Zorba e la gabbianella: ricordo di uno scrittore lieve

di Valerio Bernardi

Abbiamo da poco appreso la notizia della morte per la pandemia di uno dei più importanti scrittori sudamericani: Luis Sepúlveda. L’intellettuale cileno abitava da diversi anni in Europa e si era stabilito nella regione della Asturie, forse perché le montagne e l’Oceano Atlantico più gli ricordavano la sua terra. Sepúlveda è un personaggio importante nella letteratura sudamericana, sia per la sua rappresentatività politica (è stato un esule dopo la caduta del regime di Pinochet), sia per la sua capacità letteraria (i suoi scritti sono vari e vanno dal racconto breve, al reportage biografico, al romanzo, al racconto per bambini, mostrando una notevole capacità e facilità di scrittura). Ma in queste righe non voglio discettare del suo valore come uomo e come letterato. Ci sarebbero persone che meglio saprebbero esprimere un parere.

Per me Sepúlveda significa ricordare i diversi pomeriggi passati con mia figlia piccolina a vedere il DVD tratto da quello che rimane il suo racconto più importante e famoso: La storia della gabbianella ed il gatto che le insegnò a volare. Il film animato, che consiglio a grandi e piccoli di rivedere (è sicuramente disponibile su Netflix) è stato prodotto nel 1998, l’anno in cui mia Valentina è nata. Da filoamericani quali siamo in famiglia comprammo il dvd con un qualche scetticismo, ma poi ci siamo accorti di aver acquistato un piccolo capolavoro, forse il più bel film d’animazione che un italiano abbia mai girato. Un piccolo prodigio dell’ingegno italiano, in cui Cecchi Gori e d’Alò, insieme con l’aiuto dello stesso scrittore (che in italiano doppia sé stesso), riuscirono a produrre un piccolo capolavoro.

Il cartone è stato un successo anche perché il racconto di Sepulveda è adatto (ancora oggi, dopo ormai trent’anni dalla sua stesura) per un pubblico moderno, portando avanti dei messaggi chiari in un clima sereno e non conflittuale, forse proprio perché lo stesso A., che quando scrisse la storia viveva in esilio in Germania, voleva creare questo clima. Le tematiche affrontate sono le più disparate: si va dal problema ecologico, si passa alla riconciliazione tra animali che sono in conflitto tra di loro sino al voler ripristinare, con uno sforzo quasi contro natura, l’identità di colei di cui ci si era preso cura.

Sepúlveda non era un cristiano e alcuni dei nomi presenti nel racconto lo dimostrano chiaramente: la sua simpatia per l’Illuminismo è rappresentata dal gatto che si chiama Diderot ed uno dei principali protagonisti, Zorba, prende il nome del personaggio descritto da Katzanzakis e interpretato magistralmente (ma forse anche un po’ in maniera stereotipica) da Anthony Quinn negli anni Sessanta, personaggio che rappresenta l’essenza tragica della grecità e, allo stesso tempo, dell’anarchia mistica. Nonostante questi aspetti del racconto vanno apprezzati tutta una serie di valori ed anche la serenità di chi lo scrive pur trovandosi in esilio, lontano dalla sua terra perché di fatto è dovuto scappare. Il messaggio è che i bambini devono avere sempre favole positive, dove possono, attraverso l’intreccio, imparare una “morale”:

La storia inizia con una perdita, con una certa tragicità: dopo un viaggio estenuante, a causa anche dell’inquinamento voluto dagli uomini (lo stesso porto di Amburgo, luogo dove si svolge la storia non ne è esente), la mamma della gabbianella muore ed affida colei che sta per nascere ad una comunità di gatti, naturali nemici e predatori degli uccelli, figuriamoci se non delle uova. Ma proprio perché Zorba non è un gatto convenzionale, alla fine accetta la sfida e si prende cura della piccola, allevandola come un gatto inizialmente. Ci troviamo quindi al paradosso che colei che doveva essere cacciata si comporta come i cacciatori. Ma contro la natura non si può andare e quindi la comunità dei gatti decide che bisogna insegnare alla gabbianella a spiccare il volo, perché solo così potrà raggiungere la propria identità.

Questa la sintesi (forse non delle migliori) della storia. Ho sempre pensato che far vedere a mia figlia il cartone (e comprarle in seguito anche il racconto) fosse una cosa assolutamente positiva per i valori che, senza rispettare un’agenda e senza appesantirli troppo (gli ultimi film Disney talvolta lo fanno), venivano trasmessi.

Il racconto è un’apologia della difesa del più debole: anche quando i nostri istinti vorrebbero mangiare colei che ci è di fronte dovrebbe invece prevalere l’amore. E’ un ricordo lieve e non martellante di come ci si debba prendere cura del Creato, perché i danni possono avere conseguenze irreparabili. E’ anche un inno alla solidarietà ed al cercare di rispettare il prossimo nella sua identità, tanto da andare contro la propria natura pur di rispettare quella dell’altro.

Come la storia dello scrittore cileno, nella sua semplicità e nella sua grande intuizione (riprendere in chiave moderna la tradizione della favola esopica) trasmette questi valori ai piccoli (con una certa dose di anarchismo rispetto all’autorità costituita, incarnata in tutti i personaggi), così anche noi dovremmo riflettere sulla bontà di questo prodotto letterario e del film animato che ne è stato ricavato che hanno valori positivi ed adatti anche per i credenti di questo secolo.

In un periodo di difficoltà, inoltre, la scrittura di Sepulveda, nella sua levigata leggerezza, promuove anche un valore che deve anche da noi essere portato avanti: quello della speranza. Dal gabbiano che lascia sua figlia nella speranza che le possa sopravvivere, ai gatti che agiscono contro il loro istinto naturale per salvare chi è debole, scopriamo intrecci che alludono alla costruzione di un futuro migliore e radioso, che, forse, Sepúlveda vedeva nel sole nascente del socialismo, ma che noi, facilmente possiamo vedere in messianismo diverso. Sicuramente allo scrittore cileno si potrebbe rimproverare il troppo ottimismo per i valori di questa terra ed una mancanza di sovrannaturale mai presente, ma non si può negare l’efficacia del racconto ed il veicolamento di positività in un periodo di apparente sfiducia (come è stato anche quello del suo esilio forzato). Pertanto, la mia sollecitazione è, per chi non l’abbia ancora fatto, a leggere Sepúlveda e soprattutto a leggere e guardare quello che è uno dei migliori racconti per bambini scritti nella seconda metà del XX secolo. Ora che abbiamo del tempo questo è possibile.

Guarda il trailer di La Gabbianella e il gatto

La storia e il successo del canto “Amazing Grace”

Dopo la spettacolare performance di Andrea Bocelli che ha intonato il famoso canto di John Newton nella piazza del Duomo di Milano completamente deserta, il 12 Aprile 2020, in piena epidemia, abbiamo chiesto a Massimo Rubboli, che è stato docente di Storia delle Americhe e Storia del Cristianesimo di raccontarci di questo inno.

di Massimo Rubboli

Il film Amazing Grace (2006), diretto da Michael Apted, racconta la storia dell’ex capitano di marina diventato prete anglicano John Newton (1725-1807)  e dell’influenza che ebbe sul politico evangelico William Wilberforce (1759-1833), membro del parlamento inglese (House of Commons), che dedicò la sua attività pubblica all’abolizione della tratta degli schiavi (Slave Trade Act, 1807).

 

Nella prima parte della sua vita avventurosa, Newton aveva rischiato più volte di morire; in una di queste occasioni, nel 1747, ebbe inizio la sua conversione durante una tempesta che stava per fare affondare la nave che comandava, con il suo carico di schiavi. Contrariamente a quanto si ritiene, la riscoperta della fede nella quale era stato educato dalla madre, devota puritana, non lo portò ad abbandonare subito il commercio degli schiavi, ma fece ancora tre viaggi come capitano di due navi schiaviste, la “Duke of Argyle” (1750) e la “African” (1752–53 e 1753–54)[1]. Come ebbe a scrivere più tardi, “I consider this as the beginning of my return to God, or rather of his return to me; but I cannot consider myself to have been a believer (in the full sense of the word) till a considerable time afterwards[2].

Nel 1754, in seguito ad un ictus, abbandonò i viaggi in mare e gradualmente orientò la sua vita in una nuova direzione, caratterizzata dallo studio della Scrittura e dalla preghiera. Ordinato curato nel 1764 della parrocchia anglicana di Olney, nel Buckinghamshire (e, dal 1780, rettore di StMary Woolnoth, London), creò nuovi inni da abbinare ai suoi sermoni domenicali. Anche alla sua predicazione del 1° gennaio 1773, basata sul testo di I Cronache 17: 16-17 (“16 Allora il re Davide andò a presentarsi davanti al SIGNORE, e disse: «Chi sono io, o SIGNORE, Dio, e che cos’è la mia casa, che tu m’abbia fatto arrivare fino a questo punto? 17 Questo è parso ancora poca cosa ai tuoi occhi, o Dio; e tu hai parlato anche della casa del tuo servo per un lontano avvenire, e ti sei degnato di considerare me come se fossi uomo d’alto grado, o SIGNORE, Dio”), associò un nuovo inno, “Amazing Grace”, che comunicava il grande messaggio del Vangelo: per la misericordia di Dio, ogni peccatore può ottenere il perdono e la redenzione.

Amazing Grace” sarebbe divenuto l’inno più conosciuto nel cristianesimo evangelico[3] e poi anche al di fuori delle chiese, in particolare come canto di protesta contro le ingiustizie sociali nel movimento per i diritti civili dei neri americani.

Tuttavia, l’inno non può essere considerato – se non indirettamente – come una denuncia della schiavitù, perché fu soltanto nel 1788 che Newton prese pubblicamente posizione contro la tratta degli schiavi con l’opuscolo Thoughts upon the African Slave Trade, ammettendo che si trattava di “una confessione pubblica che, per quanto sincera, arriva[va] troppo tardi per prevenire e riparare l’infelicità e il danno a cui ho contribuito. Per me, sarà sempre motivo di riflessione umiliante l’avere un tempo partecipato attivamente a un traffico che ora fa rabbrividire il mio cuore”[4].

La straodinaria diffusione di questo inno è legata sia a riferimenti letterari (ad esempio, nel romanzo antischiavista di Harriet Beecher Stowe, Uncle Tom’s Cabin, del 1852) sia alla sua esecuzione da parte di artisti famosi, come Judy Collins, Ray Charles, Johnny Cash e Elvis Presley.

 Una versione, resa famosa dalle cantanti Mahalia Jackson e Aretha Franklin[5], ha indotto molti – ancora oggi – a considerarlo un canto nato nella tradizione gospel americana. Un’altra versione molto famosa è quella per cornamuse e tamburi lanciata all’inizio degli anni Settanta dal reggimento dell’esercito britannico, Royal Scots Dragoon Guards. Inoltre, nel campo musicale non religioso, si colloca il musical di Broadway del 2015.

Infine, vale la pena ricordare la commovente interpretazione del presidente Barack Obama che cantò “Amazing Grace” il 26 giugno 2015, durante il servizio funebre in ricordo del pastore Clementa C. Pinckney, membro democratico del senato della South Carolina, che era stato ucciso una settimana prima da un attacco razzista mentre guidava uno studio biblico serale nella chiesa metodista episcopale di Charleston, South Carolina[6].


[1] DUKE OF ARGYLE and AFRICAN slave ships. Journal kept by John Newton, Master and slave trader comprising of three voyages on in the DUKE OF ARGYLLE and two in the AFRICAN, 1750-1754. Diario manoscritto conservato nel National Maritime Museum, Greenwich (London).

[2] Lettera del 20 gennaio1763, in The Works of the Rev. John Newton, vol. 1, Uriah Hunt, Philadephia 1839, p. 99. Cit. anche in D. Bruce Hindmarsh, John Newton and the English Evangelical Tradition, Wm. B. Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids, MI 2001, pp. 32-3.

[3] Steve Turner, Amazing Grace: The Story of America’s Most Beloved Song, HarperCollins, New York 2002.

