Tre domande a Gary Thomas sul fenomeno #meToo

  1. Che cosa hai pensato quando la stampa e i media hanno iniziato a prestare attenzione al fenomeno delle proteste per gli abusi di uomini nei confronti di donne in molti campi?

Sentire quante donne hanno dovuto sopportare una cosa del genere è stata per me un’esperienza straziante, e ho pensato che si trattasse per tutti noi di un invito assolutamente opportuno e necessario a simpatizzare con le vittime e a fare qualcosa.
Per esempio, alcuni anni fa, predicando a giovani uomini, qui nella chiesa di Houston, sostenevo che sarebbero state le persone più “affidabili” di tutta la città, questo almeno fino ad oggi. Ora nelle mie prediche inserisco sempre più esempi di relazioni tra capi e sottoposti.
La chiesa ha bisogno di dare l’esempio.

 

Mio figlio frequenta la business school di Harvard, e questo mi ha dato la possibilità di frequentare un corso con lui in cui il professore mi ha aperto gli occhi su quelli che definisco i capricci del “consenso”. Il cinquanta percento delle persone negli Stati Uniti, dal punto di vista economico, ha più debiti di quanto ha risparmiato, e se capitasse loro di perdere il proprio reddito per due o tre mesi si troverebbero di fronte a una situazione finanziaria devastante. Con dinamiche di questo genere accade che se un capo chiede a un sottoposto di fare qualcosa, e nell’ipotesi in cui il capo non venisse accontentato, potrebbe accadere che la famiglia del subordinato verrebbe rovinata economicamente, e ciò potrebbe spingere i sottoposti a essere inclini a fare cose che detestano, per necessità economiche.

Il “consenso” che ne verrebbe fuori non sarebbe un vero consenso.

Credo che almeno il novanta per cento delle donne che denunciano abusi dicano la verità e hanno bisogno di essere ascoltate; ma conosco almeno un caso in cui un pastore è stato trattato ingiustamente. Ecco perché penso che le chiese debbano avere strategie adeguate per gestire le situazioni, allorquando si levano accuse del genere. C’è bisogno di qualcuno che sia esterno all’organizzazione implicata, addestrato ad affrontare il problema in un modo in cui non può esserlo la chiesa stessa e la cui priorità è quella di cercare la verità, senza difendere o attaccare nessuno. Dato che anche le chiese sono state compromesse e hanno comprensibilmente perso la fiducia di tanti, potrebbe essere il momento in cui esse si sottopongano umilmente a verifiche oggettive esterne, allorquando sopraggiungono problemi del genere. Le chiese che hanno cercato di affrontare questi casi internamente hanno dato di se stesse una pessima immagine.

 

  1. Il fenomeno ha indubbiamente a che fare con il rapporto tra uomo e donna, un campo in cui hai scritto molto; il quadro che ne esce, a parte quello della violenza, è quello di uno scontro tra generi, maschile e femminile, senza capire quale potrebbe essere il punto d’incontro nelle diverse aree dell’esistenza, dal matrimonio, al lavoro, all’educazione.

Il Vangelo di Gesù Cristo è interamente basato sulla riconciliazione e si oppone sia all’oppressione sia alla marginalizzazione, incluso tutto ciò che ha a che fare con il genere. Uno dei modi migliori per affrontare questo problema è quello di costruire matrimoni solidi, soddisfacenti e pieni di amore (cherishing). Quando io amo mia moglie, mi sento molto meno incline a molestare o sollecitare sessualmente un’altra donna. Un matrimonio solido ci protegge dal sessualizzare l’altro genere e ci dispone ad apprezzare a godere delle competenze, dell’intuizione, della collaborazione e persino dell’amicizia di persone dell’altro sesso, senza trasformare tutto ciò in qualcosa di inappropriato. Se fossimo concentrati sui nostri matrimoni, saremmo meno propensi a diventare dei carnefici. Ciò non impedisce alle donne (e in qualche occasione agli uomini) di essere vittimizzate e dunque non sto incolpando le vittime di avere matrimoni al di sotto di certi standard. Sto parlando a coloro che si fanno del male da se stessi.

 

  1. Ci hai insegnato che le relazioni con l’altro fanno parte della formazione spirituale dell’individuo (maschio o femmina); cosa puoi dirci, alla luce di tutto ciò che sta accadendo e alla luce delle Scritture?

Ho scoperto che quando in particolare rispetto mia moglie, imparo in generale a rispettare le altre donne. Le situazioni rivelano qual è il carattere di una persona (cattivo e buono) e il carattere può essere cesellato per perseguire intenzionalmente Dio e la santità nel matrimonio. L’intera premessa del matrimonio sacro: che cosa sarebbe se Dio avesse ideato il matrimonio per renderci santi più che per renderci felici? – potrebbe applicarsi altrettanto facilmente ai rapporti di lavoro. Potremo non essere d’accordo fra di noi, potremo essere gelosi, ma dobbiamo perdonarci e continuare a lavorare insieme. Possiamo aspettarci, a causa della nostra natura caduta nel peccato, che ci sarà conflitto e che a volte sarà tutto davvero difficile. Ma quando il nostro obiettivo è la ricerca dell’identità di Cristo possiamo imparare a perdonare invece che a fare pettegolezzi; servire invece di gongolare su noi stessi o vivere nel risentimento; onorare invece che disprezzare; e incoraggiare invece di abusare o perseguitare sessualmente.

Gary Thomas è pastore di una chiesa evangelica di Houston ed è uno scrittore molto prolifico nel campo della “foremazione spirituale”. Edizioni GBU (www.edizionigbu.it) ha pubblicato tre libri di Gary Thomas:
Vincolo santo. E se Dio avesse ideato il matrimonio non tanto per farci felici quanto per renderci santi? (2009)
Educazione santa. E se Dio avesse voluto l’educazione non tanto per crescere bene i nostri figli quanto per rendere santi i genitori? (2014)
Ricerca santa. E se il problema non fosse tanto chi sposare quanto perché sposarsi? (2013)

Gary Thomas è stato il relatore del IX Convegno Nazionale GBU (2014), “Amore cercato, amore vissuto, amore donato

I media, gli evangelici e l’uso della violenza

Anticipiamo qui il contenuto del seminario che Valerio Bernardi terrà nell’ambito del XIII Convegno Nazionale GBU

 

Riflettere su cosa sia la violenza e su come essa sia usata oggi dai mezzi di comunicazione di massa è cosa seria e meriterebbe sicuramente un’ampia discussione. Per questo motivo si è deciso di circoscrivere l’ambito dell’intervento, per evitare di discutere di sommi sistemi e per cercare di dare delle risposte concrete rispetto a quanto si afferma e fare una serie di esempi pratici.

