Dio, l’Io e la Bibbia di Moby Dick

Il mondo di Moby Dick

“Il nemico nel suo sembiante è meno orribile di quando infuria nel petto dell’uomo”. Così in un passaggio di Young Goodman Brown, racconto breve di Nathaniel Hawthorne. In un certo senso, Moby Dick; or, the Whale (1851) è tutto qui. Il romanzo di Herman Melville (1819-1891) è il grande romanzo epico americano. Così Hawthorne: “Che libro ha scritto Melville! Mi dà un’idea di forza di gran lunga maggiore di quella espressa dai precedenti suoi”. Sesto romanzo di Melville, Moby Dick non è estraneo all’influenza dell’autore della Lettera Scarlatta cui dedica il romanzo, Melville sottolinea come la contemplazione della sua opera “continui ad affondare robuste radici del New England sempre più in profondità nel caldo terreno della mia anima del Sud”.  

Melville è indubbiamente lambito dal trascendentalismo emersoniano, da cui Hawthorne idealmente discende, ma prende le distanze dalla “self-reliance” (“fare affidamento su sé stessi”) e dall’ottimismo circa la natura umana e il mondo che lo connotano. È certamente possibile leggere l’opera di Hawthorne puramente in termini di critica al moralismo, all’identitarismo e all’ipocrisia della società puritana, una critica affine a quella che in Stevenson e Wilde investe la società vittoriana, Melville ravvisa nondimeno nel buio che la percorre qualcosa che informa la natura dell’uomo, Nell’alzare il velo di rispettabilità che cela i mali del mondo puritano, come di quello vittoriano, i tre autori mettono sì in luce il degrado e l’alienazione morale e spirituale di un intero ambiente, ma paiono nel contempo identificare all’interno dell’uomo la fonte del male.

Il giovane brav’uomo, il signor Brown, incarna tutto ciò. Di giorno è esemplificazione dell’ideale di integrità, innocenza e purezza puritano. Di notte percorre la foresta per prendere parte al Sabbat. Là si scopre in buona compagnia. Vi si trovano tutte le cariche puritane più importanti e insospettabili. Quel Sabbat è ciò che infuria dentro l’uomo, là dove con il favore delle tenebre rimane celato e taciuto. Due sono allora i signor Brown, così come non c’è Jekyll senza Hyde, né Dorian senza il suo ritratto e non c’è Ismaele senza Achab.   

Come Hawthorne e i trascendentalisti, John Milton, William Wordsworth e S. T. Coleridge esercitano a loro volta una profonda influenza su Melville. Un giovane Herman, insegnante di letteratura inglese presso la Sikes District School, li integra nel curriculum di studi. Un ruolo non meno importante è quello giocato dalla cultura classica. Ancora bambino, Melville ne intraprende lo studio a scuola e continua a coltivarla nel tempo. Il solco che essa lascia è profondo e pervasivo. Infine, il mare. Melville è, tra le altre cose, uomo di mare. Naviga. Partecipa a una spedizione a bordo di una baleniera (la Acushnet). Visita luoghi esotici e remoti, tra i quali la Polinesia.  

Pur nella loro eterogeneità, tutte queste fonti letterarie o esperienziali trovano un denominatore comune nella Bibbia (la Bibbia di re Giacomo, la King James o Versione Autorizzata, 1611). In Melville la Bibbia è grammatica e sintassi del pensiero. I riferimenti e le allusioni alla Bibbia nelle sue opere sono innumerevoli, ma è il tessuto implicito delle Scritture a costituire la sostanza stessa della prosa e del pensiero. Come una balena non sa di essere immersa nell’acqua, né può vivere senza di essa, così in Melville le Scritture sono l’elemento essenziale che informa pensiero, immagini, simbolismo, lessico e fraseologia, elemento in ordine al quale ogni altra fonte trova la propria collocazione e senza il quale Moby Dick non esisterebbe. Non c’è peraltro in Melville conflitto tra elemento classico e biblico. Al contrario, i due si completano e alimentano a vicenda andando a formare una sorta di sfondo unico sul quale proiettare i significati. Quello di Melville è ricorso a un metodo mitico ante litteram che ha nel Paradiso Perduto il proprio modello. La vita per mare, a sua volta, trova tali e tante rappresentazioni nelle Scritture – su tutte, quella del libro di Giona. In ultima analisi, è la Bibbia stessa a fornirci le chiavi ermeneutiche del testo.

