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L’oro del negoziante

di Miroslav Volf

«Cammino per strade che sono morte», cantava Bob Dylan.
Quando ascoltavo il verso, mi sono ricordato della mia passeggiata nelle strade che erano morte. Un anno fa ho visitato Vukovar, una città croata che era stata di fatto distrutta nella guerra. Vedevo il vuoto che si estendeva attraverso le finestre rotte, e le porte delle case i cui tetti erano stati sfondati e le cui facciate mostravano le cicatrici causate dalle schegge. Ho ascoltato lo stridulo silenzio che avvolgeva le lunghe file di case separate da marciapiedi coperti di erbacce e disseminati di oggetti abbandonati. Strade morte. Monumenti di vita distrutta o espulsa.

Più recentemente ho passeggiato per le strade morte di Sandtown nel centro di Baltimora. Era come se stessi rivivendo Vukovar, solo che questa volta il distruttore non era stata la guerra ma le tensioni razziali, il crimine e la rovina economica. C’era un’altra importante differenza. Dodici isolati della città erano stati segnati dalla New Song Community (Leggi l’articolo correlato, Missione urbana) ed erano stati dichiarati come spazio della pace di Dio. Le strade morte erano di nuovo piene di vita.

Mark Gornik della New Song me lo spiegò un po’, mentre passeggiavamo. Mentre stava spiegando il degrado dei centri cittadini, suggeriva che la dottrina della giustificazione per grazia contenesse risorse non sfruttate per la guarigione. Lo sapevo, pensai dentro di me. Per circa dieci anni aveva vissuto e lavorato a Sandtown e avevo visto le trasformazioni che vi erano state, una casa alla volta.Tuttavia per molti teologi la giustificazione per grazia è una dottrina oziosa. Alcuni l’hanno abbandonata e l’hanno lasciata arrugginire sotto un mucchio di spazzatura teologica; la reputano generalmente inutile o quanto meno di scarso aiuto quando si giunge al voler guarire patologie anche inferiori rispetto ai cicli di povertà, alla violenza e alla disperazione. Altri perseguono una sorta di interesse antiquario per la dottrina; esaminano e lustrano un artefatto del sedicesimo secolo e lo mostrano orgogliosamente a chiunque voglia frequentare il loro piccolo museo. Arrugginita o lucidata, la dottrina della giustificazione per grazia giace lì, abbandonata, senza vita. Una dottrina morta. Poteva la speranza dei centri urbani essere parzialmente basata sul recupero della dottrina della giustificazione per grazia?

Come potevano le strade morte ricevere vita da una dottrina morta? Immaginate di non avere lavoro, di non possedere denaro, di vivere ai margini del resto della società in un mondo governato dalla povertà e dalla violenza, la vostra pelle è del colore “sbagliato”, e non avete alcuna speranza che tutto questo cambierà.
Attorno a noi vi è una società governata dalla legge d’acciaio del successo. Le sue merci dorate sono ostentate davanti ai nostri occhi sugli schermi della TV, e in migliaia di maniere la società ci dice ogni giorno che siamo senza valore perché non ci siamo realizzati. Si è un fallimento, e si sa che continuerà a essere un fallimento perché non c’è maniera di realizzare domani ciò che non si è riusciti a ottenere oggi. La dignità è frantumata e l’anima è avvolta nel buio della disperazione.

Ma il vangelo ci dice che non si è definiti dalle forze esterne. Ci dice che si può contare, ancora di più, sul fatto che si è amati incondizionatamente e infinitamente, senza nessun riguardo per ciò che si è raggiunto o per i fallimenti che si sono avuti, anzi si è amati un filino di più di coloro i cui sforzi sono stati coronati dal successo.

Immaginate ora questo vangelo che non viene semplicemente proclamato ma incorporato in una comunità che è venuta fuori non come un «frutto delle opere» ma come una comunità «creata in Cristo Gesù per le buone opere» (Ef 2:10). Giustificati dalla pura grazia, cerca di “giustificare” per grazia coloro che sono resi “ingiusti” dall’implacabile legge del successo della società. Si immagini inoltre questa comunità determinata a infondere ancor più questa cultura, insieme con le sue istituzioni economiche e politiche, con il messaggio che cerca di incorporare e proclamare. Questa è giustificazione per grazia, proclamata e praticata. Una dottrina morta? Difficile che lo sia.