Sicuramente nel mondo odierno tra i media che maggiormente influenzano l’immaginario ci sono i film e le serie televisive (la cui perfezione tecnica li rende paragonabili alle pellicole che si vedono sul grande schermo). Come dobbiamo comportarci di fronte a questi mezzi che sicuramente influenzano la visione del mondo delle persone e che, nel corso degli ultimi decenni, sono diventati sempre più espliciti nelle scene che presentano al pubblico, soprattutto nella esplicita manifestazione della violenza?

L’atteggiamento che possiamo avere può essere essenzialmente di tre tipi.

Possiamo respingere qualsiasi forma di violenza presentata dai film e dai telefilm e possiamo consigliare i nostri amici di non vederli, di boicottare un mondo che è totalmente estraneo al cristianesimo, di costruire una “controcultura” totalmente altra rispetto a quello che ci viene proposto. E’ questa la scelta di credenti “radicali” che sconsigliano di vedere qualsiasi forma di spettacolo “mondano”. Una scelta assolutamente rispettabile e che merita tutto il nostro interesse per il suo coraggio e per il tentativo di creazione di  una vera controcultura. L’obiezione che si potrebbe muovere a questa tendenza è quella che, per evangelizzare il mondo, bisogna conoscerlo. Sicuramente l’Apostolo Paolo dà un esempio nel discorso agli Ateniesi all’Aeropago di come fosse a conoscenza della cultura dell’epoca e di come essa poteva fungere da mezzo di comunicazione per incontrare l’Altro.

L’altro atteggiamento è quello di diventare degli spettatori passivi, pronti a farci manipolare l’immaginario da scene gratuite di violenza e di iniziare a pensare che, tutto sommato, la violenza, dai tempi di Caino ed Abele, fa parte integrante della vita dell’uomo. Anzi, qualche volta, possiamo tranquillamente proporle per rafforzare il nostro messaggio. Secondo alcuni studiosi il mondo evangelico ha subito questa svolta (sicuramente minoritaria) dopo l’uscita di The Passion di Mel Gibson. Accolto trionfalisticamente dal pubblico evangelico americano, proprio per la sua crudezza, è diventato un veicolo di apertura verso la violenza nel mondo delle immagini. La domanda è: possiamo ammettere una tale crudezza ed  una visione di un film del genere, perché riteniamo che sia piuttosto realistico nella descrizione della crocifissione? Anche qui alcune obiezioni potrebbero essere mosse: dobbiamo assuefarci del tutto ad un mondo violento? Quanto le immagini che vediamo possono influenzarci? Siamo sicuri che film come The Passion siano realistici e non propongano, invece, una Via Crucis in cui il dolore umano viene quasi esaltato? Chiaramente, a seconda dell’interpretazione che daremo al film, avremo una risposta diversa. Rimane il dubbio se bisognava indulgere a tale violenza.

Esistono, rispetto a queste due posizioni opposte e radicali, delle vie “mediane” che il credente forse dovrebbe prendere. La domanda che ci dovremo fare è: “quanto il lavoro proposto può essere utile ad aprire una comunicazione? Quanto ci descrive una situazione reale? Quanto c’era bisogno della descrizione violenta per arrivare al messaggio’”

Per riflettere su questo faremo tre esempi su cui si è discusso e su cui si possono avere opinioni diverse.

Il primo è la serie Il trono di spade: basato sul racconto fantasy di George Martin. Al contrario della saga di Tolkien e di quella di C.S. Lewis, dove il messaggio cristiano è abbastanza chiaro, nella sontuosa trasposizione televisiva dei racconti di Martin la violenza è molto pronunciato (insieme a molte scene di sesso, scomparse gradualmente con l’evolversi della serie). Molti scrittori evangelici si sono chiesti l’opportunità di vedere una serie del genere (vi è stato anche un interessante intervento di John Piper a proposito). Sicuramente si tratta di una serie di libri che possono essere discussi nella loro concezione “filosofica” del mondo ma, senza ombra di dubbio, descrivono un mondo grigio, in cui l’unica ambizione è il potere, che rischia di essere iperrealistico. La sua visione potrebbe essere sicuramente cautelata, ma non impedita ed alcuni degli episodi potrebbero essere un ottimo spunto per la discussione sull’orgoglio dell’uomo e le sue ambizioni.

Il secondo esempio viene da un altro film di Mel Gibson (più recente di The Passion): La battaglia di Hacksaw Ridge. In questo film viene raccontata la storia di un Avventista che, obbligato alla leva, va in battaglia senza mai usare le armi. Desmond Doss (il film è basato su una storia vera) vive tutti gli attimi della battaglia e correndo per il campo dove continuano a morire diversi uomini, riesce a salvare diversi commilitoni. In questo caso la violenza della battaglia (come può anche accadere nelle scene della sbarco in Normandia di Salvate il Soldato Ryan) ha un suo scopo: quello di mostrare la crudezza della guerra e l’eroismo dell’uomo non violento di fronte ad un evento catastrofico e portatore di morte. Il film in questione può essere un ottimo messaggio di come colui che crede possa dare un contributo assolutamente originale della testimonianza della propria fede in un momento di crisi.

Il terzo esempio è tratto dall’Universo Marvel. Ricordando che gli autori come Stan Lee ed altri hanno dovuto almeno sino agli anni Ottanta rispettare un codice di condotta, mi voglio soffermare sul personaggio di Daredevil. Nella serie di Netflix adesso disponibile vi sono scene piuttosto violente, ma il contrasto tra Bene e Male, tra Giustizia ed Ingiustizia è ben tracciato. L’accettazione/non accettazione del Divino è uno dei temi principali: la lotta contro il crimine può diventare violento, nonostante il nostro credere ci porta ad altre scelte. I conflitti che contrappongono valori sono ancora oggi di attualità e possono essere ottimi spunti per riflessioni e per discussione.

La rapida rassegna che abbiamo fatto ci porta alla conclusione che i media, come ogni cosa prodotta dal mondo, vanno conosciuti e vanno vagliati. Essi possono diventare oggetto e spunto di discussione. Accettare di vivere in un mondo violento, quindi, significa anche accettare che oggi le produzioni filmiche vadano sempre più verso l’iper-realismo e di questo bisogna dare una valutazione critica, senza né respingerle totalmente né totalmente assuefarsi, ma valutandone l’utilità.

“Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio.” I Cor. 10,31.

(Valerio Bernardi)

Un “Padre nostro” a misura d’uomo? (2)

Ha fatto scalpore, in questo mese di Novembre 2019, la notizia della volontà di Papa Francesco di modificare la sesta richiesta del Padre Nostro: da “non indurci in tentazione” a “non lasciarci cadere in tentazione” (tra i tanti, si veda queto articolo di Famiglia Cristiana). Abbiamo riportato la lettura di Pablo e José Martinez, nel libro Abba Padre. Teologia e psicologia della preghiera,

Ecco di seguito la lettura che ne dà John Stott

Il messaggio del Sermone sul monte. Una controcultura cristiana
Edizioni GBU, 2017
ISBN: 978-88-96441-90-9
pp. 296, € 16,00

(pp. 183–186)

 

 

 

 

 

Le ultime due richieste vanno probabilmente intese come l’aspetto negativo e quello positivo della stessa richiesta: Non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno. Il peccatore il cui errore passato è stato perdonato desidera essere liberato dalla sua tirannia nel futuro. Il senso generale della preghiera è chiaro, ma ci troviamo di fronte a due problemi. Primo, la Bibbia dice che Dio non ci tenta (e non può tentarci) con il male (Giacomo 1:13). Dunque qual è il senso del pregare che non faccia una cosa che ha promesso di non fare mai? Taluni rispondono a questa domanda interpretando la “tentazione” come “prova”(Cfr. la New English Bible, la quale riporta «Non metterci alla prova»), spiegando che Dio, sebbene non ci induce a peccare, mette alla prova la nostra fede e il nostro carattere. Questo è possibile. Una spiegazione migliore mi pare sia che «non ci esporre» vada compreso alla luce della controparte «ma liberaci», e che “maligno” vada reso come una persona (come in 13:19). In altre parole, ci si riferisce al diavolo che tenta il popolo di Dio a peccare e dal quale dobbiamo essere “liberati” (rusai).
Il secondo problema concerne il fatto che la Bibbia dice che la tentazione e la prova ci fanno del bene: «Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate» o «tentazioni svariate» (Giacomo 1:2). Se dunque sono a nostro beneficio, perché dovremmo pregare di non esservi esposti? La probabile risposta è che la preghiera è piuttosto riferita all’essere in grado di superare la tentazione, che non a evitarla. Forse possiamo riformulare l’intera richiesta così: «Non permetterci di essere talmente esposti alla tentazione da esserne sopraffatti, ma liberaci dal maligno». Dietro queste parole che

(P. 183)

Gesù ci ha dato per pregare ci sono allora le implicazioni secondo le quali il diavolo è troppo potente per noi, che noi siamo troppo deboli per respingerlo, ma che il nostro Padre celeste ci libererà se lo invochiamo.
Le tre richieste che Gesù mette sulle nostre labbra sono meravigliosamente esaurienti. Coprono, in linea di massima, tutti i nostri bisogni umani: materiali (pane quotidiano), spirituali (perdono dei peccati) e morali (liberazione dal maligno). Perciò, quando eleviamo questa preghiera, stiamo esprimendo la nostra dipendenza da Dio in ogni area della nostra vita umana. Inoltre il cristiano trinitario vedrà in queste tre petizioni una velata allusione alla trinità, poiché è tramite il creato del Padre e la sua provvidenza che riceviamo il nostro pane quotidiano, è per la morte espiatoria del Figlio che possiamo essere perdonati ed è per la potenza dello Spirito che dimora in noi che siamo liberati dal maligno. Non c’è da stupirsi se alcuni antichi manoscritti (sebbene non i migliori) concludano questa dossologia attribuendo «il regno e la potenza e la gloria» a questo Dio trino al quale appartengono, e soltanto a lui.
Gesù dunque pare aver offerto il Padre Nostro come modello per la preghiera vera, la preghiera cristiana, a differenza delle preghiere dei farisei e dei pagani. Certamente si potrebbe recitare la preghiera del Padre Nostro in modo ipocrita o meccanico o entrambe le cose. Ma se crediamo a quello che diciamo allora questa preghiera è l’alternativa divina a entrambe le forme di falsa preghiera. E non credo sia eccentrico vedere una tale alternativa in entrambe le parti della preghiera.
L’errore dell’ipocrita è l’egoismo. Persino nelle sue preghiere egli è ossessionato dalla propria immagine e dal come appare agli occhi dell’osservatore. Ma nella preghiera del Padre Nostro i cristiani sono ossessionati da Dio, dal suo nome, dal suo regno e dalla sua volontà, non dalla propria. La preghiera del vero cristiano ruota sempre intorno a Dio e alla sua gloria. È dunque l’esatto contrario dell’esibizionismo degli ipocriti che usano la preghiera come veicolo per la propria gloria.

(p. 184)

L’errore del pagano è l’incuranza. Continua a blaterare dando voce alla sua liturgia senza senso. Non pensa a ciò che dice, perché la sua preoccupazione è il volume, non il contenuto. Ma Dio non è colpito dalla prolissità. Di fronte a questa follia Gesù ci invita a rendere noti i nostri bisogni al nostro Padre celeste con umile raccoglimento, esprimendo così la nostra quotidiana dipendenza da lui.
La preghiera cristiana, dunque, è vista in contrasto alle sue alternative non cristiane. È Dio–centrica (interessata alla gloria di Dio) al contrario di quella egocentrica dei farisei (preoccupati della propria gloria). Ed è intelligente (cioè esprime una dipendenza ponderata) al contrario degli scongiuri meccanici dei pagani. Quando andiamo a Dio in preghiera non lo facciamo in modo ipocrita come attori che cercano l’applauso degli uomini né in modo meccanico come pagani chiacchieroni la cui mente non è nei loro borbottii, ma in modo ponderato, umile e fiducioso come dei bambini che vanno al padre.
Si vedrà che la differenza fondamentale tra i vari tipi di preghiera è nelle immagini di Dio fondamentalmente diverse che si celano dietro a esse. Il tragico errore dei farisei e dei pagani, degli ipocriti e degli idolatri, giace nella loro falsa immagine di Dio. Infatti nessuno appartenente alle due categorie pensa affatto a Dio, poiché l’ipocrita pensa soltanto a se stesso mentre il pagano pensa ad altre cose. Che tipo di Dio potrebbe essere interessato a tali preghiere egoistiche e distratte? Dio è forse un prodotto che possiamo usare per promuovere il nostro status o un computer in cui possiamo introdurre dati in modo meccanico?
Ci allontaniamo da queste nozioni indegne e ci rivolgiamo con sollievo all’insegnamento di Gesù che Dio è il Padre nostro nei cieli. Dobbiamo ricordare che egli ama i suoi figli con l’affetto più tenero, che vede i suoi figli anche nel segreto, che conosce i suoi figli e tutti i loro bisogni prima che glieli chiedano e che agisce in favore dei suoi figli con la sua potenza celeste e regale. Se dunque permettiamo alla Scrittura di modellare la nostra immagine di Dio, se rammentiamo il suo carattere ed esercitiamo la sua presenza, non pregheremo mai