[4] John Newton, Thoughts upon the African Slave Trade, J. Buckland, London 1787, p. 2: “a public confession, which, however sincere, comes too late to prevent, or repair, the misery and mischief to which I have, formerly, been accessary. I hope it will always be a subject of humiliating reflection to me, that I was once an active instrument in a business at which my heart now shudders”.

[5] La più famosa interpretazione di “Amazing Grace” da parte di Aretha Franklin si può ascoltare nel film documentario, realizzato da Sydney Pollack, del concerto tenuto dalla Franklin alla New Temple Missionary Baptist Church di Los Angeles nel 1972.

[6] https://youtu.be/IN05jVNBs64 o https://www.youtube.com/watch?v=7pbEBxQPWGc.

Andrea Bocelli sul sagrato del Duomo prima del concerto di Pasqua in diretta streaming per l’emergenza coronavirus Covid-19, Milano 12 Aprile 2020Ansa/Matteo Corner

Qu il link tratto dalla pagina FB dell’artista: Amazing Grace

C’è speranza per la creazione?

di Las G. Newman

Nel 2010 un professore dell’Istituto di economia e diritto dell’Università della Pennsylvania ha studiato a fondo il problema del riscaldamento globale, una tesi portata avanti da quello che ha definito “l’establishment climatico”, con a capo l’Inter–Governmental Panel on Climate Change (IPCC). Ha accusato l’IPCC e “l’establishment climatico” di mostrare “una tendenza sistematica … a sovrastimare ciò che è effettivamente noto sui cambiamenti climatici, nascondendo al contempo incertezze fondamentali e interrogativi concernenti molti processi chiave coinvolti nei cambiamenti climatici”[1], finendo per sostenere che “praticamente tutte le affermazioni avanzate dai sostenitori del riscaldamento globale non riescono a superare un esame accurato” [2]

Tali opinioni non erano isolate. Poco prima della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Cancun, in Messico, nel 2010, un report specialistico, il cosiddetto “Consensus Buster”, sosteneva che “Più di 1000 scienziati internazionali dissentono sulle affermazioni relative al riscaldamento globale dovuto all’uomo”. Il dossier di 321 pagine avrebbe dovuto “raffreddare ulteriormente gli animi durante il vertice delle Nazioni Unite”. Gli scettici e i negazionisti relativii al clima che hanno redatto il report sostennero che i rapporti dell’IPCC avessero: (a) distorto le prove scientifiche, (b) indotto una sorta di “paura per il clima” e (c) causato uno scandalo nella comunità scientifiche che studiano il clima, scandalo definito “Climategate”.[3]

ECCEZIONALE EVIDENZA SCIENTIFICA
Ora, un decennio dopo, il mondo è allarmato per le schiaccianti prove scientifiche e per l’evidente realtà del riscaldamento globale. È stata dichiarata una “emergenza climatica”. La prova di significative perturbazioni ambientali è ovunque.

• Il 97% degli scienziati mondiali ora concorda sul fatto che il pianeta terra, la sua superficie terrestre, i suoi cieli e gli oceani si stiano riscaldando rapidamente e pericolosamente a un ritmo più veloce del normale.

• Fenomeni quali eventi meteorologici estremi si verificano più frequentemente e con maggiore intensità, provocando inondazioni più distruttive, siccità prolungate, incendi violenti ed estesi, etc.

• L’aumento dell’impatto ambientale derivante dalla crescita della popolazione, dall’urbanizzazione, dall’industrializzazione, dal consumo di energia e dalle emissioni di carbonio, influisce sulla qualità dell’aria, aumenta i rischi di pandemie sulla salute pubblica e minaccia la perdita della biodiversità.

• La scomparsa delle foreste pluviali e la diminuzione della produzione agricola globale hanno aumentato i timori di carenze alimentari globali e aumentano i flussi di rifugiati climatici. Nessuna comunità è al sicuro dalle conseguenze del cambiamento climatico.

DOVREMMO DISPERARE?
A mio avviso, il dibattito sullo stato della terra e sul futuro dell’ambiente sta causando una certa disperazione. Abbondano gli interrogativi. L’attuale vulnerabilità della terra è causata da forze naturali o antropogeniche? La crisi ecologica globale è ciclica, irreversibile e irreparabile? La nostra civiltà, come la conosciamo, è sull’orlo dell’estinzione?[4] Esiste una volontà politica e morale per combattere l’imminente e inevitabile disastro che ci si para di fronte? C’è ancora speranza per la creazione?

Dal punto di vista della Scrittura e della visione biblica del mondo la risposta è decisamente sì, c’è speranza. La speranza cristiana è radicata nel Dio che è il proprietario del pianeta e del mandato biblico per la cura della creazione e per la responsabilità umana. Questa prospettiva ci aiuta ad evitare il fatalismo cristiano, il quale suggerisce che non possiamo fare nulla per evitare o superare la schiacciante sfida posta dal riscaldamento globale e dai cambiamenti climatici.

CHE COSA SIGNIFICA PRENDERSI CURA DELLA CREAZIONE?
Dal mio punto di vista, prendersi cura della creazione equivale a prendere consapevolezza, analizzare e agire verso tutto il mondo che ci circonda. Ciò include l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo, i vestiti che indossiamo, la casa in cui viviamo, il mezzo di trasporto che utilizziamo, etc. Dovremmo prestare attenzione a tutto ciò che nel nostro spazio sostiene la vita e la salute. Gesù ha richiamato l’attenzione sulla creazione come lezione obiettiva sulla vita, la libertà e la ricerca della felicità. “Guardate gli uccelli del cielo e i fiori dei campi” disse Gesù, “non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro?” (Mt 6:26). Dio si prende cura di tutto nella sua creazione, sia esso umano e non umano.

Un promemoria della cura di Dio per la creazione si trova nelle parole di questo inno:

Questo è il mondo di mio Padre,
Gli uccelli innalzano i loro canti,
La luce del mattino, il bianco giglio,
dichiarano le lodi del loro creatore.
Questo è il mondo di mio padre,
Risplende in tutto ciò che è giusto;
Nell’erba frusciante lo sento passare;
Egli mi parla da ogni dove.[5]

Il salmista attira l’attenzione anche sulla creazione come strumento e processo di consapevolezza: “Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, 4 che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi?” (Sal 8:3-4).

Essere consapevoli della creazione implica non solamente esserne curiosi. Significa porre attenzione agli standard ambientali stabiliti dalla comunità in cui viviamo. Tutti i cittadini dovrebbero sapere cosa ci si aspetta da loro, in quanto tali, mentre abitano e condividono lo spazio comune. Siamo davvero consapevoli di quali siano le leggi relative ai rifiuti, come gestirli, come prenderci cura degli spazi comuni, dei nostri parchi, delle spiagge, dei percorsi naturalistici, dei pendii montani e delle aree appositamente protette? Essere consapevoli significa conoscere anche gli accordi politici globali che mirano a proteggere il pianeta terra e la casa che tutti condividiamo. Ad esempio, sapete cos’è l’accordo di Parigi del 2015, concordato da 194 paesi membri delle Nazioni Unite?[6]

Una cosa è essere osservatori ed essere consapevoli. Un’altra è conoscere i fatti e analizzarli. Gli scettici e i negazionisti sui cambiamenti climatici dichiarano di essere agnostici riguardo a fatti su cui concordano la maggior parte degli scienziati. “Nessuno lo sa davvero”, dicono.[7]

Non possiamo ignorare le prove lampanti relative al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici. Se lo facciamo, è a nostro rischio e pericolo. La realtà richiede un’azione immediata, capacità di adattamento, mitigazione, conservazione, preservazione e prevenzione degli abusi e del degrado ambientale. L’integrità del pianeta rivendica giustizia. Fare giustizia richiede un’azione, incluso la difesa dell’ambiente, la sua protezione e il perseguimento dei crimini ambientali come l’ampia e sfrenata distruzione della foresta pluviale amazzonica.[8]

PERCHÉ DOVREMMO PREOCCUPARCENE?
I cristiani hanno a cuore l’ambiente per tre motivi principali:

UBBIDIENZA A CRISTO
Gesù disse: “Se voi mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14:15). L’ubbidienza a Cristo è fondamentale per la nostra etica cristiana. Come sottolinea Chris Wright, “distruggere la proprietà di qualcun altro è incompatibile con qualsiasi pretesa di amare quella persona”[9]. Come afferma “l’Impegno di Città del Capo”, “Ci interessiamo della terra, dunque, per la semplice ragione che appartiene a colui che chiamiamo Signore”.[10]

UN VANGELO DA PROCLAMARE
Il Vangelo è per l’intera creazione, umana e non umana. L’intera creazione “geme” e brama la redenzione (Rom 8:18–22). In Cristo, “è piaciutoal Padre di far abitare [in lui] tutta la pienezza e di riconciliare con sé tutte le cose per mezzo di lui, avendo fatto la pace mediante il sangue della sua croce; per mezzo di lui, dico, tanto le cose che sono sulla terra, quanto quelle che sono nei cieli.” (Col. 1:19–20).

UN DONO DA CUSTODIRE
L’Impegno di Città del Capo offre una guida chiara su quale sia la responsabilità cristiana nei confronti dell’ambiente. “Un tale amore per la creazione di Dio esige che ci ravvediamo per la parte che abbiamo avuto nella distruzione, nello spreco e nell’in­quinamento delle risorse della terra e per la nostra collusione con l’idolatria tossica del consumismo. Al contrario, ci impegniamo in una pressante e profetica responsabilità ecologica”.[11] “Pressante e profetica responsabilità” significa intraprendere azioni coraggiose e decisive per salvaguardare il benessere dell’ambiente senza tener conto degli interessi acquisiti e delle forze economiche che si confrontano. Le azioni profetiche e audaci nell’attuale crisi ecologica globale rivelerebbero quanto amiamo e onoriamo il Signore della creazione.

PRENDERSI CURA DELLA CREAZIONE SI ADATTA ALLA MISSIONE EVANGELICA?
La cura della creazione si adatta perfettamente alla missione di Dio. Come Creatore del cielo e della terra, Dio stabilisce la sua creazione per rivelare chi è, per offrirre mezzi di lode e per dichiarare la sua gloria fino ai “confini della terra”, in modo che la terra sia piena della conoscenza della gloria del Signore “come le acque coprono il fondo del mare” (Ab 2:14).

Le missioni evangeliche hanno un ruolo fondamentale da svolgere nella cura della creazione. Come le missioni mediche o la Missionary Aviation Fellowship, l’assistenza alla creazione è cruciale. La portata della crisi ambientale globale è enorme e multi–dimensionale. Colpisce la popolazione mondiale che ora supera i sette miliardi di persone. Ecco perché quando oltre 4.200 leader evangelici provenienti da 198 paesi si sono riuniti a Città del Capo, in Sudafrica, nel 2010, per il Terzo Congresso di Losanna, l’attenzione per la creazione era in cima all’agenda. La prima Consultazione, dopo Città del Capo, è stata su Creation Care and the Gospel, e io ero tra i suoi organizzatori. Tale assemblea, svoltasi in Giamaica nel 2012, ha attirato 57 partecipanti da 26 paesi diversi quali India, Argentina, Bangladesh, Benin, Kenya, Uganda, Singapore, Regno Unito, Stati Uniti e Canada. Le risoluzioni, note come Jamaica Call to Action[12], hanno dato vita al Creation Care Network molto attivo che sta attualmente conducendo una campagna globale a favore della cura della creazione.

COSA POSSIAMO FARE?
Come singoli studenti, docenti, personale e laureati, insieme alle nostre comunità e organizzazioni, possiamo fare molto per fronteggiare la sfida ecologica attuale e futura che abbiamo dinanzi. Ecco ciò che possiamo fare.

