora è scaricata ed è praticamente morta.

A quanto pare il suo padrone ha dormito comodo e tranquillo all’interno, senza alcun rimorso di coscienza e senza mostrare alcuna preoccupazione per lei. Non si alzò presto, pronto a prendersi cura di lei nel momento che fosse tornata e meno che mai si mise ad andare in cerca di lei. Così è lasciata lì distesa, abbandonata, finché fu giorno chiaro (26). Quando alla fine il Levita si alzò, si ha come l’impressione che fosse decisamente pronto a tornare a casa senza di lei, se non fosse tornata per quando lui fosse stato pronto a partire. La trova sulla soglia ma non può avere da lei alcuna risposta. Di fatto, non ha mai parlato una sola volta in tutta la storia. È stata una persona senza voce, un oggetto silenzioso cui sono fatte via via diverse cose. Ora quell’esperienza l’ha traumatizzata profondamente e l’ha ridotta così, priva di conoscenza o, più probabilmente, l’ha uccisa. L’abuso, lo stupro e la violenza erano degenerati nell’omicidio. Così il Levita raccoglie il suo corpo malridotto come se fosse un «sacco di patate» o un tappetino in vendita in un mercato, la caricò sull’asino e partì per tornare a casa sua (28). Nulla, nella storia, ci offre alcuna indicazione dei suoi sentimenti. Non la piange. Il silenzio sembra calcolato per presentarcelo come un uomo indifferente, freddo e spietato.

f. Si munì di un coltello, prese la sua concubina e la divise… (27 – 30)
L’orrore del trattamento ricevuto dalla concubina per mano degli uomini di Ghibea è compensato dall’orrore del trattamento che riceve nella morte per mano di suo marito. Giunto a casa, si munì di un coltello, prese la sua concubina e la divise (29). Anni prima, Abramo aveva preso un coltello per squartare suo figlio come sacrificio; la differenza, però, è che in Genesi 22, Dio si fa avanti e blocca quell’atto terribile. «Nel libro dei Giudici, gli atti contro le donne furono incominciati e portati a termine dagli uomini». Il Levita divide tranquillamente il suo cadavere in dodici pezzi, che mandò per tutto il territorio d’Israele (29). Con un atto «inutilmente brutale», non mostra verso di lei nessun rispetto, non tratta il suo corpo con alcuna tenerezza d’affetti e la fa crudelmente a pezzi, proprio come se fosse la carcassa di un animale atta a essere esposta per la vendita nella vetrina di una macelleria. Solo che invece di mettere il suo corpo smembrato in mostra in un negozio, ne sparpaglia i pezzi per tutto Israele. Ci si può immaginare il Levita che giustifica il suo comportamento. L’ha fatto come segno d’avvertimento a Israele. È stato per impartire loro una lezione. La macabra natura del suo pacchetto doveva indurre tutti a fare un balzo sulla seggiola e a considerare quanto si fosse caduti in basso. Serviva una terapia d’urto. Nulla di meno sarebbe stato sufficiente. Quello che ha fatto era «una versione macabra e crudele dei mezzi abituali con cu nel vicino oriente antico s’invocava un contingente militare d’emergenza». Era qualche cosa di simile a quello che più tardi avrebbe fatto Saul, quando tagliò a pezzi una coppia di buoi e li distribuì alle tribù d’Israele per incitarli (con successo) alla battaglia. Di primo acchito, l’azione del Levita sembra avere sortito l’effetto sperato. Quella di tutti è una reazione d’orrore. «Una cosa simile non è mai accaduta né si è mai vista, da quando i figli d’Israele salirono dal paese d’Egitto fino al giorno d’oggi! Prendete a cuore questo fatto, consultatevi e parlate!» (30).