(P. 185)

con ipocrisia ma sempre con integrità, mai meccanicamente ma sempre in modo riflettuto, da figli di Dio quali siamo.

(P. 186)

Chi è John Stott?

Un “Padre Nostro” a misura d’uomo? (1)

Ha fatto scalpore, in questo mese di Novembre 2019, la notizia della volontà di Papa Francesco di modificare la sesta richiesta del Padre Nostro: da “non indurci in tentazione” a “non lasciarci cadere in tentazione” (tra i tanti, si veda queto articolo di Famiglia Cristiana).

Ecco di seguito la lettura che ne danno Pablo e José Martinez
Leggi anche l’opinione di John Stott

Abba Padre. Teologia e psicologia della preghiera,
Edizioni
GBU 1998,
ISBN: 888827006X,
p. 304,
€ 13,43

 

 

 

 

(pp. 296–310)
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SESTA RICHIESTA
“E NON INDURCI IN TENTAZIONE, MA LIBERACI DAL MALE”

Il perdono divino, sollecitato nella richiesta precedente, non basta per risolvere totalmente il problema spirituale causato dal peccato. A che cosa servirebbe che Dio ci per­donasse una, cento, mille volte, se dovessimo sempre ine­vitabilmente soccombere all’impulso delle nostre ten­denze peccaminose? Al perdono di Dio si deve unire la sua protezione affinché non siamo costantemente vittime delle forze del male. A questa necessità risponde la sesta e ultima richiesta, articolata in due parti, che troviamo nel Padre Nostro. Se la precedente ci dà pace dopo le cadute della giornata, quest’ultima ci infonde incoraggiamento per affrontare i rischi morali del nuovo giorno. Ogni cre­dente può dire con Lutero: “Con la quinta richiesta vado a letto, con la sesta mi alzo”. (p. 296)

 

Non indurci in tentazione
Il verbo “tentare”, nell’Antico Testamento (ebraico nasah) e nel Nuovo Testamento (greco peirazo), significa, in generale, mettere alla prova. Questa azione poteva — e può — avere un fine salutare: irrobustire la fede e dimostrare la sua au­tenticità. Fu quello il caso di Abramo, che Dio “tentò” o mise alla prova chiedendogli di offrire suo figlio Isacco in sacrificio (Gen 22). Analogo era il fine delle difficoltà che Israele dovette affrontare nel periodo in cui errò nel de­serto (Dt 8,2) o il problema della convivenza con po­poli pagani in Palestina (Gdc 2,22; 3,1.4). Anche quando mise Giobbe alla prova, l’intenzione di Dio era per il bene.

Lo stesso significato positivo ha la tentazione in alcuni testi del Nuovo Testamento (I Pt 1,6; 4,12), perché l’e­sperienza della prova, in fondo, deve essere motivo di gioia (Gc 1,2.3.12). Mettere alla prova entra nel pro­gramma di Dio. Il suo Figlio unigenito “fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato” (Mt 4,1), e la stessa via devono seguire oggi i figli di Dio in Cristo, poi­ché “un discepolo non è superiore al maestro, né un servo superiore al suo signore” (Mt. 10,24). Come affermava Tertulliano, “nessuno che non sia passato per la tenta­zione può entrare nel regno dei cieli”.1

Questo elemento di prova nell’esperienza cristiana non è dovuto al fatto che Dio si compiace per la sofferenza dei suoi figli. “Non è volentieri che egli umilia e affligge i figli dell’uomo” (Lam 3,33). Ma sa che non ci sono succedanei che permettano di prescindere da quell’elemento, essen­ziale per il rafforzamento spirituale. L’albero si radica tanto più solidamente quanto più forte è il vento che lo sferza. Il nostro organismo fisico accresce la sua capacità immunolo­gica quando soffre l’attacco di virus o di altri agenti pato­geni. Qualcosa di simile succede nella vita spirituale. Come abbiamo già detto, la prova ha effetti vivificanti.

  1. Tertulliano, De baptismo, 20, a cura di B. Luiselli, Torino, Paravia 1968. (p. 297)

 

Su questo Giacomo si esprime con parole molto significative quando, riferendosi all’uomo che sopporta la prova, di­chiara: “Riceverà la corona della vita” (Giac. 1,12). La frase non deve farci pensare unicamente a una bene­dizione escatologica, ma a una vita di pienezza spirituale risultante dalla prova, beneficio che segue immediata­mente al trionfo sulla tentazione.

Anche Paolo era cosciente di questa realtà, e se Gia­como considerava “beato” o fortunato chi subisce e vince la tentazione (Gc 1,12), Paolo vedeva nelle tri­bolazioni — sempre causa di prova — un motivo per gloriarsi (Rom 5,3-5; 2 Cor 12,9.10). Con più ragione di Nietzsche, il credente può dire: “Tutto quello che non mi distrugge mi rafforza”, con la particolarità che nessuna prova è abbastanza forte per distruggerlo (1 Cor 10,13).

Ma la prova porta sempre con sé un rischio, una possi­bilità di fallimento. Adamo non ne uscì vittorioso; e nep­pure Israele, in molte occasioni. È innumerevole il nu­mero dei credenti, prima e dopo Cristo, che sono stati sconfitti dalla tentazione. È dunque ovvio che ogni volta che siamo tentati corriamo il pericolo di soffrire un grave danno morale. Per questo è necessario chiedere: “Non in­durci in tentazione”.

