Redazione: Pubblichiamo volentieri questo articolo di Valerio Bernardi, aggiungendo una nota redazionale, un pensiero per quegli italiani che forse pensano che il ricordo di quelle giornate riacutizzi le divisioni e che la festa sia monopolizzata politicamente. Naturalmente tutto ciò è lontano da noi e bene ha fatto Valerio a ricordare la valenza della liberazione per la storia dell’evangelismo in Italia. Marcella Fanelli racconta nel suo libro Passeggiata nel XX secolo che la stessa esperienza dei Gruppi Biblici Universitari nacque proprio grazie al nuovo clima creatosi nell’immediato dopoguerra all’indomani della liberazione. A coloro che ritengono che una conformazione degli ideali politici possa avere un orientamento che sembri evocare alcuni elementi di quegli anni ci sentiamo di dire questo: auspichiamo che la tragedia della guerra (anche civile) possa aver contribuito a purificare le convinzioni politiche da tutto ciò che le rendeva convinzioni fasciste, razziste e persecutorie. Se ci si pensa, facendo anche i debiti distinguo, è ciò che un cristiano chiederebbe anche all’altra parte politica per liberarsi delle tossine del comunismo anti–cristiano e persecutorio. Detto questo, però, impegnamoci a conservare la memoria della Liberazione perché il vangelo, e non una parte plitica, ha conosciuto da allora una libertà che è andata via via crescendo e che noi oggi ereditiamo.
di Valerio Bernardi
Questo 75° anniversario della Liberazione in Italia sarà ricordato come quello che è coinciso con la prima pandemia avvenuta dopo il secondo conflitto mondiale e come una ricorrenza in cui non è stato possibile assistere a manifestazioni pubbliche, ricordandoci, che, in questo momento, ci stiamo privando di una libertà (quella di movimento), nella speranza di poterla veder restituita al più presto.
Nonostante questa dimensione privata (e tutt’al più) social della celebrazione, è abbastanza naturale porsi il quesito: ma, come evangelici, è giusto celebrare l’Anniversario della Liberazione? Sinteticamente la risposta non può che essere positiva, ma, forse è il caso di ricordare quali sono i motivi per celebrare questo particolare momento della storia d’Italia anche per noi credenti evangelici.
Cercheremo di distinguere ciò che appartiene alla memoria storica da quello che, invece, è proiettato verso l’oggi e verso il futuro (ovviamente in una prospettiva non escatologica). I motivi della memoria storica sono molteplici e cerchiamo qui di elencarne alcuni, senza la pretesa di essere esaustivi.
Gli italiani evangelici hanno dato un contributo significativo alla Resistenza in Italia (ma se ampliassimo la nostra lente, anche in Europa). Se si guarda alle medaglie al Valore date per la Resistenza in Italia, si scoprirà che la percentuale di Valdesi ma anche Fratelli (ad esempio) è molto alta rispetto alla percentuale della popolazione italiana che essi rappresentavano. Questo significa che vi è stata un’immediata consapevolezza che, tra l’altro, andava al di là di qualsiasi corrente teologica, che il regime nazi-fascista non poteva soddisfare i criteri della diffusione, della predicazione e della testimonianza del Vangelo. Bisogna onorare coloro che hanno combattuto la guerra partigiana con la Bibbia nelle proprie mani perché hanno dato un’interpretazione integrale del messaggio di Cristo che ci esorta a combattere contro qualsiasi ingiustizia. I cognomi Jervis, Banfo, Artom e tanti altri ci servono a non dimenticare le nostre radici e ricordano il contributo (anche di sangue) che, nel nostro piccolo, come comunità abbiamo dato;
La Resistenza, nell’odierna storiografia, è un concetto esteso e riguarda tutto ciò che ha fatto la popolazione italiana per opporsi al regime nazi-fascista. Pertanto non dobbiamo dimenticare, che anche nel Sud Italia (dove io vivo), ci sono stati contributi significativi alla Resistenza, consistiti anche nel “semplice” perseverare nella fede e nel continuare a predicare il Vangelo, anche in momenti di difficoltà. Vicende come quella di Giorgio Spini a Bari che si mise al servizio degli Alleati per Radio Bari e delle piccole comunità battiste che hanno continuato a predicare il Vangelo (pur se viste dal Regime con sospetto) sono alla base di una vita rinnovata dopo la guerra;
Il Fascismo per gli evangelici è stato anche sinonimo di persecuzione e non lo dobbiamo dimenticare. Sono cadute vittime di questa persecuzione tutte le missioni straniere ritenute “ostili” (i Metodisti in particolare), ma anche, e soprattutto, i fratelli Pentecostali. Benché non avessero espresso particolari preferenze politiche, le comunità pentecostali furono bersagliate da una sistematica persecuzione e vessazione da parte delle Autorità fasciste che, come sappiamo, cessò solamente qualche anno dopo la fine del Regime e grazie ad un’opera puntuale da parte degli evangelici uniti. Pentecostali, Testimoni di Geova ed Ebrei (questi ultimi molto di più) furono visti come degli italiani inferiori che non meritavano di far parte della società e vissero come esclusi e perseguitati (si veda in proposito la minuziosa ricostruzione fatta da Giancarlo Rinaldi in Una lunga marcia verso la libertà. Il movimento pentecostale tra il 1935 e il 1955, Edizioni GBU, 2017).
La fine del Fascismo ha significato l’arrivo degli Alleati e, con essi, anche l’arrivo di nuove denominazioni evangeliche. Gli anni Cinquanta per l’Italia hanno rappresentato una sorta di nuovo Risveglio evangelico, paragonabile, per certi versi, soltanto a quella che era successo dopo il Risorgimento. Anche per gli Evangelici, quindi, la Resistenza ha rappresentato un “Secondo Risorgimento”: la stessa mia Chiesa è sorta in Italia grazie all’opera di un cappellano militare americano che era di stanza all’aeroporto che gli Alleati insediarono nella piana della città di Manduria, in provincia di Taranto;
Vi è una motivazione teologica fondamentale nel condannare il Nazi-Fascismo che non va dimenticata. Lo dicevano chiaramente Barth e, in maniera diversa, Giuseppe Gangale: Fascismo e Nazismo sono forme di idolatria, in quanto richiedono la venerazione del Capo ed una mistica paganeggiante che va contro la Volontà di Dio. Non si possono servire due Padroni o, come diceva Barth, seguire Volontà di Dio e i desideri umani. La condanna dei regimi totalitari passa anche per queste motivazioni teologiche che non vanno dimenticate.
Se questi sono gli aspetti della memoria storica (e anche teologica) non dobbiamo dimenticare quello che significa per noi l’Anniversario della Liberazione:
In primo luogo la fine del Regime Fascista ha significato per l’Italia, e per noi (anche se lentamente e con fatica) la conquista della piena libertà religiosa, la possibilità di vivere in un Paese dove non esisteva più una religione di Stato e dove non vi erano più limiti alla diffusione delle proprie idee. Questo valore va da noi strenuamente difeso e non si può che ringraziare la Resistenza e l’Antifascismo per averci garantito tutto ciò;
Avere come valore civile la Liberazione per degli evangelici è fondamentale. Il concetto di Liberazione è ben presente nella testimonianza biblica e si applica sia ad un popolo (in particolare a quello ebraico “liberato” dalla schiavitù nel Paese d’Egitto), sia all’individuo (che viene “liberato” dal peccato per la Grazia di Gesù Cristo). Comprendiamo benissimo il valore laico della liberazione civile dal nazi-fascismo, ma ne capiamo anche il valore positivo e gli riconosciamo anche una matrice escatologica che non ci dispiace;
Il valore della speranza non va dimenticato. Quando gli evangelici italiani si liberarono dall’oppressione di un regime che li aveva di fatto perseguitati e li aveva portati in un’avventura bellica senza senso, potevano contare sia nella speranza del futuro con Dio che nella speranza della costruzione di una società migliore in cui vivere. Questi obiettivi, che scaturiscono, anche dalla Resistenza, non vanno dimenticati neanche oggi e vanno sicuramente alle generazioni future. Il “già, ma non ancora” biblico si allinea in questa circostanza ad un “già, ma non ancora” civile.
Ho iniziato ad andare a scuola nel venticinquennale della Resistenza: all’epoca ero assolutamente convinto che l’Anniversario della Liberazione fosse un momento importante da ricordare, ne sono ancora più convinto cinquant’anni dopo.
Nella foto di copertina le lapidi di Antonio Banfo e Salvatore Melis due membri di un’Assemblea dei Fratelli di Torino trucidati dai fascisti. Per la loro storia guarda qui.
https://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.png00Giacomo Carlo Di Gaetanohttps://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.pngGiacomo Carlo Di Gaetano2020-04-25 14:25:002024-10-21 11:48:57Perché è importante ricordare la Liberazione d’Italia (anche e soprattutto da evangelici)
Nelle ultime settimane, la pandemia di Coronavirus in Europa non ha solo scatenato l’allarme sanitario, ma è entrata con forza nel già teso e fragile dibattito economico-politico europeo. Due le parole d’ordine, distanti come i capi di oscillazione di un pendolo: austerità o solidarietà?
Il dilemma irrisolvibile di una politica dilaniata tra economia ed etica. Come se economia ed etica fossero davvero separate. Mai come in questo caso vale l’affermazione di Gesù nel vangelo di Giovanni: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. Perché se guardiamo bene sia l’etica sia l’economia in Europa, esse non sono proprio immacolate. O meglio non sembrano essere realmente indipendenti, come dovrebbero essere, ma piuttosto sono “dipendenti” da un complesso di fragilità nazionali e trans-nazionali mai risolto. Ed in una crisi globale senza precedenti come questa pandemia, affiorano purtroppo ancora osceni sentimenti sotterranei, razzismi di ritorno, elitismi del profitto, capitalismi corrotti e molto altro.
A Pasqua 2020 ormai trascorsa, la soluzione economica sembra essersi trovata, anche se con molte resistenze interne ed anche italiane. Ma restano tre domande per chi, come me, non entra nel tecnico e si ferma alla forse-ignorante percezione, un po’ filtrata dalla filosofia, di una politica transnazionale alla deriva:
Qual è l’anima di una nazione democratica?
Remo Bodei, filosofo contemporaneo tra i più acuti del panorama italiano, recentemente scomparso, analizzando il lavoro di Alexis de Tocqueville sulla democrazia in America del 1835-40, iscrive le democrazie nell’ambito delle passioni “grigie”, in sostanza strutture sociali in cui si manifestano sentimenti poco netti, ambivalenti e contraddittori. Così Bodei osserva:
“Negli Stati Uniti (…) la proclamata uguaglianza fra tutti i cittadini apre un campo immenso ai desideri e alle prospettive di miglioramento (…) di tutti gli individui. E’ però inevitabile chiedersi perché, se siamo davvero, uguali, alcuni sono più potenti e prestigiosi degli altri? Da qui nasce la passione che caratterizza, per Tocqueville, la democrazia: l’invidia o il risentimento. Una passione che ha due lati”[1].
In sintesi, due lati: uno positivo, ossia la possibilità di rompere l’immobilismo sociale dell’ancien régime, e l’altro negativo, l’eccessivo antagonismo che sfocia nell’individualismo.
Partendo da queste considerazioni è facile vedere come l’immagine del pendolo si adatti abbastanza bene a descrivere il motore ideologico che può a volte bloccare o a volte spingere le strutture sociali democratiche. Se da un lato si invoca e si auspica l’hashtag della #solidarietà, dall’altro si richiama alla #austerità, in una sorta di iper-protezionismo da sé stessi, che in realtà vincola la libertà della produzione, strozza i mercati e distribuisce male gli utili. Forse è colpa del pendolo dell’invidia e del risentimento? Può darsi. Interroghiamoci.
Che tipo di organismo istituzionale è l’Unione Europea? Com’è percepita?
