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Che relazione c’è tra l’Olocausto e i Vangeli?

Il valore della testimonianza nei resoconti evangelici

Il Gesù raffigurato dai Vangeli è Gesù così come i testimoni oculari l’hanno ritratto, è il Gesù della testimonianza. Dobbiamo osservare più da vicino questa categoria della testimonianza, il suo stato epistemologico, il suo ruolo nella storiografia e la sua rilevanza come categoria teologica.
La testimonianza è sia la categoria storicamente appropriata per la comprensione del tipo di storia che i Vangeli rappresentano, sia la categoria teologicamente appropriata per la comprensione del tipo di accesso che i lettori cristiani dei Vangeli hanno a Gesù e alla sua storia. È la categoria che ci mette in grado di superare la dicotomia fra il cosiddetto Gesù storico e il Gesù della fede.

Il punto fondamentale è che la testimonianza richiede fiducia. Ma come può essere giustificata una tale fiducia? Come si ricollega la conoscenza acquisita sulla base della testimonianza ad altri generi di conoscenza? Qual è il suo stato epistemologico? La nostra fiducia nella parola di altri è essenziale all’idea stessa di una seria attività cognitiva (R.A. Coady). Se la testimonianza è un mezzo di conoscenza tanto basilare quanto la percezione, la memoria e la deduzione, allora dobbiamo concepire la nostra situazione epistemica in termini meno esclusivamente individualistici e più in termini collettivi o intersoggettivi. Ma ciò non significa rinunciare a qualche genere di autonomia conoscitiva, come se l’individuo non potesse mai pensare da solo. Significa, piuttosto, che la fiducia epistemica negli altri è la matrice fondamentale all’interno della quale l’individuo può apprendere e usare, ciò che Coady chiama “un robusto grado di autonomia conoscitiva”. La fiducia è fondamentale, mentre la valutazione critica è importante ma possibile solo come attività secondaria, che presuppone un più basilare atteggiamento di fiducia.

I Vangeli, sebbene siano per molti aspetti particolari forme di storiografia, condividono largamente l’atteggiamento verso la testimonianza oculare che era frequente fra gli storici del periodo greco–romano. Questi storici tenevano in considerazione soprattutto i resoconti dell’esperienza diretta degli eventi che raccontavano. La cosa migliore per lo
storico era l’esser stato egli stesso un partecipante agli eventi (autopsia diretta). In mancanza di ciò, andavano alla ricerca di informatori che potessero parlare in base a una conoscenza diretta e che potessero interrogare (autopsia indiretta).

Non dovremmo però supporre che gli storici dipendessero in maniera acritica dalla testimonianza. Gli storici migliori vagliavano i loro informatori e soppesavano le testimonianze contrastanti, talvolta riportando due diversi resoconti benché giudicassero che uno era più credibile.

Ci sono certamente delle distinzioni molto valide da fare fra i metodi antichi e quelli contemporanei di fare la storia. Tuttavia, il forte contrasto è con la storiografia del tardo periodo romano e medioevale piuttosto che con i grandi storici del mondo grecoromano, che riuscivano a valutare le loro fonti con un certo livello di rigore perché (almeno quando stavano seguendo la prassi migliore) c’erano testimoni oculari che essi incontravano e interrogavano personalmente. Niente riguardo al metodo storico contemporaneo ci impedisce di leggere le testimonianze esplicite del passato per il gusto di ciò che esse intendevano raccontare e rivelare. Dipende da quali quesiti poniamo.

Nello studio scientifico neotestamentario [per esempio] c’è in circolazione un modo di pensare che affronta le fonti con un fondamentale scetticismo, piuttosto che con fiducia, e che pertanto esige che tutto ciò che le fonti affermano sia accettato solo se gli storici possono personalmente verificarlo.