Tuttavia, per quanto egli possa trovare delle giustificazioni razionali alla sua azione, la verità è che svilendo il corpo di lei, conferma di non essere migliore di tutti gli altri protagonisti della storia. La tratta come una sua proprietà, un oggetto da usare e di cui abusare a proprio piacimento e di cui potersi disfare nella maniera che più gli fosse congeniale. Le parole con cui mobilita tutti per la causa confermano il suo egocentrismo. Prima di far menzione del fatto che la sua concubina era stata violentata e uccisa, dice loro che gli abitanti di Ghibea «insorsero contro di me e circondarono di notte la casa dove stavo; avevano l’intenzione di uccidermi»’ (20:5). Le sue parole sembrano finalizzate a declinare tutte le responsabilità da lui avute per la tragedia. Il giudizio di Olsen su quest’uomo sembra difficile da contestare: «Anche se abilmente costruito», è possibile che sia lui «il personaggio più sinistro» della storia.

Inoltre, a un esame più ravvicinato, la reazione generale è più ambigua di quanto non possa sembrare. «Qualche cosa deve essere fatto», gridano. Che cosa, però? A ben pensare, la speranza è che vogliano dire che devono pentirsi del loro stato di anarchia e riformare le loro vite in vista della creazione di una società più giusta e meno violenta. Quello che segue, però, suggerisce che abbiano in mente altri tipi di risposta. Quello che hanno in mente è la guerra civile! L’azione del Levita serve soltanto a dare libero corso ad altra violenza, non ad arginarla, dato che tutto Israele si raduna a Mispa per un consiglio di guerra e stabilisce unanime di trattare la tribù di Beniamino «secondo tutta l’infamia che ha commessa in Israele». Il risultato è che 25.000 soldati Beniaminiti muoiono in battaglia e le loro città sono date alle fiamme. Anche se è una forma di giustizia, si tratta per lo più di un tipo di giustizia in cui ci si fa giustizia da sé; dove si consulta Dio più o meno alla fine, invece di consultarlo fin dall’inizio.

L’eccidio di 25.000 dei loro fratelli e il saccheggio delle loro città non soddisfece la sete di vendetta delle tribù, così viene dato libero corso ad altra violenza. Nella seconda fase sono le donne a diventare nuovamente l’oggetto della sofferenza. Molte di loro sono uccise insieme con gli uomini rimasti in vita e quattrocento vergini sono violentate. Poi, più tardi, altre duecento giovani donne sono rapite durante una festa a Silo e costrette a sposare i Beniaminiti sopravvissuti per assicurare la continuazione della tribù.[33] Lo stupro e la morte di una donna è degenerato nello stupro, nel rapimento e nell’uccisione di molte. Le donne sono quelle che pagano il prezzo più alto per l’anarchia sociale e sessuale degli uomini di Ghibea.

I capitoli 17 – 21 costituiscono una parte ben congegnata del libro dei Giudici, che porta il suo messaggio a un punto di non ritorno. Non si tratta semplicemente di una vicenda che compare e finisce semplicemente lì. Questi racconti non sono lì per caso; sono appositamente scelti in quanto emblematici di quello che succede quando le leggi di Dio sono accantonate. La società degenera e imperversa l’individualismo. Tutti fanno quello che più aggrada loro senza pensare ad altri che a se stessi. Quando questo accade, i meno forti, che sono i più vulnerabili, diventano le vittime. Quante volte, nel corso della storia, sono le donne a trovarsi fra le più vulnerabili. Diventano non tanto le peccatrici, quanto quelle contro cui si commette peccato.

Il quadro contemporaneo
La storia della concubina senza nome è fin troppo attuale. Continuamente i giornali riferiscono di donne che sono abusate e violentate dai soldati sui campi di battaglia, dagli ubriachi nei centri cittadini e dai parenti, a porte chiuse. Rendere giustizia alle vittime di violenza è spesso difficile; gli uomini trovano ancora delle giustificazioni per il loro comportamento e dei motivi per far ricadere sulle donne la colpa delle sofferenze che vengono loro inflitte.