E’ un sovrastato? E uno stato trans-nazionale? Uno stato federale? Non è uno stato? Tecnicamente niente di tutto questo: pare essere un’organizzazione internazionale economica e politica con elementi di sovranazionalità del diritto, dotata di un apparato istituzionale complesso a carattere democratico.
Le sue caratteristiche uniche a livello mondiale influenzano indubbiamente il modo in cui essa viene percepita dai cittadini. La deflagrazione della Brexit ne è un esempio. Le insistenti correnti anti-europeiste ne sono un altro. D’altra parte il notevole tasso di partecipazione alle elezioni europee (oltre il 50% nel 2019) ci mostra il lato opposto del pendolo. Molti la odiano, nessuno riesce a farne a meno (tranne, a quanto pare per ora, i britannici), alcuni ci sperano e i sentimenti di nuovo oscillano.
Passioni grigie e voci cristiane
Qualche anno fa, per la precisione agli inizi del ‘900, molti pensatori, politici, capipopolo, dittatori, hanno cavalcato l’onda delle passioni trascinando gli stati nazionali nel gorgo buio e sanguinoso dei totalitarismi. L’unione economica e poi politica, improntata alla scientifica ed atarassica assenza di -ismi di ogni sorta, ha contribuito non poco alla pace in Europa. Ma forse il trauma è stato troppo forte e il processo di “guarigione” non ancora terminato. Siamo per questo forse arrivati ora – ed il dibattito sulle misure economiche contro la pandemia ne ha dato un segnale – ad un tipping point[2]: le passioni grigie stanno diventando potenzialmente deflagranti per l’Unione e non stanno evolvendo verso un “colore” o un “calore” luminoso, ma si stanno chiaramente “annerendo”. Tocqueville osservava:
“Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. (…) Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà in più piccolo spazio e toglie a poco a poco a ogni cittadino perfino l’uso di se stesso. (…) Ho sempre creduto che questa specie di servitù regolata e tranquilla, che ho descritto, possa combinarsi meglio di quanto si immagini con qualcuna delle forme esteriori della libertà e che non sia impossibile che essa si stabilisca anche all’ombra della sovranità del popolo.”[3]
In questa descrizione è contenuto un ammonimento che i cristiani oggi non possono trascurare. E’ una sorta di checklist per misurare la temperatura democratica delle nostre passioni. Ma soprattutto è una cartina al tornasole per avere cognizione della misura etica della nostra testimonianza cristiana. E’ incredibile come in un’analisi di quasi 200 di anni fa, si coniughi in maniera così stretta la sfera delle passioni personali con la dimensione politica, definendo, senza poterli nominare (perché non esistevano ancora) fenomeni come: la società di massa, il consumismo, l’isolamento sociale, la subcultura, la carenza di partecipazione, la crisi della solidarietà, la morte delle comunità e molto altro.
Per concludere brevemente (anche troppo)
Il ritratto che ci regala Tocqueville, è purtroppo uno scenario che si può facilmente applicare anche alle Chiese moderne. E le Chiese, come gli Stati, sono fatti da persone. Persone delle quali, come diceva Norberto Bobbio, non importa solo il numero, ma anche la qualità, per cui, per fare una “buona democrazia” non servono solo molti democratici, ma “molti buoni democratici”[4]. Quindi. Per rendere l’Europa, in una parola, più solidale, per rendere l’Europa più cristiana non importa inserire un prologo sulle radici cristiane. Importa far mettere ai cristiani le radici nella Parola di Dio, sapendo che il pendolo delle passioni è come l’onda del mare agitata dal vento e spinta qua e là.
Antonio Iossa, laureato in Filosofia presso l’Università di Pisa, ha conseguito un Dottorato di Ricerca in Comunicazione, Media e Sfera Pubblica e lavora da diversi anni nella progettazione delle Agende Digitali per il settore pubblico. In passato ha fatto parte del gruppo GBU di Pisa. Vive a Bologna con la moglie e i figli e frequenta la Chiesa Evangelica Apostolica di Bologna/Anzola.
[1] Cfr. BODEI R., La politica, perché? Riflessioni sull’agire politico, Donzelli Editore, pag. 18
[3] DE TOCQUEVILLE A., La democrazia in America, Rizzoli
[4] Vedi ad es. pagg. 65.66 in CANFORA L., Marx vive a Calcutta, Edizioni Dedalo,
https://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.png00Giacomo Carlo Di Gaetanohttps://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.pngGiacomo Carlo Di Gaetano2020-04-18 00:08:422024-10-21 11:48:57Il pendolo della democrazia europea
Abbiamo da poco appreso la notizia della morte per la pandemia di uno dei più importanti scrittori sudamericani: Luis Sepúlveda. L’intellettuale cileno abitava da diversi anni in Europa e si era stabilito nella regione della Asturie, forse perché le montagne e l’Oceano Atlantico più gli ricordavano la sua terra. Sepúlveda è un personaggio importante nella letteratura sudamericana, sia per la sua rappresentatività politica (è stato un esule dopo la caduta del regime di Pinochet), sia per la sua capacità letteraria (i suoi scritti sono vari e vanno dal racconto breve, al reportage biografico, al romanzo, al racconto per bambini, mostrando una notevole capacità e facilità di scrittura). Ma in queste righe non voglio discettare del suo valore come uomo e come letterato. Ci sarebbero persone che meglio saprebbero esprimere un parere.
Per me Sepúlveda significa ricordare i diversi pomeriggi passati con mia figlia piccolina a vedere il DVD tratto da quello che rimane il suo racconto più importante e famoso: La storia della gabbianella ed il gatto che le insegnò a volare. Il film animato, che consiglio a grandi e piccoli di rivedere (è sicuramente disponibile su Netflix) è stato prodotto nel 1998, l’anno in cui mia Valentina è nata. Da filoamericani quali siamo in famiglia comprammo il dvd con un qualche scetticismo, ma poi ci siamo accorti di aver acquistato un piccolo capolavoro, forse il più bel film d’animazione che un italiano abbia mai girato. Un piccolo prodigio dell’ingegno italiano, in cui Cecchi Gori e d’Alò, insieme con l’aiuto dello stesso scrittore (che in italiano doppia sé stesso), riuscirono a produrre un piccolo capolavoro.
Il cartone è stato un successo anche perché il racconto di Sepulveda è adatto (ancora oggi, dopo ormai trent’anni dalla sua stesura) per un pubblico moderno, portando avanti dei messaggi chiari in un clima sereno e non conflittuale, forse proprio perché lo stesso A., che quando scrisse la storia viveva in esilio in Germania, voleva creare questo clima. Le tematiche affrontate sono le più disparate: si va dal problema ecologico, si passa alla riconciliazione tra animali che sono in conflitto tra di loro sino al voler ripristinare, con uno sforzo quasi contro natura, l’identità di colei di cui ci si era preso cura.
Sepúlveda non era un cristiano e alcuni dei nomi presenti nel racconto lo dimostrano chiaramente: la sua simpatia per l’Illuminismo è rappresentata dal gatto che si chiama Diderot ed uno dei principali protagonisti, Zorba, prende il nome del personaggio descritto da Katzanzakis e interpretato magistralmente (ma forse anche un po’ in maniera stereotipica) da Anthony Quinn negli anni Sessanta, personaggio che rappresenta l’essenza tragica della grecità e, allo stesso tempo, dell’anarchia mistica. Nonostante questi aspetti del racconto vanno apprezzati tutta una serie di valori ed anche la serenità di chi lo scrive pur trovandosi in esilio, lontano dalla sua terra perché di fatto è dovuto scappare. Il messaggio è che i bambini devono avere sempre favole positive, dove possono, attraverso l’intreccio, imparare una “morale”:
La storia inizia con una perdita, con una certa tragicità: dopo un viaggio estenuante, a causa anche dell’inquinamento voluto dagli uomini (lo stesso porto di Amburgo, luogo dove si svolge la storia non ne è esente), la mamma della gabbianella muore ed affida colei che sta per nascere ad una comunità di gatti, naturali nemici e predatori degli uccelli, figuriamoci se non delle uova. Ma proprio perché Zorba non è un gatto convenzionale, alla fine accetta la sfida e si prende cura della piccola, allevandola come un gatto inizialmente. Ci troviamo quindi al paradosso che colei che doveva essere cacciata si comporta come i cacciatori. Ma contro la natura non si può andare e quindi la comunità dei gatti decide che bisogna insegnare alla gabbianella a spiccare il volo, perché solo così potrà raggiungere la propria identità.
Questa la sintesi (forse non delle migliori) della storia. Ho sempre pensato che far vedere a mia figlia il cartone (e comprarle in seguito anche il racconto) fosse una cosa assolutamente positiva per i valori che, senza rispettare un’agenda e senza appesantirli troppo (gli ultimi film Disney talvolta lo fanno), venivano trasmessi.
Il racconto è un’apologia della difesa del più debole: anche quando i nostri istinti vorrebbero mangiare colei che ci è di fronte dovrebbe invece prevalere l’amore. E’ un ricordo lieve e non martellante di come ci si debba prendere cura del Creato, perché i danni possono avere conseguenze irreparabili. E’ anche un inno alla solidarietà ed al cercare di rispettare il prossimo nella sua identità, tanto da andare contro la propria natura pur di rispettare quella dell’altro.
Come la storia dello scrittore cileno, nella sua semplicità e nella sua grande intuizione (riprendere in chiave moderna la tradizione della favola esopica) trasmette questi valori ai piccoli (con una certa dose di anarchismo rispetto all’autorità costituita, incarnata in tutti i personaggi), così anche noi dovremmo riflettere sulla bontà di questo prodotto letterario e del film animato che ne è stato ricavato che hanno valori positivi ed adatti anche per i credenti di questo secolo.
In un periodo di difficoltà, inoltre, la scrittura di Sepulveda, nella sua levigata leggerezza, promuove anche un valore che deve anche da noi essere portato avanti: quello della speranza. Dal gabbiano che lascia sua figlia nella speranza che le possa sopravvivere, ai gatti che agiscono contro il loro istinto naturale per salvare chi è debole, scopriamo intrecci che alludono alla costruzione di un futuro migliore e radioso, che, forse, Sepúlveda vedeva nel sole nascente del socialismo, ma che noi, facilmente possiamo vedere in messianismo diverso. Sicuramente allo scrittore cileno si potrebbe rimproverare il troppo ottimismo per i valori di questa terra ed una mancanza di sovrannaturale mai presente, ma non si può negare l’efficacia del racconto ed il veicolamento di positività in un periodo di apparente sfiducia (come è stato anche quello del suo esilio forzato). Pertanto, la mia sollecitazione è, per chi non l’abbia ancora fatto, a leggere Sepúlveda e soprattutto a leggere e guardare quello che è uno dei migliori racconti per bambini scritti nella seconda metà del XX secolo. Ora che abbiamo del tempo questo è possibile.
https://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.png00Giacomo Carlo Di Gaetanohttps://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.pngGiacomo Carlo Di Gaetano2020-04-16 22:51:312024-10-21 11:48:57Zorba e la gabbianella: ricordo di uno scrittore lieve
Dopo la spettacolare performance di Andrea Bocelli che ha intonato il famoso canto di John Newton nella piazza del Duomo di Milano completamente deserta, il 12 Aprile 2020, in piena epidemia, abbiamo chiesto a Massimo Rubboli, che è stato docente di Storia delle Americhe e Storia del Cristianesimo di raccontarci di questo inno.
di Massimo Rubboli
Il film Amazing Grace (2006), diretto da Michael Apted, racconta la storia dell’ex capitano di marina diventato prete anglicano John Newton (1725-1807) e dell’influenza che ebbe sul politico evangelico William Wilberforce (1759-1833), membro del parlamento inglese (House of Commons), che dedicò la sua attività pubblica all’abolizione della tratta degli schiavi (Slave Trade Act, 1807).