1. Prenderci cura della vegetazione che ci circonda. Cogliamo ogni occasione per piantare un albero.
2. Creare o partecipare ad associazioni ambientaliste locali, nell’università o nella comunità.
3. Diventare ambientalisti (se non lo siamo già). Risparmiare energia, acqua, rifiuti alimentari, salvaguardare foreste, oceani e altro.
4. Ridurre le spese energetiche. Cercare fonti di energia alternative. Utilizzare l’innovazione tecnologica per nuovi combustibili, elettricità, etc. Eliminare la dipendenza dai combustibili fossili.
5. Smettere di sporcare lo spazio con la spazzatura. Pianificare attentamente lo smaltimento dei rifiuti. Sostenere il divieto di utilizzo della plastica.
6. Lottare contro la deforestazione. Sostenere la protezione e la conservazione delle nostre montagne, fiumi, bacini idrici, zone umide, barriere coralline, coste e spazi verdi.
7. Sostenere eventi di educazione ecologica e le campagne d’azione (ad es. per il divieto di incendi boschivi, un migliore smaltimento dei rifiuti, l’immissione di nuovi alberi, la protezione della fauna selvatica).
8. Preoccuparsi della sicurezza alimentare per chi ne ha bisogno. L’UNFAO avverte di gravi carenze alimentari causate da prezzi del carburante, siccità, inondazioni, nuovi fenomeni meteorologici violenti ed estremi.
9. Promuovere insediamenti umani adeguati e una migliore politica di accoglienza. (Evitare spartiacque, corsi d’acqua, terre paludose e ambienti vulnerabili e fragili.)
10. Sostenere e garantire un trasporto pubblico che dimezzi le emissioni di CO2, migliorarne l’efficienza, migliorare la qualità dell’aria e creare ambienti pubblici più sani.
11. Sostenere i progetti di lotta alla povertà (ad es. per l’acqua potabile, la microimpresa e l’aumento di posti di lavoro).
12. Garantire che l’ambiente, la casa, la chiesa, il posto di lavoro, la comunità vissuta, sia “verde”, efficiente dal punto di vista energetico, salutare per la vita.
13. Partecipare al dibattito su “sviluppo economico vs la protezione dell’ambiente”, dibattito emerso nel vertice Mondiale di Rio del 1992. Cercare di comprenderne i problemi.
14. Assicurarsi che i leader locali e i responsabili delle politiche comprendano i problemi.
15. Accertarsi che tutti capiscano l’urgente bisogno di un’economia con basso consumo di carbone  e di una società più sana, grazie alla riduzione delle emissioni di CO2 e di altri gas a effetto serra.

CONCLUSIONE
In questo momento di emergenza climatica, tutti devono prestare attenzione e agire. Non dobbiamo rifiutare la scienza, in particolare la scienza climatica, senza un’attenta valutazione di grandi dati scientifici globali sottoposti a revisione paritaria. Rifiutiamo le cosiddette “prove alternative” di dubbio valore scientifico che non sono altro che forme mascherate di ideologia politica o opportunità economica. C’è troppo in ballo. L’umanità sta soffrendo. La speranza è necessaria.

Leggiamo le Scritture con un’ottica ecologica. Le Scritture insegnano tanto riguardo alla cura dell’ambiente e alla responsabilità umana. Unisciti al movimento per la cura della creazione. Mentre Dio opera attraverso di noi, aiutiamo a salvare il nostro pianeta e a salvare vite umane.

DOMANDE PER LA DISCUSSIONE
1. Prega o canta il Salmo 8. Quale atteggiamento nei confronti di Dio e della creazione di Dio ti suggerisce questo Salmo?
2. Leggi Jamaica Call to Action. Cosa ti piace di più? Quali azioni puoi sostenere?
3. Guarda l’elenco di “Cosa possiamo fare?” Che cosa farai, come credente e come studente, per prenderti cura della creazione?

Ulteriori letture

  • Bell, Colin. Creation Care and the Gospel: Reconsidering the Mission of the Church. Peabody, Mass.: Hendrickson, 2016.
  • Bloomberg, Michael, and Carl Pope. Climate of Hope: How Cities, Businesses, and Citizens Can Save the Planet. New York: St. Martin’s Press, 2018.
  • Brown, Edward R. Our Father’s World: Mobilizing the Church to Care for Creation. 2nd ed. Downers Grove, Ill.: IVP Books, 2008.
  • “Creation Care and the Gospel: Jamaica Call to Action.” St. Ann, Jamaica: The Lausanne Movement, 2012. https://www.lausanne.org/content/statement/creation-care-call-to- action.
  • “El Cuidado de la Creación y el Evangelio: Llamado a la Acción.” Santa Ana, Jamaica: El Movimiento de Lausana, 2012. https://www.lausanne.org/es/declaracion-de-la- consulta/cuidado-de-la-creacion-llamado-a-la-accion.
  • “Évangile et Protection de l’environnement : Appel à l’Action.” St. Ann, Jamaïque: Le Mouvement de Lausanne, 2012. https://www.lausanne.org/fr/mediatheque/compte- rendu-de-consultation/evangile-et-protection-de-lenvironnement-appel-a-laction.
  • “Global Warming of 1.5oC.” United Nations Intergovernmental Panel on Climate Change, 2018. https://www.ipcc.ch/sr15/.
  • Hescox, Mitch, and Paul Douglas. Caring for Creation: The Evangelical’s Guide to Climate Change and a Healthy Environment. Minneapolis: Bethany House, 2016.
  • “The Cape Town Commitment.” The Lausanne Movement, 2011. https://www.lausanne.org/content/ctc/ctcommitment.
  • Wright, Christopher J. H. The Mission of God: Unlocking the Bible’s Grand Narrative. Nottingham: InterVarsity Press, 2006.

Las G Newman è stato Associate General Secretary di IFES (International Fellowship of Evangelical Students). Ora è Global Associate Director for Regions del Movimento di Losanna. Vive in (lasnwmn@gmail.com.)

Questo articolo è tratto da Word & World (Issue 8, January 2020) – Tradotto e pubblicato con permesso (ifesworld.org/journal)


[1] Jason Johnston, ‘Global Warming Advocacy Science: A Cross Examination’, Faculty Scholarship at Penn Law 315 (2010): 1, https://scholarship.law.upenn.edu/faculty_scholarship/315.

[2] Lawrence Solomon, ‘Legal Verdict: Manmade Global Warming Science Doesn’t Withstand Scrutiny’, Financial Post, 6 June 2010, https://business.financialpost.com/opinion/legal-verdict- manmade-global-warming-science-doesnt-withstand-scrutiny.

[3] ‘More than 1000 International Scientists Dissent over Man-Made Global Warming Claims: Scientists Continue to Debunk Fading “Consensus” in 2008 & 2009 & 2010’ (Climate Depot, 8 December 2010), https://www.climatedepot.com/2010/12/08/special-report-more-than-1000- international-scientists-dissent-over-manmade-global-warming-claims-challenge-un-ipcc-gore-2/.

[4] Guardian Launches New Series The Age of Extinction’, The Guardian, 18 September 2019, https://www.theguardian.com/gnm-press-office/2019/sep/18/guardian-launches-new-series-the- age-of-extinction.

[5] Maltbie Davenport Babcock, 1901.

[6] ‘The Paris Agreement’ (United Nations Framework Convention on Climate Change, 2015),

https://unfccc.int/process-and-meetings/the-paris-agreement/the-paris-agreement.

[7] Carline Kenny, ‘Trump: ‘Nobody really knows’ if climate change is real,’ CNN.com, December 12,

2016, http://www.cnn.com/2016/12/11/politics/donald-trump-climate-change-interview/.

[8] Tom Phillips, ‘Chaos, Chaos, Chaos’: a journey through Bolsonaro’s Amazon Inferno’. The Guardian, September 9, 2019, https://www.theguardian.com/environment/2019/sep/09/amazon-fires-brazil- rainforest.

[9] Christopher J. H. Wright, The Mission of God: Unlocking the Bible’s Grand Narrative (Nottingham: InterVarsity Press, 2006), 414.

[10] L’Impegno di Città del Capo, Part 1, 7a, Edizioni GBU, p. 31 (https://www.lausanne.org/content/ctc/ctcommitment).

[11] Ibid.

[12] ‘Creation Care and the Gospel: Jamaica Call to Action’ (St. Ann, Jamaica: The Lausanne

Movement, 2012), https://www.lausanne.org/content/statement/creation-care-call-to-action.

Dio ha creato virus e batteri che possono rivelarsi letali per l’uomo?

di Luca Basta

Gran parte della popolazione mondiale è alle strette per il rapido diffondersi della malattia respiratoria acuta da SARS-CoV-2 (o semplicemente COVID-19). In mezzo alle difficoltà e alla sofferenza che il contagio sta causando, questa domanda sorge naturale.

Dio ha creato i virus, come parte di una creazione buona e perfetta

I virus sono fondamentali per l’abbondanza e la diffusione della vita che vediamo sulla terra. Infatti, sappiamo bene che la vita di ogni complesso organismo multicellulare, dipende dalla convivenza con un’altra forma di vita molto semplice: i batteri. E questi devono essere costantemente presenti in una certo numero equilibrato e una diversità ottimale. Una funzione estremamente benefica dei virus è quella di mantenere la popolazione batterica sotto controllo. Senza l’azione di frammentazione e uccisione dei batteri da parte dei virus, che avviene costantemente al giusto rate e nelle giuste condizioni, il nostro pianeta sarebbe un informe ammasso di batteri, che consumerebbero tutte le risorse essenziali per la vita (prima di morire essi stessi).

Virus e batteri sono anche parte delciclo dell’acqua, che molti ricordiamo dalle scuole elementari. L’avanzato livello di globalizzazione dell’umanità sarebbe impossibile senza che il ciclo dell’acqua provvedesse abbondanti e costanti precipitazioni. Ma pioggia, nebbia, neve, grandine e nevischio, ogni tipo di precipitazione, richiede un microscopico “seed”, un centro di nucleazione, per formarsi. E nella maggior parte delle situazioni, i nuclei più importanti sono proprio virus e frammenti di batteri distrutti dai virus. Il vento porta questi nuclei in atmosfera, dove intorno ad essi si formano dei piccoli cristalli di ghiaccio. L’acqua liquida poi si aggrega nel cristallo, e questi cristalli diventano pioggia, neve, o altro. Anche granelli di polvere o fuliggine possono fungere da nuclei, ma virus e batteri ne permettono la formazione già ad una temperatura più alta. Dovendo contare solo sul particolato (senza virus) non avremmo sufficienti precipitazioni per sostenere la nostra agricoltura e perciò la nostra civilizzazione.

Infine, virus e batteri sono fonte di carbonio, che è la sostanza alla base di ogni struttura organica, e quindi della vita sulla terra. Precipitando (come visto prima) virus e batteri si raccolgono sulla superficie degli oceani, per poi lentamente scendere nelle profondità marine. Mentre affondano, sono una fondamentale fonte di nutrienti sia per la vita nelle profondità oceaniche che per la vita dei fondali acquatici (alghe, molluschi, artropodi, ecc..). Infine il movimento delle placche tettoniche sottomarine porta la maggior parte di questa sostanza carboniosa nella crosta e nel mantello terrestre, per tornare in atmosfera tramite violente eruzioni vulcaniche. Questo ciclo permette quindi sia la attuale diversità animale che il bilanciamento di anidride carbonica e metano in atmosfera, indispensabile per la vita.

Possiamo veramente lodare Dio per la bellezza della Sua creazione (SALMO 104:13 – “Egli [Dio] annaffia i monti dall’alto delle sue stanze; la terra è saziata con il frutto delle tue opere”) e comprendere perché Dio stesso la veda buona (GENESI 1:31 – “Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono”).