Mentre stavo riflettendo sul significato sociale della giustificazione per grazia mi salì alla mente un passo di Così parlò Zarathustra di Nietzsche che avevo letto andando a Baltimora. «O miei fratelli, io vi dirigo e vi consacro verso una nuova nobiltà: diventerete portatori e coltivatori e seminatori del futuro – in verità, non una nobiltà che si potrebbe acquistare come un negoziante che commercia oro; poiché tutto ciò che ha un prezzo è di poco valore».

La giustificazione per grazia, pensavo, meditando sulla profonda osservazione di Nietzsche, è profondamente in contrasto con la nostra «cultura da negozianti». Togliere l’etichetta del prezzo dagli esseri umani non significa svalutarli, ma donargli la propria dignità, una dignità non basata su cosa hanno realizzato ma radicata sul semplice fatto che sono amati incondizionatamente da Dio. L’amore divino è quell’indispensabile nutrimento per l’anima umana di cui il profeta parla quando afferma: «O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Is. 55:1).

Articolo tratto dal volume
Contro la marea.
L’amore in un tempo di sogni meschini e continue inimicizie
,

Edizioni GBU, 2022.

 

Vedi l’intervista all’autore sul canale Youtube di Edizioni GBU

 

Missione urbana

Missione urbana

(M. Volf)

Miroslav Volf, Contro la marea, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU

Quando nel 1997 visitai un sobborgo di Baltimora chiamato Sandtown, il ricordo più vivo che conservo è quello di un fastidioso e stridente contrasto. Ricordo un intero agglomerato di case abbandonate, ognuna somigliante a un grande teschio, con il vuoto buio che veniva fuori dalle porte e dalle finestre rotte e la vita che beffardamente l’aveva abbandonata. Nel mezzo di questi ruderi, comunque, c’era una strada brulicante di vita. Le case erano state riparate e dipinte con brillanti colori, i vicini chiacchieravano fra di loro, i bambini stavano giocando per le strade. Era come se in questo posto una sorta di risurrezione avesse rivestito le ossa secche della morte urbana con una pulsante carne di vita. Al cuore di questa improbabile trasformazione vi era una piccola compagnia di cristiani. Si chiamava New Song Community (Comunità del Canto Nuovo).

To live in Peace (2002) è un’opera che racconta la storia di questa comunità e offre una spiegazione per la sua missione all’interno della città. L’autore, Mark Gornik, rispondendo a una chiamata proveniente da Dio, è stato tra i primi ad andare ad abitare a Sandtown. Il libro dà un’eloquente testimonianza di vita, prendendo come modello l’amore di Cristo che si dona, ispirato dallo Spirito di vita, con vite che qui trasformano un panorama urbano senza speranza in un luogo del Dio della pace.

Per leggere in maniera appropriata questo libro, andate direttamente al quinto capitolo, dal titolo «Cantare un nuovo canto». Questo capitolo, con la storia della graduale risurrezione di Sandtown, è il cuore del libro. Senza di esso le importanti riflessioni teologiche e sociologiche che precedono e seguono non possono essere pienamente comprese. Ispirato dall’opera pioneristica di John Perkins sullo sviluppo delle comunità (le sue famose tre “R”: Ricollocazione, Riconciliazione e Redistribuzione), Gornik e Allan Tibbles si sono mossi nel vicinato non armati di qualche «piano o programma», ma solo con la convinzione che «la chiesa di Dio è la comunità riconciliata che porta giustizia nei punti di più grande sofferenza del mondo».