Nella prima parte della sua vita avventurosa, Newton aveva rischiato più volte di morire; in una di queste occasioni, nel 1747, ebbe inizio la sua conversione durante una tempesta che stava per fare affondare la nave che comandava, con il suo carico di schiavi. Contrariamente a quanto si ritiene, la riscoperta della fede nella quale era stato educato dalla madre, devota puritana, non lo portò ad abbandonare subito il commercio degli schiavi, ma fece ancora tre viaggi come capitano di due navi schiaviste, la “Duke of Argyle” (1750) e la “African” (1752–53 e 1753–54)[1]. Come ebbe a scrivere più tardi, “I consider this as the beginning of my return to God, or rather of his return to me; but I cannot consider myself to have been a believer (in the full senseof the word) till a considerable time afterwards”[2].
Nel 1754, in seguito ad un ictus, abbandonò i viaggi in mare e gradualmente orientò la sua vita in una nuova direzione, caratterizzata dallo studio della Scrittura e dalla preghiera. Ordinato curato nel 1764 della parrocchia anglicana di Olney, nel Buckinghamshire (e, dal 1780, rettore di St. Mary Woolnoth, London), creò nuovi inni da abbinare ai suoi sermoni domenicali. Anche alla sua predicazione del 1° gennaio 1773, basata sul testo di I Cronache 17: 16-17 (“16 Allora il re Davide andò a presentarsi davanti al SIGNORE, e disse: «Chi sono io, o SIGNORE, Dio, e che cos’è la mia casa, che tu m’abbia fatto arrivare fino a questo punto? 17 Questo è parso ancora poca cosa ai tuoi occhi, o Dio; e tu hai parlato anche della casa del tuo servo per un lontano avvenire, e ti sei degnato di considerare me come se fossi uomo d’alto grado, o SIGNORE, Dio”), associò un nuovo inno, “Amazing Grace”, che comunicava il grande messaggio del Vangelo: per la misericordia di Dio, ogni peccatore può ottenere il perdono e la redenzione.
“Amazing Grace” sarebbe divenuto l’inno più conosciuto nel cristianesimo evangelico[3] e poi anche al di fuori delle chiese, in particolare come canto di protesta contro le ingiustizie sociali nel movimento per i diritti civili dei neri americani.
Tuttavia, l’inno non può essere considerato – se non indirettamente – come una denuncia della schiavitù, perché fu soltanto nel 1788 che Newton prese pubblicamente posizione contro la tratta degli schiavi con l’opuscolo Thoughts upon the African Slave Trade, ammettendo che si trattava di “una confessione pubblica che, per quanto sincera, arriva[va] troppo tardi per prevenire e riparare l’infelicità e il danno a cui ho contribuito. Per me, sarà sempre motivo di riflessione umiliante l’avere un tempo partecipato attivamente a un traffico che ora fa rabbrividire il mio cuore”[4].
La straodinaria diffusione di questo inno è legata sia a riferimenti letterari (ad esempio, nel romanzo antischiavista di Harriet Beecher Stowe, Uncle Tom’s Cabin, del 1852) sia alla sua esecuzione da parte di artisti famosi, come Judy Collins, Ray Charles, Johnny Cash e Elvis Presley.
Una versione, resa famosa dalle cantanti Mahalia Jackson e Aretha Franklin[5], ha indotto molti – ancora oggi – a considerarlo un canto nato nella tradizione gospel americana. Un’altra versione molto famosa è quella per cornamuse e tamburi lanciata all’inizio degli anni Settanta dal reggimento dell’esercito britannico, Royal Scots Dragoon Guards. Inoltre, nel campo musicale non religioso, si colloca il musical di Broadway del 2015.
Infine, vale la pena ricordare la commovente interpretazione del presidente Barack Obama che cantò “Amazing Grace” il 26 giugno 2015, durante il servizio funebre in ricordo del pastore Clementa C. Pinckney, membro democratico del senato della South Carolina, che era stato ucciso una settimana prima da un attacco razzista mentre guidava uno studio biblico serale nella chiesa metodista episcopale di Charleston, South Carolina[6].
[1]DUKE OF ARGYLE and AFRICAN slave ships. Journal kept by John Newton, Master and slave trader comprising of three voyages on in the DUKE OF ARGYLLE and two in the AFRICAN, 1750-1754. Diario manoscritto conservato nel National Maritime Museum, Greenwich (London).
[2] Lettera del 20 gennaio1763, in The Works of the Rev. John Newton …, vol. 1, Uriah Hunt, Philadephia 1839, p. 99. Cit. anche in D. Bruce Hindmarsh, John Newton and the English Evangelical Tradition, Wm. B. Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids, MI 2001, pp. 32-3.
[3] Steve Turner, Amazing Grace: The Story of America’s Most Beloved Song, HarperCollins, New York 2002.
[4] John Newton, Thoughts upon the African Slave Trade, J. Buckland, London 1787, p. 2: “a public confession, which, however sincere, comes too late to prevent, or repair, the misery and mischief to which I have, formerly, been accessary. I hope it will always be a subject of humiliating reflection to me, that I was once an active instrument in a business at which my heart now shudders”.
[5] La più famosa interpretazione di “Amazing Grace” da parte di Aretha Franklin si può ascoltare nel film documentario, realizzato da Sydney Pollack, del concerto tenuto dalla Franklin alla New Temple Missionary Baptist Church di Los Angeles nel 1972.
[6]https://youtu.be/IN05jVNBs64 o https://www.youtube.com/watch?v=7pbEBxQPWGc.
Qu il link tratto dalla pagina FB dell’artista: Amazing Grace
https://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.png00Giacomo Carlo Di Gaetanohttps://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.pngGiacomo Carlo Di Gaetano2020-04-14 00:22:002024-10-21 11:48:57La storia e il successo del canto “Amazing Grace”
Nel 2010
un professore dell’Istituto di economia e diritto dell’Università della
Pennsylvania ha studiato a fondo il problema del riscaldamento globale, una
tesi portata avanti da quello che ha definito “l’establishment
climatico”, con a capo l’Inter–Governmental Panel on Climate
Change (IPCC). Ha accusato l’IPCC e “l’establishment climatico”
di mostrare “una tendenza sistematica … a sovrastimare ciò che è
effettivamente noto sui cambiamenti climatici, nascondendo al contempo
incertezze fondamentali e interrogativi concernenti molti processi chiave
coinvolti nei cambiamenti climatici”[1],
finendo per sostenere che “praticamente tutte le affermazioni avanzate dai
sostenitori del riscaldamento globale non riescono a superare un esame accurato”
[2]
Tali
opinioni non erano isolate. Poco prima della conferenza delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici a Cancun, in Messico, nel 2010, un report specialistico,
il cosiddetto “Consensus Buster”, sosteneva che “Più di 1000
scienziati internazionali dissentono sulle affermazioni relative al
riscaldamento globale dovuto all’uomo”. Il dossier di 321 pagine avrebbe
dovuto “raffreddare ulteriormente gli animi durante il vertice delle
Nazioni Unite”. Gli scettici e i negazionisti relativii al clima che hanno
redatto il report sostennero che i rapporti dell’IPCC avessero: (a) distorto le
prove scientifiche, (b) indotto una sorta di “paura per il clima” e
(c) causato uno scandalo nella comunità scientifiche che studiano il clima,
scandalo definito “Climategate”.[3]
ECCEZIONALE EVIDENZA SCIENTIFICA Ora, un decennio dopo, il mondo è allarmato per le schiaccianti prove scientifiche e per l’evidente realtà del riscaldamento globale. È stata dichiarata una “emergenza climatica”. La prova di significative perturbazioni ambientali è ovunque.
• Il 97%
degli scienziati mondiali ora concorda sul fatto che il pianeta terra, la sua
superficie terrestre, i suoi cieli e gli oceani si stiano riscaldando
rapidamente e pericolosamente a un ritmo più veloce del normale.
• Fenomeni
quali eventi meteorologici estremi si verificano più frequentemente e con
maggiore intensità, provocando inondazioni più distruttive, siccità prolungate,
incendi violenti ed estesi, etc.
• L’aumento
dell’impatto ambientale derivante dalla crescita della popolazione, dall’urbanizzazione,
dall’industrializzazione, dal consumo di energia e dalle emissioni di carbonio,
influisce sulla qualità dell’aria, aumenta i rischi di pandemie sulla salute pubblica
e minaccia la perdita della biodiversità.
• La
scomparsa delle foreste pluviali e la diminuzione della produzione agricola
globale hanno aumentato i timori di carenze alimentari globali e aumentano i
flussi di rifugiati climatici. Nessuna comunità è al sicuro dalle conseguenze del
cambiamento climatico.
DOVREMMO DISPERARE? A mio avviso, il dibattito sullo stato della terra e sul futuro dell’ambiente sta causando una certa disperazione. Abbondano gli interrogativi. L’attuale vulnerabilità della terra è causata da forze naturali o antropogeniche? La crisi ecologica globale è ciclica, irreversibile e irreparabile? La nostra civiltà, come la conosciamo, è sull’orlo dell’estinzione?[4] Esiste una volontà politica e morale per combattere l’imminente e inevitabile disastro che ci si para di fronte? C’è ancora speranza per la creazione?
Dal punto
di vista della Scrittura e della visione biblica del mondo la risposta è
decisamente sì, c’è speranza. La speranza cristiana è radicata nel Dio che è il
proprietario del pianeta e del mandato biblico per la cura della creazione e per
la responsabilità umana. Questa prospettiva ci aiuta ad evitare il fatalismo
cristiano, il quale suggerisce che non possiamo fare nulla per evitare o
superare la schiacciante sfida posta dal riscaldamento globale e dai
cambiamenti climatici.
CHE COSA SIGNIFICA PRENDERSI CURA DELLA CREAZIONE? Dal mio punto di vista, prendersi cura della creazione equivale a prendere consapevolezza, analizzare e agire verso tutto il mondo che ci circonda. Ciò include l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo, i vestiti che indossiamo, la casa in cui viviamo, il mezzo di trasporto che utilizziamo, etc. Dovremmo prestare attenzione a tutto ciò che nel nostro spazio sostiene la vita e la salute. Gesù ha richiamato l’attenzione sulla creazione come lezione obiettiva sulla vita, la libertà e la ricerca della felicità. “Guardate gli uccelli del cielo e i fiori dei campi” disse Gesù, “non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro?” (Mt 6:26). Dio si prende cura di tutto nella sua creazione, sia esso umano e non umano.
Un
promemoria della cura di Dio per la creazione si trova nelle parole di questo
inno:
Questo è il mondo di mio Padre, Gli uccelli innalzano i loro canti, La luce del mattino, il bianco giglio, dichiarano le lodi del loro creatore. Questo è il mondo di mio padre, Risplende in tutto ciò che è giusto; Nell’erba frusciante lo sento passare; Egli mi parla da ogni dove.[5]
Il
salmista attira l’attenzione anche sulla creazione come strumento e processo di
consapevolezza: “Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna
e le stelle che tu hai disposte, 4 che cos’è l’uomo perché tu lo
ricordi?” (Sal 8:3-4).
Essere
consapevoli della creazione implica non solamente esserne curiosi. Significa porre
attenzione agli standard ambientali stabiliti dalla comunità in cui viviamo. Tutti
i cittadini dovrebbero sapere cosa ci si aspetta da loro, in quanto tali, mentre
abitano e condividono lo spazio comune. Siamo davvero consapevoli di quali siano
le leggi relative ai rifiuti, come gestirli, come prenderci cura degli spazi
comuni, dei nostri parchi, delle spiagge, dei percorsi naturalistici, dei
pendii montani e delle aree appositamente protette? Essere consapevoli
significa conoscere anche gli accordi politici globali che mirano a proteggere
il pianeta terra e la casa che tutti condividiamo. Ad esempio, sapete cos’è
l’accordo di Parigi del 2015, concordato da 194 paesi membri delle Nazioni
Unite?[6]
Una cosa è
essere osservatori ed essere consapevoli. Un’altra è conoscere i fatti e
analizzarli. Gli scettici e i negazionisti sui cambiamenti climatici dichiarano
di essere agnostici riguardo a fatti su cui concordano la maggior parte degli
scienziati. “Nessuno lo sa davvero”, dicono.[7]
Non
possiamo ignorare le prove lampanti relative al riscaldamento globale e ai
cambiamenti climatici. Se lo facciamo, è a nostro rischio e pericolo. La realtà
richiede un’azione immediata, capacità di adattamento, mitigazione,
conservazione, preservazione e prevenzione degli abusi e del degrado ambientale.