Virus e batteri letali sono una conseguenza della caduta dell’uomo, del peccato

Se solo avessimo sempre seguito le indicazioni di igiene e salute elencate nell’Antico Testamento, molto probabilmente non avremmo mai dovuto combattere contro virus come l’HIV, la SARS-1, il MERS, ed infine la SARS-CoV-2 (responsabile della COVID-19). Questi infatti sono tutti virus presenti solo negli animali, che hanno poi “saltato” dalla loro specie di origine all’uomo. Questi salti sono molto più probabili in presenza di una densità di popolazione esagerata e/o la presenza di animali selvatici a stretto contatto con addensamenti di popolazione. Più siamo addensati, più aumenta lo stress sia dell’uomo che degli animali, e più aumentano le possibilità che un virus potenzialmente benigno possa mutare in un virus letale per l’uomo. Per prevenire una pandemia di questo genere dovremmo drasticamente cambiare il modo in cui gestiamo e commerciamo i nostri animali domestici, per minimizzare il loro stress, il loro sovraffollamento e il contatto con addensamenti umani. Allo stesso tempo minimizzare lo stress e massimizzare la salute, il benessere fisico e l’igiene dell’uomo, specialmente tra i poveri, è estremamente importante. Dio ci ha originariamente posti nel giardino dell’Eden come curatori della Sua perfetta creazione, per averne cura e farla prosperare (GENESI 1-2), non per abusarne e sfruttarla all’estremo come stiamo facendo da secoli.

Un esempio di come l’uomo non abbia prestato attenzione al suo ruolo di curatore della natura lo ritroviamo nelle zanzare. Si stima che le zanzare nell’antichità occupassero solo il 10% della superficie terrestre, pulendola dai detriti organici (escrementi degli animali di piccola taglia) e provvedendo nutrimento per molte specie acquatiche di acqua dolce. Poi, l’addomesticamento e il conseguente sovraffollamento degli animali, insieme alla massiccia deforestazione, alla capillare irrigazione e al recente riscaldamento globale, hanno portato alla proliferazione delle zanzare, e delle relative malattie trasmissibili. Ora le zanzare occupano il 99% della superficie terrestre.

Inoltre, a causa del peccato dell’uomo, l’intera Creazione è stata maledetta (GENESI 3:17-19 – “il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno tutti i giorni della tua vita. Esso ti produrrà spine e rovi, e tu mangerai l’erba dei campi; mangerai il pane con il sudore del tuo volto”) e la morte e la rovina, la degradazione degli esseri viventi ha avuto inizio (ROMANI 5:12 “Perciò, come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte, e così la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato”)[a]. Calvino scrive: “Prima della caduta il mondo era la migliore immagine possibile del delizioso divino favore paterno di Dio verso l’uomo. Ora, in ogni elemento, percepiamo la maledizione conseguente al peccato. […] Perciò, possiamo dedurre, che la corruzione deriva dal peccato.” E le osservazioni scientifiche a riguardo sono perfettamente consistenti con il concetto che molte infezioni sono il prodotto di cellule sane che si sono rotte e degradate. Queste imperfezioni biologiche non sono un’evidenza contro l’esistenza di un Creatore, quanto piuttosto supportano l’affermazione biblica che il peccato dell’uomo abbia causato l’inizio della degradazione della Creazione.

Alcuni esempi sono i batteri Vibrio e Bacillus anthracis. I batteri Vibrio, alcuni dei quali responsabili del colera, producono molecole che interagiscono specificatamente con l’epitelio (la pelle) di pesci e calamari permettendo la bioluminescenza di cui hanno bisogno per cacciare e nutrirsi. Le proteine dei batteri Vibrio diventano fattori virulenti solo in ambienti per loro inappropriati come il corpo umano. L’antrace è un’infezione acuta causata dal batterio Bacillus anthracis. Tutti i ceppi virulenti del B. anthracis presentano due plasmidi[b]: uno, il pXO1, è portatore del gene necessario alla produzione della tossina causa dell’antrace, l’altro, il pXO2, contiene i geni necessari per incapsulare il batterio e permettergli di entrare nell’organismo umano. Senza questi plasmidi il B. anthracis sarebbe inoffensivo e indistinguibile dagli altri ceppi non virulenti. La sequenza del plasmide pXO1 è stata pubblicata nel 1999 e si è rivelata essere circa 400 nucleotidi più corta della media dei geni di un cromosoma. Questo ed altri dettagli scoperti nel genoma sono consistenti con un danneggiamento a causa di una puntuale mutazione degradante, che ha reso un innocuo batterio un killer inarrestabile.

Anche la Natura sarà redenta in Cristo

Anche nel buio di questa triste realtà, però, brilla una speranza che non può essere sopraffatta neppure dal peccato né dalla morte. La Bibbia afferma che in Cristo, esattamente come noi, anche la Natura sarà redenta. Il suo carattere perfetto e buono sarà ripristinato. E resterà stabile in eterno, nelle mani del suo Creatore.

«Infatti, i nuovi cieli e la nuova terra che io sto per creare
rimarranno stabili davanti a me», dice il SIGNORE
ISAIA 66:22

Note

[a] Alcune interpretazioni vedono la morte degli animali e delle piante fondamentale per il giusto equilibrio della Creazione, già prima della caduta, e questi passi si riferirebbero alla morte spirituale dell’uomo. Anche in questo caso, a mio parere, rimane consistente affermare che la degradazione dovuta alla corruzione dell’informazione genetica sia il risultato della corruzione conseguente al peccato, e non già parte di una buona e perfetta Creazione originale (Si veda in proposito H. Blocher, La creazione, l’inizio della Genesi, Edizioni GBU, 1984.

[b] I plasmidi sono piccoli filamenti circolari di DNA capaci di replicarsi in modo indipendente dal cromosoma principale del batterio. Essi sono estremamente utili: alcuni ceppi di Pseudomonas presentano plasmidi che producono geni necessari per il metabolismo del toluene e altre sostanze chimiche tossiche, favorendo in tal modo la bonifica di ambienti inquinati. Le specie di Rhizobia presentano plasmidi che permettono ai batteri di vivere in simbiosi con legumi come piselli e fagioli, provvedendo una tale abbondanza d azoto alle piante ospiti, che queste lo depositano nel suolo, a disposizione di altre specie vegetali, favorendone la crescita.

Riferimenti

K. Deyoung – The Coronavirus Is a Result of the Fall. https://www.thegospelcoalition.org/blogs/kevin-deyoung/the-coronavirus-is-a-result-of-the-fall/
H. Ross – Viruses and God’s Good Designs. https://reasons.org/explore/blogs/todays-new-reason-to-believe/read/todays-new-reason-to-believe/2020/03/30/viruses-and-god-s-good-designs?fbclid=IwAR2G5Tifuz0pm3NnVKpQ2kcm32xvysUoNi6Nj_Ck7JKz2SeqWuWNp8HhtlQ
F. Rana – Viruses and God’s Providence Revisited. https://reasons.org/explore/blogs/todays-new-reason-to-believe/read/tnrtb/2009/11/26/viruses-and-god’s-providence-revisited
B. Thomas – Where Did Flesh-eating Bacteria Come From? https://www.icr.org/article/where-did-flesh-eating-bacteria-come-from/
T.C. Wood – The Terror of Anthrax in a Degrading Creation. https://www.icr.org/article/312/
T.C. Winegard – The Mosquito: A Human History of Our Deadliest Predator. https://www.vox.com/the-highlight/2019/8/13/20754834/mosquitoes-blood-type-zika-dengue
C.S. Lewis – La mano nuda di Dio. Uno studio preliminare sui miracoli, Edizioni GBU, 1987.

Luca Basta è laureato in Fisica della Materia presso l’Università di Pisa. Ora sta completando il suo Perfezionamento (Dottorato di ricerca) in Nanoscienze presso la Scuola Normale Superiore; è anche uno dei coordinatori GBU di Pisa.

La Speranza e la Pazienza si abbracciano

Sprazzi di eternità

«Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Osservate come l’agricoltore aspetta il frutto prezioso della terra pazientando… .Siate pazienti anche    voi; fortificate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina.»
(Giacomo 5:7-8)

Al giorno d’oggi milioni di persone si trovano confinate nelle proprie case, imparando ad aspettare e sperare. E, purtroppo, parecchi piangono la perdita dei loro cari, senza nemmeno averli potuti salutare. Il cammino della sofferenza, già di per sé stesso lungo e difficile, diventa ancora più duro in queste circostanze. “Ho bisogno di aggrapparmi ad una buona notizia”, mi diceva un giovane sopraffatto dalla situazione. Dove trovarla?

La parola di Dio è un unguento che cura le ferite ed è fonte di forza nel dolore. Risponde in modo illuminante a due domande chiave nel tempo dell’attesa: come dobbiamo aspettare, e che cosa ?

Due parole ci danno la risposta: pazienza e speranza. Entrambe sono il nostro bagaglio imprescindibile per passare attraverso questo arduo cammino. Dobbiamo trasformare i momenti di attesa in momenti di speranza e di pazienza. Allora scopriremo che Dio può trasformare le nostre avversità in opportunità.

LE DUE BRACCIA DELLA PAZIENZA

L’idea di pazienza nella Bibbia è così preziosa che richiede due parole complementari. Equivalgono alle due braccia di una persona.

  • Perseveranza: persistere
  • Forza d’animo: resistere

La Pazienza è perseveranza: Persistere

«Anche noi, dunque…corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo su Gesù» (Ebrei 12:1-2)

Il primo braccio della pazienza ci fa perseverare. È l’attitudine che ci porta a persistere fino alla fine in una situazione o in un progetto. Naturalmente, più è difficile la situazione, più ci sarà bisogno di perseveranza.

Questa virtù, propria di una persona matura, permette di affrontare le avversità con l’animo dell’atleta che corre la maratona. È in questo senso che l’autore di Ebrei ci esorta a correre con perseveranza la gara «affinché non vi stanchiate perdendovi d’animo» (Ebrei 12:3).

Questo tipo di pazienza fu uno dei tratti distintivi del carattere di Cristo. Per questo l’autore aggiunge: «fissando lo sguardo su Gesù…» (Ebrei 12:2). La pazienza lo portò a «rendere la sua faccia dura come la pietra» (Luca 9:51, Isaia 50:7) e gli permise di arrivare alla meta proposta, la Croce, anche attraverso la sofferenza più estrema. Che grande consolazione ricevere il conforto di Colui che «è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato!» (Ebrei 4:15).

Perseverare è già vincere. Come Paolo ai Tessalonicesi preghiamo che «il Signore diriga i vostri cuori all’amore di Dio e alla paziente attesa di Cristo». (2 Tessalonicesi 3:5)

La Pazienza è forza d’animo: Resistere

«Il frutto dello Spirito invece è… pazienza» (Galati 5:22)

Il secondo braccio della pazienza è chiaramente soprannaturale, una parte del frutto dello Spirito. Non è umano, è divino. La parola usata nell’originale è attiva e positiva, molto lontana dall’idea stoica di pazienza. Letteralmente significa “grande animo”. Allude a uno spirito forte, resistente, che permane fermo nelle avversità. Questa pazienza non si arrende, non cede davanti alle circostanze difficili. È il contrario di una persona codarda, pusillanime, che “si perde in un bicchier d’acqua”.

L’idea biblica si allontana molto dal concetto popolare di pazienza. “Che cosa possiamo farci? Non possiamo far niente, quindi pazienza.” È un atteggiamento di rassegnazione davanti all’impotenza, un conformismo che nasce dal fatalismo. Al contrario, la pazienza, frutto dello Spirito, non si arrende ma lotta, non si ritira ma si tiene salda davanti alle avversità, non è passiva, ma indaga attivamente in cerca di vie d’uscita.

Detto questo, che cosa fanno queste due braccia nella pratica, come si esprime la pazienza nella vita quotidiana?

LA PRATICA DELLA PAZIENZA: SAPERSI ACCONTENTARE

«Io ho imparato ad accontentarmi dello stato in cui mi trovo. So vivere nella povertà e anche nell’abbondanza; in tutto e per tutto ho imparato… io posso ogni cosa in colui che mi fortifica» (Filippesi 4:11-13)

Quando l’apostolo Paolo scrisse queste parole si trovava confinato in carcere a Roma. Una reclusione involontaria in circostanze molto dure. Non si rivolgeva ai suoi lettori da una posizione di comodità, ma da una situazione profondamente inquietante e in diretto pericolo di morte. La sua vita era cambiata completamente da un giorno all’altro. Da dove gli veniva la forza per inviare un messaggio così sereno in mezzo all’angoscia?