Ma la richiesta porta con sé una difficoltà teologica. È Dio che cí pone in situazioni che minacciano la nostra in­tegrità spirituale? È lui, in ultima istanza, il “tentatore”? Spesso nell’Antico Testamento si attribuisce a Dio la causa di tutto quello che avviene (p.es. Is 45,7; Am 3,6): il fine è quello dí esaltare la sua sovranità. Per quello, probabil­mente, furono redatte delle preghiere in cui si invoca Dio come se fosse lui l’autore dell’incitazione al peccato. Joa­chim Jeremias cita un’antichissima preghiera vespertina ri­tenuta ben nota al tempo di Gesù:

“Non condurre il mio passo in potere del peccato e non portarmi in potere della colpa e non in potere della tentazione, e non in potere dello scandalo.” (p. 298)

 

Subito dopo dà la sua spiegazione esegetica: “Tanto l’accostamento di peccato–colpa–tentazione–scandalo quanto l’espressione ‘portare in potere’ mostrano che la preghiera serale ebraica non pensa ad un’azione personale di Dio, bensì ad una sua volontà permissiva (per usare l’espressione tecnica grammaticale: il causativo ha qui una sfumatura permissiva)”.2 Si può dire la stessa cosa della richiesta del Padre Nostro.

Nel considerare questo problema dobbiamo tener pre­sente l’insieme dei riferimenti biblici. Da lì si deduce che in alcuni casi è Dio stesso che, con fini sommamente profi­cui, dispone qualche tipo di prova per i suoi figli. È il suo Spirito che ci porta al “deserto” della tentazione. Ma non è sempre così. Indipendentemente dalla occasionale inizia­tiva di Dio, la maggior parte delle nostre tentazioni deriva dalla nostra propria concupiscenza (epithymía — Gc 1,13.14), o da incitazione satanica nata dall’impegno di­struttivo del maligno. Queste sono le più pericolose, poi­ché non corrispondono a un proposito positivo, ma al­l’esatto opposto.

In ogni caso, dobbiamo chiedere la protezione del Padre celeste, senza la quale difficilmente potremmo evi­tare la caduta. Non chiederemo di essere liberati dall’espe­rienza — inevitabile — della tentazione, ma di non soc­combere al suo potere. Questa era l’interpretazione data da Origene alla sesta richiesta del Padre Nostro, alla quale aggiungeva questa osservazione: “Chi cade in tentazione vi rimane dentro, perché, secondo me, rimane prigioniero nella sua trappola”.3 La cosa grave è che molte volte chi cade in quel modo si trova bene nella sua situazione. È en­trato nei domini del male e vi si installa. Come si può en­trare nel regno di Dio (Mt 19,23) e si può entrare nella vita (Mt. 19,17), così, coscientemente e deliberatamente, sí

  1. Jeremias, Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, pp. 137-138.
  2. Origene, De oratione, 29, 9, in Migne, Patrologia graeca, volli, pp. 413-562. (p. 299)

 

può entrare nel feudo del diavolo e della morte che sog­giace alla tentazione. Santos Sabugal ha ampliato questo pensiero con grande saggezza: “`Entrare nella tentazione’ è dunque un’espressione del tutto analoga a entrare nel regno… o ‘entrare nella vita’…poiché in tutti e tre i casi in­dica l’entrata all’interno dello spazio metaforico della ‘ten­tazione’ e del ‘regno’ o della ‘vita’. Ebbene, entrare in que­sti ultimi equivale a prendere definitivamente possesso di questa realtà salvifica; ‘entrare nella tentazione’ significa, a rigore, penetrare al suo interno per parteciparvi personal­mente o entrare in comunione con essa appropriandosene e possedendola; in altre parole: insediarsi temporanea­mente o definitivamente nella tentazione o rimanerne vit­tima”.4 Terribile tragedia! È urgente che invochiamo il Padre sollecitando il suo aiuto per liberarcene.

Sono molte le situazioni in cui dobbiamo rivolgerci a Dio con la sesta richiesta del Padre Nostro. Nel Nuovo Te­stamento ci sono indicazioni di un’ora escatologica di par­ticolare tribolazione (Mt 24,21) e tentazione (Ap 3,10). Caratteristiche di questa ora saranno la persecuzione del popolo di Dio e l’apostasia. Non staremo già vivendo ciò che precede quell’epoca drammatica? Mai prima tante e così potenti forze si erano unite contro Dio e il suo regno. Il mondo, soprattutto quello occidentale, diventa sempre più ateo e anticristiano. La fede e la morale cristiana sono oggetto di attacchi rinnovati, frontali o mascherati, o di spregio, calunnia e scherno.

Ma la tentazione non si limita a un momento determi­nato della storia né ad alcune forme concrete di opposi­zione alla testimonianza evangelica. È un’esperienza co­mune a tutti i tempi con una grandissima diversità di ma­nifestazioni. Lutero divideva le tentazioni in due grandi gruppi: quelle che ci vengono da sinistra e quelle che ci attaccano da destra. Il primo “ci spinge all’ira, all’odio, alla durezza, al disgusto, all’impazienza, quando ci troviamo

  1. S. Sabugal, Abba, p. 710. (p. 300)

 

nella malattia, nella povertà, nell’onta e ín tutto ciò che ci ferisce… L’altra prova è quella di destra, che spinge all’impurità, alla libidine, all’orgoglio, all’avarizia e alla vanagloria e a tutto ciò che ci piace, specie se si fanno delle concessioni alla propria volontà, si loda la sua pa¬rola, il suo consiglio e la sua opera, la si onora tenendola in alta considerazione. È la prova più rovinosa…”.5

Tra queste ultime forme di tentazione potremmo anche collocarne alcune in cui perfino i più “santi” possono facilmente cadere: l’orgoglio, l’invidia, l’intolleranza, la mancanza di amore, le smanie di potere e di autorità, l’ipocri¬sia che copre con l’apparenza esterna una grande miseria interiore. Questi peccati possono apparire — e spesso ap¬paiono — nell’ambito della comunità cristiana, nel campo del servizio del Signore. Per questo sono stati chiamati “peccati del santuario”. Chi rimane preso nella loro rete non solo soffre personalmente le conseguenze, ma causa dolore e grave danno intorno a sé.

Più importante tuttavia delle forme di peccato cui può spingerci la tentazione, è la natura stessa di quest’ultima. Equivale sempre a un confronto tremendo. Da un lato, si erge il nostro io, avido di autonomia, di benessere e pia¬cere. Dall’altro, c’è Dio con le richieste morali della sua santa legge, che esigono fiducia e la nostra obbedienza, qualunque ne sia il prezzo.

