Quale fondamento per il dialogo?
di Henri Blocher
Una questione si impone all’apologetica: se l’intelligenza dipende, per il suo funzionamento, da presupposti, da schemi di valore e da criteri e se i presupposti delle persone che incontriamo non sono quelli della Scrittura, a cosa serve dialogare? Non ci sono più punti di contatto. Il compito dell’apologetica non è reso impossibile da questa visione antirazionalista?
1. Una soluzione seducente ricorre a una sorta di compromesso suppone che nell’uomo naturale esistano comunque degli elementi indenni, con i quali si può dialogare con sufficienza: ci sarebbe un terreno comune su cui collocarsi per persuadere la persona ad andare più lontano. Questa soluzione va vista in prospettiva. È esattamente vero che l’ottenebramento dell’intelligenza dell’uomo naturale, non rigenerato dalla grazia di Dio, non è uguale su tutti i punti. La deformazione che comportano i criteri e i presupposti del mondo non è la stessa in tutti gli ambiti. Varia secondo le culture, gli individui e gli ambiti: in matematica, ad esempio, è poco accentuata, e si può nella pratica lavorare e ragionare insieme. In linea molto generale la deformazione è tanto più accentuata quanto più ci si avvicina al punto scottante, allorquando entra in gioco la relazione con Dio. Su questo punto la deformazione è massima. Quando è lontano da Dio l’individuo non si sente in pericolo per il fatto di dover dare gloria a Dio, non si rende conto che anche quell’ambito lontano appartiene a Dio; non sentendosi minacciato nella sua affermazione d’indipendenza, deforma poco. La deformazione è dunque più o meno grave su tale o tal altro punto. Tuttavia non c’è alcun dominio perfettamente immune: tutto è contaminato in qualche misura. Non ci si può dunque sottrarre alla difficoltà, postulando l’esistenza di un terreno neutrale.
2. La soluzione corretta ci è data da Paolo in Romani 1. Questo testo ci permette di vedere che ne è dell’uomo naturale quanto al funzionamento della sua intelligenza e del suo rapporto con la testimonianza di Dio. Abbiamo sollevato il problema della griglia di lettura che possiede l’uomo naturale, che non è secondo Dio, e deforma la visione (2 Pt 1:9 parla letteralmente di “miopia”). Non è il solo fattore in gioco. Dio rende testimonianza di se stesso nella realtà: «Quel che si può conoscere di Dio è chiaro per loro» (Rom 1:19). Dio si mostra nelle sue opere. Il reale ha una struttura che gli viene da Dio. Ha delle leggi, delle relazioni di senso, ha una forma stabilita da Dio che gli rende gloria. L’uomo naturale vive in questo mondo che Dio ha modellato e che conserva la forma che Dio gli ha dato, malgrado i contraccolpi della caduta. Nella sua stessa costituzione di creatura l’uomo naturale è fatto per Dio. Così nel momento in cui mette in atto criteri deformanti non è tutto facile per lui. Le cose non vanno da sé. Non è come se si trovasse davanti a un blocco di cera morbida a cui potrebbe dare una forma qualsiasi. La deformazione gli costa energia. Per non riconoscere la testimonianza che la realtà rende a Dio è obbligato a distorcere le cose; non gli è facile recalcitrare contro i pungoli del reale (cfr. At 26:14). L’apostolo Paolo dice che l’uomo senza Dio “trattiene” la verità prigioniera nell’ingiustizia (Rom 1:18; il verbo nel testo originale può significare “trattenere” o “detenere”)
[Così traduce la versione francese Louis Second, mentre le traduzioni italiani più usate (Nuova Riveduta, Diodati, CEI, traducono lo stesso verbo con «soffocano»)]
Gli umani hanno scelto la pretesa indipendenza contro Dio, non vogliono rendergli gloria, parimenti trattengono la testimonianza che sta intorno a loro, la pervertono e la appiccicano a idoli. Ci vuole uno sforzo per una simile deformazione. È una sorta di lotta, che mira a trasformare la natura delle cose quali Dio le ha stabilite. Esistono situazioni in cui tutto ciò non sta in piedi ed è talvolta necessario camuffare qualche aspetto della realtà. È a questo prezzo che l’uomo naturale può applicare la sua griglia interpretativa: ne prova tacitamente la difficoltà.