Egli stesso ci dà la risposta: «ho imparato ad accontentarmi» (Filippesi 4:11). Una delle testimonianze più importanti della pazienza è il sapersi accontentare. La parola originale implica non dipendere dalle circostanze, non restare vincolato ai problemi. Imparare a sapersi accontentare, quindi, è raggiungere un certo grado di indipendenza dagli avvenimenti della vita.

Il sapersi accontentare ci porta a vedere, pensare e vivere in modo diverso una situazione inaspettata o di cambiamento. Ai nostri giorni parleremmo di adattamento e di accettazione, di flessibilità e resilienza. Tutto quanto finirebbe inglobato dentro il sapersi accontentare. È la convinzione che Dio opera i suoi propositi nella mia vita non nonostante le circostanze, ma attraverso di esse.

Paolo conclude il testo con una frase che ha ispirato milioni di persone: «Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica» (Filippesi 4:13). Vale a dire, posso essere più forte di qualsiasi avversità, vincere qualsiasi circostanza, quanto sono in Cristo, “connesso” con Cristo. In questo è radicato l’elemento soprannaturale della pazienza e il segreto della nostra forza durante il nostro cammino.

SPERANZA E SPRAZZI DI ETERNITÀ

«Fortificate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina» (Giacomo 5:8)

La pazienza è inseparabile dalla speranza. Di fatto, si alimenta della speranza e a sua volta genera speranza in un circolo glorioso (feedback) divino (Romani 5:4-5). Potremmo dire che la pazienza e la speranza si fondono in un abbraccio.

Che cosa aspettiamo e speriamo? Certamente la nostra speranza ha una dimensione attuale. Aspettiamo con ansia la fine di un’epidemia. Però questa speranza non è sufficiente e può trasformarsi in frustrazione se non si soddisfano le nostre aspettative.

La speranza non si limita al qui e ora, vola più in alto e risale all’eternità. La vita sulla terra è un bene prezioso, ma non è il bene supremo. Il bene supremo è la vita eterna. Per questo il Signore aveva detto: «E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima» (Matteo 10:28). Ci colpisce che questo testo preceda la promessa consolatoria della cura di Dio «perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati» (Matteo 10:30).

Giacomo menziona due volte la venuta del Signore nel parlare della pazienza. Non è un caso. La visione della seconda venuta di Cristo è la visione dell’eternità e «fortifica il nostro cuore» (Giacomo 5:8). Guardare alla gloria dell’eternità con Cristo relativizza il nostro dolore, così che l’afflizione presente diventa “momentanea e leggera” (2 Corinzi 4:17-18). Possiamo prevedere che in cielo non finirà solo un’epidemia, ma la Grande Epidemia che è il Peccato e il suo seguito di dolore e morte. (Apocalisse 21:4, Romani 8:23-25)

Per questo motivo, «combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna» (1 Timoteo 6:12). Aggrappati, afferra la vita eterna. Questo consiglio di Paolo a Timoteo è la risposta che ho dato al giovane che mi chiedeva “una buona notizia a cui aggrapparsi”. Dobbiamo aggrapparci alla speranza dell’eternità, durante i forti scossoni della vita. Questi sprazzi di eternità illuminano la nostra oscurità e nutrono la nostra pazienza.

Il Gesù risuscitato dichiara con grande autorità: «Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte» (Apocalisse 1:18).

Sì, Dio è colui che segna le ore nell’orologio della nostra vita, non un virus. Per questo, nel mezzo della grande prova, ci riposiamo fiduciosi in Colui che ha promesso:

«Il tuo sole non tramonterà più, la tua luna non si oscurerà più; poiché il Signore sarà la tua luce perenne, i giorni del tuo lutto saranno finiti» (Isaia 60:20).

di Pablo Martinez
trad. Daniela Buraghi

L’approccio “identitario” al cattolicesimo (AIC)

I tempi che stiamo vivendo (in piena pandemia per il coronavirus), come era facile immaginare, ma anche auspicabile, stanno spingendo gli uomini a dare fondo a tutte le risorse per contrastare la pandemia. Gli stati elaborano misure di profilassi sanitaria estrema (lockdown), con il correlato di misure economiche; la comunità scientifica è impegnata in una corsa contro il tempo per trovare la cura e un vaccino; i media tentano una copertura totale del fenomeno, etc.
La dimensione religiosa dell’essere umano non poteva mancare ed è probabile, così come nel passato che, tramite le grandi fedi mondiali, giocherà un ruolo sempre più rilevante nello sviluppo di questo straordinario e drammatico momento storico.
L’appello di Francesco (capo – non tanto indiscusso – della Chiesa di Roma) ai cristiani di qualsiasi confessione, e orientmento a rivolgere al cielo tutti insieme una preghiera, la preghiera (il Padre Nostro), è solo uno dei tasselli di una vicenda che è destinata a ingrossarsi.
A questa iniziativa dall’afflato inclusivo fanno da contraltare, c’era da aspettarselo, le pratiche esclusivistiche di tutti. Lo stesso Papa ne ha dato prova con l’indizione dell’indulgenza plenaria. Dall’altro lato altre confessioni e denominazioni (e qui mi avvicino al focus di queste note), non sono state da meno e hanno messo in campo iniziative speculari sia inclusiviste (appelli alla preghiera e all’unità) sia esclusiviste.

Non poteva mancare, in questo quadro, anche la polemica religiosa e identitaria, soprattutto da parte evangelica, contro “l’idolatria” della Chiesa di Roma. Non ho ancora notizia di qualche prelato o intellettuale cattolico che punti il dito per questo “giudizio divino” contro i soliti mali della modernità, alla base dei quali ci sarebbe la Riforma protestante (ricordate il famoso discorso di Ratisbona di Benddetto XVI?).

Veniamo dunque al nostro tema: che cos’è l’approccio “identitario” al cattolicesimo (AIC)?
Si tratta di una prospettiva interna all’evangelismo italiano che si tenta di esportare a livello globale, come è testimoniato dalle polemiche e dalle schermaglie che suscita in organismi evangelici internazionali.

1. Qual è il focus di questo approccio?
Per spiegarlo, è utile una piccola digressione. Quando un bibliotecario deve identificare il soggetto di un libro parla, usando un termine inglese, di aboutness (ciò di cui il libro veramente parla). L’identificazione di un soggetto infatti è un’operazione complessa che deve tener conto di diverse variabili tra le quali spicca l’ambiguità del titolo: spesso infatti non corrisponde al soggetto che il libro svilupperà ma risponde a esigenze di mercato o di indicizzazione.

Quando gli evangelici dicono di volersi occupare di cattolicesimo, si stanno veramente occupando di cattolicesimo? Ne fanno veramente un oggetto di studio che richiede l’adozione di tecniche di interpretazione identificabili e tendenti all’oggettività? Ogni studio “scientificamente” accurato ha poi il suo risvolto pratico e appplicativo. A questa logica non sfugge neanche lo studio del cattolicesimo. Perché si studia il cattolicesimo? Le risposte potrebbero essere tante.
Chi scrive ritiene, per esempio, che l’unica ragione che dovrebbe spingere un evangelico a fare del cattolicesimo un oggetto di studio sia il vangelo, inteso nel più radicale dei significati (la buona notizia di Dio che è venuto sulla terra per compiere un’opera di salvezza nei confronti di donne e uomini di tutti i tempi). Ma questa ragione, le esigenze del vangelo, da sola, sarebbe sufficiente a fare un oggetto di studio anche dell’evangelismo, e del protestantesimo!

L’AIC afferma di occuparsi di cattolicesimo (e nauralmente questo è in parte vero – c’è sempre una relazione tra il titolo di un libro e il suo contenuto) ma di fatto, anzi de jure, il suo focus è “l’approccio evangelico al cattolicesimo” (AIC). Questo è il “soggetto” di AIC (l’aboutness). Il succo è: studiamo il cattolicesimo per comprendere il modo in cui interagiamo con esso. Se c’è qualcosa che non va in questo approccio, allora lavoriamo su noi stessi. Da qui il presupposto “identitario” di questo approccio: approccio identitario al cattolicesimo (AIC). Uno dei grandi presupposti è che lo scopo, neanche tanto velato, del cattolicesimo sarebbe quello di portare tutti gli evangelici sotto Roma!

Chris Castaldo, pastore americano legato alla Gospel Coalition, lascia trapelare questa curvatura dell’approccio al cattolicesimo quando afferma, in un libro del 2015 dal titolo Talking with Catholics about the Gospel. A Guide for Evangelicals: “non è abbastanza comprendere semplicemente che cosa sono i cattolici. Dobbiamo anche fermarci un attimo e considerare l’approccio (attitude) e la postura con i quali ci relazioniamo a essi” (p. 41).

Castaldo esplicita questo passaggio rendendosi subito conto che non esiste UN approccio evangelico al cattolicesimo ma ne esistono molteplici, tanto da riportare una tassonomia di ben sette. Nel proseguire la sua indagine Castaldo adotta un metodo descrittivo di questi approcci per poi fare la sua proposta, che è una proposta classica: quali sono i punti di convergenza e quelli di differenza tra evangelici e cattolici?

L’approccio identitario al cattolicesimo (AIC), dal momento che “de jure” è interessato, sotto il titolo di “studio del cattolicesimo”, alle nostre reazioni al cattolicesimo non si limita alla descrizione di queste reazioni ma diviene prescrittivo. Nel senso che tenta di correggere quelli che ritiene approcci sbagliati e per tale motivo legge e studia il cattolicesimo per motivare la prescrizione.

2. La semplificazione identitaria
L’approccio “identitario” al cattolicesimo (AIC) impegna dunque le maggiori risorse nell’analisi e nella valutazione degli atteggiamenti e delle posture evangeliche verso il cattolicesimo. Da qui deriva che la rappresentazione del cattolicesimo ricorrere al metodo della semplificazione di una realtà complessa. Questa semplificazione può avvenire in diversi modi. Alcuni sono raffinati: per esempio il cattolicesimo, che ha dimensioni storiche, sociali, teologiche, istituzionali, di spiritualità, viene ritenuto un sistema coerente, espressione a sua volta di uno o due pochi principi di fondo. In qualsiasi sistema (limitiamoci qui solo al versante teologico) possono esserci elementi portanti. È indubbiamente un asse portante del pensiero “ufficiale” del cattolicesimo quello già ben focalizzato da Vittorio Subilia, vale a dire che nel credo della Chiesa di Roma la “chiesa” non sia altro che la prosecuzione dell’incarnazione di Gesù. Ma quanto un tale asse riesca ad aggregare del pensiero e della prassi del cattolicesimo è da dimostrare. Così come è da dimostrare un altro principio che secondo i teorici dell’AIC ricapitola in sé tutta la complessità del cattolicesimo: mi riferisco a un punto del pensiero di  Tommaso d’Aquino relativo alla relazione tra natura e grazia (la grazia perfeziona la natura, detto così in soldoni). Questo principio, per esempio, secondo AIC condizionerebbe la soteriologia cattolica.

Nel caso di quest’ultimo principio ci troviamo di fronte a un’altra strategia di semplificazione tipica di AIC, vale a dire la riduzione di elementi della storia del pensiero a elementi sub specie aeternitatis, cioè non più elementi che devono essere compresi nel loro contesto storico ed eventualmente nella loro evoluzione sempre storica (ce lo insegna l’ermeneutica) ma come chiavi interpretative globali dalla tonalità molto spesso negativa (oltre a natura/grazia, possiamo pensare a termini quali “umanesimo”, sinergismo, pelagianesimo, etc.).