In quel confronto possiamo arrivare all’audacia, ridi¬cola quanto impertinente, di “tentare Dio”, di pretendere che la sua volontà e la sua azione si sottomettano ai nostri desideri, in generale peccaminosi. Dio cessa di essere sog¬getto per trasformarsi in oggetto di prova malevola. Paz¬zia! Così dovettero riconoscere gli israeliti che in varie occasioni tentarono Dio nel deserto assediandolo con le loro lamentele e le loro richieste capricciose (Es 17,7; Nm 14,22.23; Sal. 78,18.41 e 56; Sal 95,9). Ma questa pretesa fallisce sempre. Non potrebbe essere diversamente.

  1. M. Lutero, Il Padre Nostro…, pp. 72,73. (p. 301)

 

Dío non può cessare di essere Dio. Davanti al Creatore, la creatura può adottare solo una posizione: quella della sot­tomissione. Ma non la sottomissione forzata dí uno schiavo, bensì quella di un figlio che con fiducia e con gioia si mette nelle mani del Padre saggio, giusto e miseri­cordioso.

Allontanare l’uomo da quella sottomissione è la finalità di ogni tentazione satanica. Così apparve evidente nel­l’Eden, e nel deserto della Giudea dove fu portato Gesù. In tutti e due gli esempi si mette in rilievo la sottigliezza della tentazione. Nel primo osserviamo una deformazione della verità che poteva far pensare a un’arbítrio da parte di Dio. Perché doveva riservare esclusivamente per sé, senza condividerla con le sue creature umane, fatte a sua immagine, la conoscenza del bene e del male? Non è per­ché Dio non voleva rivali simili a sé? E non minore fu la sottigliezza nella triplice tentazione di Gesù, anche se i modi di questa furono notevolmente diversi. Il diavolo in­cita il Figlio di Dio a compiere azioni che di per sé erano assolutamente lecite: soddisfare la sua fame col pane, ac­creditare la sua filialità divina con un miracolo spettaco­lare e conquistare il mondo servendosi della via più breve e meno costosa. Ma le tre proposte sataniche erano con­trarie ai piani di Dio.

La verità è che non sempre quel che è lecito è conve­niente (1 Cor 6,12). Le cose buone in sé, come il pane, di­ventano peccaminose se ci portano a non essere leali verso Dio. Questo ancora una volta riporta alla nostra mente la pericolosità di certe benedizioni. Per esempio, la facilità con cui un successo, dovuto alla grazia divina, ci gonfia di vanagloria; lo zelo per la verità ci rende eccessi­vamente intolleranti; l’onorevole posizione di ministri di Dio ci solleva a detestabili livelli di autoritarismo; il pos­sesso della verità inculca in noi la falsa idea che il nostro dogmatismo è fedeltà e che non ci sono interpretazioni valide della verità oltre la nostra (da quel dogmatismo alla pretesa — più o meno inconscia — di infallibilità c’è solo un passo). In tutti questi casi si è caduti in una tentazione  (p. 302)

 

sottile nata proprio nell’ambito dell’esperienza della fede. L’aforisma “la corruzione del meglio è il peggio” esprime una verità tanto evidente quanto triste.

Nessuno è al sicuro dalle tentazioni, né da quelle più evidenti e violente né da quelle più soavi e mascherate. Paolo conosceva molto bene il motivo della sua parola am­monitrice: “Chi pensa di stare in piedi, guardi di non ca­dere” (I Cor. 10,12). Di fronte a un avvertimento così so­lenne, non sarà di troppo fare nostra la supplica del salmi­sta: “Chi conosce i suoi errori? Purificami da quelli che mi sono occulti. Trattieni inoltre il tuo servo dai peccati volon­tari e fa’ che non prendano il sopravvento su di me; allora sarò integro e puro da grandi trasgressioni” (Sal 19,12.13).

Non solo dalla superbia insolente dobbiamo essere preservati, ma da ogni zoppicamento e caduta nel male. Per questo qualche volta dobbiamo chiedere: “Non in­durci in tentazione”.

Questa richiesta però non deve essere ispirata solo dalla gravità del pericolo. Deve nascere dal cuore con ac­centi di fiducia trionfale. A un santo timore si deve unire la certezza che Dio risponderà favorevolmente a chi in­voca il suo aiuto. La sua risposta è garantita dal ministero di intercessione di Cristo, che, davanti alle tentazioni dei suol, prega per loro perché la loro fede non venga a man­care (Lc 22,32; Rom 8,34). L’efficacia della sua interces­sione è assicurata non solo per la suprema autorità che le è stata data nel cielo e sulla terra (Mt 28,18), ma anche per la comprensione e la compassione di colui che fu ten­tato come noi in ogni cosa (Eb 4,15). “Poiché egli stesso ha sofferto la tentazione… può venire in aiuto di quelli che sono tentati” (Eb 2,18).

Il suo aiuto ci giunge attraverso l’azione dello Spirito Santo, suo vicario, al quale Gesù stesso diede il nome di Paracleto (Gv 14,16sg.; 16,13-15), cioè colui che sta a fianco per aiutare guidando, consigliando e rafforzando. Dalla sua azione lo spirito del credente riceve forza (2 Tm 1,7) per riuscire a essere “più che vincitore” in tutte le prove “in virtù di colui che ci ha amati” (Rom 8,37) (p. 303)

 

In questo modo si compie l’incoraggiante promessa fatta co­noscere da Paolo: “Nessuna tentazione vi ha colti, che non sia stata umana; però Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscirne, affinché la possiate soppor­tare” (1 Cor 10,13).

Se dovessimo riassumere quanto esposto, diremmo che la nostra esperienza della tentazione presenta un duplice aspetto, con un contrasto tanto vivo quanto quello offerto dal paragone tra Adamo e Cristo. In Adamo — siamo suoi discendenti — e come Adamo, siamo tentati e ca­diamo. In Cristo, attraverso Cristo e come Cristo siamo tentati e vinceremo. Sempre? Sempre che Cristo ci riem­pia del suo Spirito.