L’integrità del pianeta rivendica giustizia. Fare giustizia richiede un’azione,
incluso la difesa dell’ambiente, la sua protezione e il perseguimento dei
crimini ambientali come l’ampia e sfrenata distruzione della foresta pluviale
amazzonica.[8]
PERCHÉ DOVREMMO PREOCCUPARCENE? I cristiani hanno a cuore l’ambiente per tre motivi principali:
UBBIDIENZA A CRISTO Gesù disse: “Se voi mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14:15). L’ubbidienza a Cristo è fondamentale per la nostra etica cristiana. Come sottolinea Chris Wright, “distruggere la proprietà di qualcun altro è incompatibile con qualsiasi pretesa di amare quella persona”[9]. Come afferma “l’Impegno di Città del Capo”, “Ci interessiamo della terra, dunque, per la semplice ragione che appartiene a colui che chiamiamo Signore”.[10]
UN VANGELO DA PROCLAMARE Il Vangelo è per l’intera creazione, umana e non umana. L’intera creazione “geme” e brama la redenzione (Rom 8:18–22). In Cristo, “è piaciutoal Padre di far abitare [in lui] tutta la pienezza e di riconciliare con sé tutte le cose per mezzo di lui, avendo fatto la pace mediante il sangue della sua croce; per mezzo di lui, dico, tanto le cose che sono sulla terra, quanto quelle che sono nei cieli.” (Col. 1:19–20).
UN DONO DA CUSTODIRE L’Impegno di Città del Capo offre una guida chiara su quale sia la responsabilità cristiana nei confronti dell’ambiente. “Un tale amore per la creazione di Dio esige che ci ravvediamo per la parte che abbiamo avuto nella distruzione, nello spreco e nell’inquinamento delle risorse della terra e per la nostra collusione con l’idolatria tossica del consumismo. Al contrario, ci impegniamo in una pressante e profetica responsabilità ecologica”.[11] “Pressante e profetica responsabilità” significa intraprendere azioni coraggiose e decisive per salvaguardare il benessere dell’ambiente senza tener conto degli interessi acquisiti e delle forze economiche che si confrontano. Le azioni profetiche e audaci nell’attuale crisi ecologica globale rivelerebbero quanto amiamo e onoriamo il Signore della creazione.
PRENDERSI CURA DELLA CREAZIONE SI ADATTA ALLA MISSIONE EVANGELICA? La cura della creazione si adatta perfettamente alla missione di Dio. Come Creatore del cielo e della terra, Dio stabilisce la sua creazione per rivelare chi è, per offrirre mezzi di lode e per dichiarare la sua gloria fino ai “confini della terra”, in modo che la terra sia piena della conoscenza della gloria del Signore “come le acque coprono il fondo del mare” (Ab 2:14).
Le
missioni evangeliche hanno un ruolo fondamentale da svolgere nella cura della
creazione. Come le missioni mediche o la Missionary Aviation Fellowship,
l’assistenza alla creazione è cruciale. La portata della crisi ambientale
globale è enorme e multi–dimensionale. Colpisce la popolazione mondiale che ora
supera i sette miliardi di persone. Ecco perché quando oltre 4.200 leader
evangelici provenienti da 198 paesi si sono riuniti a Città del Capo, in
Sudafrica, nel 2010, per il Terzo Congresso di Losanna, l’attenzione per la
creazione era in cima all’agenda. La prima Consultazione, dopo Città del Capo,
è stata su Creation Care and the Gospel, e io ero tra i suoi organizzatori.
Tale assemblea, svoltasi in Giamaica nel 2012, ha attirato 57 partecipanti da
26 paesi diversi quali India, Argentina, Bangladesh, Benin, Kenya, Uganda,
Singapore, Regno Unito, Stati Uniti e Canada. Le risoluzioni, note come Jamaica
Call to Action[12],
hanno dato vita al Creation Care Network molto attivo che sta attualmente
conducendo una campagna globale a favore della cura della creazione.
COSA POSSIAMO FARE? Come singoli studenti, docenti, personale e laureati, insieme alle nostre comunità e organizzazioni, possiamo fare molto per fronteggiare la sfida ecologica attuale e futura che abbiamo dinanzi. Ecco ciò che possiamo fare.
1. Prenderci cura della vegetazione che ci circonda. Cogliamo ogni occasione per piantare un albero. 2. Creare o partecipare ad associazioni ambientaliste locali, nell’università o nella comunità. 3. Diventare ambientalisti (se non lo siamo già). Risparmiare energia, acqua, rifiuti alimentari, salvaguardare foreste, oceani e altro. 4. Ridurre le spese energetiche. Cercare fonti di energia alternative. Utilizzare l’innovazione tecnologica per nuovi combustibili, elettricità, etc. Eliminare la dipendenza dai combustibili fossili. 5. Smettere di sporcare lo spazio con la spazzatura. Pianificare attentamente lo smaltimento dei rifiuti. Sostenere il divieto di utilizzo della plastica. 6. Lottare contro la deforestazione. Sostenere la protezione e la conservazione delle nostre montagne, fiumi, bacini idrici, zone umide, barriere coralline, coste e spazi verdi. 7. Sostenere eventi di educazione ecologica e le campagne d’azione (ad es. per il divieto di incendi boschivi, un migliore smaltimento dei rifiuti, l’immissione di nuovi alberi, la protezione della fauna selvatica). 8. Preoccuparsi della sicurezza alimentare per chi ne ha bisogno. L’UNFAO avverte di gravi carenze alimentari causate da prezzi del carburante, siccità, inondazioni, nuovi fenomeni meteorologici violenti ed estremi. 9. Promuovere insediamenti umani adeguati e una migliore politica di accoglienza. (Evitare spartiacque, corsi d’acqua, terre paludose e ambienti vulnerabili e fragili.) 10. Sostenere e garantire un trasporto pubblico che dimezzi le emissioni di CO2, migliorarne l’efficienza, migliorare la qualità dell’aria e creare ambienti pubblici più sani. 11. Sostenere i progetti di lotta alla povertà (ad es. per l’acqua potabile, la microimpresa e l’aumento di posti di lavoro). 12. Garantire che l’ambiente, la casa, la chiesa, il posto di lavoro, la comunità vissuta, sia “verde”, efficiente dal punto di vista energetico, salutare per la vita. 13. Partecipare al dibattito su “sviluppo economico vs la protezione dell’ambiente”, dibattito emerso nel vertice Mondiale di Rio del 1992. Cercare di comprenderne i problemi. 14. Assicurarsi che i leader locali e i responsabili delle politiche comprendano i problemi. 15. Accertarsi che tutti capiscano l’urgente bisogno di un’economia con basso consumo di carbone e di una società più sana, grazie alla riduzione delle emissioni di CO2 e di altri gas a effetto serra.
CONCLUSIONE In questo momento di emergenza climatica, tutti devono prestare attenzione e agire. Non dobbiamo rifiutare la scienza, in particolare la scienza climatica, senza un’attenta valutazione di grandi dati scientifici globali sottoposti a revisione paritaria. Rifiutiamo le cosiddette “prove alternative” di dubbio valore scientifico che non sono altro che forme mascherate di ideologia politica o opportunità economica. C’è troppo in ballo. L’umanità sta soffrendo. La speranza è necessaria.
Leggiamo
le Scritture con un’ottica ecologica. Le Scritture insegnano tanto riguardo
alla cura dell’ambiente e alla responsabilità umana. Unisciti al movimento per
la cura della creazione. Mentre Dio opera attraverso di noi, aiutiamo a salvare
il nostro pianeta e a salvare vite umane.
DOMANDE PER LA DISCUSSIONE 1. Prega o canta il Salmo 8. Quale atteggiamento nei confronti di Dio e della creazione di Dio ti suggerisce questo Salmo? 2. Leggi Jamaica Call to Action. Cosa ti piace di più? Quali azioni puoi sostenere? 3. Guarda l’elenco di “Cosa possiamo fare?” Che cosa farai, come credente e come studente, per prenderti cura della creazione?
Ulteriori letture
Bell, Colin. Creation Care and the Gospel: Reconsidering the
Mission of the Church. Peabody,
Mass.: Hendrickson, 2016.
Bloomberg, Michael, and Carl Pope. Climate of Hope: How Cities,
Businesses, and Citizens Can Save the Planet. New York: St. Martin’s Press,
2018.
Brown, Edward R. Our Father’s World: Mobilizing the Church to
Care for Creation. 2nd
ed. Downers Grove, Ill.: IVP Books, 2008.
“Creation Care and the Gospel: Jamaica Call to Action.” St. Ann,
Jamaica: The Lausanne Movement, 2012.
https://www.lausanne.org/content/statement/creation-care-call-to- action.
“El Cuidado de la Creación y
el Evangelio: Llamado a la Acción.” Santa Ana, Jamaica: El Movimiento de
Lausana, 2012. https://www.lausanne.org/es/declaracion-de-la-
consulta/cuidado-de-la-creacion-llamado-a-la-accion.
“Évangile et Protection de l’environnement : Appel à l’Action.”
St. Ann, Jamaïque: Le Mouvement de Lausanne, 2012.
https://www.lausanne.org/fr/mediatheque/compte-
rendu-de-consultation/evangile-et-protection-de-lenvironnement-appel-a-laction.
“Global Warming of 1.5oC.” United Nations Intergovernmental Panel
on Climate Change, 2018. https://www.ipcc.ch/sr15/.
Hescox, Mitch, and Paul Douglas. Caring for Creation: The
Evangelical’s Guide to Climate Change and a Healthy Environment. Minneapolis: Bethany House,
2016.
“The Cape Town Commitment.” The Lausanne Movement, 2011.
https://www.lausanne.org/content/ctc/ctcommitment.
Wright, Christopher J. H. The Mission of God: Unlocking the
Bible’s Grand Narrative. Nottingham: InterVarsity Press, 2006.
Las G Newman è stato Associate General Secretary di IFES (International Fellowship of Evangelical Students). Ora è Global Associate Director for Regions del Movimento di Losanna. Vive in (lasnwmn@gmail.com.)
Questo articolo è tratto da Word & World (Issue 8, January 2020) – Tradotto e pubblicato con permesso (ifesworld.org/journal)
[1] Jason Johnston, ‘Global Warming
Advocacy Science: A Cross Examination’, Faculty Scholarship at Penn Law 315
(2010): 1, https://scholarship.law.upenn.edu/faculty_scholarship/315.
[2] Lawrence Solomon, ‘Legal
Verdict: Manmade Global Warming Science Doesn’t Withstand Scrutiny’, Financial
Post, 6 June 2010,
https://business.financialpost.com/opinion/legal-verdict-
manmade-global-warming-science-doesnt-withstand-scrutiny.
[3] ‘More than 1000 International
Scientists Dissent over Man-Made Global Warming Claims: Scientists Continue to
Debunk Fading “Consensus” in 2008 & 2009 & 2010’ (Climate Depot, 8
December 2010), https://www.climatedepot.com/2010/12/08/special-report-more-than-1000-
international-scientists-dissent-over-manmade-global-warming-claims-challenge-un-ipcc-gore-2/.
[4] Guardian Launches New Series
The Age of Extinction’, The Guardian, 18 September 2019,
https://www.theguardian.com/gnm-press-office/2019/sep/18/guardian-launches-new-series-the-
age-of-extinction.
[8] Tom Phillips, ‘Chaos,
Chaos, Chaos’: a journey through Bolsonaro’s Amazon Inferno’. The Guardian,
September 9, 2019,
https://www.theguardian.com/environment/2019/sep/09/amazon-fires-brazil-
rainforest.