Ci sono poi le strategie più terra terra che AIC in qualche modo sdogana, propaganda e anche legittima, vale a dire l’armamentario tipico della controversia del XVI secolo. Ray Galea, nel suo libretto A mani vuote. Cattolici ed evangelici di fronte al messaggio della salvezza (GBU, 2010), sulla base della sua esperienza da ex sacerdote cattolico mette per esempio in guardia sulla famosa retorica secondo la quale il cattolicesimo predicherebbe una salvezza per SOLE opere: “A volte protestanti poco formati accusano il Cattolicesimo di insegnare la «salvezza per opere» in opposizione alla concezione pro­testante di «salvezza per fede». Quest’accusa non è esatta. Il Cattolicesi­mo insegna la salvezza per fede più le opere…” (p. 61).

Il risvolto complementare dell’impegno di AIC è che gli approcci evangelici al cattalicesimo possano essere corretti se il cattolicesimo (ridotto a sistema) fosse affrontato dagli evagelici sistemicamente. L’idea di uno studio sistemico (“sistemico” è diverso da “sistematico”) di una realtà religiosa complessa o di una realtà complessa dalle fattezze religiose ha un suo preciso pedigree storico che affonda le sue radici nel neocalvinismo olandese della fine dell’800.
L’AIC, in buona sostanza, quando parla di cattolicesimo, si rivolge a noi e ci chiede di adottare un sistema da cpontrapporre a un altro sistema. Detto in parole povere: bisoga essere più protestanti di quelo che siamo. Questa è la semplificazione identitaria: a identità si contrappone identità.

3. L’AIC è funzionale al relativismo
Qualche anno fa fece scalpore la visita di Papa Francesco alla comunità pentecostale del suo amico, il pastore Giovanni Traettino. In quella circostanza Francesco fece un discorso di tipo ecumenico, come sempre accade in questi casi, e non c’è da stupirsi. La particolarità fu che prese in prestito alcuni concetti e soprattutto l’immagine del prisma del teologo luterano Oscar Culmann. In sintesi: il discorso ecumenico non deve appoggiarsi su Giovanni 17 (la preghiera di Gesù per l’unità dei cristiani) ma su 1 Corinzi 12 (il discorso di Paolo sull’unico corpo di Cristo) che ha tante membra diverse. Le tradizioni teologiche (e qui semplifichiamo), incluso cattolici e protestanti, sono carismi dello Spirito, rifrazioni misericordiose dell’unico raggio della rivelazione che si rifange in tanti colori diversi. La chiamata di tutti i cristiani è quella di coltivare ognuno la peculiarità e l’identità del carisma ricevuto. Se sei un protesante (questo lo aggiungo io) non è necessario pensare ce tu divenga cattolico (e viceversa): sii più protestante!
Questo suggestivo sforzo ecumenico sembra implicare dunque la coltivazione delle proprie identità, se considerate alla luce del diversità dei doni e delle membra.

Tutti sanno, però, anche, che questa è la porta d’ingresso e la strada maestra del relativismo, nonché una straordinaria risposta ecumenica, di base, da rivolgere alla testimonianza del vangelo che possiamo renderci reciprocamente (protestanti e cattolici). Perché prendere in carico la peculiarità delle visioni evangeliche su Maria, così come affondano nel testo biblico, quando in realtà questa peculiarità è il portato precipuo del dono e del fascio di luce che le tradizioni protestanti hanno ricevuto?
La risposta alla poemica anti–cattolica, all’AIC, potrebbe essere un clamoroso gesto di affetto da parte di un interlocutore cattolico! Che bello, sii più protestante!

L’AIC diviene in tal modo un ostacolo alla testimonianza da rendere al vangelo.

4. L’AIC ritiene insufficiente lo spazio indipendente del vangelo

È noto che nella controversia tra cattolici ed evangelici spesso si è fatto ricorso a modelli intepretativi che giustificassero una situazione che il Nuovo Testamento non lascia presagire (questo è un altro schema di lavoro). Il modello forse più famoso è di assimilare la tradizione cattolica al farisaismo e quelle protestanti alla predicazione di Paolo. Dopo ondate di rinnovamento degli studi biblici, l’affinamento di strumenti interpretativi, il campo si è un po’ confuso.
Nella lettura reciproca che ci facciamo (noi leggiamo e studiamo il cattolicesimo, ma avviene anche il contrario!) appare necessario allora cercare un punto indipendente, che non significa “neutrale”. Questo equivarrebbe, nel nostro interagire con amici e fratelli cattolici, a rinunciare alla nostra tradizione per favorire la strada al vangelo.

Ci proviamo: nel capitolo 4 del Vangelo di Giovanni troviamo il famoso dialogo di Gesù con la donna samaritana, nei pressi di un pozzo. La donna, aldilà della sua condizione personale, esprime una preoccupazione che affonda le sue radici nella coscienza identitaria di quei tempi: dove bisogna adorare? Là dove punta la tradizione samaritana (su questo monte – dice la donna) o al contrario dove punta la tradizione dei Giudei (a Gerusalemme?).
Conosciamo la risposta di Gesù che chiede a tutti i partiti in campo di non fare più riferimento a se stessi ma a qualcos’altro (Gesù le disse: «Donna, credimi; l’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. … Ma l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità» – Giovanni 4:21sg.).

Nello studio del cattolicesimo non dobbiamo studiare i nostri approcci al cattolicesimo ma i nostri approcci al vangelo!
E in questa zona indipendente, che è il vangelo, dobbiamo uscire dalle nostre tradizioni.

Siamo partiti in questa lunga disamina dell’approccio identitario al cattolicesimo (AIC) dalle condizioni che stiamo vivendo, dalla pandemia che sta imperversando fuori dalle nostre case (e non troppo) e abbiamo evidenziato l’impegno sempre più marcato delle religioni che tentano di dare all’uomo speranza e risposte. Abbiamo evidenziato sia i contributi inclusivi sia quelli esclusivistici e polemici, e da qui siamo partiti per l’analisi dell’AIC. Nel leggere alcuni di questi contributi dell’AIC mi sono ricordato di un vecchio libro evangelico sul cattlicesimo: La chiesa romana allo specchio (1971), scritto da un autore francese, Jacques Blocher. L’autore racconta nella Prefazione di aver scritto questo libro che analizza le dottrine della Chiesa di Roma all’indomani di un’esperienza molto forte, simile a quella che stiamo vivendo noi oggi – i campi di concentramento nazisti – un’esperienza vissuta insieme a sacerdoti cattolici. Per la conclusione lascio volentieri a lui la parola.

“Quest’opera sulla Chiesa Romana [il libro], è stata scritta con un grande zelo per la verità e senz’alcuna cattiveria. L’autore, durante l’ultima guerra mondiale, trovandosi in campo di concentramento, ha avuto occasione d’aver per camerati dei sacerdoti cattolici, molti dei quali gli son restati intimi amici. Essi hanno scoperto assieme che il loro culto spirituale era diretto e rivolto allo stesso Dio e al medesimo Salvatore, Gesù Cristo, nato dalla Vergine Maria. Nelle loro conversazioni, hanno compreso quello che li univa ed anche ciò che li separava. È questa esperienza di comunione fraterna che ha spinto l’autore a fare un esame sistematico delle dottrine e delle pratiche cattoliche dalla luce della Rivelazione Biblica e della Storia. Questo chiaro esame è esposto in modo molto sereno e lautore spera di non ferire alcuno, anzi è particolarmente lieto di vedere finalmente quest’opera tradotta in italiano, poiché egli ama grandemente l’Italia ed i cuoi cittadini” (Jacques Blocher).

(Giacomo Carlo Di Gaetano)

Dio sussurra nei nostri piaceri, parla nelle nostre coscienze ma grida nelle nostre sofferenze

C.S. Lewis nelle sue conferenze sulla sofferenza (The problem of pain – 1940; tr. it. Il problema della sofferenza – 1988) affermò che la sofferenza potrebbe essere considerata come una sorta di megafono con cui Dio cerca di parlare e a un mondo sordo ai suoi richiami.

Il regista Richard Attenborough, trasponendo cinematograficamente in Shadowlands (Viaggio in Inghilterra, 1983) un altro scritto dell’apologeta inglese Diario di un dolore (tr. it. 1990) in cui questi raccoglieva il suo calvario interiore per la morte della moglie Joy, metteva giustamente in contrapposizione la fulgida certezza della metafora riportata sopra con lo sconforto provato dallo scrittore dopo che quel megafono gli aveva strillato nelle orecchie, privandolo della moglie.

In quella vicenda la sofferenza era espressione di quello che i filosofi chiamano male naturale, il male come si manifesta nelle pieghe di una natura matrigna. È difficile (anche se non impossibile), in quei casi, pensare a un Dio che ti voglia parlare usando quel tipo di megafono.

La stessa condizione vivono sicuramente tutti coloro che nella pandemia che stiamo soffrendo stanno sperimentando il lutto e le separazioni (al 28 marzo, almeno in Italia, i morti sono ben 9134)!

Tuttavia la pandemia presenta un altro aspetto, non meno inquietante, del male naturale: esso è rappresentato dai miliardi di persone che, per evitare il contagio, sono costrette a vivere il distanziamento sociale; in pratica a recludersi e a immaginare il male che vaga nei dintorni della propria casa, cercando di intrufolarvisi ogni volta che si tocca una maniglia …

È pensando a questa massa enorme di donne e di uomini che è stato assemblato il libro che presentiamo dal titolo Lutero e la pandemia. La pandemia scopre la nostra fragilità di uomini minacciati da un elemento naturale che non si presenta, almeno non direttamente, con i contorni della tragedia diretta, improvvisa o deturpante come può essere un terremoto o un cancro. La scoperta della nostra fragilità avviene nel lento scorrere del tempo in quarantena, mentre i mezzi di comunicazione ci mettono al corrente dei numeri e delle notizie che rendono conto dell’ampliarsi del contagio e del restringersi dei nostri spazi vitali. In queste circostanze è possibile pensare alla sofferenza, a questo tipo di sofferenza, come a un messaggio che rintrona nelle nostre orecchie come se fosse trasmesso da un megafono, o da un altoparlante.

Dio sta parlando? Per i credenti è facile intravedere i tratti di questo discorso; lo è un po’ meno per chi credente non è. Il nostro testo vuole provare a raccogliere in uno le certezze del credente e i dubbi del non credente, rintracciando tutti i registri con i quali è possibile mettersi all’ascolto del megafono di Dio.

Queto instant book esce nel mentre l’OMS calcola che al mondo siano più di 300.000 i contagi mentre i morti arrivano a 15.000. Alcuni elementi caratterizzano il testo. Il primo è rappresentato dalla composizione: è evidente che il lbro è composto da due parti. Nella prima il fulcro è rappresentato dalla traduzione della lettera di Lutero sul comportamento dei cristiani nell’epidemia che imperversava nella seconda metà degli anni ’20 in Germania e che aveva coinvolto anche Wittenberg (Se sia lecito fuggire da una pestilenza mortale). Il testo di Lutero è preceduto da un’introduzione che ricostruisce il contesto storico e da un commento al testo medesimo da parte di uno studente di teologia ciinese della zona di Wuhan.
Nella seconda parte, segnata dal sottotitolo “la fede ai tempi del coronavirus”, sono raccolti i contributi in parte pubblicati sul nostro blog del DiRS–GBU.

Il secondo elemento che caratterizza questo libro è il fattore temporale: tutti i contributi, soprattutto quelli della seconda parte, riportano la data in cui sono stati pubblicati. Scorrendoli si ottiene una sorta di time lapse dell’esperienza della pandemia che, mentre pubblichiamo, è ben lungi dal permetterci di vedere all’orizzonte la luce in fondo al tunnel.

Nel darlo alle stampe nutriamo la fiducia che, pur nell’alternanza di certezze e interrogativi, il testo possa contribuire a farci cogliere il messaggio che Qualcuno vuole forse comunicarci.

(Giacomo Carlo Di Gaetano)

Dalla paura alla fiducia

(Pablo Martinez)

In cerca di un rifugio sicuro durante l’epidemia

Viviamo giorni di ansia e incertezza. Il mondo intero ha paura. All’improvviso abbiamo preso coscienza della fragilità della vita. Che cosa succederà domani? La fortezza nella quale l’uomo contemporaneo si credeva sicuro è diventata debolezza, ci sono delle crepe nei pilastri e noi ci sentiamo vulnerabili. La gente va in cerca di un messaggio di serenità e tranquillità.