Ma quale Bibbia legge Melville? Herman nasce nel 1819 da padre unitariano (movimento cristiano del tutto sovrapponibile al trascendentalismo – vd. S. T. Coleridge) e madre calvinista (la famiglia di lei appartiene alla Dutch Reformed Church). Con la morte del padre (1832), l’influenza del calvinismo materno si fa preponderante nella sua vita. È attraverso lenti calviniste che la lettura delle Scritture è filtrata e con essa un’intera visione del mondo e dell’uomo. Nondimeno, negli scritti di Melville si avverte da subito la tensione tra questa matrice e l’afflato trascendentalista, tensione che trova una sintesi compiuta in Moby Dick.

Traspare dall’opera di Melville un tentativo costante di decostruzione delle identità religiose, di riscoperta dell’essenza del messaggio evangelico al di là di quelle identità e delle loro proiezioni nefaste in termini di narrazioni e ideologie dominanti. In successione, Typee, Omoo e Mardi, sullo sfondo della cornice edenica della Polinesia e dei mari del Sud, accendono i riflettori sulla condotta della cosiddetta avanguardia della civilizzazione nella regione e in particolare sulla “glorious cause” della missione cristiana o, per dirla con Kipling, il fardello dell’uomo bianco. L’occupazione delle Sandwich Islands da parte di un gruppo di Metodisti presuntuosi e pieni di velleità induce Tommo a esclamare “Heaven help ‘the Isles of the Sea!’” (ndt “il Cielo aiuti le isole del Mare!” – Typee, Evanston, IL, 1968, 26:195 – le traduzioni dei testi sono di chi scrive). Facendo eco a Is 24:15, la supplica iscrive il contesto direttamente nel testo biblico. Nei due romanzi successivi, la preoccupazione di Melville verso gli sforzi missionari non sembra sfumare. In Omoo l’autore riflette sulla collusione tra religione e commercio, ma pare di scorgere in lui una lacerazione tra il riconoscimento del valore di far conoscere ai popoli insulari il messaggio cristiano e il rigetto totale verso lo smantellamento di strutture sociali e costrutti culturali nativi operato dagli stessi araldi di quel messaggio. “Undoubtedly”, scrive, “the missionaries were prompted by a sincere desire for good; but the effect has been lamentable (“Senza dubbio […] i missionari erano mossi da un desiderio sincero di bene; ma gli effetti si sono dimostrati nefasti” – Omoo, Evanston, IL, 1968, 47:183). E ancora, in Mardi, “the march of conquest through wild provinces may be the march of Mind; but not the march of Love” (“la marcia di conquista attraverso le province selvagge è forse la marcia della Mente, ma non è la marcia dell’Amore” – Mardi, Evanston, IL, 1970, 168:552). 

Quella di Melville non è rinuncia al messaggio evangelico in nome di una visione universalista, equanime e relativista mutuabile da date forme di trascendentalismo. Al contrario, è ricerca di quel messaggio così come si declina nell’amore nel mondo. In questo, la visione trascendentalista contribuisce a mettere a fuoco lo spirito del dettato biblico. Non distante dalle istanze di Melville è lo stesso Hawthorne, il quale nel 1850, un anno dopo la pubblicazione di Mardi, ritrae un mondo, quello de La Lettera scarlatta, in cui chi detiene la Parola ne fa strumento identitario e di potere, là dove la peccatrice Hester Prynne e, da ultimo, la figlia Pearl, sono vera rappresentazione della grazia di Dio nella misura in cui la lettera della legge (la “A” di adultera impressa su Hester) viene in loro trasformata in lettera di perdono e amore (“Amor”).

Intercorre un anno tra la pubblicazione de La Lettera Scarlatta e Moby Dick. La trama del secondo è piuttosto esile. C’è un narratore interno che fa da cornice al racconto e che si imbarca sul Pequod, baleniera il cui capitano è il famigerato e diabolico Achab. Achab ha una gamba sola. L’altra gli è stata tranciata da Moby Dick, un capodoglio bianco. Nella sua ossessione e follia vendicativa, Achab abbandona qualsiasi obiettivo razionale ancorché utilitarista – catturare il più alto numero di balene da cui estrarre olio – e trascina tutto l’equipaggio nella missione suicida di dare la caccia a quell’unica balena e ucciderla. Nell’assalto finale, Achab muore, insieme a tutto l’equipaggio. L’unico superstite è il narratore, che rimane in vita per raccontare la storia.   