[9] Christopher J. H. Wright, The
Mission of God: Unlocking the Bible’s Grand Narrative (Nottingham:
InterVarsity Press, 2006), 414.
[10]L’Impegno
di Città del Capo, Part 1, 7a, Edizioni GBU, p. 31 (https://www.lausanne.org/content/ctc/ctcommitment).
https://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2020/04/Oliveto.jpg23144024Giacomo Carlo Di Gaetanohttps://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.pngGiacomo Carlo Di Gaetano2020-04-11 03:19:242024-10-21 11:48:57C’è speranza per la creazione?
Gran parte della popolazione mondiale è alle strette per il rapido diffondersi della malattia respiratoria acuta da SARS-CoV-2 (o semplicemente COVID-19). In mezzo alle difficoltà e alla sofferenza che il contagio sta causando, questa domanda sorge naturale.
Dio ha creato i virus, come parte di una creazione buona e perfetta
I virus sono fondamentali per l’abbondanza e la diffusione della vita che vediamo sulla terra. Infatti, sappiamo bene che la vita di ogni complesso organismo multicellulare, dipende dalla convivenza con un’altra forma di vita molto semplice: i batteri. E questi devono essere costantemente presenti in una certo numero equilibrato e una diversità ottimale. Una funzione estremamente benefica dei virus è quella di mantenere la popolazione batterica sotto controllo. Senza l’azione di frammentazione e uccisione dei batteri da parte dei virus, che avviene costantemente al giusto rate e nelle giuste condizioni, il nostro pianeta sarebbe un informe ammasso di batteri, che consumerebbero tutte le risorse essenziali per la vita (prima di morire essi stessi).
Virus e batteri sono anche parte delciclo dell’acqua, che molti ricordiamo dalle scuole elementari. L’avanzato livello di globalizzazione dell’umanità sarebbe impossibile senza che il ciclo dell’acqua provvedesse abbondanti e costanti precipitazioni. Ma pioggia, nebbia, neve, grandine e nevischio, ogni tipo di precipitazione, richiede un microscopico “seed”, un centro di nucleazione, per formarsi. E nella maggior parte delle situazioni, i nuclei più importanti sono proprio virus e frammenti di batteri distrutti dai virus. Il vento porta questi nuclei in atmosfera, dove intorno ad essi si formano dei piccoli cristalli di ghiaccio. L’acqua liquida poi si aggrega nel cristallo, e questi cristalli diventano pioggia, neve, o altro. Anche granelli di polvere o fuliggine possono fungere da nuclei, ma virus e batteri ne permettono la formazione già ad una temperatura più alta. Dovendo contare solo sul particolato (senza virus) non avremmo sufficienti precipitazioni per sostenere la nostra agricoltura e perciò la nostra civilizzazione.
Infine, virus e batteri sono fonte di carbonio, che è la sostanza alla base di ogni struttura organica, e quindi della vita sulla terra. Precipitando (come visto prima) virus e batteri si raccolgono sulla superficie degli oceani, per poi lentamente scendere nelle profondità marine. Mentre affondano, sono una fondamentale fonte di nutrienti sia per la vita nelle profondità oceaniche che per la vita dei fondali acquatici (alghe, molluschi, artropodi, ecc..). Infine il movimento delle placche tettoniche sottomarine porta la maggior parte di questa sostanza carboniosa nella crosta e nel mantello terrestre, per tornare in atmosfera tramite violente eruzioni vulcaniche. Questo ciclo permette quindi sia la attuale diversità animale che il bilanciamento di anidride carbonica e metano in atmosfera, indispensabile per la vita.
Possiamo veramente lodare Dio per la bellezza della Sua creazione (SALMO 104:13 – “Egli [Dio] annaffia i monti dall’alto delle sue stanze; la terra è saziata con il frutto delle tue opere”) e comprendere perché Dio stesso la veda buona (GENESI 1:31 – “Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono”).
Virus e batteri letali sono una conseguenza della caduta dell’uomo, del peccato
Se solo avessimo sempre seguito le indicazioni di igiene e salute elencate nell’Antico Testamento, molto probabilmente non avremmo mai dovuto combattere contro virus come l’HIV, la SARS-1, il MERS, ed infine la SARS-CoV-2 (responsabile della COVID-19). Questi infatti sono tutti virus presenti solo negli animali, che hanno poi “saltato” dalla loro specie di origine all’uomo. Questi salti sono molto più probabili in presenza di una densità di popolazione esagerata e/o la presenza di animali selvatici a stretto contatto con addensamenti di popolazione. Più siamo addensati, più aumenta lo stress sia dell’uomo che degli animali, e più aumentano le possibilità che un virus potenzialmente benigno possa mutare in un virus letale per l’uomo. Per prevenire una pandemia di questo genere dovremmo drasticamente cambiare il modo in cui gestiamo e commerciamo i nostri animali domestici, per minimizzare il loro stress, il loro sovraffollamento e il contatto con addensamenti umani. Allo stesso tempo minimizzare lo stress e massimizzare la salute, il benessere fisico e l’igiene dell’uomo, specialmente tra i poveri, è estremamente importante. Dio ci ha originariamente posti nel giardino dell’Eden come curatori della Sua perfetta creazione, per averne cura e farla prosperare (GENESI 1-2), non per abusarne e sfruttarla all’estremo come stiamo facendo da secoli.
Un esempio di come l’uomo non abbia prestato attenzione al suo ruolo di curatore della natura lo ritroviamo nelle zanzare. Si stima che le zanzare nell’antichità occupassero solo il 10% della superficie terrestre, pulendola dai detriti organici (escrementi degli animali di piccola taglia) e provvedendo nutrimento per molte specie acquatiche di acqua dolce. Poi, l’addomesticamento e il conseguente sovraffollamento degli animali, insieme alla massiccia deforestazione, alla capillare irrigazione e al recente riscaldamento globale, hanno portato alla proliferazione delle zanzare, e delle relative malattie trasmissibili. Ora le zanzare occupano il 99% della superficie terrestre.
Inoltre, a causa del peccato dell’uomo, l’intera Creazione è stata maledetta (GENESI 3:17-19 – “il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno tutti i giorni della tua vita. Esso ti produrrà spine e rovi, e tu mangerai l’erba dei campi; mangerai il pane con il sudore del tuo volto”) e la morte e la rovina, la degradazione degli esseri viventi ha avuto inizio (ROMANI 5:12 “Perciò, come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte, e così la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato”)[a]. Calvino scrive: “Prima della caduta il mondo era la migliore immagine possibile del delizioso divino favore paterno di Dio verso l’uomo. Ora, in ogni elemento, percepiamo la maledizione conseguente al peccato. […] Perciò, possiamo dedurre, che la corruzione deriva dal peccato.” E le osservazioni scientifiche a riguardo sono perfettamente consistenti con il concetto che molte infezioni sono il prodotto di cellule sane che si sono rotte e degradate. Queste imperfezioni biologiche non sono un’evidenza contro l’esistenza di un Creatore, quanto piuttosto supportano l’affermazione biblica che il peccato dell’uomo abbia causato l’inizio della degradazione della Creazione.
Alcuni esempi sono i batteri Vibrio e Bacillus anthracis. I batteri Vibrio, alcuni dei quali responsabili del colera, producono molecole che interagiscono specificatamente con l’epitelio (la pelle) di pesci e calamari permettendo la bioluminescenza di cui hanno bisogno per cacciare e nutrirsi. Le proteine dei batteri Vibrio diventano fattori virulenti solo in ambienti per loro inappropriati come il corpo umano. L’antrace è un’infezione acuta causata dal batterio Bacillus anthracis. Tutti i ceppi virulenti del B. anthracis presentano due plasmidi[b]: uno, il pXO1, è portatore del gene necessario alla produzione della tossina causa dell’antrace, l’altro, il pXO2, contiene i geni necessari per incapsulare il batterio e permettergli di entrare nell’organismo umano. Senza questi plasmidi il B. anthracis sarebbe inoffensivo e indistinguibile dagli altri ceppi non virulenti. La sequenza del plasmide pXO1 è stata pubblicata nel 1999 e si è rivelata essere circa 400 nucleotidi più corta della media dei geni di un cromosoma. Questo ed altri dettagli scoperti nel genoma sono consistenti con un danneggiamento a causa di una puntuale mutazione degradante, che ha reso un innocuo batterio un killer inarrestabile.
Anche la Natura sarà redenta in Cristo
Anche nel buio di questa triste realtà, però, brilla una speranza che non può essere sopraffatta neppure dal peccato né dalla morte. La Bibbia afferma che in Cristo, esattamente come noi, anche la Natura sarà redenta. Il suo carattere perfetto e buono sarà ripristinato. E resterà stabile in eterno, nelle mani del suo Creatore.
«Infatti, i nuovi cieli e la nuova terra che io sto per creare rimarranno stabili davanti a me», dice il SIGNORE ISAIA 66:22
Note
[a] Alcune interpretazioni vedono la morte degli animali e delle piante fondamentale per il giusto equilibrio della Creazione, già prima della caduta, e questi passi si riferirebbero alla morte spirituale dell’uomo. Anche in questo caso, a mio parere, rimane consistente affermare che la degradazione dovuta alla corruzione dell’informazione genetica sia il risultato della corruzione conseguente al peccato, e non già parte di una buona e perfetta Creazione originale (Si veda in proposito H. Blocher, La creazione, l’inizio della Genesi, Edizioni GBU, 1984.
[b] I plasmidi sono piccoli filamenti circolari di DNA capaci di replicarsi in modo indipendente dal cromosoma principale del batterio. Essi sono estremamente utili: alcuni ceppi di Pseudomonas presentano plasmidi che producono geni necessari per il metabolismo del toluene e altre sostanze chimiche tossiche, favorendo in tal modo la bonifica di ambienti inquinati. Le specie di Rhizobia presentano plasmidi che permettono ai batteri di vivere in simbiosi con legumi come piselli e fagioli, provvedendo una tale abbondanza d azoto alle piante ospiti, che queste lo depositano nel suolo, a disposizione di altre specie vegetali, favorendone la crescita.
Luca Basta è laureato in Fisica della Materia presso l’Università di Pisa. Ora sta completando il suo Perfezionamento (Dottorato di ricerca) in Nanoscienze presso la Scuola Normale Superiore; è anche uno dei coordinatori GBU di Pisa.
https://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.png00Giacomo Carlo Di Gaetanohttps://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.pngGiacomo Carlo Di Gaetano2020-04-08 20:37:302024-10-21 11:48:57Dio ha creato virus e batteri che possono rivelarsi letali per l’uomo?
«Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Osservate come l’agricoltore aspetta il frutto prezioso della terra pazientando… .Siate pazienti anche voi; fortificate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina.» (Giacomo 5:7-8)
Al giorno d’oggi milioni
di persone si trovano confinate nelle proprie case, imparando ad aspettare e
sperare. E, purtroppo, parecchi piangono la perdita dei loro cari, senza
nemmeno averli potuti salutare. Il cammino della sofferenza, già di per sé
stesso lungo e difficile, diventa ancora più duro in queste circostanze. “Ho
bisogno di aggrapparmi ad una buona notizia”, mi diceva un giovane sopraffatto
dalla situazione. Dove trovarla?
La parola di Dio è un
unguento che cura le ferite ed è fonte di forza nel dolore. Risponde in modo
illuminante a due domande chiave nel tempo dell’attesa: come dobbiamo
aspettare, e che cosa ?
Due parole ci danno la
risposta: pazienza e speranza. Entrambe sono il nostro bagaglio imprescindibile
per passare attraverso questo arduo cammino. Dobbiamo trasformare i momenti
di attesa in momenti di speranza e di pazienza. Allora scopriremo che Dio
può trasformare le nostre avversità in opportunità.