Una situazione di crisi come quella che stiamo vivendo scuote la nostra filosofia di vita e indebolisce la nostra autosufficienza. Ci obbliga a cercare rifugio in valori sicuri. In ambito finanziario si ricorre all’oro, quando la borsa crolla. Qual è l’equivalente dell’”oro”, nella nostra vita? Dove possiamo riporre la nostra fiducia? Questa è la domanda chiave.

Come cristiani crediamo che il valore rifugio per eccellenza, “l’oro” a cui ricorrere, è la fede, la fede in Cristo. L’apostolo Pietro scriveva «la vostra fede è ben più preziosa dell’oro» (1 Pietro 1:7). E noi lo crediamo perché la fede cristiana risponde ai bisogni più profondi dell’essere umano, ci dà tre grandi colonne che ci sostengono:

  •    Bisogno di un’identità: Chi sono? Da dove vengo?
    •    Bisogno di uno scopo: Che cos’è la vita? Perché sono qui?
    •    Bisogno di una speranza: Cosa c’è dopo la morte?

La Bibbia, la “lettera aperta” di Dio agli uomini, ci insegna il cammino che porta alla fiducia nei momenti di crisi. Uno dei testi più incoraggianti in questo senso è il Salmo 91, chiamato anche “L’inno trionfale della fiducia”. Ha dato respiro e pace a milioni di persone durante il fuoco della prova.

Probabilmente fu scritto nel bel mezzo di un’epidemia di peste. Potrebbero essere state circostanze simili a quelle che stiamo vivendo oggi. Quindi, il suo messaggio è particolarmente rilevante per la nostra situazione attuale di epidemia.

Il suo messaggio di riassume in una frase: la fiducia trionfa sulla paura. Il salmista ci presenta il “percorso” dall’ansia-paura verso la fiducia in tre passi. In realtà sono gli stessi passi che troviamo in una relazione d’amore:

  •    Conosci Dio
    •    Ama Dio       
    •    Confida in Dio

Conoscendoci ci incontriamo, e incontrandoci ci amiamo. Succede così con la fede. La fede cristiana è una relazione d’amore che inizia con un incontro personale con Gesù, «l’immagine (il ritratto) del Dio invisibile» (Colossesi 1:15), e si regge sula fiducia. Vediamo questi passi:

  1. Conosci Dio

Dio è il grande sconosciuto. Molte persone rifiutano Dio senza sapere nulla di Lui; in realtà ciò che rifiutano è la loro idea di Dio, un Dio frutto della loro immaginazione. Conoscere come sia Dio realmente è un passo imprescindibile nel percorso verso la fiducia. Per questo il salmo inizia con una illuminante descrizione del carattere di Dio:

«Chi abita al riparo dell’Altissimo riposa all’ombra dell’Onnipotente.

Io dico al Signore: “Tu sei il mio rifugio e la mia fortezza, il mio Dio, in cui confido!”»

(Salmo 91:1-2)

Nei due versetti iniziali si menzionano perfino quattro nomi diversi per spiegare chi è e come è Dio. Uno straordinario ingresso nella fiducia! Per il salmista, Dio è l’Altissimo, l’Onnipotente, il Signore (Yahweh) e il Dio Sublime.

La conoscenza di Dio è il fondamento della nostra fiducia. Potremmo parafrasare il proverbio e affermare “dimmi com’è il tuo Dio e ti dirò com’è la tua fiducia”. Nel conoscerlo, il salmista sperimenta che Dio è il suo Riparo, la sua Ombra, il suo Rifugio e la sua Fortezza.

2. Ama Dio

In secondo luogo, conoscendo, amiamo e si stabilisce una relazione personale. Notiamo come il salmista si riferisca a Dio come il MIO Dio, la mia speranza e il mio rifugio. L’aggettivo “mio” ci apre una prospettiva particolare  e cambia molte cose: il Dio del salmista è un Dio personale, vicino, che interviene nella sua vita e si preoccupa dei suoi timori e delle sue necessità.

Qui troviamo uno dei tratti più caratteristici della fede cristiana: Dio non è soltanto l’Onnipotente, il creatore dell’Universo, ma anche un padre intimo, l’Abba (“papà”) che mi ama e mi protegge. Questo è il nostro grande privilegio: Dio ci tratta come un padre tratta i suoi figli perché in Cristo siamo fatti figli adottivi di Dio. Per il cristiano, Dio non è un “lui” lontano, ma un “tu” vicino. Per questo il salmista afferma con una bellissima metafora:

«Egli ti coprirà con le sue penne e sotto le sue ali troverai rifugio». (Salmo 91:4)

3. Confida in Dio

Dopo aver scoperto com’è Dio e aver posto in Lui il suo amore (Salmo 91:14), il salmista esclama: «Il mio Dio, in cui confido» (Salmo 91:2). L’amore e la fiducia svolgono un’azione reciproca: la fiducia è una risposta all’amore e l’amore, a sua volta, si esprime avendo fiducia.

Il cristiano confida nella protezione di Dio espressa in tre maniere, la tripla “C” della protezione di Dio:

  • Dio conosce
    • Dio controlla
    • Dio ha cura (di me)

Il caso non è la forza che muove il mondo. La nostra vita non è alla mercé di un virus, ma è nelle mani del Dio onnipotente. Crediamo che nulla accada fuori dal controllo di Dio. Per questo il salmista esclama sicuro:

«Certo egli ti libererà dal laccio del cacciatore e dalla peste micidiale… La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Tu non temerai… né la peste che vaga nelle tenebre, né lo sterminio che imperversa in pieno mezzogiorno… Nessun male potrà colpirti, né piaga alcuna s’accosterà alla tua tenda.» (Salmo 91:3-6, 10)

Lo stesso Gesù confermò questa realtà con parole piene di sensibilità:

«Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure non ne cade uno solo in terra senza il volere del Padre vostro. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque; voi valete più di molti passeri.» (Matteo 10:29-31, vedi anche Luca 12:6-7).

Come magnifico riassunto, è Dio stesso che parla alla fine del salmo e si prende l’impegno di compiere le sue promesse:

«Poich’egli ha posto in me il suo affetto, io lo salverò; lo proteggerò, perché conosce il mio nome. Egli m’invocherà, e io gli risponderò; sarò con lui nei momenti difficili; lo libererò, e lo glorificherò.» (Salmo 91:14-15)

In conclusione, la fede in Cristo non è un vaccino contro tutti i mali, bensì una garanzia di totale sicurezza, la sicurezza che «se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rom. 8:31). In altre parole, la fede non garantisce l’assenza della prova, ma garantisce la vittoria sopra la prova.

Non c’è posto per i trionfalismi, ma certamente c’è un trionfo. È il trionfo che la risurrezione di Cristo ci ha assicurato con la sua vittoria sopra il male e la morte. È lo stesso Cristo che ci dice oggi:

«Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente». (Matteo 28:20)

Lì è radicata la certezza della nostra fede e la fiducia che vince tutti i timori.

Il cristianesimo in tempi di epidemie

(John Wyatt)

Nel mondo antico le epidemie erano una fonte di terrore. Si sarebbero abbattute sulle città dell’Impero romano portando devastazione. Quella che viene chiamata l’epidemia di Cipriano fu una pandemia che afflisse l’Impero romano all’incirca dal 249 al 262 d.C. In questo periodo, al culmine della sua esplosione, si disse che nella stessa città di Roma morivano 5000 persone al giorno.

Ponzio di Cartagine scrisse una descrizione di prima mano: «In seguito, scoppiò una terribile piaga (peste), e l’eccessiva distruzione di destabile malattia invase ogni casa, una dopo l’altra, della popolazione tremolante, portando via giorno dopo giorno, con rapidità improvvisa innumerevoli persone, ciascuna dalla propria casa. Tutti tremavano, scappavano, cercavano di scansare il contagio, mettendosi empiamente a contatto con i proprio amici, esponendoli a rischio, come se, con l’esclusione della persona che sicuramente sarebbe morta di peste, uno potesse respingere anche la morte stessa. Intanto, ricoprivano tutta la città, non più di corpi, ma di carcasse di tanti e, la contemplazione di una sorte che a turno sarebbe stata la loro, esigeva che gli stessi passanti avessero compassione per se stessi. Nessuno considerava altro che il proprio crudele egoismo. Nessuno tremava al ricordo di un evento simile. Nessuno faceva all’altro quello che egli stesso avrebbe voluto sperimentare… »

Sorprendentemente, non ci sono giunti dei resoconti di prima mano relativi ai sintomi clinici e ai segni esteriori della piaga da parte dei medici ippocratici del tempo. Sebbene fossero rendicontate le descrizioni cliniche di molte altre malattie è stato notato che le descizioni mediche coeve della piaga sembrano vaghe e semplicistiche.

Perché? Sicuramente una ragione sta nel fatto che alle prime avvisaglie della piaga i medici ippocratici avrebbero disertato le città e sarebbero fuggiti nelle campagne per mettersi in salvo! Quando l’epidemia mise in pericolo Roma, il grande medico Galeno si spostò rapidamente in una tenuta di campagna dell’Asia Minore dove vi rimase fino a che non passò il pericolo.

Nell’opera ippocratica De arte lo scopo del medico era definito come «l’eliminazione della sofferenza del malato, ridurre la virulenza delle malattie e rifiutare coloro che sono già dominati dai loro malanni con il rendersi conto che in tali casi la medicina è impotente». Curare chi stava morendo equivaleva probabilmente a gettare discredito sulla reputazione della professione e mettere a rischio la fiducia nella capacità di guarire del medico.


È dunque notevole il fatto che fu un vescovo cristiano, Ciprano, che ci ha fornito la più accurata e dettagliata descrizione clinica dell’antica piaga: «Queste erano indicate come prova: mentre la forza del corpo si dissolve, le viscere si dissipano in un flusso; un fuoco che inizia nelle parti più profonde sale e brucia le ferite nella gola; gli intestini si scuotono a causa di un perpetuo vomitare; gli occhi bruciano per la pressione del sangue; ad alcuni, l’infezione della putrefazione mortale mozza i piedi o altre estremità; e mentre prevale la debolezza per i fallimenti e le perdite dei corpi, si paralizza il passo si perde l’udito si resta ciechi».


La descrizione di Cipriano ci fa pensare che la piaga del terzo secolo di cui egli fu testimone possa essere stata un’infezione virale emorragica, altamente infettiva e letale, simile al virus di ebola, sebbene continui il dibattito sulla natura di queste antiche epidemie.


Ciò che è chiaro è che c’erano scene di orrore – le strade piene di corpi sanguinanti dei moribondi e c’era il disperato tentativo della popolazione di salvarsi quali che fossero le conseguenze per gli altri. Qui c’è un’altra testimonianza di Dionigi di Alessandria: «Alla prima manifestazione della malattia i pagani allontanavano i malati e fuggivano dai loro cari gettandoli nelle strade prima che fossero morti e lasciavano i loro corpi non sepolti come si trattasse di immondizia, sperando così di evitare la diffusione e il contagio della malattia fatale; facevano quel che potevano ma era difficile per loro sfuggire …».


Eppure in molte di quelle città dell’Impero romano c’era un piccolo corpo di credenti, spesso osteggiati e stigmatizzati come “atei” (per il fatto che nelle loro case e nei loro luoghi di radunamento non c’erano state e idoli) oppure definiti “galilei”. Come reagivano in questo tempo di distretta e orrore? Scappavano anch’essi in campagna per salvare le proprie vite?

Il racconto di Dionigi prosegue: «La maggior parte dei nostri fratelli, dunque, senza avere alcun riguardo per se stessi, per un eccesso di carità e d’amore fraterno, accostandosi gli uni agli altri, visitavano senza preoccupazione gli ammalati, li servivano meravigliosamente, li soccorrevano in Cristo e morivano assai gioiosamente con loro; contagiati dal male degli altri, attiravano su di sé la malattia del prossimo e ne assumevano volentieri le sofferenze. Molti poi, dopo aver curato e ridato forza agli altri, morirono essi stessi [ . . . ]».