Che succede quando siamo in una situazione “apologetica”, quando proponiamo un’apologia a persone che non aderiscono ancora al vangelo? Non ci mettiamo sul terreno dell’essere umano lasciato a se stesso, non adottiamo i suoi presupposti. Parliamo della verità che Dio ci ha fatto conoscere, nella sua grazia. Sottolineiamo la vera struttura delle cose: mettiamo in evidenza la testimonianza che la realtà rende al suo creatore. Di conseguenza diventa più difficile per l’uomo naturale, che è in dialogo con noi, reprimere e pervertire la testimonianza, come fa di solito. Laddove vorrebbe camuffare qualcosa glielo facciamo notare. A questo punto, delle due l’una: o riesce a reprimere ancora, non vuole capire, persevera nel suo indurimento – e non sono i nostri argomenti che vinceranno l’indurimento del suo cuore! – oppure lo Spirito Santo si serve degli argomenti che impieghiamo e che mettono in valore la struttura del reale, per come Dio l’ha creata; allora il lucchetto salta, la deformazione non tiene più, la persona è liberata per altri pensieri, secondo il pensiero di Dio. È quel che nel Nuovo Testamento si chiama metanoia (conversione), un «altro modo di pensare» (la parola viene dalla radice della parola «intelligenza, ragione»). Tale è il senso dell’argomentazione apologetica. Non bisogna credere che di per sé le argomentazioni siano sufficienti. Se il nostro interlocutore si blocca nei suoi presupposti contrari a quelli di Dio, gli argomenti non lo toccheranno, può benissimo chiudersi a essi. Se piace a Dio possono effettivamente servire da strumento allo Spirito Santo.
FIN DOVE PERSEVERARE?
1. Fin dove è opportuno perseverare in questo dialogo? Da un punto di vista pratico, sottolineeremo due realtà.Poiché il grado di deformazione cambia secondo gli individui e i luoghi, bisogna sempre adattarsi all’interlocutore. Il primo obiettivo è di “sorprenderlo”: rispetto al sistema che ha messo in piedi (quell’incatenamento spirituale–intellettuale che appaga il suo sentimento di insicurezza), risvegliare quel che ha dimenticato e stupirlo. Si deve sperare che ciò possa destabilizzare il sistema deformante con il quale tiene prigioniera la verità. Laddove ha deformato poco, ci si può introdurre e mettere in discussione, come ha fatto Paolo in Atti 17. L’apostolo si serve dell’affermazione – certo ancora oscura e panteista: «poiché siamo della sua razza» (At 17:20, TOB). Si fonda su questa per rimettere in discussione i suoi interlocutori in ordine alla loro idolatria: se riconoscete che è l’umanità che fa parte della razza di Dio, perché costruite degli dei di pietra e di legno? Paolo rileva la contraddizione. Lo fa prendendo in considerazione le persone che ha davanti a sé: rivolgendosi a degli stoici usa le parole di un poeta stoico.
2. Seconda considerazione pratica: cos’è che fa sì che il nostro interlocutore sentirà, nel momento in cui gli presentiamo i nostri argomenti, che gli sarebbe difficile continuare a deformare la realtà come sta facendo? Lo sente grazie alla strana capacità che ha il nostro spirito di “toccare” il pensiero di qualcun altro. Quando ci parliamo si stabilisce una sorta di contatto, un contatto spirituale. Mimiamo nel nostro proprio pensiero il pensiero dell’altro, che ci tocca. È in questo stesso modo che, nel dialogo, i nostri propositi non restano semplicemente esterni al nostro interlocutore, ma risvegliano quel che egli aveva cercato di reprimere in sé. Tuttavia questo fenomeno di comunicazione spirituale, che esiste tra gli individui, è grandemente facilitato e si raddoppia quando c’è un clima affettivo di qualità, poiché è il cuore dell’uomo tutto intero che pensa. Quando è un amico in cui si ha fiducia a presentare il nuovo pensiero, questo penetra più a fondo ed è più difficile da scacciare di quando è invece un estraneo o una persona antipatica a farlo. La relazione personale ha dunque un’importanza decisiva in apologetica.
Tale è la promessa che Dio fa all’apologeta, al suo discepolo umile e coraggioso che cerca di persuadere con ragioni serie il fratello o la sorella in umanità: liberata tanto dal razionalismo che dall’irrazionalismo, la ragione rinnovata secondo la Parola può toccare quella della persona in dialogo – e lo Spirito Santo può servirsene e liberare a sua volta questa persona, mediante la Verità, per la Vita.
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