LE DUE BRACCIA DELLA
PAZIENZA
L’idea di pazienza nella
Bibbia è così preziosa che richiede due parole complementari. Equivalgono alle
due braccia di una persona.
Perseveranza: persistere
Forza d’animo: resistere
La Pazienza è
perseveranza: Persistere
«Anche noi, dunque…corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo su Gesù» (Ebrei 12:1-2)
Il primo braccio della
pazienza ci fa perseverare. È l’attitudine che ci porta a persistere
fino alla fine in una situazione o in un progetto. Naturalmente, più è
difficile la situazione, più ci sarà bisogno di perseveranza.
Questa virtù, propria di
una persona matura, permette di affrontare le avversità con l’animo dell’atleta
che corre la maratona. È in questo senso che l’autore di Ebrei ci esorta a correre
con perseveranza la gara «affinché non vi stanchiate perdendovi
d’animo» (Ebrei 12:3).
Questo tipo di pazienza
fu uno dei tratti distintivi del carattere di Cristo. Per questo l’autore
aggiunge: «fissando lo sguardo su Gesù…» (Ebrei 12:2). La pazienza lo
portò a «rendere la sua faccia dura come la pietra» (Luca 9:51, Isaia 50:7) e
gli permise di arrivare alla meta proposta, la Croce, anche attraverso la
sofferenza più estrema. Che grande consolazione ricevere il conforto di Colui
che «è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato!» (Ebrei
4:15).
Perseverare è già
vincere. Come Paolo ai Tessalonicesi preghiamo che «il Signore diriga i vostri
cuori all’amore di Dio e alla paziente attesa di Cristo». (2 Tessalonicesi 3:5)
La Pazienza è forza
d’animo: Resistere
«Il frutto dello Spirito invece è… pazienza» (Galati 5:22)
Il secondo braccio della
pazienza è chiaramente soprannaturale, una parte del frutto dello Spirito. Non
è umano, è divino. La parola usata nell’originale è attiva e positiva, molto
lontana dall’idea stoica di pazienza. Letteralmente significa “grande animo”.
Allude a uno spirito forte, resistente, che permane fermo nelle
avversità. Questa pazienza non si arrende,non cede davanti
alle circostanze difficili. È il contrario di una persona codarda, pusillanime,
che “si perde in un bicchier d’acqua”.
L’idea biblica si
allontana molto dal concetto popolare di pazienza. “Che cosa possiamo farci?
Non possiamo far niente, quindi pazienza.” È un atteggiamento di
rassegnazione davanti all’impotenza, un conformismo che nasce dal fatalismo. Al
contrario, la pazienza, frutto dello Spirito, non si arrende ma lotta, non si
ritira ma si tiene salda davanti alle avversità, non è passiva, ma indaga
attivamente in cerca di vie d’uscita.
Detto questo, che cosa
fanno queste due braccia nella pratica, come si esprime la pazienza nella vita
quotidiana?
LA PRATICA DELLA
PAZIENZA: SAPERSI ACCONTENTARE
«Io
ho imparato ad accontentarmi dello stato in cui mi trovo. So vivere nella
povertà e anche nell’abbondanza; in tutto e per tutto ho imparato… io posso
ogni cosa in colui che mi fortifica» (Filippesi 4:11-13)
Quando l’apostolo Paolo
scrisse queste parole si trovava confinato in carcere a Roma. Una reclusione
involontaria in circostanze molto dure. Non si rivolgeva ai suoi lettori da una
posizione di comodità, ma da una situazione profondamente inquietante e in
diretto pericolo di morte. La sua vita era cambiata completamente da un giorno
all’altro. Da dove gli veniva la forza per inviare un messaggio così sereno in
mezzo all’angoscia?
Egli stesso ci dà la
risposta: «ho imparato ad accontentarmi» (Filippesi 4:11). Una delle
testimonianze più importanti della pazienza è il sapersi accontentare. La
parola originale implica non dipendere dalle circostanze, non restare vincolato
ai problemi. Imparare a sapersi accontentare, quindi, è raggiungere
un certo grado di indipendenza dagli avvenimenti della vita.
Il sapersi accontentare
ci porta a vedere, pensare e vivere in modo diverso una situazione inaspettata
o di cambiamento. Ai nostri giorni parleremmo di adattamento e di accettazione,
di flessibilità e resilienza. Tutto quanto finirebbe inglobato dentro il
sapersi accontentare. È la convinzione che Dio opera i suoi propositi
nella mia vita non nonostante le circostanze, ma attraversodi
esse.
Paolo conclude il testo
con una frase che ha ispirato milioni di persone: «Io posso ogni cosa in
colui che mi fortifica» (Filippesi 4:13). Vale a dire, posso essere più
forte di qualsiasi avversità, vincere qualsiasi circostanza, quanto sono in
Cristo, “connesso” con Cristo. In questo è radicato l’elemento soprannaturale
della pazienza e il segreto della nostra forza durante il nostro cammino.
SPERANZA E SPRAZZI DI
ETERNITÀ
«Fortificate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina» (Giacomo 5:8)
La pazienza è
inseparabile dalla speranza. Di fatto, si alimenta della speranza e a sua volta
genera speranza in un circolo glorioso (feedback) divino (Romani 5:4-5).
Potremmo dire che la pazienza e la speranza si fondono in un abbraccio.
Che cosa aspettiamo e
speriamo? Certamente la nostra speranza ha una dimensione attuale. Aspettiamo
con ansia la fine di un’epidemia. Però questa speranza non è sufficiente e può
trasformarsi in frustrazione se non si soddisfano le nostre aspettative.
La speranza non si limita
al qui e ora, vola più in alto e risale all’eternità. La vita sulla terra è
un bene prezioso, ma non è il bene supremo. Il bene supremo è la vita
eterna. Per questo il Signore aveva detto: «E non temete coloro che uccidono il
corpo, ma non possono uccidere l’anima» (Matteo 10:28). Ci colpisce che questo
testo preceda la promessa consolatoria della cura di Dio «perfino i capelli del
vostro capo sono tutti contati» (Matteo 10:30).
Giacomo menziona due
volte la venuta del Signore nel parlare della pazienza. Non è un caso. La
visione della seconda venuta di Cristo è la visione dell’eternità e
«fortifica il nostro cuore» (Giacomo 5:8). Guardare alla gloria
dell’eternità con Cristo relativizza il nostro dolore, così che l’afflizione
presente diventa “momentanea e leggera” (2 Corinzi 4:17-18). Possiamo
prevedere che in cielo non finirà solo un’epidemia, ma la Grande Epidemia che è
il Peccato e il suo seguito di dolore e morte. (Apocalisse 21:4, Romani
8:23-25)
Per questo motivo,
«combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna» (1
Timoteo 6:12). Aggrappati, afferra la vita eterna. Questo consiglio di Paolo a
Timoteo è la risposta che ho dato al giovane che mi chiedeva “una buona notizia
a cui aggrapparsi”. Dobbiamo aggrapparci alla speranza dell’eternità, durante i
forti scossoni della vita. Questi sprazzi di eternità illuminano la nostra
oscurità e nutrono la nostra pazienza.
Il Gesù risuscitato
dichiara con grande autorità: «Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei
secoli, e tengo le chiavi della morte» (Apocalisse 1:18).
Sì, Dio è colui che
segna le ore nell’orologio della nostra vita, non un virus. Per questo, nel
mezzo della grande prova, ci riposiamo fiduciosi in Colui che ha promesso:
«Il
tuo sole non tramonterà più, la tua luna non si oscurerà più; poiché il Signore
sarà la tua luce perenne, i giorni del tuo lutto saranno finiti» (Isaia 60:20).
di Pablo Martinez trad. Daniela Buraghi
https://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2018/01/DSC6401-001-e1517175915503.jpg792855Giacomo Carlo Di Gaetanohttps://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.pngGiacomo Carlo Di Gaetano2020-04-04 10:07:372024-10-21 11:48:57La Speranza e la Pazienza si abbracciano
I tempi che stiamo vivendo (in piena pandemia per il coronavirus), come era facile immaginare, ma anche auspicabile, stanno spingendo gli uomini a dare fondo a tutte le risorse per contrastare la pandemia. Gli stati elaborano misure di profilassi sanitaria estrema (lockdown), con il correlato di misure economiche; la comunità scientifica è impegnata in una corsa contro il tempo per trovare la cura e un vaccino; i media tentano una copertura totale del fenomeno, etc. La dimensione religiosa dell’essere umano non poteva mancare ed è probabile, così come nel passato che, tramite le grandi fedi mondiali, giocherà un ruolo sempre più rilevante nello sviluppo di questo straordinario e drammatico momento storico. L’appello di Francesco (capo – non tanto indiscusso – della Chiesa di Roma) ai cristiani di qualsiasi confessione, e orientmento a rivolgere al cielo tutti insieme una preghiera, la preghiera (il Padre Nostro), è solo uno dei tasselli di una vicenda che è destinata a ingrossarsi. A questa iniziativa dall’afflato inclusivo fanno da contraltare, c’era da aspettarselo, le pratiche esclusivistiche di tutti. Lo stesso Papa ne ha dato prova con l’indizione dell’indulgenza plenaria. Dall’altro lato altre confessioni e denominazioni (e qui mi avvicino al focus di queste note), non sono state da meno e hanno messo in campo iniziative speculari sia inclusiviste (appelli alla preghiera e all’unità) sia esclusiviste.
Non poteva mancare, in questo quadro, anche la polemica religiosa e identitaria, soprattutto da parte evangelica, contro “l’idolatria” della Chiesa di Roma. Non ho ancora notizia di qualche prelato o intellettuale cattolico che punti il dito per questo “giudizio divino” contro i soliti mali della modernità, alla base dei quali ci sarebbe la Riforma protestante (ricordate il famoso discorso di Ratisbona di Benddetto XVI?).
Veniamo dunque al nostro tema: che cos’è l’approccio “identitario” al cattolicesimo (AIC)? Si tratta di una prospettiva interna all’evangelismo italiano che si tenta di esportare a livello globale, come è testimoniato dalle polemiche e dalle schermaglie che suscita in organismi evangelici internazionali.
1. Qual è il focus di questo approccio? Per spiegarlo, è utile una piccola digressione. Quando un bibliotecario deve identificare il soggetto di un libro parla, usando un termine inglese, di aboutness (ciò di cui il libro veramente parla). L’identificazione di un soggetto infatti è un’operazione complessa che deve tener conto di diverse variabili tra le quali spicca l’ambiguità del titolo: spesso infatti non corrisponde al soggetto che il libro svilupperà ma risponde a esigenze di mercato o di indicizzazione.
Quando gli evangelici dicono di volersi occupare di cattolicesimo, si stanno veramente occupando di cattolicesimo? Ne fanno veramente un oggetto di studio che richiede l’adozione di tecniche di interpretazione identificabili e tendenti all’oggettività? Ogni studio “scientificamente” accurato ha poi il suo risvolto pratico e appplicativo. A questa logica non sfugge neanche lo studio del cattolicesimo. Perché si studia il cattolicesimo? Le risposte potrebbero essere tante. Chi scrive ritiene, per esempio, che l’unica ragione che dovrebbe spingere un evangelico a fare del cattolicesimo un oggetto di studio sia il vangelo, inteso nel più radicale dei significati (la buona notizia di Dio che è venuto sulla terra per compiere un’opera di salvezza nei confronti di donne e uomini di tutti i tempi). Ma questa ragione, le esigenze del vangelo, da sola, sarebbe sufficiente a fare un oggetto di studio anche dell’evangelismo, e del protestantesimo!
L’AIC afferma di occuparsi di cattolicesimo (e nauralmente questo è in parte vero – c’è sempre una relazione tra il titolo di un libro e il suo contenuto) ma di fatto, anzi de jure, il suo focus è “l’approccio evangelico al cattolicesimo” (AIC). Questo è il “soggetto” di AIC (l’aboutness). Il succo è: studiamo il cattolicesimo per comprendere il modo in cui interagiamo con esso. Se c’è qualcosa che non va in questo approccio, allora lavoriamo su noi stessi. Da qui il presupposto “identitario” di questo approccio: approccio identitario al cattolicesimo (AIC). Uno dei grandi presupposti è che lo scopo, neanche tanto velato, del cattolicesimo sarebbe quello di portare tutti gli evangelici sotto Roma!