Ma liberaci dal male

Il termine “male” (greco ponerós) può avere due signifi­catí: il male o il diavolo e il malvagio, il maligno. En­trambi compaiono spesso nel Nuovo Testamento. Alcune volte ponerós equivale a male morale, ad azione ingiusta, colpa, delitto. La parola ha questo significato nella do­manda di Pilato: “Che male ha fatto?” (con riferimendo a Gesù) (Mt 27,23). Altre volte il termine è un aggettivo unito a qualche nome. Così leggiamo di uomini malvagi (2 Tm 3,13), di tempi malvagi (Ef 5,16) di un mondo [o se­colo] malvagio (Gal 1,4). Dal punto di vista morale, tutto quello che ci sta intorno è malvagio. Tutto esercita un’in­fluenza dannosa della quale dobbiàmo essere liberati.

Ma nella Bibbia si menziona anche un cuore malvagio (Ebr. 3,12). È per natura il cuore di ogni essere umano. Il male non si trova solo all’esterno; sta anche dentro di noi. Se mi dispongo a parlare di uomini malvagi, devo comin­ciare parlando di quell’uomo malvagio che sono io. È inu­tile che cerchiamo di nascondere o di dissimulare la no­stra vera identità. Juan Ramón Jiménez iniziava una delle sue poesie con questa frase. “Io non sono io…”. È ovvio che le sue parole non devono essere interpretate alla lettera. (p. 304)

 

Quel che segue, di contenuto profondo, fa vedere quanto sia problematica l’anima umana, dolorosamente divisa. Ma sono molte le persone che, nella loro ansia di discolparsi delle loro azioni e inclinazioni cattive, negano di essere quello che realmente sono. Vana chimera! Io sono io con tutto il mio carico di umanità caduta, con le mie passioni e debolezze, con il mio egoismo e il mio or­goglio, le mie arrabbiature e i miei risentimenti, con la mia tendenza a ciò che è terreno e non a ciò che è celeste. La verità è che Dio ha messo in me una natura nuova, un nuovo io; ma sopravvive il vecchio io, causa di gran parte dei miei mali. Per questo devo pregare: “Da questo io, che aborrisco, liberami, Signore”.

Esaminiamo ora la seconda parte della richiesta, tradu­cendo ponerós con “il maligno”, cioè Satana. Questa era la traduzione preferita dai padri orientali della chiesa a partire da Origene.

Fu il diavolo che tentò Gesù, che chiese potere per va­gliare gli apostoli come grano (Lc 22,31), che spinse Giuda al tradimento (Lc 22,3) e che indusse Anania e Saffira a mentire (At 5,3), è il diavolo che cerca di se­durre il credente per portarlo fuori strada (2 Cor 11,3), che “va attorno come un leone ruggente cercando chi possa divorare” (1 Pt 5,8). Egli è il grande avversario, causa di innumerevoli tentazioni.

Quando calpestiamo il terreno della demonologia dob­biamo essere prudenti. Non possiamo ravvivare le fantasie medioevali con le loro stravaganti immagini del diavolo. Non è neppure sensato vedere demoni da tutte le parti e attribuire all’intervento di Satana fatti (per esempio ma­lattie) che hanno cause puramente naturali. La puerilità e l’esagerazione favoriscono lo scetticismo di coloro che tacciano di ridicolo qualsiasi idea di un diavolo reale.

D’altra parte sarebbe un errore interpretare tutti i testi biblici che si riferiscono al diavolo e ai suoi accoliti come pura mitologia. Anche prescindendo dall’interpretazione letterale che, in buona esegesi, deve essere data a molti racconti biblici, particolarmente a quelli riguardanti esorcismi (p. 305)

 

sembrano innegabili molti fenomeni difficili da spiegare se si respinge totalmente l’esistenza dí poteri spi­rituali invisibili che intervengono nella vita degli umani. Il successo di diverse forme di occultismo nei paesi occiden­tali, con adepti di tutte le classi sociali e culturali, non può essere etichettato come “snobismo”. Il fatto che non solo l’occultismo, ma anche il satanismo, con i suol riti e i suoi orripilanti sacrifici (alcuni con vittime umane) si diffondano in modo incredibile in paesi civili, fa pensare che tali fenomeni siano causati da radici profonde che pe­netrano in terreni misteriosi al di là della persona stessa e del gruppo sociale al quale appartiene.

Il mistero è chiarito dalla Sacra Scrittura e il sommario di quello che essa insegna ce lo offre Paolo quando scrive: “Il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, avversari umani, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luo­ghi celesti” (Ef 6,12), sottomessi al “principe della po­tenza dell’aria, di quello spirito che opera oggi negli uo­mini ribelli” (Ef 2,2), “il principe di questo mondo” (Gv 16,11).

Nessuno dovrebbe ignorare sprezzantemente la rivela­zione biblica. Mai come nel nostro secolo l’umanità è ap­parsa con tratti demoniaci così sorprendenti. L’ingiustizia, la brutalità e la violenza sono giunti a tali estremi che è difficile vedervi solo l’orribile capacità dell’uomo per il male. In certi momenti sembrano sovrumane le forze che lottano per la distruzione umana, sia nell’ambito fisico sia in quello morale. L’unica spiegazione plausibile, malgrado le negazioni e le beffe degli scettici, è che dietro a tutti í mali che tormentano il mondo ci sia “il maligno”.

L’influenza di un avversario così sinistro non colpisce solo il mondo, separato da Dio. Arriva anche al popolo di Dio. Si manifesta nell’esperienza di ogni cristiano. L’es­sere figli di Dio non impedisce al diavolo di assediarci. Ri­cordiamo le parole di Gesù raccolte da Luca (Lc 22,31). I suoi discepoli possono essere violentemente vagliati dal maligno.  (p. 306)

 

Come Lutero ci ha insegnato a cantare, Satana “armato di furor e inique frodi, mai cessa di tramar”.