Ecco quello che riporta un recente rilevamento di dati statistici, che è in linea con altre ricerche nel campo:

In Gran Bretagna:

  • Il 45% delle donne hanno sperimentato qualche forma di violenza domestica, si tratti di violenza sessuale o di stalking
  • Circa il 21% delle ragazze ha sperimentato qualche tipo di abuso sessuale.
  • Almeno 80.000 donne all’anno subiscono uno stupro.
  • In un sondaggio condotto per Amnesty International, secondo più di 1 intervistato su 4 una donna è parzialmente o totalmente responsabile, se è violentata, qualora si vesta in modo sessualmente eccitante o poco castigato e più di uno su cinque la pensava allo stesso modo qualora una donna avesse avuto diversi partner sessuali.
  • In media, in Inghilterra e in Galles, due donne alla settimana sono uccise da un compagno o ex compagno violento. Si tratta quasi del 40% di tutte le vittime di femminicidio.
  • Il 70% degli episodi di violenza domestica hanno per effetto una lesione.

Si stima che la violenza domestica costi alle vittime, ai servizi sociali e allo stato, un totale di circa ventitre miliardi di sterline (quasi trenta miliardi di euro, ndt) l’anno.

Nel mondo:

  • Almeno una donna su tre è picchiata, forzata a fare sesso o altrimenti abusata da parte di un compagno intimo nel corso della sua vita.
  • Secondo una banca dati mondiale, le donne di età compresa fra i 15 e i 44 anni sono più a rischio di stupro e violenza domestica che di cancro, incidenti automobilistici, guerre e malaria.

In più c’è lo scandalo del traffico di esseri umani:
Le Nazioni Unite stimano che un numero di donne e bambini compreso fra i 700.000 e i 4 milioni sia ogni anno, nel mondo, oggetto di traffico finalizzato alla prostituzione coatta, alla schiavitù e ad altre forme di sfruttamento. Si stima che il traffico di esseri umani sia un business da 7 miliardi di dollari l’anno.

Negli Stati uniti 50.000 donne e bambini sono oggetto di tratta da non meno di quarantanove paesi. Nell’ultimo decennio, all’interno degli Stati Uniti, sono stati oggetto di tratta qualche cosa come 750.000 donne e bambini.

5. Conclusione
La cultura occidentale contemporanea è diventata una cultura improntata al vittimismo, con effetti spesso banalizzanti. Il risultato è che non riusciamo a identificare le vere vittime e siamo ciechi nei confronti della vera ingiustizia che le ha rese tali. Non si dovrebbe consentire nulla che possa banalizzare le innegabili tragedie delle donne vittime dell’Antico Testamento o di quelle che nel mondo contemporaneo sono loro succedute.

Con parole che potrebbero calzare perfettamente alla concubina del Levita, Jonathan Sacks scrive:
La politica del vittimismo è cattiva politica. La psicologia del vittimismo è cattiva psicologia. Una vittima è per definizione un oggetto, non un soggetto, passiva piuttosto che attiva, qualcuno cui qualche cosa è stato fatto più che qualcuno che fa qualche cosa. Se vi vedete come una vittima, allora collocate la causa della vostra condizione in qualche cosa di esterno da voi stessi. Ciò significa che non potrete cambiarla.

Prosegue dicendo, in una citazione di Martin Seligman, che il vittimismo è una «studiata impotenza». Quantunque spesso questo sia vero, le cose non stanno sempre così. Le vere vittime sono spesso vittime non tanto di una studiata quanto di una forzata impotenza. Anche se possono esserci delle vittime che sono nelle condizioni di poter fare qualche cosa per superare la loro condizione, ci sono delle autentiche vittime che non possono farlo. La concubina del Levita era una di loro.

L’epoca dei Giudici non è passata e del suo salutare messaggio c’è ancora bisogno. Il libro dei Giudici, tuttavia, non è che una voce, quantunque una voce inquietante e che non deve essere ignorata, in quello che la Bibbia ha da dire sulle donne. Phyllis Trible sottolinea che nell’Antico Testamento greco al libro dei Giudici segue quello di Rut e una tale disposizione non è casuale. In Rut, che pure è ambientata nello stesso periodo dei Giudici, non c’è traccia di «misoginia, violenza o rivalsa». Le donne non sono vittime passive o oggetti; sono chiaramente dei soggetti attivi. Rut parla con voce diversa, una voce che reca una «parola di guarigione nei giorni dei Giudici», un messaggio che parla della possibilità di riscatto anche in una società patriarcale.[38] La voce dei Giudici deve risuonare forte e chiara; lo stesso però vale per quella di Rut.


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