 

Ismaele

Il grande tema dei primi tre romanzi di Melville viene recuperato qui da subito e si intreccia con il racconto di formazione e il tema del doppio. Ismaele è il giovane alla ricerca. Come i personaggi di Typee, Omoo e Mardi, anche Ismaele deve affrontare un mondo altro da ciò che vuole apparire. La maschera di innocenza e virtù che indossa è piuttosto caratterizzata da Ismaele come “ipocrisie civilizzate e insulsi inganni”. Ismaele, tuttavia, non si considera altro da tutto questo, ma riconosce in sé lo stesso principio, lo stesso buio. “With the rest me intertwined”, direbbe Whitman. Il suo senso di inadeguatezza, il suo vuoto interiore e la sua alienazione si traducono nella brama del mare come elemento purificatore e nel quale trovare significato. Il viaggio per mare è proprio questo, metafora della vita interiore e della sua elaborazione. Prima di imbarcarsi, Ismaele narra il suo ingresso nella Spouter-Inn a New Bedford. C’è un mendicante tremolante sul selciato, un povero “Lazzaro” (vd. il racconto del ricco e Lazzaro in Lu 16:19-31), così lo chiama, che non può proteggersi in alcun modo dal potente “Euroaquilone” (vd. la vicenda di Paolo di Tarso, la cui nave è sospinta alla deriva da questo vento impetuoso in At 27:14), forte vento freddo di tramontana. Il locandiere non nota altro che una splendida nottata. La miseria del mendicante è il diletto del locandiere. Questa dialettica risalta sullo sfondo biblico a suggerire come quella cui si trova davanti Ismaele è la condizione umana, ma a indicare nel contempo la distanza tra cielo e terra e come “in terra non sia fatto come in cielo”. Ismaele vive in questa tensione, nella lacerazione di chi vuole veder realizzata sulla terra la realtà celeste. È il mondo cristiano per primo a contraddirla e a nascondere la contraddizione sotto un velo di civilizzata ipocrisia. 

Melville fornisce, nondimeno, a ogni personaggio un doppio, o più di uno, che lo aiuti a elaborare la propria condizione e giungere a un superamento. Il doppio di Ismaele, il primo, è Queequeg, un pagano! La contrapposizione tra Ismaele e Queequeg non è soltanto contrapposizione tra civiltà e barbarie, ma tra cristianesimo e paganesimo. A New Bedford i due sono esposti alla religiosità l’uno dell’altro. In un primo momento entrambi assistono al culto nella Cappella del Baleniere, culto presieduto dal rev. Mapple, lui stesso un tempo baleniere. Il suo sermone verte su Giona. Il pulpito elevato e a forma di prua dà un senso di ostentazione e di giudizio che fa da contorno a un sermone in cui viene messo in risalto il rigore della legge di Dio, la sua intransigenza, la necessità di non peccare e di pentirsi. È un messaggio che non fa i conti con la complessità e la fragilità della condizione umana, un messaggio cui sotteso è il giudizio e, in definitiva, un messaggio in cui non trova posto il nucleo centrale del libro di Giona e ciò che Giona, e il rev. Mapple con lui, non è in grado di accettare – l’amore di Dio. 

Figlio del re pagano Kokovoko, Queequeg era attratto in giovane età dal cristianesimo. Vi vedeva la possibilità di emancipare il suo popolo dalle superstizioni pagane, trarlo fuori dal buio dell’ignoranza e condurlo a una maggiore luce e felicità. La sua esperienza a bordo di una baleniera l’aveva presto convinto che “even Christians could be both miserable and wicked; infinitely more so, than all his father’s heathens” (“i cristiani fossero a loro volta miseri e malvagi; e infinitamente di più dei pagani di suo padre”). Giunto infine a Nantucket, era ormai persuaso che il mondo fosse malvagio a ogni sua latitudine e che tanto valesse morire da pagano. Mentre prepara il suo idolo, Yojo, per le preghiere serali, Queequeg ricambia il favore ed estende a Ismaele l’invito ad assistere alla sua cerimonia. Ismaele esita, ma tra sé e sé pensa: “What is worship? – to do the will of God – that is worship. And what is the will of God? – to do to my fellow man what I would have my fellow man do to me – that is the will of God. Now, Queequeg is my fellow man” (“Che cos’è in fondo l’adorazione? – Fare la volontà di Dio – ecco cos’è l’adorazione. E qual è la volontà di Dio? – Fare al mio prossimo ciò che vorrei lui facesse a me [vd. Mt 7:12; Lu 6:31] – ecco qual è a volontà di Dio. Ora, è Queequeg il mio prossimo”). Una volta di più, il senso profondo del testo è calato nello stampo della Scrittura. Assistendo alla cerimonia pagana, Ismaele non partecipa all’adorazione dell’idolo di Queequeg, ma per la prima volta adora Dio. Lo adora nella misura in cui supera i confini identitari dell’io per stare con lui – ecco cos’è l’amore. 

Solo ora e insieme a questo compagno Ismaele può affrontare il mondo, rappresentato dal Pequod. Gli armatori del Pequod sono i capitani Peleg e Bildad, due Quaccheri. Lungi dal coltivare luce interiore e pacifismo, i due sono paradossalmente caratterizzati come uomini bellicosi e materialisti. Il capitano Bildad ostenta pietà trascorrendo gran parte del suo tempo piegato sulla sua Bibbia, ma poi non disdegna di piegare la propria regola di assumere soltanto nativi convertiti ai propri interessi quando si accorge dell’abilità di Queequeg con l’arpione. Per gran parte del corpo centrale del romanzo la figura di Ismaele quasi scompare. Fa capolino di tanto in tanto, per poi riprendere tutta la scena alla fine. Quando riaffiora nei capitoli centrali, vediamo come il mondo non sia cambiato. Rimane quel luogo oscuro dal quale era profondamente alienato. Sta cambiando lui. Sta imparando a vivere nel mondo, non in ordine alla possibilità di farlo proprio o di essere ad esso assimilato, ma in ordine alla capacità di amarlo. L’amore diventa così lo spazio dell’universalità, dell’equanimità e della verità.

Se la figura di Ismaele quasi scompare per la gran parte del corpo centrale del romanzo, è perché deve cedere il passo ad Achab. Achab incarna il buio e il vuoto di Ismaele. Il pieno superamento della propria condizione può avvenire unicamente in ordine a una liberazione dalle tenebre dell’io. Achab deve morire. Nell’ultimo assalto a Moby Dick, Ismaele attraversa una sorta di morte, simile a quella di Giona trascinato negli abissi dentro un grande pesce. Con Ismaele muore Achab. Come Giona, Ismaele riaffiora, senza Achab, lui solo, in una specie di rinascita, su di un asse di legno. È un resto cruciforme della bara di Queequeg. La morte di Queequeg è la sua vita. Per tre giorni e tre notti, dice il racconto di Giona, il profeta rimane nel pesce. Il riferimento temporale prefigura, nelle parole evangeliche, la morte di Cristo. Tutto nella scena ha la funzione di comporre l’identificazione tra la morte e la resurrezione di Cristo e Ismaele. In forza di tale assimilazione, il narratore viene redento dall’io e da tutte le sue proiezioni (Achab) per nascere di nuovo come persona libera di narrare. Come l’antico marinaio di Coleridge, anche Ismaele è chiamato a dare conto di quanto accaduto, non già come esercizio di espiazione perpetua, ma di amore. L’amore segna il passaggio alla maturità, una maturità capace di abbracciare la meraviglia del mondo così come tutte le sue ingloriose imperfezioni, una maturità fatta a un tempo di intelletto ed emozione, conoscenza e grazia. Ora il narratore Ismaele, libero da Achab, la via dell’io, può istruire altri nella via di Dio.

 

Achab

Achab è il personaggio centrale di Moby Dick. Ne abbiamo considerato alcuni aspetti in funzione di Ismaele, ma più di qualunque altra figura il suo personaggio ha una costruzione indipendente in relazione al simbolo dominante nel romanzo, Moby Dick. Achab è personaggio prometeico, incarnazione di hybris e ossessione monomaniacale, egocentrismo e vendetta. Tutto questo però altro non è che ciò con cui Achab riempie il baratro interiore che tutte le acque dell’oceano non sono in grado di colmare. La sua figura assurge al piano del mito sullo sfondo metafisico e mitologico del mondo della cetologia e dello sfruttamento dei capidogli, che tanta parte del corpo centrale del libro occupa. Ciò che inizialmente appare una vendetta personale del capitano contro la creatura che l’ha menomato assume presto i contorni dell’odio puro e, da ultimo, di sfida cosmica. Il cielo e il suo sole diventano suo nemico. Come Satana nel Paradiso Perduto odia i raggi del sole, perché gli ricordano il bene che egli ha deciso di sfidare, così Achab, nell’atto di fare a pezzi il quadrante con cui dovrebbe orientare la navigazione, maledice gli occhi che si alzano “to that heaven, whose live vividness but scorches him, as these old eyes are even now scorched with thy light, O sun!” (“a quel cielo, la cui lucente vividezza non fa che bruciarlo, come questi vecchi occhi continuano a essere bruciati dalla tua luce, O sole!”). La sfida di Achab è lanciata contro tutto ciò che costituisce un limite al suo io e in definitiva contro il limite ultimo, incarnato nella balena bianca. “I now know that thy right worship is defiance” (“ora so che la tua vera adorazione è la ribellione”). Là dove Ismaele comprende che la vera adorazione di Dio risiede nell’amore, Achab la identifica nella ribellione all’Altro in quanto limite al proprio io. Ciò che Ismaele abbraccia è ciò che Achab sfida. Sarà il dio Apollo, il Pequod il suo carro che trascina il sole dove vuole. Sarà Poseidone, colui che controlla i mari. La bussola che con arti demoniache Achab fabbrica, a sostituire il quadrante, funziona alla perfezione. “Ahab can mend all” (“Achab può aggiustare qualunque cosa”), dice di sé il capitano, in preda a delirio di onnipotenza. “In his fiery eyes of scorn and triumph, you then saw Ahab in all his fatal pride” (“Nei suoi occhi ardenti di disprezzo e trionfo, si vedeva Achab in tuo il suo fatale orgoglio”). La sua assimilazione al Satana di Milton è qui completa. Satana è re d’inferno e Achab dio dei mari, ma come Satana è schiavo della sua mente, dell’inferno che porta dentro ovunque vada, così Achab non può liberarsi di Moby Dick, mostro marino megafono cosmico della sua hybris. La libertà vista come assenza di limiti è allora schiavitù del proprio io, sul cui altare Achab deve sacrificare sé stesso, il Pequod e tutto il suo equipaggio. 

Se Moby Dick può essere considerato una sorta di doppio di Achab, quale proiezione della sua volontà di potenza, un altro doppio ne compone la figura, là dove altri tre vengono in sequenza respinti. Il primo è Fedallah, una sorta di subconscio demoniaco del capitano. Achab introduce lui e la sua diabolica ciurma sul Pequod di soppiatto. Parte oscura dell’animo umano, come Hyde, Fedallah deve rimanere nascosto fino al primo inseguimento, quando il corso fatale del capitano è ormai sancito e può dunque venire alla luce. La presenza malvagia di Fedallah è particolarmente evidente quando Achab, sprezzante, sfida la sapienza di Dio. La sua realtà corporea è messa sempre più in dubbio dall’equipaggio. Come il secondo sé del capitano di Conrad nel Compagno segreto emerge dagli abissi dell’inconscio sul ponte in quello che viene descritto come il sembiante di un’entità spirituale, così Fedallah appare come una sorta di ombra oscura del capitano. Quando questi profetizza eventi straordinari che debbono accadere prima che Achab muoia e Achab inizia a percepirsi immortale, sentiamo la eco di Macbeth e scorgiamo in lui qualcosa dell’illusione che Satana accarezza nel Paradiso Perduto. “What […] hidden lord and master, and cruel, remorseless emperor commands me?” (“Quale oscuro signore e padrone, e imperatore crudele e spietato mi comanda?”). Il male e l’io si sono impossessati di lui. Come un dr. Jekyll ante litteram, al termine della storia Achab diventa Fedallah. Come Satana, Achab dà la colpa al fato. Come Macbeth, colui che ha un ruolo di comando viene soggiogato e comandato da un padrone interiore.

Nel Canto di Natale (1843), Dickens manda al signor Scrooge tre fantasmi perché gli mostrino dove conduce il suo corso fatto di avidità, egoismo e assenza di amore. Melville fa lo stesso con Achab. Gli manda tre marinai, altrettanti doppi, che rappresentano il bene o l’innocenza e che potrebbero modificare o per lo meno mitigare il suo destino. 

Per primo compare Bulkington, simbolo di onestà e franchezza, di coraggio, di quell’equanimità di fronte alle molte e varie onde dell’esperienza umana e del disegno cosmico che Achab non farà mai propria. Bulkington viene sepolto nel capitolo 6 per permettere all’ossessione di Achab di fare il suo corso, ma rimane nell’immaginazione del lettore e lì ricompare quale contraltare della follia monomaniacale del capitano. 

A lui succede Starbuck. Questi rivolge le proprie energie alla conversione del capitano, ma è dominato da una paura che procede dalla gnosi. In lui spirito e corpo, cielo e terra, non possono incontrarsi. Egli antepone l’innocenza personale al bene altrui. Dinanzi alla possibilità di salvare l’equipaggio, togliendo la vita ad Achab, Starbuck preferisce preservare la propria anima da colpe. Il movimento che lo contraddistingue è diametralmente opposto a quello di Ismaele, che per amore di Queequeg accantona il proprio interesse. Starbuck è personificazione di una virtù autoreferenziale e inefficace. 

Come Giona e Ismaele, Pip, l’ultimo dei tre marinai deputati a distogliere Achab dai suoi sordidi propositi, sperimenta una sorta di morte e rinascita, trascinato com’è negli abissi dove viene “drowned the infinite of his soul” (“annegato l’infinito della sua anima”), ma “kept his finite body” (“preservato il suo corpo finito”). Pip vede negli abissi l’onnipresenza di Dio, il suo piede sul pedale del telaio, e ne parla. Il resto dell’equipaggio lo ritiene folle. Il suo battesimo annega la sua identità umana e gli restituisce un’identità altra. Svestito dell’umana ragione, Pip è rivestito della sapienza celeste. Paolo di Tarso parla della follia della croce, che fa da contraltare a chi cerca da un lato forza, dall’altro sapienza umana. “So man’s insanity is heaven’s sense; and wandering from all mortal reason, man comes at last to that celestial thought, which, to reason, is absurd” (“Così la pazzia dell’uomo è la sapienza del cielo; e allontanandosi da ogni umana ragione, l’uomo giunge alla fine a quel celeste pensiero, che, per la ragione, è insensato”). Pip sfida Achab ad abbandonare la propria follia umana per abbracciare la pazzia di Dio. Più di chiunque altro, Pip scuote le fondamenta interiori di Achab. Il capitano lo avverte parte di sé, intessuto intimamente alle corde del suo cuore. Nel suo amare l’austero e malvagio capitano incondizionatamente, Pip incarna la sapienza e la grazia di Cristo. Come il sole, Achab finisce per respingere anche lui.

Moby Dick

Moby Dick è il limite, è Dio, e Moby Dick è proiezione dell’io di Achab. Come il Dio di Blake, agnello e tigre, Moby Dick è sfuggente forza indomita e indomabile, energia e libertà, terrore e furia, candore e innocenza. Ha un suo giaciglio nel buio degli abissi, ma affiora in tutto il suo nitore. Moby Dick è entità cosmica e simbolo, essere mitico e trascendente, corporeo e metafisico. Alla fine del cap. 41 viene identificato come “Job’s whale” (“balena di Giobbe”), il leviatano di Giobbe, spaventosa creatura marina che sfugge al controllo umano. Dio ne parla nel contesto dell’elencazione delle opere imponderabili della sua creazione al fine di mostrare a Giobbe, che lo interroga e mette in dubbio il suo disegno, l’infinita e inaccessibile sapienza di Dio, a un tempo fuoco consumante e inesauribile grazia. Anche il leviatano ubbidisce alla sua voce. Giobbe dichiara la resa e s’immerge insieme alla creatura ancestrale in Dio. Non così Achab, per il quale le acque rimangono quell’elemento interiore in cui Moby Dick può essere solamente l’oppressore. 

Moby Dick è anche la balena di Giona. Il sermone del rev. Mapple prefigura la vicenda di Achab e del Pequod. Giona non vuole ubbidire a Dio, che gli ordina di andare a Ninive, grande città assira, e rivolgerle il suo messaggio. Si imbarca per contro alla volta di Tarsis, agli antipodi di Ninive. Il suo intento è quello di allontanarsi dalla presenza di Dio. Ma Dio manda una grande tempesta. Giona sa di esserne il responsabile e si fa gettare fuori bordo dai marinai. Al che, Dio manda un grande pesce, che inghiottisce Giona. La creatura marina incarna a un tempo giudizio e salvezza. Trascina Giona nelle profondità del mare, ma poi lo restituisce alla vita. Dio vuole insegnare a Giona la sua infinita misericordia, là dove Giona conosce di lui soltanto il giudizio. Giona è governato da una giustizia vendicativa verso l’oppressore assiro. La sua è la hybris di chi cerca di salvare la propria identità personale e nazionale e, avendola vista violata, invoca una giustizia retributiva. 

Il disegno di Dio è teso a redimere Ninive. Achab la vuole annientare. Moby Dick è la sua Ninive. La sua è una giustizia umana che si contrappone alla giustizia di Dio. La giustizia umana salva l’io a spese dell’altro. La giustizia di Dio salva l’altro a spese di Dio. La reazione di Giona alla conversione e al perdono di Ninive è esemplare. Risentimento, atteggiamento di sfida aperta, ribellione, superbia. Giona è fino in fondo Achab. Dio nella sua grazia continua a cercare di ricondurre Giona alla sua presenza. Gli manda un ricino come riparo dal sole e ulteriore tentativo di insegnargli la sua compassione, così come Melville manda ad Achab tre diverse figure perché si produca in lui μετάνοια (metànoia, conversione). È un amore quello di Dio il quale investe l’alterità di uomini, donne e bambini che non fanno parte di Israele, ma è un amore che investe altresì ogni altra creatura. Il libro di Giona si chiude con le parole: “Tu hai pietà del ricino […] e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame”. L’antico marinaio dell’eponima ballata di Coleridge afferma la sua hybris e alienazione dall’altro uccidendo un albatros. L’identificazione con la sua colpa, che in definitiva è identificazione con la morte di Cristo (la ciurma appende l’albatros cruciforme al collo del marinaio) lo porterà a benedire un groviglio di serpenti acquatici. Al termine della vicenda, l’antico marinaio ha imparato ad amare ciò che non è amabile, ogni creatura di Dio, dalla più piccola alla più grande. 

La visione trascendentalista e biblica si fondono qui e interrogano il lettore. Chi può amare Moby Dick? Chi può amare il mondo, il Creatore e ogni creatura? Il colore bianco di Moby Dick “is at once the most meaningful symbol of spiritual things, nay, the very veil of the Christian’s Deity; and yet is the intensifying agent in things most appalling to mankind” (“è a un tempo il simbolo più significativo delle cose spirituali, anzi, il velo stesso della Deità che il cristiano adora; eppure, esso è anche l’agente intensificante nelle cose per l’umanità più terribili”). Abbiamo visto come Moby Dick sia l’una o l’altra cosa per i nostri personaggi, giudizio o assoluzione, oppressione o redenzione.  Nelle parole di Ismaele: “The mystical cosmetic which produces every one of her hues, the great principle of light, for ever remains white [..] and […] would touch all objects” (“la cosmesi mistica che produce ognuno dei suoi colori, il grande principio della luce, rimane perennemente bianco […] e […] lambiva ogni oggetto”). Il colore bianco pervade ogni cosa, è il principio stesso della luce. Tale cosmesi, il Logos dell’universo, pertiene alla realtà fisica, ma è nel contempo realtà “mistica”. Moby Dick è prisma che rifrange le tonalità dell’animo umano. È il bianco, la luce, che consente alle sfumature di manifestarsi. È il principio in cui sussistono tutte le cose e contro cui si infrange l’idolatria dell’io. Come può esserne proiezione? Soltanto nella misura in cui Moby Dick assorbe in sé il male, l’orgoglio, l’egocentrismo e la ribellione dell’uomo; soltanto là dove se ne fa carico, diventando il luogo in cui buio e luce, giudizio e giustificazione si incontrano. 

Moby Dick parla dell’uomo, della società degli uomini, del creato e di Dio. Li contrappone, li interroga, li trascina in mezzo al mare, fino agli abissi, per poi farli riemergere. Moby Dick sonda le profondità marine dell’animo umano e gli spazi metafisici, la terra fisica e il cielo. Contesta ipocrisia e identitarismo, nazionalismo e colonialismo culturale. Contesta l’io e le sue maschere, l’io e la sua hybris, l’egocentrismo, il potere, lo sfruttamento e la sopraffazione. A tutto questo contrappone Cristo, la balena bianca, fine dell’io e inizio dell’amore.       

                                                                                                                                                                         Filippo Falcone

 

       

                                          

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