È doveroso dire, ripetutamente, che il rigore storico non consiste in un fondamentale scetticismo verso la testimonianza storica ma in una fondamentale fiducia unita alla verifica per mezzo di interrogatori critici. La testimonianza potrebbe essere inesatta e potrebbe fuorviare, ma ciò non può essere presunto in modo globale bensì deve essere stabilito in ciascun caso. La testimonianza dovrebbe essere considerata affidabile fino a prova contraria.

Per una valutazione filosofica della storiografia più adeguata potremmo rivolgerci alla importante opera di Paul Ricoeur. Egli distingue tre fasi del lavoro dello storico. Queste sono intese come momenti metodologici e non ricorrono necessariamente in sequenza cronologica. Esse sono: 1) documentaria, 2) esplicativa/comprensiva, e 3) la fase rappresentativa. Una delle costanti preoccupazioni di Ricoeur è di distinguere la storia dalla finzione della narrativa insistendo che per ogni stadio ci sia un riferimento intenzionale, da parte del testimone o dello storico, a ciò che è accaduto nel passato.

Alla radice dell’intera impresa c’è la memoria La memoria è dichiarata nella testimonianza, la quale quando è registrata e depositata in un archivio diventa per lo storico un documento da studiare. I documenti sono perciò una “memoria archiviata”. Non si tratta di un caso di accettazione acritica della testimonianza. Ma la testimonianza richiede di essere creduta. Il testimone dice non solo: “Io ero lì” ma anche “credetemi”.

Credere nella parola di un altro, atto spontaneo e indispensabile nella vita quotidiana, nella storiografia deve convivere dialetticamente con il genere d’interrogatorio critico che la testimonianza archiviata provoca. Qui la necessità di fiducia è troppo facilmente trascurata poiché la testimonianza è stata rimossa dall’immediatezza del contesto dialogico della vita di ogni giorno, dove la dimensione della fiducia nella parola di un altro è scontata; per la testimonianza archiviata in qualità di documento storico la fiducia non è meno richiesta, è complicata ma non è affatto rimpiazzata da una valutazione critica.

Nella ricezione “critico-realistica” dello storico e nell’uso della testimonianza c’è una dialettica tra fiducia e valutazione critica. Ma la valutazione è più precisamente una valutazione della testimonianza in quanto affidabile o meno. Ciò che non è possibile è la verifica indipendente o la falsificazione di tutto quello che la testimonianza riferisce, tale che non sarebbe più necessario fare affidamento di essa. La testimonianza condivide la fragilità della memoria, che è l’unico accesso della testimonianza al passato, mentre, quando è antecedente alla memoria vivente, esistendo solo come memoria archiviata, è anche tagliata fuori dal contesto dialogico della testimonianza contemporanea. Ma, per la maggior parte degli scopi, la testimonianza è tutto ciò che abbiamo.

La speciale importanza che gli storici dell’antichità grecoromana attribuivano alla testimonianza oculare dei partecipanti conserva la sua validità. È vero che il pregiudizio contemporaneo contro le parti interessate, coinvolte nelle vicende narrate e perciò condizionate che ha portato a guardare con maggior favore gli osservatori presumibilmente neutrali degli eventi, ha giocato un ruolo importante nella storiografia contemporanea (e non meno negli studi biblici). Ma, in qualunque modo lo si voglia minimizzare, il punto di vista del partecipante coinvolto offre ancora un accesso unico al vissuto interno degli eventi. I lettori sono interessati al modo in cui i partecipanti vissero e percepirono quei particolari eventi.

Come moderno parallelo alla pratica degli storici greco romani sono addotte [Samuel Byrskog]le discipline relativamente recenti della storia orale. Il lavoro dello storico orale è fondamentalmente diretto a mettere in grado i testimoni stessi di raccontare tanto da permettere che il significato sociale trovato nelle loro esperienze sia parte della storia.

