Benjamìn Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Adelphi, 2023
Cosa significhi essere umani pensiamo di saperlo finché non ci pensiamo. Come afferrare ciò che ci rende unici?
Lo siamo, poi, davvero, unici, qui sul pianeta?
Cetacei come delfini e balene sembrano avere linguaggi molto più complessi di quanto sospettiamo, il polpo mostra di avere un’intelligenza talmente creativa da sfuggire intenzionalmente ai tentativi di decifrarla tramite i più vari esperimenti, il corvo, è dimostrato, possiede coscienza di sé; il mondo delle monere, poi, sta rivelando esseri in grado di livelli di cooperazione tra individui che oltrepassa le stesse capacità umane. L’umano come summa dell’evoluzione è roba da manuali delle scuole medie, ormai nostalgico rimasuglio di un ottimismo da tempo dissolto.
Questo è stato, ad un certo punto: abbiamo immaginato di aver capito tutto, che fosse solo questione di tempo; avevamo acceso la luce sulla realtà, non restava che lasciare che rischiarasse tutto e rivelasse l’essenza ultima di ogni cosa. Scienza e ragione possedevano le chiavi di accesso a tutto il vero.
La scrittura di Benjamìn Labatut (cileno, nato a Rotterdam, 43 anni) è attratta da questa hybris, dalla frenesia che le coglie, scienza e ragione, nell’impresa della conoscenza; quando il procedere non ha nulla del posato e metodico lavoro dello scienziato ma intuizione e visione travolgono la mente fino al limitare della follìa; quando, soprattutto, il reale rivela di essere più inafferrabile e selvaggio del previsto.
C’è qualcosa di diabolico nel filo che lega la scoperta del blu di Prussia, il primo pigmento sintetico della storia e lo Zyklon B, il micidiale gas con cui il sistema nazista annientò milioni di ebrei, zingari, handicappati. Era il rosso carminio che Diesbach e Dippel cercavano di ottenere, nel 1709, maciullando insetti in laboratorio quando, per una casuale reazione al sale di potassio, si trovarono davanti un blu vivido come il cielo. Il pigmento sembra portarsi dietro la maledizione ereditata dalla torbida personalità del teologo, alchimista e ciarlatano Dippel. Perché è soltanto per errore che, meno di ottant’anni dopo, nel laboratorio del chimico Scheele, un cucchiaio sporco di acido solforico è entrato in contatto con il composto blu creando l’acido cianidrico o, appunto, acido prussico, il più potente veleno della modernità. Ed è miscelando gli stessi elementi che Fritz Haber (1907) ha sintetizzato l’azoto, rivoluzionando l’agricoltura moderna (cosa che favorì l’esplosione demografica del XX secolo) ma anche un micidiale disinfestante per animali (Zyklon sta per ciclone, per allusione ai suoi effetti devastanti) con il quale, lui ebreo, furono sterminati nel lager i suoi stessi familiari. Ogni gerarca nazista aveva la sua scatolina di pillole di cianuro per l’emergenza. A centinaia si suicidarono in questo modo al precipitare degli eventi.
È come un rapimento mistico che travolge il giovane Heisenberg (1925) fino al limite della consunzione fisica mentre, allucinato, stila appunti incomprensibili che senza alcun appello annunciano il limite ultimo della conoscenza possibile della materia. Per il semplice fatto che l’osservatore e l’oggetto osservato sono fatti della stessa materia, nelle sue particelle elementari, irrimediabilmente l’atto stesso dell’osservare perturba ciò che osserva. Il principio di indeterminazione di Heisenberg sancisce per sempre il limite alla razionalità della fisica dei quanti.
Ed ha qualcosa del veggente, del profetico, il modo in cui Karl Schwarzschild, tra i bombardamenti e le urla dei mutilati, redige formule su foglietti sparsi, nel gelido inverno del 1915, dalle quali ricava l’inquietante evidenza matematica dell’esistenza, negli abissi interstellari, di mostruose entità che fagocitano ogni particella di materia venga loro a tiro, inclusa la luce, annullando il tempo stesso, i buchi neri.
E quale angosciante rivelazione, poi, si è aperta nelle formulazioni indecifrabili di Grothendieck prima e Mochizucki poi, che a sessant’anni di distanza l’uno dall’altro, dopo aver fatto tremare le fondamenta stesse della geometria hanno, entrambi, inspiegabilmente, ritirato le proprie teorizzazioni rifiutando ogni ulteriore chiarimento?
Difficilissimo da classificare, lo stile di Labatut, tra biografia scientifica e finzione letteraria, in Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2023), mette insieme realtà e fiction senza soluzione di continuità mentre racconta alcune significative avventure scientifiche della modernità. Ciò che risulta non ha nulla del metodico e posato lavoro dell’uomo di scienza quanto piuttosto del vorticoso rapimento del mistico, trasportato suo malgrado al limite pericoloso tra veggenza e follia.
La conoscenza sta sfuggendo al nostro controllo e presto non saremo più “capaci di capire cosa significa essere umani. Non che in passato lo avessimo capito… ma adesso le cose stanno peggiorando… ma non si tratta della gente comune. Nemmeno gli scienziati capiscono più il mondo”. Dio avrà anche creato il mondo con il linguaggio della matematica ma vacilla ogni giorno di più quell’ingenua convinzione che padroneggiare questo linguaggio significasse entrare nella mente di Dio. Per il semplice fatto che lo stesso linguaggio della natura risulta ben più sfuggente di quanto abbiamo sospettato.
Il contenuto dei racconti che compongono l’opera di Labatut non corrisponde del tutto ai fatti storici ma è talmente avvincente che, come è della grande letteratura, il lettore non vuole liberarsi dell’illusione che sia tutta la verità, nient’altro che la verità.
Qual è l’interesse teologico di una lettura come questa?
Non abbiamo certo più bisogno, noi cristiani, del dio tappabuchi per coprire le falle della nostra ignoranza del mondo. Né abbiamo bisogno di tifosi dell’antiscientismo per rimpolpare le schiere di coloro che credono che la realtà trascenda il dato della pura materia, quale che sia la sua complessità. Ma l’arrogante credenza che, come umani, abbiamo in mano le chiavi della conoscenza e che tutto è a disposizione della nostra indagine, che da questo abbiamo dimostrazione sufficiente per estromettere Dio dal mondo, neanche questa, riconosciamolo, è di grande utilità.
Con Dio o contro Dio, per quanto speditamente procediamo, attraverso il metodo scientifico sperimentale, nell’accrescere la nostra conoscenza, resta come una cortina, un velo, al di là del quale riusciamo a dare uno sguardo solo occasionalmente e come non per nostra volontà.
E ciò che di là si rivela ci riempie di meraviglia ma anche umilia la nostra mente di umani.
Daniele Mangiola
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