Chris Castaldo, pastore americano legato alla Gospel Coalition, lascia trapelare questa curvatura dell’approccio al cattolicesimo quando afferma, in un libro del 2015 dal titolo Talking with Catholics about the Gospel. A Guide for Evangelicals: “non è abbastanza comprendere semplicemente che cosa sono i cattolici. Dobbiamo anche fermarci un attimo e considerare l’approccio (attitude) e la postura con i quali ci relazioniamo a essi” (p. 41).
Castaldo esplicita questo passaggio rendendosi subito conto che non esiste UN approccio evangelico al cattolicesimo ma ne esistono molteplici, tanto da riportare una tassonomia di ben sette. Nel proseguire la sua indagine Castaldo adotta un metodo descrittivo di questi approcci per poi fare la sua proposta, che è una proposta classica: quali sono i punti di convergenza e quelli di differenza tra evangelici e cattolici?
L’approccio identitario al cattolicesimo (AIC), dal momento che “de jure” è interessato, sotto il titolo di “studio del cattolicesimo”, alle nostre reazioni al cattolicesimo non si limita alla descrizione di queste reazioni ma diviene prescrittivo. Nel senso che tenta di correggere quelli che ritiene approcci sbagliati e per tale motivo legge e studia il cattolicesimo per motivare la prescrizione.
2. La semplificazione identitaria L’approccio “identitario” al cattolicesimo (AIC) impegna dunque le maggiori risorse nell’analisi e nella valutazione degli atteggiamenti e delle posture evangeliche verso il cattolicesimo. Da qui deriva che la rappresentazione del cattolicesimo ricorrere al metodo della semplificazione di una realtà complessa. Questa semplificazione può avvenire in diversi modi. Alcuni sono raffinati: per esempio il cattolicesimo, che ha dimensioni storiche, sociali, teologiche, istituzionali, di spiritualità, viene ritenuto un sistema coerente, espressione a sua volta di uno o due pochi principi di fondo. In qualsiasi sistema (limitiamoci qui solo al versante teologico) possono esserci elementi portanti. È indubbiamente un asse portante del pensiero “ufficiale” del cattolicesimo quello già ben focalizzato da Vittorio Subilia, vale a dire che nel credo della Chiesa di Roma la “chiesa” non sia altro che la prosecuzione dell’incarnazione di Gesù. Ma quanto un tale asse riesca ad aggregare del pensiero e della prassi del cattolicesimo è da dimostrare. Così come è da dimostrare un altro principio che secondo i teorici dell’AIC ricapitola in sé tutta la complessità del cattolicesimo: mi riferisco a un punto del pensiero di Tommaso d’Aquino relativo alla relazione tra natura e grazia (la grazia perfeziona la natura, detto così in soldoni). Questo principio, per esempio, secondo AIC condizionerebbe la soteriologia cattolica.
Nel caso di quest’ultimo principio ci troviamo di fronte a un’altra strategia di semplificazione tipica di AIC, vale a dire la riduzione di elementi della storia del pensiero a elementi sub specie aeternitatis, cioè non più elementi che devono essere compresi nel loro contesto storico ed eventualmente nella loro evoluzione sempre storica (ce lo insegna l’ermeneutica) ma come chiavi interpretative globali dalla tonalità molto spesso negativa (oltre a natura/grazia, possiamo pensare a termini quali “umanesimo”, sinergismo, pelagianesimo, etc.).
Ci sono poi le strategie più terra terra che AIC in qualche modo sdogana, propaganda e anche legittima, vale a dire l’armamentario tipico della controversia del XVI secolo. Ray Galea, nel suo libretto A mani vuote. Cattolici ed evangelici di fronte al messaggio della salvezza (GBU, 2010), sulla base della sua esperienza da ex sacerdote cattolico mette per esempio in guardia sulla famosa retorica secondo la quale il cattolicesimo predicherebbe una salvezza per SOLE opere: “A volte protestanti poco formati accusano il Cattolicesimo di insegnare la «salvezza per opere» in opposizione alla concezione protestante di «salvezza per fede». Quest’accusa non è esatta. Il Cattolicesimo insegna la salvezza per fede più le opere…” (p. 61).
Il risvolto complementare dell’impegno di AIC è che gli approcci evangelici al cattalicesimo possano essere corretti se il cattolicesimo (ridotto a sistema) fosse affrontato dagli evagelici sistemicamente. L’idea di uno studio sistemico (“sistemico” è diverso da “sistematico”) di una realtà religiosa complessa o di una realtà complessa dalle fattezze religiose ha un suo preciso pedigree storico che affonda le sue radici nel neocalvinismo olandese della fine dell’800. L’AIC, in buona sostanza, quando parla di cattolicesimo, si rivolge a noi e ci chiede di adottare un sistema da cpontrapporre a un altro sistema. Detto in parole povere: bisoga essere più protestanti di quelo che siamo. Questa è la semplificazione identitaria: a identità si contrappone identità.
3. L’AIC è funzionale al relativismo Qualche anno fa fece scalpore la visita di Papa Francesco alla comunità pentecostale del suo amico, il pastore Giovanni Traettino. In quella circostanza Francesco fece un discorso di tipo ecumenico, come sempre accade in questi casi, e non c’è da stupirsi. La particolarità fu che prese in prestito alcuni concetti e soprattutto l’immagine del prisma del teologo luterano Oscar Culmann. In sintesi: il discorso ecumenico non deve appoggiarsi su Giovanni 17 (la preghiera di Gesù per l’unità dei cristiani) ma su 1 Corinzi 12 (il discorso di Paolo sull’unico corpo di Cristo) che ha tante membra diverse. Le tradizioni teologiche (e qui semplifichiamo), incluso cattolici e protestanti, sono carismi dello Spirito, rifrazioni misericordiose dell’unico raggio della rivelazione che si rifange in tanti colori diversi. La chiamata di tutti i cristiani è quella di coltivare ognuno la peculiarità e l’identità del carisma ricevuto. Se sei un protesante (questo lo aggiungo io) non è necessario pensare ce tu divenga cattolico (e viceversa): sii più protestante! Questo suggestivo sforzo ecumenico sembra implicare dunque la coltivazione delle proprie identità, se considerate alla luce del diversità dei doni e delle membra.
Tutti sanno, però, anche, che questa è la porta d’ingresso e la strada maestra del relativismo, nonché una straordinaria risposta ecumenica, di base, da rivolgere alla testimonianza del vangelo che possiamo renderci reciprocamente (protestanti e cattolici). Perché prendere in carico la peculiarità delle visioni evangeliche su Maria, così come affondano nel testo biblico, quando in realtà questa peculiarità è il portato precipuo del dono e del fascio di luce che le tradizioni protestanti hanno ricevuto? La risposta alla poemica anti–cattolica, all’AIC, potrebbe essere un clamoroso gesto di affetto da parte di un interlocutore cattolico! Che bello, sii più protestante!
L’AIC diviene in tal modo un ostacolo alla testimonianza da rendere al vangelo.
4. L’AIC ritiene insufficiente lo spazio indipendente del vangelo
È noto che nella controversia tra cattolici ed evangelici spesso si è fatto ricorso a modelli intepretativi che giustificassero una situazione che il Nuovo Testamento non lascia presagire (questo è un altro schema di lavoro). Il modello forse più famoso è di assimilare la tradizione cattolica al farisaismo e quelle protestanti alla predicazione di Paolo. Dopo ondate di rinnovamento degli studi biblici, l’affinamento di strumenti interpretativi, il campo si è un po’ confuso. Nella lettura reciproca che ci facciamo (noi leggiamo e studiamo il cattolicesimo, ma avviene anche il contrario!) appare necessario allora cercare un punto indipendente, che non significa “neutrale”. Questo equivarrebbe, nel nostro interagire con amici e fratelli cattolici, a rinunciare alla nostra tradizione per favorire la strada al vangelo.
Ci proviamo: nel capitolo 4 del Vangelo di Giovanni troviamo il famoso dialogo di Gesù con la donna samaritana, nei pressi di un pozzo. La donna, aldilà della sua condizione personale, esprime una preoccupazione che affonda le sue radici nella coscienza identitaria di quei tempi: dove bisogna adorare? Là dove punta la tradizione samaritana (su questo monte – dice la donna) o al contrario dove punta la tradizione dei Giudei (a Gerusalemme?). Conosciamo la risposta di Gesù che chiede a tutti i partiti in campo di non fare più riferimento a se stessi ma a qualcos’altro (Gesù le disse: «Donna, credimi; l’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. … Ma l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità» – Giovanni 4:21sg.).
Nello studio del cattolicesimo non dobbiamo studiare i nostri approcci al cattolicesimo ma i nostri approcci al vangelo! E in questa zona indipendente, che è il vangelo, dobbiamo uscire dalle nostre tradizioni.
Siamo partiti in questa lunga disamina dell’approccio identitario al cattolicesimo (AIC) dalle condizioni che stiamo vivendo, dalla pandemia che sta imperversando fuori dalle nostre case (e non troppo) e abbiamo evidenziato l’impegno sempre più marcato delle religioni che tentano di dare all’uomo speranza e risposte. Abbiamo evidenziato sia i contributi inclusivi sia quelli esclusivistici e polemici, e da qui siamo partiti per l’analisi dell’AIC. Nel leggere alcuni di questi contributi dell’AIC mi sono ricordato di un vecchio libro evangelico sul cattlicesimo: La chiesa romana allo specchio (1971), scritto da un autore francese, Jacques Blocher. L’autore racconta nella Prefazione di aver scritto questo libro che analizza le dottrine della Chiesa di Roma all’indomani di un’esperienza molto forte, simile a quella che stiamo vivendo noi oggi – i campi di concentramento nazisti – un’esperienza vissuta insieme a sacerdoti cattolici. Per la conclusione lascio volentieri a lui la parola.
“Quest’opera sulla Chiesa Romana [il libro], è stata scritta con un grande zelo per la verità e senz’alcuna cattiveria. L’autore, durante l’ultima guerra mondiale, trovandosi in campo di concentramento, ha avuto occasione d’aver per camerati dei sacerdoti cattolici, molti dei quali gli son restati intimi amici. Essi hanno scoperto assieme che il loro culto spirituale era diretto e rivolto allo stesso Dio e al medesimo Salvatore, Gesù Cristo, nato dalla Vergine Maria. Nelle loro conversazioni, hanno compreso quello che li univa ed anche ciò che li separava. È questa esperienza di comunione fraterna che ha spinto l’autorea fare un esame sistematico delle dottrine e delle pratiche cattoliche dalla luce della Rivelazione Biblica e della Storia. Questo chiaro esame è esposto in modo molto sereno e lautore spera di non ferire alcuno, anzi è particolarmente lieto di vedere finalmente quest’opera tradotta in italiano, poiché egli ama grandemente l’Italia ed i cuoi cittadini” (Jacques Blocher).
(Giacomo Carlo Di Gaetano)
https://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.png00Giacomo Carlo Di Gaetanohttps://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.pngGiacomo Carlo Di Gaetano2020-03-29 23:14:402024-10-21 11:48:57L’approccio “identitario” al cattolicesimo (AIC)
C.S. Lewis nelle sue conferenze sulla sofferenza (The problem of pain – 1940; tr. it. Il problema della sofferenza – 1988) affermò che la sofferenza potrebbe essere considerata come una sorta di megafono con cui Dio cerca di parlare e a un mondo sordo ai suoi richiami.