E il testimone oculare ha un ruolo speciale quando si tratta di eventi che trascendono la normale esperienza degli storici e dei loro lettori. Più è eccezionale l’evento e più l’immaginazione storica da sola è soggetta a condurci fuori strada. Senza il testimone che ci mette di fronte alla pura singolarità dell’evento, interpreteremo l’avvenimento secondo il criterio di valutazione della nostra personale esperienza. In tali casi, la testimonianza dell’informatore partecipe potrebbe disorientarci o provocare incredulità, ma, per conservare la ricerca della verità storica, dobbiamo permettere alla testimonianza di opporre resistenza alla limitativa pressione delle nostre personali esperienze e aspettative.

Come caso paradigmatico della storia contemporanea di un evento eccezionale di questo genere, viene subito alla mente l’Olocausto. Ricoeur parla di un evento al limite dell’esperienza e della rappresentazione, una frase che prende in prestito da Saul Friedlander (precedentemente Ricoeur ha usato l’espressione “eventi incomparabilmente unici”. Le testimonianze sull’Olocausto, egli dice, pongono un problema di accoglimento.

Le testimonianze dell’Olocausto non vengono facilmente fatte proprie dallo storico, visto che appaiono come scarsamente credibili alla prima impressione e sfuggono, inoltre, alle solite categorie di giustificazione storica. (Charlotte Delbo disse dei nuovi arrivi ad Auschwitz ciò che è valido anche per chiunque legga le testimonianze dell’Olocausto: “Essi si aspettavano il peggio, non si aspettavano l’inconcepibile”). Questo è il motivo per cui le testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto sono assolutamente necessarie per qualsiasi tentativo di comprendere ciò che accadde. L’Olocausto è un evento la cui realtà potremmo a stento immaginare se non avessimo le testimonianze dei sopravvissuti.

Anche nei Vangeli, se crediamo in essi, abbiamo a che fare con un evento “ai limiti”. Il paragone è azzardato. Fatta eccezione per l’eccezionalità storica dell’evento, l’Olocausto e la storia di Gesù non hanno niente in comune. La nostra argomentazione non intende in alcun modo sminuire la particolare unicità della Shoah. Al contrario, dobbiamo apprezzare questa unicità se il caso dell’Olocausto deve insegnarci qualcosa riguardo al ruolo della testimonianza in altri casi di eccezionalità storica. Con l’unicità dell’Olocausto ben chiaro in mente, perciò, ci volgiamo a considerare alcuni esempi della testimonianza dei suoi sopravvissuti.

La testimonianza dell’Olocausto e la testimonianza dei Vangeli
La testimonianza dei sopravvissuti dell’Olocausto è il contesto contemporaneo nel quale più facilmente riconosciamo che la testimonianza autentica dei protagonisti è totalmente indispensabile per acquisire una reale comprensione degli eventi storici, almeno degli eventi di una simile eccezionalità. All’infuori di questa notazione i casi dell’Olocausto e la storia di Gesù sono enormemente diversi. Ma la loro eccezionalità e il ruolo della testimonianza nel trasmetterli, per quanto possano essere trasmessi, sono comuni a entrambi. In ciò che segue traggo alcune delle implicazioni di questa corrispondenza di eccezionalità allo scopo di evidenziare certi aspetti delle testimonianze dei Vangeli.

1) Sia per l’Olocausto sia per la storia di Gesù, intesa nel modo in cui la intendono i Vangeli, ci vuole la categoria di Ricoeur degli eventi “incomparabilmente unici”, sebbene debba essere sottolineato di nuovo che ciò che qualifica ciascuno per una simile descrizione è totalmente diverso. Eppure in ciascun caso l’analogia viene meno in modo
molto più considerevole di quanto faccia l’impareggiabile particolarità di ogni evento storico, e questa mancanza di analogia è strettamente collegata al modo in cui ciascuno di questi due accadimenti assume il carattere di rivelazione, sebbene e di nuovo, in modi molto diversi.

L’Olocausto rivela a coloro che ascoltano la testimonianza dei testimoni ciò che non potremmo altrimenti sapere sulla natura del male e dell’atrocità e sulla condizione umana nel mondo contemporaneo. (“I nostri racconti … non sono essi stessi racconti di una nuova Bibbia?” domanda Primo Levi). La storia di Gesù rivela l’azione definitiva di Dio per la salvezza umana, ma solo a coloro che ascoltano la testimonianza dei testimoni.