Seguendo l’esempio di Cristo i cristiani credenti offrivano cure compassionevoli ai loro vicini pagani – accogliendoli nelle loro case, lavando le ferite, pulendo il sangue e gli effetti delle perdite, offrendo acqua, cibo e medicinali di base, «li soccorrevano in Cristo», anche se sapevano che esponevano se stessi a un rischio estremo.


Il mondo antico non aveva mai visto qualcosa del genere. Rodney Stark, uno storico della società ha intrapreso un’analisi dettagliata gingendo alla conclusione che le azioni dei cristiani al tempo dell’epidemia fu uno dei fattori più importanti nella crescita esplosiva della chiesa cristiana in questo periodo.


Quando ho letto questi racconti mi sono sentito indegno di portare lo stesso titolo di un servo cristiano. Quanto poco ho sperimentato il costo della cura simile a quela di Cristo se i paragono alle mie sorelle e ai miei fratelli del terzo secolo.
Ma nei secoli successivi i servi cristani si sono comportati allo stesso modo dalla storia tragica della piaga dell’epidemia di Cipirano del 250 fino all’epidemia di ebola del 2014 e fino ad oggi. Molti degli infermieri e dei dottori della Sierra Leone che hanno sacrificato le loro vite per curare le vittime di ebola erano cristiani credenti. Sapevano che l’equipaggiamento protettivo era scadente e che nonostante tutte le loro precauzioni, non avrebbero potuto difendersi. Eppure essi si sono presi cura, come le loro antiche sorelle e i loro fratelli che ministrarono ai malati nel nome di Cristo.


Non ho dubbi che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi verranno fuori le storie di sacrificio eroico. Va detto che nel mondo moderno non sono solo i cristiani credenti che si sacrifiano nella cura degli sconosciuti. Dobbiamo celebrabre l’impegno nella cura di tutti a prescindere dal loro credo o motivazione. E naturalmente, come professionisti dobbiamo essere sapienti nel prendere le precauzioni, sì da poter continuare a curare il più possibile, piuttosto che infettarci anche noi. Ma non dobbiamo dimenticare la nobile storia del cristianesimo in tempi di epidemia, ricordando le parole di Gesù, come fecero i primi cristiani: « In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me» (Matteo 25:40).

John Wyatt è Professore emerito di Neonatal Paediatrics alla UCL e Senior Researcher presso il Faraday Institute for Science and Religion, dell’Università di Cambridge

In italiano si può leggere, dello stesso autore, Questioni di vita e di morte. Dilemmi moderni alla luce della fede cristiana, Edizioni GBU, 2018.


L’articolo è stato ripreso dal blog di CMF (Chrisrian Medical Fellowship) ed è stato tradotto con permesso. (https://cmfblog.org.uk)

UN SALMO PER L’EPIDEMIA: LA FIDUCIA TRIONFA SULLA PAURA

di Pablo Martinez (Spagna)
Traduzione di Daniela Buraghi

“Chi abita al riparo dell’Altissimo riposa all’ombra dell’Onnipotente.
Io dico al Signore: “Tu sei il mio rifugio e la mia fortezza, il mio Dio, in cui confido!”

Il Salmo 91, chiamato anche l’”Inno trionfale della fiducia”, è un gioiello. Ha dato respiro e pace a milioni di credenti che attraversavano il fuoco della prova. Secondo alcuni commentatori venne scritto nel bel mezzo di un’epidemia di peste (2 Samuele 24:13). Potrebbero essere state circostanze simili a quelle che stiamo vivendo oggi. Quindi, il suo messaggio è particolarmente rilevante per la nostra situazione attuale di epidemia.

Viviamo giorni di ansia e incertezza. Il mondo intero ha paura. All’improvviso abbiamo preso coscienza della fragilità della vita. Che cosa succederà domani? La fortezza nella quale l’uomo contemporaneo si credeva al sicuro è diventata debolezza, ci sono delle crepe nella roccia e noi ci sentiamo vulnerabili. La gente va in cerca di un messaggio di serenità e tranquillità. Dove trovarlo?

Il messaggio del Salmo 91 si riassume in una frase: la fiducia trionfa sulla paura.
Il salmista ci presenta tre frasi chiave che riassumono il “percorso” dall’ansia e dalla paura verso la fiducia:

“Il Mio Dio”: ciò che Dio è per me
“Egli ti libererà”: ciò che Dio fa per me
“Confiderò”: la mia risposta

1- “IL MIO DIO”: IL CARATTERE DI DIO

Il salmo inizia con un’illuminante descrizione del carattere di Dio. Nei due versetti iniziali si menzionano perfino quattro nomi diversi per spiegare chi è com’è Dio. Uno straordinario ingresso nella fiducia! Per il salmista Dio è l’Altissimo, l’Onnipotente, il Signore (Yahweh) e il Dio Sublime.

La consapevolezza della grandezza di Dio è il fondamento della nostra fiducia. Potremmo parafrasare il proverbio e affermare “dimmi com’è il tuo Dio e ti dirò com’è la tua fiducia”. Nel momento del timore il primo passo è alzare gli occhi al cielo, guardare a Dio e contemplare la sua grandezza e le sua sovranità. Nel farlo, il salmista sperimenta che Dio è il suo Riparo, la sua Ombra, il suo Rifugio e la sua Fortezza. Il ritratto di Dio in “quattro dimensioni”comporta una quadrupla benedizione. Conoscere come Dio è realmente è un passo imprescindibile nel percorso verso la fiducia.

Tuttavia, notiamo che il salmista si riferisce a Lui come il Mio Dio. Questa piccola parola, “mio”, ci apre una prospettiva particolare e cambia molte cose: il Dio del salmista è un Dio personale, vicino, che interviene nella sua vita e si preoccupa dei suoi timori e delle sue necessità. Siamo di fronte a uno dei tratti più caratteristici della fede cristiana: Dio non è soltanto l’Onnipotente, il creatore dell’Universo, ma anche un padre intimo, l’Abba (“papà”) che mi ama e mi protegge (Galati 4:6). Questo è il nostro grande privilegio: Dio ci tratta come un padre tratta i suoi figli perché in Cristo siamo fatti figli adottivi di Dio. Il salmista descrive questa esperienza con una bellissima metafora:

“Egli ti coprirà con le sue penne e sotto le sue ali troverai rifugio”. (v4)

2- “EGLI TI LIBERERÀ”: LA PROVVIDENZA DI DIO

“Certo egli ti libererà dal laccio del cacciatore e dalla peste micidiale… La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Tu non temerai… né la peste che vaga nelle tenebre, né lo sterminio che imperversa in pieno mezzogiorno… Nessun male potrà colpirti, né piaga alcuna s’accosterà alla tua tenda.” (v. 3-6,10)

Arriviamo al cuore del salmo: la protezione di Dio nella pratica. La conoscenza della grandezza di Dio deve essere accompagnata dalla consapevolezza della provvidenza di Dio. Siamo arrivati ad un punto cruciale, decisivo, dell’esperienza di fede. Se lo comprendiamo bene, sarà una fonte insuperabile di pace e serenità, però se lo interpretiamo male possiamo cadere in errori ed estremismi, oppure sentirci frustrati nei confronti di Dio.

La manipolazione del diavolo. È molto significativo che il diavolo tentò Gesù (Matteo 4:6, Luca 4) con una doppia citazione da questo salmo: “Poiché egli comanderà ai suoi angeli di proteggerti… Essi ti porteranno sulla palma della mano, perché il tuo piede non inciampi in nessuna pietra.” (v.11-12). Usare male le promesse della protezione divina è una tentazione molto di moda ai nostri giorni. Fate attenzione alla super spiritualità e alla super fede! Può essere un modo di tentare Dio, come ci insegna la risposta schiacciante di Gesù a Satana: “Non tentare il Signore Dio tuo” (Matteo 4:7). Confidare in Dio non ci esime dal comportarci in modo responsabile e saggio.

Detto questo, non possiamo minimizzare la potente azione protettrice di Dio sopra coloro che confidano in lui:

“Poich’egli ha posto in me il suo affetto, io lo salverò; lo proteggerò, perché conosce il mio nome. Egli m’invocherà, e io gli risponderò; sarò con lui nei momenti difficili; lo libererò e lo glorificherò.” (v. 14-15)

Una polizza per tutti i rischi? La parola chiave è “liberare”. Che cosa significa “Dio ti libererà”? La medesima espressione si applica a Giuseppe – “Dio lo liberò da ogni sua tribolazione” (Atti 7:10), tuttavia il patriarca dovette passare per molte valli dell’ombra della morte. Dio non gli evitò la prova, però lo riscattò da essa. Come disse Spurgeon, “è impossibile che nessun male accada a coloro che sono amati da Dio”. La fede non garantisce l’assenza della prova, ma garantisce la vittoria sopra la prova. L’apostolo Paolo sviluppa questa idea in forma magnifica nel cantico di Romani 8:28-39: “in tutte queste cose (le prove), noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati, Cristo.”

Quindi, la fede in Cristo non è un vaccino contro tutti i mali, bensì una garanzia di totale sicurezza, la sicurezza che “se Dio è per noi, che sarà contro di noi?” (Rom. 8:31). Questo salmo non è una promessa di completa immunità, ma è una dichiarazione di piena fiducia. Fiducia nella protezione di Dio espressa in tre maniere.

La tripla “C” della protezione di Dio. In ogni situazione di prova,

Dio conosce
Dio controlla
Dio ha cura (di me)

Nella vita dei figli di Dio nulla avviene senza la sua conoscenza e il suo assenso. Il caso non esiste nella vita del credente. La maestosa provvidenza del Dio personale risplende nei momenti più oscuri: “Cadranno al tuo lato in mille e diecimila alla tua destra; ma a te non arriveranno.” Niente succede se Lui non lo permette, come vediamo molto chiaramente nell’esperienza di Giobbe. Questa promessa viene ratificata dal Signore Gesù stesso:

“Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure non ne cade uno solo in terra senza il volere del Padre vostro. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque; voi valete più di molti passeri.” (Matteo 10:29-31, Luca 12:6-7).

3 -LA MIA RISPOSTA: “CONFIDERÒ”

Dopo avere contemplato il carattere di Dio – ciò che Egli è per me – e la sua provvidenza – ciò che Egli fa nella mia vita – il salmista esclama con fermezza: “il Mio Dio, in cui confido!”.

È una sequenza logica. La fiducia è la risposta a delle certezze. Il salmista ha conosciuto Dio in maniera personale, intima – “perché conosce il mio nome” (v.14). Una tale conoscenza lo porta a innamorarsi di Lui – “ha posto in me il suo affetto” (v.14) e si stabilisce una relazione stretta. Qui troviamo, certamente, la sostanza della fede cristiana: è la fiducia che nasce da una relazione d’amore, la certezza che l’amato non mi tradirà perché “Egli (Dio) è fedele”.
La nostra vita non è in balia di un virus, ma è nelle mani di un Dio Onnipotente. In questo è radicata la certezza della nostra fede e il fondamento della fiducia che vince tutti i timori. Non c’è posto per i trionfalismi, ma certamente c’è un trionfo. È il trionfo che Cristo ci ha assicurato con la sua vittoria sopra il il male e il maligno alla Croce. È lo stesso Cristo le cui ultime parole furono:

“Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente”. (Matteo 28:20)

Di Pablo Martinez potete leggere in italiano i seguenti libri, tutti editi da Edizioni GBU:
Abba Padre. Teologia e psicologia della preghiera (1998)
La spina nella carne. Come trovare forza e speranza nella sofferenza (2011)
Inseguendo l’arcobaleno. Oltre il dolore, il lutto e le separazioni (2014)

Di prossima pubblicazione:
Abbi cura di te stesso. Sopravvivere e progredire nel servizio cristiano (giugno 2020)
Gesù: pazzo o Dio? A proposito della più brillante delle menti (giugno 2020)