Il regista Richard Attenborough, trasponendo cinematograficamente in Shadowlands (Viaggio in Inghilterra, 1983) un altro scritto dell’apologeta inglese Diario di un dolore (tr. it. 1990) in cui questi raccoglieva il suo calvario interiore per la morte della moglie Joy, metteva giustamente in contrapposizione la fulgida certezza della metafora riportata sopra con lo sconforto provato dallo scrittore dopo che quel megafono gli aveva strillato nelle orecchie, privandolo della moglie.
In quella vicenda la sofferenza era espressione di quello che i filosofi chiamano male naturale, il male come si manifesta nelle pieghe di una natura matrigna. È difficile (anche se non impossibile), in quei casi, pensare a un Dio che ti voglia parlare usando quel tipo di megafono.
La stessa condizione vivono sicuramente tutti coloro che nella pandemia che stiamo soffrendo stanno sperimentando il lutto e le separazioni (al 28 marzo, almeno in Italia, i morti sono ben 9134)!
Tuttavia la pandemia presenta un altro aspetto, non meno inquietante, del male naturale: esso è rappresentato dai miliardi di persone che, per evitare il contagio, sono costrette a vivere il distanziamento sociale; in pratica a recludersi e a immaginare il male che vaga nei dintorni della propria casa, cercando di intrufolarvisi ogni volta che si tocca una maniglia …
È pensando a questa massa enorme di donne e di uomini che è stato assemblato il libro che presentiamo dal titolo Lutero e la pandemia. La pandemia scopre la nostra fragilità di uomini minacciati da un elemento naturale che non si presenta, almeno non direttamente, con i contorni della tragedia diretta, improvvisa o deturpante come può essere un terremoto o un cancro. La scoperta della nostra fragilità avviene nel lento scorrere del tempo in quarantena, mentre i mezzi di comunicazione ci mettono al corrente dei numeri e delle notizie che rendono conto dell’ampliarsi del contagio e del restringersi dei nostri spazi vitali. In queste circostanze è possibile pensare alla sofferenza, a questo tipo di sofferenza, come a un messaggio che rintrona nelle nostre orecchie come se fosse trasmesso da un megafono, o da un altoparlante.
Dio sta parlando? Per i credenti è facile intravedere i tratti di questo discorso; lo è un po’ meno per chi credente non è. Il nostro testo vuole provare a raccogliere in uno le certezze del credente e i dubbi del non credente, rintracciando tutti i registri con i quali è possibile mettersi all’ascolto del megafono di Dio.
Queto instant book esce nel mentre l’OMS calcola che al mondo siano più di 300.000 i contagi mentre i morti arrivano a 15.000. Alcuni elementi caratterizzano il testo. Il primo è rappresentato dalla composizione: è evidente che il lbro è composto da due parti. Nella prima il fulcro è rappresentato dalla traduzione della lettera di Lutero sul comportamento dei cristiani nell’epidemia che imperversava nella seconda metà degli anni ’20 in Germania e che aveva coinvolto anche Wittenberg (Se sia lecito fuggire da una pestilenza mortale). Il testo di Lutero è preceduto da un’introduzione che ricostruisce il contesto storico e da un commento al testo medesimo da parte di uno studente di teologia ciinese della zona di Wuhan. Nella seconda parte, segnata dal sottotitolo “la fede ai tempi del coronavirus”, sono raccolti i contributi in parte pubblicati sul nostro blog del DiRS–GBU.
Il secondo elemento che caratterizza questo libro è il fattore temporale: tutti i contributi, soprattutto quelli della seconda parte, riportano la data in cui sono stati pubblicati. Scorrendoli si ottiene una sorta di time lapse dell’esperienza della pandemia che, mentre pubblichiamo, è ben lungi dal permetterci di vedere all’orizzonte la luce in fondo al tunnel.
Nel darlo alle stampe nutriamo la fiducia che, pur nell’alternanza di certezze e interrogativi, il testo possa contribuire a farci cogliere il messaggio che Qualcuno vuole forse comunicarci.
(Giacomo Carlo Di Gaetano)
https://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.png00Giacomo Carlo Di Gaetanohttps://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.pngGiacomo Carlo Di Gaetano2020-03-28 09:17:182024-10-21 11:48:57Dio sussurra nei nostri piaceri, parla nelle nostre coscienze ma grida nelle nostre sofferenze
Viviamo giorni di ansia e incertezza. Il mondo intero ha
paura. All’improvviso abbiamo preso coscienza della fragilità della
vita. Che cosa succederà domani? La fortezza nella quale l’uomo contemporaneo si credeva sicuro
è diventata debolezza, ci sono delle crepe nei pilastri e noi ci sentiamo
vulnerabili. La gente va in cerca di un messaggio di serenità e
tranquillità.
Una situazione di crisi come quella che stiamo vivendo scuote
la nostra filosofia di vita e indebolisce la nostra autosufficienza. Ci obbliga
a cercare rifugio in valori sicuri. In ambito finanziario si ricorre all’oro,
quando la borsa crolla. Qual è l’equivalente dell’”oro”, nella nostra vita? Dove
possiamo riporre la nostra fiducia? Questa è la domanda chiave.
Come cristiani crediamo che il valore rifugio per eccellenza,
“l’oro” a cui ricorrere, è la fede, la fede in Cristo. L’apostolo Pietro
scriveva «la vostra fede è ben più preziosa dell’oro» (1 Pietro 1:7). E noi lo
crediamo perché la fede cristiana risponde ai bisogni più profondi dell’essere
umano, ci dà tre grandi colonne che ci sostengono:
Bisogno di un’identità: Chi sono? Da
dove vengo?
Bisogno di uno scopo: Che cos’è la
vita? Perché sono qui?
Bisogno di una speranza: Cosa c’è
dopo la morte?
La Bibbia, la “lettera aperta” di Dio agli uomini, ci insegna
il cammino che porta alla fiducia nei momenti di crisi. Uno dei testi più
incoraggianti in questo senso è il Salmo 91, chiamato anche “L’inno
trionfale della fiducia”. Ha dato respiro e pace a milioni di persone
durante il fuoco della prova.
Probabilmente fu scritto nel bel mezzo di un’epidemia di
peste. Potrebbero essere state circostanze simili a quelle che stiamo
vivendo oggi. Quindi, il suo messaggio è particolarmente rilevante per la
nostra situazione attuale di epidemia.
Il suo messaggio di riassume in una frase: la fiducia
trionfa sulla paura. Il salmista ci presenta il “percorso” dall’ansia-paura
verso la fiducia in tre passi. In realtà sono gli stessi passi che troviamo in
una relazione d’amore:
Conosci Dio
Ama Dio
Confida in Dio
Conoscendoci ci incontriamo, e incontrandoci ci amiamo.
Succede così con la fede. La fede cristiana è una relazione d’amore che inizia
con un incontro personale con Gesù, «l’immagine (il ritratto) del Dio
invisibile» (Colossesi 1:15), e si regge sula fiducia. Vediamo questi passi:
Conosci Dio
Dio è il grande sconosciuto. Molte persone rifiutano Dio
senza sapere nulla di Lui; in realtà ciò che rifiutano è la loro idea di Dio,
un Dio frutto della loro immaginazione. Conoscere come sia Dio realmente è
un passo imprescindibile nel percorso verso la fiducia. Per questo il salmo
inizia con una illuminante descrizione del carattere di Dio:
«Chi abita al riparo dell’Altissimo riposa all’ombra
dell’Onnipotente.
Io dico al Signore: “Tu sei il mio rifugio e la mia fortezza,
il mio Dio, in cui confido!”»
(Salmo 91:1-2)
Nei due versetti iniziali si menzionano perfino quattro nomi
diversi per spiegare chi è e come è Dio. Uno straordinario ingresso nella
fiducia! Per il salmista, Dio è l’Altissimo, l’Onnipotente, il Signore (Yahweh)
e il Dio Sublime.
La conoscenza di Dio è il fondamento della nostra fiducia.
Potremmo parafrasare il proverbio e affermare “dimmi com’è il tuo Dio e ti
dirò com’è la tua fiducia”. Nel conoscerlo, il salmista sperimenta che Dio
è il suo Riparo, la sua Ombra, il suo Rifugio e la sua Fortezza.
2. Ama Dio
In secondo luogo, conoscendo, amiamo e si stabilisce una
relazione personale. Notiamo come il salmista si riferisca a Dio come il MIO
Dio, la mia speranza e il mio rifugio. L’aggettivo “mio” ci apre
una prospettiva particolare e cambia
molte cose: il Dio del salmista è un Dio personale, vicino, che interviene
nella sua vita e si preoccupa dei suoi timori e delle sue necessità.
Qui troviamo uno dei tratti più caratteristici della fede
cristiana: Dio non è soltanto l’Onnipotente, il creatore dell’Universo, ma
anche un padre intimo, l’Abba (“papà”) che mi ama e mi protegge. Questo è il
nostro grande privilegio: Dio ci tratta come un padre tratta i suoi figli
perché in Cristo siamo fatti figli adottivi di Dio. Per il cristiano, Dio
non è un “lui” lontano, ma un “tu” vicino. Per questo il salmista afferma
con una bellissima metafora:
«Egli ti coprirà con le sue penne e sotto le sue ali
troverai rifugio». (Salmo 91:4)
3. Confida in Dio
Dopo aver scoperto com’è Dio e aver posto in Lui il suo amore
(Salmo 91:14), il salmista esclama: «Il mio Dio, in cui confido» (Salmo 91:2).
L’amore e la fiducia svolgono un’azione reciproca: la fiducia è una risposta
all’amore e l’amore, a sua volta, si esprime avendo fiducia.
Il cristiano confida nella protezione di Dio espressa in tre
maniere, la tripla “C” della protezione di Dio:
Dio conosce
Dio controlla
Dio ha cura (di
me)
Il caso non è la forza che muove il mondo. La nostra vita
non è alla mercé di un virus, ma è nelle mani del Dio onnipotente. Crediamo
che nulla accada fuori dal controllo di Dio. Per questo il salmista
esclama sicuro:
«Certo egli ti libererà dal laccio del cacciatore e dalla
peste micidiale… La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Tu non temerai… né la
peste che vaga nelle tenebre, né lo sterminio che imperversa in pieno
mezzogiorno… Nessun male potrà colpirti, né piaga alcuna s’accosterà alla tua
tenda.» (Salmo 91:3-6, 10)
Lo stesso Gesù confermò questa realtà con parole piene di
sensibilità:
«Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure non ne
cade uno solo in terra senza il volere del Padre vostro. Quanto a voi, perfino
i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque; voi valete più
di molti passeri.» (Matteo 10:29-31, vedi anche Luca 12:6-7).
Come magnifico riassunto, è Dio stesso che parla alla fine
del salmo e si prende l’impegno di compiere le sue promesse:
«Poich’egli ha posto in me il suo affetto, io lo salverò; lo
proteggerò, perché conosce il mio nome. Egli m’invocherà, e io gli risponderò;
sarò con lui nei momenti difficili; lo libererò, e lo glorificherò.» (Salmo
91:14-15)
In conclusione, la fede in Cristo non è un vaccino contro
tutti i mali, bensì una garanzia di totale sicurezza, la sicurezza che «se
Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rom. 8:31). In altre parole, la
fede non garantisce l’assenza della prova, ma garantisce la vittoria sopra la
prova.
Non c’è posto per i trionfalismi, ma certamente c’è un
trionfo. È il
trionfo che la risurrezione di Cristo ci ha assicurato con la sua vittoria
sopra il male e la morte. È lo stesso Cristo che ci dice oggi:
«Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine
dell’età presente». (Matteo 28:20)
Lì è radicata la certezza della nostra fede e la fiducia che vince tutti i timori.
https://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2020/03/Rocca-Calascio_AQ.jpg36485472Giacomo Carlo Di Gaetanohttps://dirs.gbu.it/wordpress/wp-content/uploads/2017/09/Logo-DiRS-GBU-300x92.pngGiacomo Carlo Di Gaetano2020-03-27 19:27:372024-10-21 11:49:10Dalla paura alla fiducia