Quando Ricoeur ha parlato per la prima volta degli eventi “incomparabilmente unici”, paragonò e contrappose le categorie positive e negative. Nel paradigmatico caso di Auschwitz (“Le vittime di Auschwitz sono, per eccellenza, i delegati presso la nostra memoria di tutte le vittime della storia” abbiamo a che fare con un evento che evoca orrore. L’orrore è la reazione che riconosce un simile evento, lo individua nella nostra consapevolezza della storia non solo in termini di impareggiabile particolarità di tutti gli eventi, ma in un modo che sfugge al tentativo dello storico di rendere particolari eventi comprensibili rintracciando le loro connessioni con altri eventi: L’orrore isola e rende incomprensibile, incomparabilmente unico, unicamente unico. Se persisto nell’associarlo all’ammirazione (assunta come opposto dell’orrore), è perchè rovescia il sentimento grazie al quale andiamo avanti a tutto ciò che ci sembra portatore di creazione. L’orrore . una venerazione rovesciata. È in questo senso che si è potuto parlare di Olocausto come di una una rivelazione negativa, di un anti–Sinai.

Cos’è allora che isola la storia di Gesù come impareggiabile nella sua inequivocabile rivelazione di Dio? Al posto di “ammirazione” e “venerazione.”, i termini che Ricoeur propone qui, dovremmo forse parlare di miracolo e manifestazione di gratitudine in presenza di un’incomparabile “pienezza miracolosa”. Proprio come accade per l’orrore (sebbene il termine sembri troppo debole) che risulterebbe sminuito se si equiparasse l’Olocausto agli orrori non eccezionali della storia, così come, senza le testimonianze, probabilmente faremmo, similmente è per il miracolo che sarebbe perduto se fossimo privati delle testimonianze dei Vangeli che evocano il carattere teofanico della storia di Gesù. (Non possiamo approfondire qui il modo in cui i Vangeli riferiscono l’orrore della croce a questa eccezionalità “piena di miracolosità” della storia di Gesù). Non è questo prodigio che perdiamo quando ci volgiamo dalle testimonianze dei Vangeli alle ricostruzioni inevitabilmente riduttive di un qualche tipo di “reale” Gesù storico?

2) L’unicità qualitativa di ciascuno di questi due eventi crea un problema di comunicazione, come abbiamo già visto nel caso dell’Olocausto. Il tentativo di collegare quanto accadde con le esperienze e la comprensione del nostro mondo consueto è fin troppo facile e punta a una facile intelligibilit. a prezzo dell’unicità dell’evento e pertanto anche del suo potere di rivelare. Quando la ricerca del Gesù storico ignora quello che i testimoni affermano nell’interesse di ciò che è facilmente credibile per gli standard dell’analogia storica, vale a dire, l’esperienza ordinaria, ciò riduce la rivelazione alla banalità di ciò che conoscevamo o potevamo conoscere comunque.

3) Malgrado la difficoltà della comunicazione, i testimoni che partecipavano hanno provato, per entrambi gli eventi, l’imperativo a comunicare, a rendere testimonianza. Non tutti i sopravvissuti all’Olocausto si sentirono spinti a rendere testimonianza, ma molti lo furono, specialmente quelli che hanno scritto biografie. A dire il vero, molti di quelli che morirono nell’Olocausto lasciarono le loro testimonianze. Wiesel, paradossalmente e in considerazione della sua stessa affermazione: .Per la sua unicità l’Olocausto sfida la letteratura., pensava anche che l’unicità dell’Olocausto creasse veramente una nuova letteratura: “Se i greci hanno inventato la tragedia, i romani l’epistola e il Rinascimento il sonetto, la nostra generazione (cioè, gli ebrei che hanno testimoniato dell’Olocausto) ha inventato una nuova letteratura, quella della testimonianza. Noi tutti siamo stati testimoni e noi tutti sentiamo che dobbiamo rendere testimonianza per il futuro, E quella . diventata un’ossessione, la singola più potente ossessione che abbia permeato tutte le vite, tutti i sogni, tutto il lavoro di quelle persone. Un minuto prima di morire pensavano che era quello che dovevano fare”.

Il criterio (non uno propriamente generico) secondo il quale i testimoni dell’Olocausto hanno creato una nuova letteratura della testimonianza, è praticamente lo stesso criterio secondo cui i testimoni della storia di Gesù hanno creato i Vangeli. Quei testimoni ritennero l’imperativo di testimoniare come un comando del Cristo risorto, e il parallelo è sufficiente per essere suggestivo. In entrambi i casi, l’unicità ha richiesto proprio il testimone come unico metodo per mezzo del quale gli eventi potevano essere adeguatamente conosciuti.

4) In entrambi i casi, l’eccezionalità dell’evento implica che solo la testimonianza di un testimone partecipante possa darci un qualcosa che si avvicina a un accesso alla realtà dell’evento. Nel caso dell’Olocausto è di nuovo Wiesel a esprimere questo in un modo ormai celebre: “la verità di Auschwitz è nascosta nelle sue ceneri. Solo quelli che l’hanno vissuta nella loro carne e nelle loro menti possono forse trasformarla in conoscenza”. Ma il punto viene sostenuto di nuovo dai sopravvissuti. Questa rivendicazione, presa come un diritto privilegiato alla conoscenza non condivisibile che nessuno pu. contestare, solleva l’obiezione professionale di una studiosa, Inga Clendinnen, la quale protesta che, per lo storico, .”nessuna parte della documentazione umana può essere dichiarata proibita […]. L’azione della storia, la nostra conversazione in atto con la morte, riposa sulla valutazione critica di tutte le voci provenienti dal passato”. Sostiene il suo punto intraprendendo una valutazione critica della testimonianza di Filip Müller, il cui resoconto del suo servizio come Sonderkommando ad Auschwitz è una preziosa evidenza di quanto altrimenti non sarebbe stato conosciuto. La valutazione è equilibrata.

Ci sono verifiche di coerenza e di concordanza con un’altra testimonianza che lo storico può opportunamente applicare. Ma nelle stesse parole di Clendinnen, “eventi non comuni accaddero ad Auschwitz, come in ogni campo”, c’è il riconoscimento che la valutazione deve rispettare l’eccezionalità che inerisce agli eventi per i quali è resa la testimonianza.

In questo e in altri casi, inclusi i Vangeli, la testimonianza chiede di essere creduta. Non consiste nella presentazione dell’evidenza e dell’argomentazione per quello che solo il testimone, la persona coinvolta dall’interno, può riferirci. In tutti i casi, includendo perfino i tribunali, la testimonianza può essere controllata e valutata in modi appropriati, ma ciònonostante deve essere creduta. Per gli eventi incomparabilmente unici che stiamo considerando, ciò è anche più vero. Sostenere, insieme ad alcuni critici dei Vangeli, che la storicità di ciascuna pericope del Vangelo deve essere accertata, una ad una, con argomentazioni a favore di ciascuna, non è riconoscere la testimonianza per ciò che necessariamente rappresenta. Significa supporre che possiamo estrarre fatti individuali dalla testimonianza e fare la nostra personale ricostruzione degli eventi non più dipendente dal testimone. Significa rifiutare quell’accesso privilegiato alla verità che proprio la testimonianza del partecipante ci può dare. La storiografia antica teneva opportunamente in considerazione una simile testimonianza in quanto essenziale per una storia autentica, e l’Olocausto ci dimostra come possa essere indispensabile quando gli eventi che dobbiamo affrontare sono “ai limiti”.

Richard Bauckham,
Gesù e i testimoni oculari

Edizioni GBU, 2010

 

 

 

 

Richard Bauckham sarà il prossimo relatore al XV Convegno di Studi GBU