La furia di Satana appare evidente nella persecuzione, nelle grandi perdite, in tribolazioni dure, ín malattie dolo­rose, nella morte di persone molto amate, nell’angoscia dell’abbandono o della solitudine. Di fronte all’assalto di queste afflizioni, quanto bisogno abbiamo di gridare a Dio perché la nostra fede non venga meno! Ma la fede, rafforzata nella prova, resiste vittoriosamente alle mag­giori avversità. Helmut Sauter, nel suo commento illu­strato del Padre Nostro, riferisce l’esperienza di un gio­vane rabbino che fuggiva su un canotto, con la moglie e il figlioletto, dall’inquisizione spagnola. Nella traversata morirono il bambino e sua madre. Alzando le mani al cielo, l’ebreo si rivolge a Dio con una preghiera patetica: “Dio d’Israele, sono qui, fuggendo per poterti servire senza essere molestato, per obbedire ai tuoi comanda­menti e santificare il tuo nome. Ma tu hai fatto tutto per­ché io non creda in te. Se pensi di ottenere di allonta­narmi dalla tua via, ti dico, Dio e Padre mio, che non ci riuscirai. Puoi uccidermi, togliermi quanto ho di meglio e di più caro al mondo. Puoi tormentarmi fino alla morte, ma io crederò sempre in te, ti amerò [anche tuo mal­grado!]”.6 Possiamo criticare la teologia di quest’uomo, ma dobbiamo ammirare la vittoria della sua fede in una esperienza di tentazione in cui probabilmente molti di noi sarebbero naufragati.

Ma non sempre il diavolo attacca con la ferocia del leone. A volte lo fa come lupo travestito da pecora o come astuto serpente che sa adattarsi a tutti i terreni, a tutte le situazioni, usando in ciascun caso la tattica più conve­niente. La mente demoniaca sa combinare magistralmente tutti i fattori e tutte le circostanze che nella vita di una persona concorrono a farne la sua presa. Un dispiacere, un disinganno, un’esperienza molto frustrante, un’ora dí

  1. H. Sauter, Vater Unser, Innsbruck—Wien, Tyrolia Verlag p. 77. (p. 307)

 

scoraggiamento, di solitudine o depressione, un momento di perplessità davanti ai problemi teologici posti dalla sof­ferenza con l’apparente assenza di Dio, il fatto che i mal­vagi prosperino e che molti credenti siano penalizzati, sono tutti materiali eccellenti di cui il diavolo si serve per aumentare la carica esplosiva al momento dell’attacco. Giunto il momento opportuno, sussurra all’orecchio del­l’anima: “Vivi la tua vita; non essere ingenuo. Hai il di­ritto di goderne con tutto quello che essa ti offre e ti da­rebbe se tu non fossi accecato dai tuoi pregiudizi morali e religiosi, per i tuoi puerili ideali romantici sulla giustizia, l’amore, la lealtà, la coscienza… È ora che tu smetta di re­primerti. Hai perso gli anni migliori della tua vita; ma ne rimane ancora molta davanti a te. Deciditi prima che sia troppo tardi”. Chi non ha sentito qualche volta questa voce? Voce soave, con accenti di logica, ma è la voce del “padre della menzogna”, di quello che è “omicida fin dal principio” (Giov. 8,44). Quanto è importante che in quei momenti di maggior vulnerabilità, seguendo l’ammoni­mento del Maestro, vegliamo e preghiamo per non cadere in tentazione (Mt 26,41)!

Probabilmente il grande Nemico conosce i suoi limiti. Nel libro di Giobbe ci vengono mostrati i limiti ai quali si vede sottoposto dalla sovranità di Dio. Ma, se non può farci affondare, farà tutto il possibile per annullarci spiri­tualmente. Può rassegnarsi all’idea che continuiamo a es­sere cristiani, ma cercherà con tutti i mezzi di fare di noi dei credenti tiepidi, letargici, dominati dall’autocompiaci­mento, quando non da uno spirito genuinamente fari­saico, lontani da qualsiasi atteggiamento serio di impegno al servizio di Cristo; se possibile inattivi, ma in ogni caso privi di intensità spirituale.

Il “maligno” è terribilmente sagace quanto instanca­bile. Certamente è temibile. Anche nel suo famoso inno della Riforma, Lutero fa riferimento al potere demoniaco e dichiara: “Nessun quaggiù lo può domar”. Ma questa realtà, oscura e scoraggiante, non dovrebbe oscurarne un’altra, superiore, splendida. Se il diavolo è potente, Dio, nostro Padre, è onnipotente.  (p. 308)

 

È Signore sovrano nei cieli e sulla terra. Inoltre, Dio ha fatto irruzione nella sto­ria. Incarnato in Cristo, venne al mondo “per distruggere le opere del diavolo” (I Giov. 3,8). Satana è il “forte”, ma Cristo è “il più forte” che lo vince e lo spoglia (Mt. 12,24-29). Qualcosa di questa sconfitta si intravede nella visione descritta da Gesù ai suoi discepoli. “Io vedevo Sa­tana cadere dal cielo come folgore” (Lc 10,18). Ma il trionfo di Gesù si sarebbe consumato gloriosamente nella sua morte e nella sua risurrezione. La croce, che sembrava il trionfo definitivo di Satana, fu l’arma che ferì grave­mente il suo capo, come simbolicamente era stato antici­pato poco dopo la caduta di Adamo (Gen 3,15). La glo­ria di questa vittoria su Satana sarebbe stata accresciuta la domenica di Pasqua quando Cristo risorse vincitore della morte. Questo è l’ultimo grande nemico (1 Cor 15,26) che dipende dal potere del diavolo (Eb 2,14), ma è un nemico sconfitto come lo stesso diavolo. Per questo, quando nel Padre Nostro chiediamo “liberaci dal mali­gno”, noi invochiamo un beneficio garantito dalla grande vittoria di Gesù. Di conseguenza la nostra richiesta deve essere impregnata di fiducia. Il vecchio “serpente” seb­bene irrimediabilmente ferito al capo, continuerà a pic­chiare i santi del Signore con i suoi colpi dí coda; ma il suo potere e il tempo della sua azione sono limitati. Si av­vicina il giorno ín cui si compirà la promessa apostolica: “Il Dio della pace stritolerà presto Satana sotto í vostri piedi” (Rom 16,20).

Nel frattempo, dovremo lottare per non essere sconfitti da lui. Dovremo “vegliare e pregare” per non cadere in tentazione. Spesso il segreto della vittoria sarà la fuga dalle situazioni propizie alla sconfitta (1 Tm 6,11 e con­testo). E sempre pericolosa la presunzione di chi si ritiene al sicuro da qualsiasi caduta. Anche il più santo può ca­dere (1 Cor 10,12). Ma una fede umile, che si nutre delle promesse di Dio e che è radicata nei trionfi della croce e nella risurrezione di Cristo, può vincere il maligno e i suoi alleati (I Gv 2,14b; 5,4). (p. 309)

 

Con questa fede il credente, quando prega: “Liberaci dal male” (o dal maligno), può aggiungere, con speranza e con gioia: “Ci libererai!”. (p. 310)

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