Iniziarono ad andare in giro nella comunità sin da quando, secondo una testimonianza che parlava «della capacità di grazia di Sandtown», si sentirono accolti. Da allora, come afferma Gornik, tutto dipese non tanto dallo sforzo di quei pochi che andarono ad abitare a Sandtown, quanto da quello dei molti che non l’avevano abbandonata «durante i tempi duri». Dapprima sorse una comunità ecclesiale, poi le case arrivarono a prezzi abbordabili per tutti, poi ancora il drastico miglioramento del sistema educativo e sanitario locale. Infine fu messa in piedi un’efficiente strategia per l’occupazione. Gli obbiettivi sono facili da enumerare, ma ogni passo raggiunto con successo ha richiesto un miracolo di coraggio e tenacia.

Ho finito il libro colpito e provocato in molte maniere. In primo luogo è una sfida personale. Gornik e Tibbles non hanno scelto di perseguire il confort del servizio cristiano in ambienti della classe media. Al contrario, hanno deciso di ricollocarsi in un posto desolato e senza speranza. Per Tibbles questa era una sfida molto speciale: è quadriplegico, sposato, e padre di due ragazze. Ciò che mi ha colpito non era soltanto la robusta santità dei due uomini, ma come se ne rivestivano con leggerezza, senza sforzo o autocelebrazione.

In secondo luogo, è una sfida ecclesiale. Nonostante la retorica del servizio reso al mondo, le chiese spesso soccombono alla tentazione di vivere in primo luogo per se stesse, far crescere i loro numeri, incrementare i loro programmi, costruire nuovi edifici. Per la New Song Community, la chiesa significa essere per gli altri, con gli altri, specialmente con i più bisognosi. «I ministeri di giustizia e riconciliazione non sono aggiunte che stanno fuori dal campo della chiesa», ma sono «costitutivi della vita ecclesiale unita a Cristo».

La terza sfida concerne il carattere del servizio. Troppo spesso tutti aiutiamo i bisognosi in una maniera tale da umiliarli. Anche il discutere di “potenziamento” è un qualcosa che ti lascia un sapore amaro di condiscendenza. Il libro To live in Peace è tinto di profondo rispetto per la dignità dei bisognosi. Non sono gli “altri” per cui deve essere fatto qualcosa, ancor meno gli ignoranti che devono essere istruiti o gli indisciplinati che devono essere disciplinati. Sono membri di famiglia che sono incappati in tempi difficili e devono essere  incoraggiati e aiutati.

In quarto luogo, la sfida di collegare la fede con la vita. Gornik argomenta ripetutamente contro l’idea di affrontare il problema delle periferie con progetti preconfezionati che, o derivino dalla fede o siano informati da tesi secolari (sebbene il libro faccia un grande uso di suggestioni teologiche e sociologiche). Al contrario, suggerisce una duplice strategia: 1. mantenere l’attenzione sul punto verso cui è necessario che la comunità si muova (lo shalom della nuova creazione di Dio) e sul sentiero su cui bisogna camminare (l’amore di Cristo che si dona) e 2. concentrarsi «sul fare fedelmente mille piccole cose in un periodo di diversi anni».

Infine, il libro è una sfida per chi pensa a iniziative basate sulla fede. Gornik sa che la chiesa ha risorse significative e uniche per rivolgersi ai bisogni delle periferie; il suo libro è una spiegazione di queste risorse. Tuttavia avverte che l’attuale enfasi sulle iniziative basate sulla fede personalizza eccessivamente la povertà e il cambiamento sociale e non dà attenzione sia «ai bisogni di infrastrutture e capitali» sia alla dimensione strutturale della povertà. Gornik si rifiuta di essere preso da false alternative tipo l’attenzione per le persone o per le strutture. Se le comunità devono vivere in pace bisogna indirizzarsi su entrambe, e perciò sia la chiesa sia i governi hanno un ruolo da giocare.

La saggezza cristiana, l’impegno e il coraggio inscritti nel libro di Gornik e incarnati nella New Song Community sono straordinari. Spero che tutti possano cogliere qualcosa dalla visione di Gornik: «Guidati dalla convinzione che Cristo crocifisso crea spazio per l’abbraccio degli altri e che lo Spirito del Cristo risorto porta nuova vita», le chiese possono e devono servire «a portare avanti lo shalom nelle periferie cittadine».

 

L’articolo è tratto dal libro Contro la marea, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU