Il rifiuto della trascendenza. Alcuni pensieri sparsi su Toni Negri.

Abbiamo appreso proprio ieri della morte di uno dei maggiori e più controversi intellettuali italiani della seconda metà del XX secolo: Antonio Negri. Negri era un pensatore assolutamente originale di cui, tra l’altro, abbiamo parlato nell’ultimo libro pubblicato dalle edizioni GBU, I discepoli furono chiamati cristiani.

Riflettendo sulla sua dipartita terrena ed a pochi giorni dal termine del nostro Convegno di studi dedicato all’ateismo vogliamo tracciare un breve ritratto e fare alcune riflessioni su questo pensatore. 

Antonio Negri è stato un filosofo protagonista tra fine anni 1960 e inizi 1970 dei movimenti di protesta giovanile di stampo marxista ed extraparlamentare in Italia. Mentre diventa uno dei dirigenti di Potere Operaio, scriveva alcuni dei saggi che lo hanno reso famoso, uno dedicato al filosofo Spinoza (L’anomalia selvaggia) e l’altro al pensiero di Cartesio (Descartes politico). E’ stato un raffinato analista del pensiero di Marx e lo ha cercato di reinterpretare il suo pensiero in chiave più contemporanea con alcune venature influenzate dallo strutturalismo e dal post-strutturalismo francese. Coinvolto anche attivamente nei cosiddetti anni di piombo nel terrorismo rosso, sino ad essere accusato di essere capo della Brigate Rosse (accusa rivelatasi infondata) sarà comunque condannato per altri reati e, dopo essere scappato in Francia, ritornerà in Italia a scontare la sua pensa. Agli inizi del XXI secolo tornerà alla ribalta (all’inizio non in Italia)  con la pubblicazione di Impero con Michael Hardt, testo che avrà un grande successo globale e che riporterà il pensatore italiano alla ribalta del panorama culturale mondiale. 

Negri si è sempre professato ateo ed i due suoi autori classici preferiti, Spinoza e Marx lo sono di fatto stati, anche se consideriamo Spinoza un panteista moderno che ha cercato, da ebreo, di racchiudere la realtà del mondo e del divino in un’unica sostanza. Che interesse potrebbe avere pertanto per il mondo evangelico?

Ci sono diverse piste che si possono percorrere e qui ne proporremo alcune. Negri ha sempre mostrato interesse per i movimenti religiosi. Partendo dall’analisi di alcuni passi di Marx ha sempre pensato che i movimenti religiosi, soprattutto quelli che partono dal basso e che sono poco istituzionali, possono essere la premessa di una liberazione effettiva dell’uomo. Lettore avido dal marxista Ernst Bloch che aveva analizzato qualche decennio prima il pensiero di T. Müntzer, visto come un proto-rivoluzionario, ha guardato con attenzione ai movimenti della teologia della liberazione che, a suo parere, sono espressione di quella Moltitudine che potrebbe rovesciare lo stesso Impero o capovolgerne le sorti. Ovviamente per il pensatore padovano il movimento religioso può essere visto come un inizio e non come il coronamento di un traguardo raggiunto che può essere solo supportato da un movimento politico. 

Nel 2008 una serie di evangelici americani sono entrati in dialogo con Negri e Hardt per analizzare la nozione di impero. Per Wolterstorff ed altri pensatori evangelici Negri aveva colto nel suo testo il fatto che, ormai, l’Impero non potesse più identificarsi con una particolare nazione (nonostante la supremazia statunitense) e che questo avrebbe potuto dare l’occasione soprattutto ai movimenti evangelici che stavano avendo successo nel Sud del mondo di creare spazi di apertura verso il Regno di Dio e verso una società più giusta e versata alla pace nel mondo. Il libro, che si intitola Christian Alternatives to the Political Status Quo (Alternative cristiane allo status quo politico) si conclude con una replica di Negri che, insieme ad Hardt, ringrazia dell’interesse per i suoi studi ma, allo stesso tempo, ribadisce anche che la sua idea di speranza di pace è qui sulla terra e che rifiuta qualsiasi possibilità che ci sia una trascendenza (un Dio) che possa essere risolutrice per ciò che accade nel mondo. Quindi una grande attenzione per i movimenti religiosi informali che possono far parte di quella Moltitudine (altro titolo di un saggio di Negri) che può far cambiare l’Impero ma che, alla fine, non possono essere risolutivi per il costante richiamo che fanno al Divino.

Negri è anche stato un attento lettore del testo biblico. Ho sentito anche diverse sue interviste dove dimostrava la sua capacità di fare esegesi di un testo che trovava assolutamente interessante ma su cui voleva andare oltre. Questo suo interesse, oltre che da una originaria formazione cattolica (comune a molti teorici della sinistra extraparlamentare degli anni 1960/70) derivava anche dalla sua attenzione per il pensiero dell’ebreo Spinoza che, pur essendo stato uno degli iniziatori del cosiddetto metodo storico-critico, da buon ebreo dava grande spazio all’esegesi delle Scritture (si veda i numerosi riferimenti ed anche i tentativi di una esegesi “umana” che sono presenti nel Trattato Teologico-politico). Negri negli anni Novanta, proprio durante gli anni della prigionia, ha elaborato un testo di difficile lettura dedicato al libro di Giobbe ed intitolato il Lavoro di Giobbe. Ciò che affascinava il pensatore padovano era la figura del personaggio biblico che deve faticare per farsi ascoltare da Dio. Non si tratta del rapporto con il trascendente, quanto del continuo dissidio e lotta che passa anche attraverso il proprio corpo e la sua presenza. Una lettura interessante, ma anche questa priva di una trascendenza (l’entrata di Dio sembra una messa in scena) e che se ci dà pagine assolutamente interessanti nella descrizione del personaggio, allo stesso tempo ci fa capire come si possa leggere un testo biblico in parte non capendone totalmente il senso o dandone uno alternativo a quella di molta esegesi.

Negri non è assolutamente facile da leggere ed i testi citati da me sono di difficile lettura (fa eccezione proprio Impero in cui Hardt ha funzionato a mio parere da facilitatore, anche perché il testo è stato pubblicato originariamente in inglese, una lingua che non sempre riesce a tenere conto delle ardite capriole linguistiche dei filosofi continentali), ma allo stesso tempo rimane una figura paradigmatica del panorama culturale italiano. Sicuramente gli evangelici farebbero bene a tenerne conto non per la sua “ateologia” (in cui è rimasto coerente), quanto per le sue riflessioni sul potere, sulla crisi degli Stati e sull’interpretazione del tempo presente, tenendo conto che, come ogni marxista occidentale (pur appellandosi a Lenin talvolta, ma, a nostro parere essendo distante) cerca di costruire un’utopia ed una speranza che può trovare proprio nel testo biblico una risposta ed è una figura che ci permette di confrontarci con quell’ateismo dialogante differente dai modelli scientisti che oggi vanno più di moda.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

L’oro del negoziante

di Miroslav Volf

«Cammino per strade che sono morte», cantava Bob Dylan.
Quando ascoltavo il verso, mi sono ricordato della mia passeggiata nelle strade che erano morte. Un anno fa ho visitato Vukovar, una città croata che era stata di fatto distrutta nella guerra. Vedevo il vuoto che si estendeva attraverso le finestre rotte, e le porte delle case i cui tetti erano stati sfondati e le cui facciate mostravano le cicatrici causate dalle schegge. Ho ascoltato lo stridulo silenzio che avvolgeva le lunghe file di case separate da marciapiedi coperti di erbacce e disseminati di oggetti abbandonati. Strade morte. Monumenti di vita distrutta o espulsa.

Più recentemente ho passeggiato per le strade morte di Sandtown nel centro di Baltimora. Era come se stessi rivivendo Vukovar, solo che questa volta il distruttore non era stata la guerra ma le tensioni razziali, il crimine e la rovina economica. C’era un’altra importante differenza. Dodici isolati della città erano stati segnati dalla New Song Community (Leggi l’articolo correlato, Missione urbana) ed erano stati dichiarati come spazio della pace di Dio. Le strade morte erano di nuovo piene di vita.

Mark Gornik della New Song me lo spiegò un po’, mentre passeggiavamo. Mentre stava spiegando il degrado dei centri cittadini, suggeriva che la dottrina della giustificazione per grazia contenesse risorse non sfruttate per la guarigione. Lo sapevo, pensai dentro di me. Per circa dieci anni aveva vissuto e lavorato a Sandtown e avevo visto le trasformazioni che vi erano state, una casa alla volta.Tuttavia per molti teologi la giustificazione per grazia è una dottrina oziosa. Alcuni l’hanno abbandonata e l’hanno lasciata arrugginire sotto un mucchio di spazzatura teologica; la reputano generalmente inutile o quanto meno di scarso aiuto quando si giunge al voler guarire patologie anche inferiori rispetto ai cicli di povertà, alla violenza e alla disperazione. Altri perseguono una sorta di interesse antiquario per la dottrina; esaminano e lustrano un artefatto del sedicesimo secolo e lo mostrano orgogliosamente a chiunque voglia frequentare il loro piccolo museo. Arrugginita o lucidata, la dottrina della giustificazione per grazia giace lì, abbandonata, senza vita. Una dottrina morta. Poteva la speranza dei centri urbani essere parzialmente basata sul recupero della dottrina della giustificazione per grazia?

Come potevano le strade morte ricevere vita da una dottrina morta? Immaginate di non avere lavoro, di non possedere denaro, di vivere ai margini del resto della società in un mondo governato dalla povertà e dalla violenza, la vostra pelle è del colore “sbagliato”, e non avete alcuna speranza che tutto questo cambierà.
Attorno a noi vi è una società governata dalla legge d’acciaio del successo. Le sue merci dorate sono ostentate davanti ai nostri occhi sugli schermi della TV, e in migliaia di maniere la società ci dice ogni giorno che siamo senza valore perché non ci siamo realizzati. Si è un fallimento, e si sa che continuerà a essere un fallimento perché non c’è maniera di realizzare domani ciò che non si è riusciti a ottenere oggi. La dignità è frantumata e l’anima è avvolta nel buio della disperazione.

Ma il vangelo ci dice che non si è definiti dalle forze esterne. Ci dice che si può contare, ancora di più, sul fatto che si è amati incondizionatamente e infinitamente, senza nessun riguardo per ciò che si è raggiunto o per i fallimenti che si sono avuti, anzi si è amati un filino di più di coloro i cui sforzi sono stati coronati dal successo.

Immaginate ora questo vangelo che non viene semplicemente proclamato ma incorporato in una comunità che è venuta fuori non come un «frutto delle opere» ma come una comunità «creata in Cristo Gesù per le buone opere» (Ef 2:10). Giustificati dalla pura grazia, cerca di “giustificare” per grazia coloro che sono resi “ingiusti” dall’implacabile legge del successo della società. Si immagini inoltre questa comunità determinata a infondere ancor più questa cultura, insieme con le sue istituzioni economiche e politiche, con il messaggio che cerca di incorporare e proclamare. Questa è giustificazione per grazia, proclamata e praticata. Una dottrina morta? Difficile che lo sia.

Mentre stavo riflettendo sul significato sociale della giustificazione per grazia mi salì alla mente un passo di Così parlò Zarathustra di Nietzsche che avevo letto andando a Baltimora. «O miei fratelli, io vi dirigo e vi consacro verso una nuova nobiltà: diventerete portatori e coltivatori e seminatori del futuro – in verità, non una nobiltà che si potrebbe acquistare come un negoziante che commercia oro; poiché tutto ciò che ha un prezzo è di poco valore».

La giustificazione per grazia, pensavo, meditando sulla profonda osservazione di Nietzsche, è profondamente in contrasto con la nostra «cultura da negozianti». Togliere l’etichetta del prezzo dagli esseri umani non significa svalutarli, ma donargli la propria dignità, una dignità non basata su cosa hanno realizzato ma radicata sul semplice fatto che sono amati incondizionatamente da Dio. L’amore divino è quell’indispensabile nutrimento per l’anima umana di cui il profeta parla quando afferma: «O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Is. 55:1).

Articolo tratto dal volume
Contro la marea.
L’amore in un tempo di sogni meschini e continue inimicizie
,

Edizioni GBU, 2022.

 

Vedi l’intervista all’autore sul canale Youtube di Edizioni GBU

 

Capire la Bibbia cambia tutto

Nuova Traduzione Vivente: capire la Bibbia cambia tutto

di Filippo Falcone

 

Il giorno 20 maggio 2023 è stato presentato presso il Salone del Libro di Torino – sala Madrid – il Nuovo Testamento versione Nuova Traduzione Vivente in lingua italiana (NTVi), edito per i tipi della Società Biblica di Ginevra e frutto di un lavoro che per sette anni ha visto coinvolta un’équipe di 6 teologi, biblisti, letterati e linguisti italiani.

La NTVi è una traduzione della Bibbia moderna e affidabile, che abbina la più aggiornata ricerca biblica a uno stile di scrittura chiaro e dinamico. Questa versione della Bibbia trasmette l’annuncio evangelico in modo espressivo e preciso, e comunica con accuratezza il significato, il contenuto e il portato linguistico-culturale delle forme del testo biblico originale, servendosi di un linguaggio contemporaneo e di facile comprensione.

Muovendo dall’impianto della New Living Translation (Tyndale House), terza traduzione della Bibbia in lingua inglese, alla quale hanno lavorato oltre 90 biblisti del mondo anglofono, la NTVi adotta un approccio traduttologico funzionale o a equivalenze dinamiche. Tale approccio predilige la chiarezza dei significati e l’immediatezza dell’effetto all’aderenza lessicale e morfosintattica al testo di origine. Pertanto, là dove una traduzione parola per parola non fosse in grado di restituire un testo piano al lettore italiano contemporaneo, il comitato di traduzione NTVi ha optato per una traduzione concetto per concetto.

Sorge qui subito un’obiezione in relazione al valore del segno e della singola parola. Dopo tutto, Gesù stesso afferma: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”. La NTVi non intende sminuire o relativizzare il valore del singolo segno o della singola parola all’interno del testo. Al contrario, si fa carico di valorizzarla nel contesto dei suoi rapporti con le altre parole e con un intero contesto. La parola in questo senso prende vita e assume valore in ordine ai rapporti di significato di cui è parte e che genera.

Con la NTVi la Società Biblica di Ginevra colma un vuoto lasciato dalle principali traduzioni protestanti e cattoliche – fatta eccezione per l’Interconfessionale, che ha tuttavia la tendenza a cedere alla tentazione della parafrasi – le quali antepongono sistematicamente l’aderenza formale al testo d’origine all’immediatezza dei significati e all’espressività del testo di partenza. Il mito di una traduzione più fedele e accurata quanto più aderente alla lettera dell’originale condiziona ancora i giudizi. Nell’approntare una traduzione, occorre considerare come qualcosa del testo di origine vada inevitabilmente perso. Il traduttore dovrà allora stabilire che cosa intende guadagnare e cosa è disposto a perdere. Tutto ciò che le altre traduzioni perdono, la NTVi lo recupera. In questo senso, la NTVi diventa un complemento fondamentale alle traduzioni già esistenti, sia in funzione di una lettura devozionale sia dello studio.

Una traduzione formale pura – nessuna traduzione “formale” può dirsi pura; l’adesione assoluta alle forme originali comporterebbe infatti, tra le altre cose, il completo snaturamento dei significati nella lingua d’arrivo – presupporrebbe idealmente l’esistenza di un deposito linguistico statico e indipendente da un contesto storico-culturale, sociale, letterario e personale proprio dell’autore e del lettore originario. Un testo simile non esiste e certamente i testi che compongono il NT, scritti o redatti, nel caso di una trasmissione orale precedente la stesura, non sono quel testo. Sono piuttosto ciò che in linguistica definiremmo “atti” o “fenomeni linguistici” afferenti a un contesto dinamico.

Questi atti rivendicano a un tempo natura di rivelazione. Non si tratta, tuttavia, di una rivelazione altra dalla storia dell’uomo bensì, direbbe Corsani, di una rivelazione calata proprio in quella storia. La parola, per così dire, si incarna, si carica delle forme umane, elegge le cose che non sono, autori e lettori, e le riscatta. Viene riflesso così il movimento del Dio che si rivela in questa parola. Il Dio del vangelo non pretende che l’uomo lo raggiunga dove è lui (“Chi è mail salito in cielo?”), ma raggiunge l’uomo là dove si trova con la sua grazia. Potremmo dire allora che l’annuncio corrisponde alla forma in cui l’annuncio è trasmesso. Gli atti linguistici del NT hanno in un senso molto reale una qualità performativa. Essi fanno ciò che dicono.

La lingua del NT non a caso non è un greco elevato o letterario, ma il greco della Koinè, il greco del mercato, la lingua del popolo. Questa lingua ha la capacità di raggiungere i lettori là dove si trovano, ponendo gli autori in relazione immediata con loro e con il loro contesto. È una lingua costitutivamente democratica ed essa stessa conforme all’annuncio del Dio che è nel contempo l’assolutamente Altro e l’Emmanuele.

La NTVi intende riprodurre questo movimento, cercando di fare per la nostra generazione ciò che le traduzioni di Wycliffe e Lutero hanno fatto per le loro. In un certo senso, la NTVi decostruisce la lingua d’origine, intesa nella sua staticità, e con essa il contesto storico-culturale e sociale che l’informa per restituirne il portato al lettore italiano di oggi. Non solo, la NTVi decostruisce altresì le sovrastrutture delle molteplici traduzioni con cui entra in conversazione – Nuova Riveduta, CEI, (Nuova) Diodati, BIR ecc. – per riscoprire un testo che parli al lettore di oggi in Italia come parlava al lettore originario.

In definitiva, la NTVi pone in relazione il testo greco con il lettore italiano oggi, rappresentando una sorta di intertesto compiuto e dinamico, il terreno di un incontro tra il lettore e l’annuncio evangelico e, da ultimo, come vorrebbe Barth, lo spazio dell’incontro fra il lettore e Cristo.

Crediamo che la verità viva in questa parola; ma crediamo anche che questa verità non sia statica, fatta di enunciati che l’uomo possa controllare e custodire come un feticcio. La verità non può essere proprietà di una forma esterna, neppure di una forma che annunci quella verità. La sua natura è dinamica e relazionale e la persona che la informa non la si può cercare tra i morti.

La NTVi nasce come testo adatto a una lettura ad alta voce, un testo pensato per i giovani, per chi è digiuno delle Scritture, ma anche per coloro che hanno grande familiarità con le Scritture. La NTVi ha la capacità di decostruire i presupposti con cui ci avviciniamo al testo, rimuovere, per così dire, le lenti, i costrutti, attraverso cui lo leggiamo, consentendoci di riscoprirlo.

Lo sforzo editoriale compiuto dalla Società Biblica di Ginevra è altresì un invito nuovo rivolto alle donne e agli uomini italiani di questa generazione affinché possano scoprire che questa parola è per loro e affinché, scoprendola, conoscano la verità che vive in lei.

Veramente, capire la Bibbia cambia tutto!

L’infinita saggezza di Dio. Un omaggio a Tim Keller

E’ un infinito conforto avere un Dio che è molto più saggio e

che mostra molto più  amore di quanto possa fare io.

Ci sono miriadi di ragioni per ogni cosa che fa e

permette e che non posso conoscere,

ma in lui è la mia speranza e la mia forza.

Tim Keller

 

Tim Keller, una delle più importanti figure del mondo evangelico americano, è andato con il Signore, dopo aver combattuto tre anni con un cancro al pancreas. Le parole che riportiamo come epitaffio sono quelle del Twitter dove egli annunciò la sua malattia e che ci sembrano sintetizzare efficacemente il suo messaggio.

Keller è stato un personaggio molto influente negli ultimi decenni nel mondo evangelico. Formatosi in alcuni dei seminari più rinomati, dopo aver lavorato con IFES (dove aveva vissuto anche la sua conversione) è stato per qualche anno professore al Westminster Theological Seminary, dove aveva anche preso il suo dottorato.

Come molti affermano in queste ore sarebbe potuto rimanere lì per il resto della sua vita, probabilmente i suoi libri avrebbero comunque avuto un certo successo. Ma la vera sfida per lui evangelico conservatore era quello di andare in una delle città più secolarizzate del mondo e riuscire ad avere successo nella missione del Vangelo. Per questo motivo nel 1989 è andato a New York dove è riuscito, nel cuore di Manhattan, a vivificare una Chiesa Presbiteriana ortodossa nella sua fede che, grazie a lui, è stata frequentata da centinaia di persone. 

Pertanto nel mondo evangelico Keller sarà soprattutto ricordato come predicatore di successo nell’era, come afferma Leslie Newbigin, del post-cristianesimo occidentale. La sua capacità è stata quella, pur rimanendo nella tradizione, di sapersi far ascoltare da un pubblico cui bisognava annunciare il Vangelo a partire da zero e cercando di comprendere il suo linguaggio. Per questo motivo ha cercato in autori come C.S. Lewis e J. Stott dei modelli da cui partire per imparare a parlare al mondo. E’ stato anche un fervido lettore non solo della letteratura evangelica, ma anche di quella secolare, con lo scopo di comprendere lo spazio in cui si muoveva.

Quando nel 2010 ho potuto ascoltare Keller a Città del Capo ho apprezzato soprattutto la sua analisi sociologica del mondo in cui viviamo e l’importanza di evangelizzare le città, luogo dove vivono la maggior parte delle persone della terra oggi, un po’ come i primi cristiani hanno evangelizzato in primis le città dell’Impero. 

Le sue posizioni “tradizionali” non gli hanno impedito di farsi sentire nel mondo secolarizzato e di acquistare un notevole rispetto che lo ha portato anche a contribuire ad alcune delle più importanti testate del panorama culturale newyorchese, che ha sempre avuto idee liberal. Ha scritto, oltre che per le case editrici evangeliche, anche per giornali come il New York Times (che lo ha avuto come suo host editor diverse volte da dopo l’attentato alle Torri Gemelle) a riviste come The Atlantic dove ha scritto proprio uno dei suoi più toccanti articoli dopo aver saputo della sua malattia. Questo ha dimostrato la sua capacità di saper parlare al mondo che, pur essendo in disaccordo, lo ha sempre ascoltato.

Fondatore con Don Carson di Gospel Coalition è stato uno degli esponenti del cosiddetto new calvinism negli Stati Uniti, ma ha sempre dato priorità ad una predicazione di Grazia ed Amore piuttosto che ad una basata sull’enfasi delle caratteristiche più peculiari del mondo Riformato. La sua scelta è stata dovuta soprattutto alla sua formazione ed anche a voler trovare quella che poteva essere una base teologica solida e ben strutturata.

Non sono mancate nella sua vita i momenti in cui sono stati evidenti alcuni contrasti come nel 2017 quando il Princeton Theological Seminary (oggi di tendenza liberale mainstream) voleva dargli (giustamente) il premio Abraham Kuyper (che viene conferito a predicatori e teologi riformati che si sono distinti nella conciliazione tra Vangelo e società) e poi ha ritirato il premio perché gruppi di studenti hanno dissentito a causa delle sue idee sul ministerio femminile (come tutti gli esponenti di Gospel Coalition Keller è rimasto complementarista e contrario al ministerio pastorale femminile, pur dando spazio alle donne nel diaconato) e per la condanna dell’omosessualità. Nonostante questo Keller comunque ha tenuto le conferenze Kuyper delineando i sette passi che si devono fare per evangelizzare il mondo occidentale, il più difficile oggi cui far ascoltare il Vangelo. La proposta era quello di ritornare ad un’apologetica simile a quella agostiniana della Città di Dio, a cercare una via di mezzo tra l’impegno per il sociale (voluto soprattutto dai protestanti storici) e l’annuncio del Vangelo, ad avere una critica della secolarizzazione partendo dall’interno del mondo cristiano piuttosto che dall’esterno, a sviluppare la doppia vocazione per coloro che sono impegnati nel mondo evangelico e nel mondo del lavoro, a guardare al mondo evangelico in modo globale e a non guardare solo al contesto americano (uno sicuramente dei limiti oggi di questo mondo), ad evidenziare la grazia che sola salva l’umanità ed a distinguere il Vangelo da comportamenti religiosi standard.

Se il discorso del 2017 a Princeton può essere visto come la sua sintesi teologico-pastorale, non va dimenticato che, in un periodo difficile per il mondo evangelico americano, Keller ha saputo tenere le distanze dall’agone politico (non mostrando indifferenza verso di esso, ma profondo interesse), ribadendo che il cristianesimo non ha un suo partito di preferenza e che, benché i credenti si debbano impegnare per il sociale, non possono sposare agende di particolari partiti o leader politici.

La testimonianza degli ultimi anni è stata sicuramente toccante, perché, pur mostrando le sue debolezze umane, Keller, nella malattia, ha mantenuto la fede nel Dio sovrano. Il suo lascito sarà importante soprattutto per la capacità che ha avuto di parlare al mondo in cui viviamo ed in questo va sicuramente imitato e preso come modello.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Rammentatevi che sono morto nella fede di Dio, per la libertà. Breve profilo di un partigiano evangelico.

La Resistenza per la minoranza evangelica è stato un periodo significativo, soprattutto per coloro che hanno partecipato alle lotte partigiane, una minoranza nella “minoranza” che, però, pensava di associare la propria fede alla causa della libertà per la Nazione. Diversi sono i profili di partigiani evangelici, sicuramente in una percentuale più alta di quella che era la “densità” religiosa protestante in Italia. 

Una figura particolare di questo movimento è stata quella di Jacopo Lombardini che, come hanno ricordato recentemente NEV e Riforma, in occasione del posizionamento di una pietra d’inciampo a lui dedicata presso il Collegio Valdese di Torre Pellice, ha ricevuto per il suo operato una medaglia d’argento alla memoria dalla Repubblica italiana.

Chi era Lombardini? Al contrario di quello che si possa pensare non proveniva dalle Valli Valdese ma dalla provincia di Carrara, dove, sin da piccolo, grazie anche al nonno ed al padre, aveva avuto simpatie repubblicane e mazziniane (il nonno era stato un garibaldino che aveva partecipato al tentativo della conquista di Trento). Grazie a queste convinzioni, dopo aver terminato gli studi magistrali ed essersi dedicato anche alla poesia (scriverà nella sua vita anche dei romanzi), si era avvicinato all’irredentismo di sinistra pre-prima guerra mondiale e fu interventista democratico, tanto che si arruolò come volontario durante la Grande Guerra.

Tornato a casa, proprio anche grazie al suo mazzinianesimo ed al suo anticlericalismo che difficili da conciliare nella Chiesa Cattolica, si avvicinò dopo il conflitto alla Chiesa Evangelica e si convertì al metodismo diventando, dopo un paio di anni di studi a Roma, il predicatore della Chiesa di Carrara che fiorì durante la sua predicazione. 

L’avvento del Fascismo negli anni 1920 e il suo voler vivere in un territorio che riteneva più “libero” per gli evangelici lo portò, dopo diverse frequentazioni estive, a trasferirsi nelle Valli Valdesi, dove, dopo qualche anno, divenne insegnante presso il Collegio Valdese di Torre Pellice. La sua attività di educatore e la sua volontà di voler istruire i giovani è attestata da diverse sue affermazioni. Lombardini fu un esempio di quello che spesso è avvenuto nel mondo evangelico italiano: uomini dalla “doppia vocazione” che insieme alla predicazione cercano di conciliare il proprio lavoro secolare, in questo caso quello di educatore.

La sua adesione all’antifascismo è da farsi risalire immediatamente dopo l’avvento al potere di Mussolini. Aderì, proprio per le sue idee repubblicane e mazziniane, sin da subito al gruppo fondato dai fratelli Rosselli di Giustizia e libertà (gruppo di cui molti evangelici fecero parte) che poi confluì nel Partito d’Azione, sempre di ispirazione repubblicana e mazziniana.

Nel 1942 viene sospeso dall’insegnamento su segnalazione di un genitore che si lamentava dei valori non propriamente fascisti insegnati dal docente carrarino. 

Qualche mese dopo Lombardini aderirà alla lotta partigiana proprio nei gruppi affiliati al Partito d’Azione e farà parte della V divisione Alpina di Giustizia e Libertà, dove avrà anche il ruolo di cappellano laico della divisione (dove non militavano solo evangelici). Sarà così che nel marzo del 1944, dopo un duro rastrellamento da parte delle forze naziste, Lombardini sarà arrestato e tradotto prima a Torino, poi a Fossoli, poi a Mathausen, dove pur vivendo giorni terribili non perderà né la fede, né la speranza. Qui continuerà a scrivere e ad occuparsi degli altri prigionieri. E’ di questo periodo la seguente poesia, scritta in occasione della morte del ventunenne partigiano Sergio Toja, cui sarà intitolata la stessa divisione di cui era membro Lombardini.

 

Sergio, fratello, ti ho visto

sul marmo di sala mortuaria

piccola e nuda e solitaria 

e in alto una forma di Cristo. 

Come Lui, nudo e forato, di nulla coperto che un panno 

nel vestibolo dedicato 

– a quei che risusciteranno -.

Tu così hai fatto partenza:

forse anch’io, ora, ho più fretta;

che vuoi: si vive, si aspetta

con indisciplinata impazienza

 

Prima della morte avvenuta nella camera a gas proprio il 25 aprile 1945, scriverà questa commovente alla propria sorella, testimone della fede mantenuta anche in circostanze tragiche come quella che aveva vissuto.

 

Cara Maria, 

Se ti arriverà questa mia lettera che affido ad un mio amico vorrà dire che mi è successo qualche disgrazia e che ho finito di soffrire. Ti scrivo dai monti, dove mi sono rifugiato per non sottostare alla dominazione tedesca e per fare un po’ di bene. Sono infatti un po’ il cappellano dei Valdesi che sono nelle Bande partigiane. Pur essendo del tutto disarmato è logico che io corra gli stessi pericoli dei miei compagni che hanno deciso di salvare con le armi l’Italia e di dare al popolo d’Italia un regime giusto e libero. Ho accettato di fare questo come un dovere, perché non ho mai cessato di amare la libertà. Ti prego di perdonarmi di questo dolore che ti do. Ti prego di perdonarmi i dolori che ti ho dato nella vita. Ma ti ho sempre voluto bene, ed ho voluto bene a tutti i miei nipoti. Salutameli ad uno ad uno. Salutami Filiberto e tutti i parenti. Salutami i fratelli che sono rimasti del gruppo evangelico. Mi dispiace di non aver potuto far nulla di quanto avevo in mente per esso. Mi raccomando a tutti che non lasciate spegnere quella piccola luce di fede e di speranza che è stata accesa nel nostro paese. Io morirò, con l’aiuto di Dio, nella fede Evangelica alla quale sono stato chiamato per grazia di Dio. Siate fedeli anche voi. In questi giorni di pericolo di morte, io provo quale tesoro sia la fede: essa infatti mi permette di essere tranquillo. A Dio, mia cara sorella, a Dio, miei cari parenti ed amici tutti. Rammentatevi che sono morto nella fede di Dio, per la liberta. Siate fedeli a Dio ed amate la libertà per la quale tanti sono morti. 

Jacopo Lombardini

 

La sua esortazione di rimanere fedeli a Dio, ad amare la libertà, a rimanere fermi nella fede evangelica sono alcune delle caratteristiche del piccolo mondo evangelico italiano che non vanno dimenticate e che vedono proprio in Lombardini, come affermava anche Spini, il punto di unione tra la fede, l’aspirazione ad una Nazione libera, il Vangelo, il Risorgimento e la Restistenza. Per il suo esempio e la sua morte Lombardini fu insignito della medaglia d’argento alla memoria. La motivazione del conferimento dice:

 

Lombardini Jacopo fu Francesco e fu Musetti Assunta da Gragnana (Apuania) classe 1892, partigiano combattente. Uomo di cultura e patriota di sicura fede fu, subito dopo l’armistizio. animatore infaticabile della lotta di liberazione nelle Valli del Pellice e della Germanasca; conosciuto ed amato dai giovani che andava ammaestrando nella fede alla Libertà e alla Patria. Caduto in mano ai tedeschi nel corso di un duro rastrellamento e crudelmente seviziato, manteneva sempre contegno elevato ed esemplare, affrontando con cristiana serenità il duro calvario dei campi di concentramento. Barbaramente suppliziato chiudeva l’esistenza nel servizio dei più nobili ideali.

 

Fede,  libertà e amore per il proprio servizio sono valori che ancora oggi noi dobbiamo continuare a trasmettere, anche ricordando la commemorazione civile del 25 aprile.

 

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Il santuario di Debre Libanos nel 1934

Riconoscere le proprie colpe come Nazione e come credenti

Quando in una Nazione si cambia Governo dopo diversi anni, quest’ultimo deve riprendere e intrecciare rapporti diplomatici con le altre Nazioni cercando di essere attento a quanto si dice, oltre che a quanto si fa. L’Italia, in questo momento è alle prese con diverse crisi internazionali, da quella del conflitto russo-ucraino a quelle rinvenienti dal continente africano, anche dei Paesi che, nella prima metà del XX secolo erano nostre colonie. 

E’ giusto che il Governo allacci e riallacci rapporti con questi Paesi ed è quello che ha cercato di fare l’attuale Premier con la sua visita in alcuni Paesi africani qualche giorno fa. Quando si va in questi Paesi non bisogna mai dimenticarsi di quello che è accaduto e di come, come tutte le altre nazioni, e forse anche più di esse, l’esercito coloniale italiano e i governi precedenti la Seconda Guerra Mondiale siano stati protagonisti di grandi atrocità e la nostra Nazione dovrebbe provare vergogna e chiedere scusa per tutto quello che è successo. 

Ad una domanda fatta al premier se fosse il caso di chiedere scusa per le atrocità commesse, la risposta è stata piccata e si è quasi voluto ricordare che un tale atteggiamento appartiene più ad un colore politico che ad un’intera Nazione. Va detto che, precedentemente due nostri Presidenti della Repubblica, Scalfaro e Mattarella, avevano riconosciuto che quanto successo nel passato va assolutamente condannato e che l’unico atteggiamento che uno Stato dovrebbe avere è quello di chiedere scusa.

Chiaramente per comprendere gli avvenimenti passati è giusto guardare alla storia ed anche a certe narrazioni di essa che sono passate nel nostro Paese. Dopo la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, l’Italia perse tutte le sue colonie e, dato anche il breve tempo in cui aveva avuto questi territori al di fuori del nostro confine, per diversi decenni non si è riflettuto in maniera critica su quanto accaduto, su come i nostri connazionali si siano macchiati di crimini atroci, dovuti anche al fatto che si ritenevano i territori conquistati abitati da persone culturalmente e razzialmente inferiori. 

E’ passato, per diverso tempo, la “leggenda” che gli italiani, nei loro possedimenti coloniali, si fossero comportati bene, anzi che avessero portato la civiltà, costruendo “le strade” e comportandosi in maniera bonaria, perché gli italiani erano dipinti come “brava gente”, rispetto alla durezza imposta nei loro territorio dai britannici e dai francesi

Questa falsa narrazione (ancora presente oggi) è stata messa in discussione solo a partire dagli anni 1990, grazie anche ad un’attenta ricerca documentaria che ha fatto scoprire a diversi storici cosa fosse accaduto durante il periodo di occupazione coloniale da parte degli italiani. 

Uno dei primi ad occuparsi della dominazione coloniale italiana è stato Angelo del Boca. Del Boca, attraverso i suoi attenti studi delle fonti dell’epoca, ha dimostrato che la brutalità era presente già con i governi liberali che avevano iniziato la conquista dei territori a partire dalla fine del XIX secolo ed aveva raggiunto il suo apice nella campagna per la conquista dell’Etiopia, fortemente voluta da Mussolini. In quella cruenta campagna contro uno Stato che aveva mantenuto la sua indipendenza sin dall’antichità e che era per giunto abitato da una popolazione di antica fede cristiana, l’esercito italiano, supportato dalle camicie nere, non si fece scrupoli di usare le armi chimiche (proibite dalla Società delle Nazioni dopo il primo conflitto mondiale) e di approvare leggi razziali che precedevano quelle del 1938 contro gli Ebrei. La sintesi dei suoi studi si trova oggi nel testo Italiana brava gente, dove lo storico torinese dimostra come anche gli italiani furono malvagi e cruenti come tutte le popolazioni occidentali. 

Se qualcuno pensa che la missione italiana sia stata quella di importare la civiltà e la religione cristiana, dovrebbe informarsi e iniziare a sapere che la prima grande strage di credenti cristiani (di religione copta) fu fatta proprio dagli Italiani. In un clima come quello voluto dal Governo Fascista, che non aveva simpatie per le minoranze religiose e che era sceso a compromesso con la Chiesa Cattolica per cercare di evitare opposizione da essa,  i cristiani copti dell’Etiopia che continuavano a parteggiare per il Negus in esilio, erano di ostacolo ai propri piani e mostravano una resistenza che non si poteva sopportare. Per questo motivo Graziani nel maggio 1937 ordinò quello che è stato il più grande massacro di cristiani della storia del XX secolo.

Il governatore di Etiopia decise di far uccidere quasi tutti i monaci ed i pellegrini che si recavano a Debre Libanos, uno dei principali santuari della religione copta etiope. Ci furono più di 2000 vittime che non stavano opponendo resistenza e non erano in battaglia. La vicenda, “riscoperta” da pochi anni, è stata magistralmente ricostruita da Paolo Borruso nel suo libro Debre Libanos 1937. 

Per chi voglia una sintesi di quanto accaduto nella dominazione coloniale il testo da leggere è quello di Francesco Filippi Noi gli abbiamo fatto le strade, pubblicato un paio di anni fa.

L’A. smonta questa idea ricordando che l’imperialismo italiano è stato simile, in tutto e per tutto, a quello delle altre nazioni. con la differenza che, al contrario di quanto è avvenuto in Francia ed in Gran Bretagna, non abbiamo riflettuto in maniera critica sul nostro passato e, ancora oggi, non riusciamo a comprendere la portata di quanto accaduto durante il nostro periodo coloniale.

Interessante la ricostruzione di come sia iniziato l’imperialismo italiano e di che immagine abbia voluto dare di sé. Basterebbe ricordare l’idea di Pascoli sulla grande proletaria che si muove per comprenderlo: i governi italiani hanno sempre presentato l’occupazione coloniale come un’impresa fatta a beneficio delle classi meno abbienti che avrebbero potuto ricevere “nuove terre” dove formare e proprie fortune. L’idea di formare colonie di popolamento si è sempre infranta con la realtà dei fatti: le prime colonie italiane (Eritrea, Somalia e Libia) erano territori difficili, dove l’insediamento è stato o puramente commerciale o militare, ma dove gli “italiani” non hanno realmente trovato quello che gli era stato promesso.

Anche le motivazioni ulteriori delle occupazioni da parte dell’esercito italiano risultano essere pretestuose: si vanno ad occupare terre che sono “vuote” (come se gli abitanti del territorio fossero “non umani”), si por

ta la modernità in posti dove vigono ancora usanze medievali. Queste idee, secondo Filippi, continuano ancora oggi a dominare la mentalità comune quando si parla di questa parte della nostra storia, cosa che viene fatta sempre in maniera piuttosto superficiale.

Il riguardo per le popolazioni conquistate sono date dalle immagini da cui prende il titolo uno dei paragrafi del libro che narra dei tratti bestiali che venivano dati agli indigeni: selvaggi con l’“anello al naso” e con “la sveglia sul collo”. Manca del tutto, quindi, un qualsiasi sguardo antropologico, neanche quello di un’antropologia evoluzionista che cerchi di fare una distinzione tra le popolazioni. .

Il volume si conclude con un capitolo dedicato a come è stata percepita dagli italiani il possesso di colonie dopo averle perse. L’A. si sofferma sul fatto che l’Italia non è stata capace di una reale ricostruzione della memoria coloniale ed ha continuato a cercare di creare una sorta di diversità rispetto agli altri Paesi o a dimenticare cosa fosse realmente successo. Le stragi, il razzismo (che va ricordato fu prima applicato in Italia alle popolazioni coloniali) sono scarsamente ricordati dalla nostra storia e anche dalla nostra antropologia. 

Rispetto a questo quadro, confermato da diversi storici oggi e documentato dalle accurate ricerche fatte (non va dimenticato anche Nicola Labanca che ha dedicato importanti saggi alla storia delle colonie italiane), che atteggiamento dovremmo chiedere come evangelici rispetto a quanto accaduto nel passato?

Non dimentichiamoci che Cristo è venuto per tutti ed il nostro compito è quello di annunciare il Vangelo a tutto il mondo, perché per Dio non vi è alcuna distinzione tra gli uomini. Proprio per questo motivo volevo concludere con alcune parole dell’Impegno di Città del Capo, voluto dal Movimento di Losanna e che, in una prospettiva missiologica che guarda alla storia afferma: “Riconosciamo con dolore e con vergogna la complicità dei cristiani in alcuni dei più devastanti scenari di violenza e di oppressione etniche e il deplorevole silenzio di un’ampia parte della Chiesa quando si sviluppano tali conflitti. Questi scenari includono la storia e l’eredità del razzismo e della schiavitù della gente di colore, l’Olocausto contro gli ebrei, l’apartheid, la «pulizia etnica», la violenza settaria fra cristiani, la decimazione delle popolazioni indigene, la violenza interreligiosa, etnica e politica, la sofferenza dei palestinesi, l’oppressione di casta e il genocidio tribale. I cristiani, che con la loro azione o con la loro passività contribuiscono alla frammentazione del mondo, minano seriamente la nostra testimonianza al vangelo della pace”.  

Anche il nostro Paese ha partecipato a tutto questo e come Chiesa non possiamo tacere e dobbiamo provare vergogna e dolore. 

                                                                                                                                                    Valerio Bernardi – DIRS GBU

 

Incarnazione della parola

Non ottimista

Prosegue la pubblicazione – settimanale – di otto paragrafi (qui il secondo) del libro del teologo di orgine croata Miroslav Volf, che sarà in libreria a Maggio, dal titolo Contro la marea. L’amore in un tempo di sogni meschini e di continue inimicizie. Il libro è una raccolta di brevi scritti, alcuni dei quali hanno poi visto un loro ampliamento in libri tematici.

 

Fatevi un regalo, e mettete la Teologia della speranza di Jürgen Moltmann sotto il vostro albero di Natale (Cfr. tr. it. J. Moltmann. Teologia della speranza. Ricerca sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, Queriniana, Brescia, 1970). Moltmann ha pubblicato il libro in tedesco più di cinquant’anni fa. È stato tradotto in inglese tre anni dopo (1967), è diventato immediatamente una celebrità teologica negli Stati Uniti. Il libro è anche andato sulla prima pagina del New York Times1. Uno dei principali temi della Teologia della speranza è l’Avvento, e sarebbe bene che ci ricordassimo di questo libro straordinariamente importante.
L’immensa, originale popolarità del libro deve molto al fatto che quando fu pubblicato, la “speranza” era nell’aria. Era l’“era Kennedy” negli Stati Uniti e il periodo del movimento dei diritti civili portato avanti da Martin Luther King jr. Il mondo occidentale stava per esperire il potere dei movimenti studenteschi radicali. La “Primavera di Praga” sarebbe arrivata presto in Cecoslovacchia, frutto di una crescente democratizzazione delle società socialiste dell’allora defunto Secondo Mondo. E nel Terzo Mondo dei tardi anni ‘60, la decolonizzazione era in pieno movimento e gli intellettuali giocavano con le idee di Marx. La Teologia della speranza cavalcava un’ondata globale di speranza sociale. Come Moltmann ha detto, il libro aveva il suo proprio kairos, o il momento opportuno.
Ma kairos è una benedizione ambivalente per un libro. Dal lato positivo, spinge il libro davanti all’attenzione pubblica. Dal lato negativo, schiaccia la sua interpretazione in un modello determinato. Chiunque parla del libro, ma praticamente nessuno lo apprezza e lo comprende in maniera appropriata.
Con qualche importante eccezione (per esempio quella del movimento dei diritti civili) ciò che era nell’aria, quando apparve Teologia della speranza, non era speranza, ma ottimismo. Le due cose sono facilmente confondibili. Sia l’ottimismo sia la speranza includono aspettative positive riguardo al futuro. Ma, come Moltmann ha sostenuto in maniera persuasiva, sono prese di posizione radicalmente diverse verso la realtà.
L’ottimismo è basato sulla causa «estrapolativa e il pensiero effettivo». Traiamo conclusioni sul futuro sulla base dell’esperienza del passato e del presente, guidati dalla convinzione che gli eventi possano essere spiegati come effetti di cause precedenti. Dal momento che “questo” è accaduto, concludiamo che “quello” dovrebbe accadere. Se un’estrapolazione è corretta, l’ottimismo è ben fondato. Sin da quando mio figlio Nathanael poteva prendere Il piccolo orso e leggerlo quando era all’asilo, potevo legittimamente essere ottimista che sarebbe andato ragionevolmente bene in prima elementare. Se l’estrapolazione non è corretta, l’ottimismo non ha buone basi, è illusorio. Aaron, che ha due anni, è molto bravo nel lanciare una palla. Ma sarebbe sciocco da parte mia scommettere che otterrà un contratto multimilionario con una squadra di calcio e avrà cura di me dopo il pensionamento.
Le nostre aspettative sul futuro sono basate per la maggior parte su tale pensiero estrapolativo. Vediamo lo splendore arancio all’orizzonte e ci aspettiamo che la mattina sarà immersa nel sole. Un tale ottimismo informato e ben fondato è importante per la nostra vita privata e professionale, per il funzionamento delle famiglie, per l’economia e per la politica. Ma l’ottimismo non è speranza.
Uno dei più durevoli contributi della Teologia della speranza di Moltmann è stato quello di insistere che la speranza, al contrario dell’ottimismo, è indipendente dalle circostanze in cui le persone vivono. La speranza non è basata sulle possibilità della situazione e sulla corretta estrapolazione per il futuro. La speranza è basata sulla fedeltà di Dio e perciò sull’efficacia della promessa di Dio. E questo mi riporta al tema dell’Avvento.
Moltmann distingueva tra due maniere in cui il futuro si rapporta a noi. La parola latina futurum ne esprime una. «Il futuro nel senso di futurum si sviluppa a partire dal passato e dal presente, in quanto passato e presente hanno dentro essi stessi la potenzialità di divenire e sono “pregni di futuro”». La parola latina adventus esprime l’altra maniera in cui il futuro è relazionato con noi. Il futuro nel senso di adventus è il futuro che viene non dal campo di ciò che è o di ciò che era, ma dal campo di ciò che non è ancora, «dal di fuori», da Dio.
L’ottimismo è basato sulle possibilità delle cose come dovranno essere; la speranza è basata sulle possibilità di Dio senza tener conto di come sono le cose. La speranza può sorgere anche nella valle dell’ombra della morte; infatti è proprio lì che si manifesta realmente. La figura della speranza nel Nuovo Testamento è Abramo, che ha sperato contro ogni speranza perché credeva nel Dio «che fa rivivere i morti, e chiama all’esistenza le cose che non sono» (Rom 4:17–18). La speranza prospera anche in situazioni in cui, per il pensiero estrapolativo di causa–effetto, si dovrebbe concludere soltanto con una totale disperazione. Perché? Perché la speranza è basata sul Dio che viene nelle tenebre per scacciarle con la luce divina.
Ogni anno nella stagione dell’Avvento leggiamo il profeta Isaia: «Il popolo che camminava nelle tenebre, vede una gran luce; su quelli che abitavano il paese dell’ombra della morte, la luce risplende» (Is 9:1). In ciò è racchiuso tutto il significato del Natale, qualcosa di radicalmente nuovo che non può essere generato dalle condizioni di questo mondo. Viene. Non lo possiamo estrapolare. Dio lo ha promesso.
Se le tenebre sono discese sopra di noi e sopra il nostro mondo non ci occorre tentare di sostenere che le cose non sono così male come sembrano o cercare di essere disperatamente ottimisti. Ricordiamoci invece di un semplice fatto: la luce di Chi era all’inizio con Dio brilla nelle tenebre e le tenebre non prevarranno. Se ci occorre una lunga e plausibile spiegazione per supportare questo invito, scartate quel libro di Moltmann che è sotto l’albero di Natale, prendete qualcosa di caldo da bere e entrate nel mondo dell’Avvento, della promessa, della speranza.

All’alba scendemmo in una valle temperata

(di Filippo Falcone)

Quando un secolo fa esatto T. S. Eliot pubblicava The Waste Land (La Terra Desolata), l’Europa era da poco uscita dal primo conflitto mondiale e il poeta era ormai entrato nel secondo lustro di quel matrimonio con Vivien Eliot che egli notoriamente descrive come “utter hell” (“un vero e proprio inferno”). Se Eliot in “Tradition and the Individual Talent” invoca l’impersonalità dell’opera, il poema si fa carico in pieno delle ansie interiori universali dell’uomo e dunque di quelle dell’autore. La Terra Desolata è il manifesto poetico di quella che Auden chiama “the age of anxiety” (“l’età dell’ansia”). L’assenza di significato, la frammentazione dell’io, il relativismo gnoseologico e la ricerca mai compiuta di riferimenti, di una tradizione che dia vita segnano qui lo scarto più profondo con il Positivismo e ne annunciano la fine. La versificazione fatta di frammenti e segmenti giustapposti in cui tutta la tradizione letteraria si sovrappone in un continuum temporale ben riflette la frammentarietà dell’uomo e della sua esistenza, nonché una visione interamente nuova del tempo e della storia.

Nell’ultima sezione del poema, “What the Thunder Said” (“Ciò che disse il tuono”), Eliot restituisce immagini di morte e aridità. Il titolo della sezione è tratto da un’antica leggenda della fertilità indiana in cui ogni essere trova la forza per riportare la vita, ascoltando la voce del tuono. Là dove la terra desolata di Weston è permeabile a tale speranza, in Eliot essa si tramuta in tuono lontano. L’io poetico è alla ricerca di acqua, che dà vita e significato, in una terra desolata e sterile, dove vi è soltanto roccia e dove le cavità non contengono sorgenti, ma sono bocche piene di denti cariati:

 

Qui non c’è acqua ma soltanto roccia
Roccia e non acqua e la strada di sabbia
La strada che serpeggia lassù fra le montagne
Che sono montagne di roccia senz’acqua
Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
Vi fosse almeno acqua fra la roccia
Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia[1]

Il tuono è rumore di morte. Esso non porta acqua nella terra arida, ma annuncia soltanto che “Colui che viveva” — Cristo — “ora è morto” e, di conseguenza, “Noi che vivevamo” — l’umanità — “stiamo ora morendo”.

Il verso si fa frammentato, come il significato. Segmenti di immagini si sovrappongono fino a diventare nel verso singola parola (“And water”, “A spring”), che si carica dell’anelito, del bisogno insoddisfatto, per lasciare poi il posto alla cicala, cantore della siccità, e da ultimo all’onomatopea, puro suono disincarnato, come il suono del tuono che non è realtà, ma soltanto lontana allusione:

 

Se vi fosse acqua
E niente roccia
Se vi fosse roccia
E anche acqua
E acqua
Una sorgente
Una pozza fra la roccia
Se soltanto vi fosse suono d’acqua
Non la cicala
E l’erba secca che canta
Ma suono d’acqua sopra una roccia
Dove il tordo eremita canta in mezzo ai pini
Drip drop drip drop drop drop drop
Ma non c’è acqua

La scena ora cambia. Si apre uno squarcio sui due discepoli sulla via di Emmaus. L’io poetico si identifica con uno dei due. Colui che è morto è là accanto all’altro, ma non si rivela come il vivente. La sua presenza non è risposta, ma interrogativo: “Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?”.

 

Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme
Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina accanto
Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
Io non so se sia un uomo o una donna
– Ma chi è che ti sta sull’altro fianco?

Non trovando risposta là dove la cerca, lo sguardo poetico volge ora a oriente. Forse troverà acqua nel Gange. Forse la religiosità orientale saprà dare significato, la sua tradizione riferimenti, vita rigenerativa. Anche là, tuttavia, altro non vi è che siccità e attesa della pioggia, speranza distante e disattesa:

 

Quasi secco era il Gange, e le foglie afflosciate
Attendevano pioggia, mentre le nuvole nere
Si raccoglievano molto lontano, sopra l’Himavant.

Una volta di più, la ricerca rimane incompiuta e si declina in figura del suono. Come la spiritualità occidentale nell’onomatopea, quella orientale sfuma qui nell’allitterazione:

Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih shantih shantih

 

L’anno 1927 segna la conversione di Eliot al cristianesimo. Come Barry Spurr non manca di notare[2], essa è tutto fuorché improvvisa e trionfale. È piuttosto graduale, progressiva e non scevra di dubbi, lacerazione e ricerca. Il suo è il viaggio dei magi, viaggio pieno di asperità, sofferenza e ripensamento, ma anche viaggio fatto di un’anticipazione nuova, accompagnata da nuove immagini narrative, ora lineari, che qualificano la versificazione nel segno dell’armonia:

 

Fu un arduo avvento per noi,
Proprio il tempo peggiore dell’anno
Per un viaggio, e per un viaggio lungo come questo:
Le strade affondate e la stagione rigida,
Nel cuore fitto dell’inverno.»
E i cammelli irritati, gli zoccoli doloranti, restii,
Che si stendevano sulla neve che si andava sciogliendo.
Ci furono momenti in cui rimpiangemmo
I palazzi estivi sui pendii, le terrazze,
E le fanciulle di seta che portano i sorbetti.
Poi i cammellieri che sbottavano in bestemmie e lamentele
E se ne scappavano, e rivolevano i loro liquori e le loro donne,
E i falò notturni che si spegnevano, e l’assenza di ripari,
E le città inospitali, e ostili le cittadine,
E sporchissimi i paesini che vendevano a prezzi esosi:
Sono stati momenti durissimi per noi.
Alla fine preferimmo viaggiare intere nottate,
Dormendo a tratti,
Con le voci che ci cantavano nelle orecchie, che dicevano
Che era tutta una pazzia.

 

Sulle rive del Gange prosciugato Eliot aveva lasciato il lettore nella terra desolata. Ora da Oriente lo riconduce idealmente a ritroso. La terra sterile, arida, terra di morte e desolazione lascia il posto a una valle temperata, piena di vegetazione, dove scorre quell’acqua che dà vita e significato:

 

Poi all’alba scendemmo in una valle temperata,
Umida, sotto la coltre di neve, odorante di vegetazione,
Con un ruscello che scorreva ed un mulino ad acqua che picchiava il buio.

 

Oltre all’acqua, elemento pervasivo che, muovendo le pale del mulino, percuote le tenebre, si vedono “[…] tre alberi sotto l’orizzonte”, rimando al Calvario. La ricerca ora si compie:

E arrivammo di sera, senza un istante di anticipo
Trovando il luogo; fu (a dir poco) soddisfacente.

Tutto questo è successo molto tempo fa, lo ricordo,
E lo farei ancora, ma appuntatevi
Questo appuntatevi
Questo: siamo stati condotti per tutta quella strada per
Una Nascita o per una Morte? Vi fu una Nascita, certamente,
Ne abbiamo avuto la prova e mai un dubbio. Avevo visto le nascite e le morti,
Ma avevo creduto che fossero diverse; questa Nascita fu
Una dura e amara agonia per noi, come la Morte, la nostra morte.
Tornammo nei nostri possedimenti, in questi Regni,
Ma non più a nostro agio qui, coi vecchi ordinamenti,
Tra un popolo straniero aggrappato ai propri dèi.
Sarei lieto di un’altra morte.

 

L’esito della ricerca dei magi viene definito “soddisfacente”, ma l’io poetico si interroga su quale fosse la ragione del loro essere condotti fino a quel luogo. È per trovare la vita, rappresentata da quell’acqua tanto agognata, o per trovare la morte? Certo di fronte a loro vi è una Nascita, la fonte stessa della vita, ma parteciparvi comporta una morte, la loro morte al proprio io. I magi fanno ritorno ai propri regni, alla vecchia dispensazione dell’uomo naturale e della legge, là dove l’uomo tiene stretti i propri dèi, idoli dell’io. Qui l’io poetico non si sente più a casa, ma desidera un’altra morte. Solo così può conoscere la vita.

L’incontro con Cristo è per Eliot sofferto, perché il poeta deve percorrere lo spazio interiore che lo separa dalla valle di Betlemme, ma è sofferto anche perché è scontro con lo scandalo, pietra d’inciampo che presuppone la decostruzione di ogni identità, la rinuncia a ogni prerogativa di giustizia e forza, al fine di partecipare alla vita di Cristo, che proletticamente è già offerta alla croce (vd. “tre alberi sotto l’orizzonte”). La vita di Cristo prelude alla sua morte, la sua morte alla vita.

Le identità e gli idoli dell’io continuano a dominare le nostre vecchie dispensazioni e ciò che sembrava eradicato per sempre torna a fare capolino, ricordandoci quello che C. S. Lewis chiama il “grande peccato” dell’uomo, l’egocentrismo. I frutti dell’io sono ben noti – odio, contese, dissidi, identitarismi, nazionalismi, alienazione, frammentazione, perdita di significato, aridità, solitudine e morte. È ancora tempo per l’uomo di percorrere la strada lunga e impervia che porta a Betlemme e trovare là la vita e con essa una morte, la sua morte.

 

 

 

[1] I testi poetici sono tratti da T. S. Eliot, Poesie, curate e tradotte da Roberto Sanesi, Milano, Bompiani, 2000.

[2] B. Spurr, «”Anglo-Catholic in Religion”: T. S. Eliot and Christianity», in A Cambridge Companion to T. S. Eliot, New York, Cambridge University Press, 2017, p. 188.

 

Filippo Falcone, insegna Inglese in un liceo di Domodossola; collabora con la Società Biblica di Ginevra e con Edizioni GBU; ha curato per Edizioni GBU il volume Il cielo nell’ordinario, dedicato al poeta inglese George Herbert.

Lotta, pace e riconciliazione. In ricordo di Desmond Tutu.

E’ notizia di ieri che il vescovo anglicano Desmond Tutu ha lasciato questa terra. Tutu è stata una delle figure più rappresentative del cristianesimo alla fine del secolo scorso ed ha dato un contributo importante al processo di cancellazione delle regole dell’apartheid in Sud Africa, aiutando una delle più pacifiche “rivoluzioni” avvenute negli ultime decenni.

Bisogna però ricordare che, al contrario di Mandela, Tutu è stato ed è voluto essere in primo luogo un uomo di chiesa. Formatosi nell’infanzia in un ambiente metodista (quello che in Sudafrica ha sempre avuto una posizione di netta condanna nei confronti della segregazione razziale), l’incontro con il vescovo anglicano Tom Huddleston lo avvicinò a questa denominazione e gli permise (lui proveniente da una famiglia di umili origini) un’ottima formazione teologica al King’s College di Londra.

Tornato nel proprio Paese, Tutu nel suo primo periodo ministeriale, rimase piuttosto “indifferente” alla questioni più squisitamente politiche e cercò, in una situazione di chiara difficoltà, di predicare un Vangelo che fosse separato dai problemi che iniziavano ad attraversare il Paese e che avevano esautorato la popolazione di colore da qualsiasi possibilità di decidere il proprio futuro. La sua concezione del rapporto tra Stato e Chiesa era piuttosto laica ed a favore di una separazione delle due sfere. Questo, però, non impediva un impegno nel sociale e nella ricerca di alleviare dai problemi le fasce più svantaggiate della società. 

La svolta avvenne nel 1975, quando Tutu si trovò a ricoprire il ruolo di Decano della chiesa anglicana di Johannesburg, proprio quando scoppiarono le rivolte nel ghetto di Soweto che videro come risposta una durissima repressione da parte del governo bianco. Fu in quel momento che Tutu intensificherà la sua militanza teologico-politica che lo porterà ad una dura condanna del regime di apartheid ed al tentativo di cercare di “predicare” una società dove la razza non dovesse giocare alcun ruolo. Pur propendendo per una soluzione non violenta, non respinse anche la possibilità di azioni forti da parte di coloro che erano oppressi.

Divenuto vescovo di Città del Capo (il primo vescovo di colore anglicano in Sudafrica), Tutu continuò la sua militanza ed il suo essere schierato a favore della giustizia razziale e del ripristino di un regime giusto ed uguale per tutti. Le sue battaglie di questo periodo portarono l’Accademia di Oslo a conferirgli nel 1984 il Premio Nobel per la Pace. Si trattò di una chiara scelta politica dove gli Svedesi da una parte vollero mettere pressione sul regime dell’apartheid, dall’altra decisero di scegliere un esponente che lottava per la giustizia senza però posizioni di radicalizzazione e di violenza presenti in alcuni esponenti dell’African National Congress (di cui Tutu non ha fatto mai parte) e anche da parte di alcuni esponenti di chiese che erano più radicali nelle loro scelte, forse anche perché il loro ministerio non era all’interno di chiese multirazziali come lo è la Chiesa Anglicana in Sud Africa (mi riferisco qui ad esponenti teologicamente significativi ma anche discussi come il riformato Allan Boesak).

Nel 1994, con Nelson Mandela presidente (a cui lo legherà una profonda amicizia), Tutu sarà chiamato a coordinare e presiedere la Commissione per la Verità e la Riconciliazione che doveva cercare di dare un contributo alla nascita del nuovo Sudafrica, ricordando le ingiustizie commesse, ma cercando soprattutto la pacificazione tra le diverse componenti della società della nuova nazione. Il lavoro della Commissione è diventato un modello per le transizioni pacifiche da una situazione di regime autoritario e democratico, cercando di superare il modello di semplice condanna del passato (lo stesso Tutu affermava che il tentativo è stato quello di superare il modello Norimberga, in cui coloro che avevano perpetrato il male venivano semplicemente condannati) e volendo trovare la Verità per partire da questa per una riconciliazione tra le parti senza dimenticare il passato ma andando avanti. I lavori della commissione che sono ancora oggi un modello per il dibattito democratico odierno possono essere consultati al sito https://www.justice.gov.za/trc/. Nonostante gli sforzi fatti e la pubblicazione di diversi volumi da parte della Commissione, il lavoro non è stato accettato da tutte le parti, anche se ha permesso una transizione pacifica al Paese che, pur vivendo ancora oggi diverse difficoltà, è diventata una democrazia piuttosto solida. Tutu ha continuato per il resto della sua vita, anche quando si è ritirato come negli ultimi anni, a combattere per le ingiustizie nei confronti dei più deboli.

Il vescovo sudafricano è noto soprattutto per le sue azioni che per le sue idee e per questo va ricordato e può essere oggi, senza retorica, affiancato (come già in molti hanno fatto) a uomini come Martin Luther King jr per quello che ha fatto. Questo, però, non impedisce di fare una rapida analisi del suo pensiero, contenuto soprattutto in opere che sono essenzialmente raccolte di discorsi e di predicazioni. In una interessante intervista rilasciata nel 1992 a Christianity Today (consultabile al link https://www.christianitytoday.com/ct/1992/october-5/prisoner-of-hope.html), Tutu mostra come il suo pensiero ha profonde radici bibliche e, in particolare, come spesso è accaduto per pensatori che hanno collegato le loro battaglie a percorsi di liberazione, fa riferimento ai libri profetici, abbondantemente citati nell’intervista. Non manca però un riferimento alla teologia paolina della riconciliazione e del perdono che è stata alla base dell’ultima parte del suo operato e che ha avuto come frutto il lavoro della commissione succitata, ancorata a sicuri valori cristiani. Il suo percorso è sempre stato “ecumenico” (ha anche lavorato per un certo periodo per il Consiglio Ecumenico delle Chiese) ed attento alle problematiche sociali e politiche, non dimenticando però il suo ruolo pastorale che è sempre rimasto al centro delle sue idee. 

Il lascito di Desmond Tutu è importante e deve far riflettere tutti noi come il cristianesimo si possa veramente mettersi al servizio della società in cui vive per renderla migliore e più giusta, senza per questo compromettere il messaggio di redenzione. Tutu, pertanto, rimane uno dei “profeti” del nostro tempo cui bisogna guardare quando ci si vuole realmente impegnare nella società, senza per questo compromettere la propria fede ed essere fedeli testimoni dell’annuncio di Cristo.

                                                                                                                                                      

Valerio Bernardi – DIRS GBU