Dio non è violento. È giusto! (D. Bock)

1) La Bibbia contiene pagine in cui sono descritte e presentate diverse forme di violenza. Che cosa pensa di quelle pagine?
Quelle pagine sono un riflesso della vita che si vive in un mondo caduto nel peccato; in esse Dio ricorda agli uomini che devono rendere conto per le scelte che fanno. Quelle pagine esprimono il realismo che la Bibbia possiede.

2) Crede che la violenza sia insita nella natura di Dio così come è presentata nella Bibbia?
Dio non è violento. Egli è giusto.  Il problema assomiglia un po’ all’interrogativo se un governo sbagli nel perseguire la giustizia nei confronti dei criminali, punendoli. Se si leggono i fatti più violenti dell’Antico Testamento si vedrà che Dio punisce una società in cui era diffuso il sacrificio dei bambini, solo per menzionare uno dei tanti crimini. Dobbiamo ricordare che Dio  prende sul serio il peccato poiché questo produce dei danni e dunque è necessaria una sua condanna.

3) Crede che il cristianesimo sia una religione violenta o che contenga in sé i germi della violenza, al punto tale da essere una religione pericolosa per la convivenza tra i popoli, ma anche per lo sviluppo dell’individuo?
Le parti della storia del cristianesimo che sono riusltate violente, e l’Europa conosce molto queste pagine di storia, sono per lo più il risultato del nazioalismo piuttosto che della fede cristiana. Il nazionaleismo può e fa spesso uso della religione per tentare di giustificarsi e di proteggersi. Quando il messaggio di Gesù, che invita a non rispondere occhio per occhio e che incoraggia a perseguire la pace, viene preso sul serio, tanto da esprimere la grazia di Dio nelle cose della nostra vita, allora c’è poco spazio per ritenere il cristianesimo una religione violenta o pericolosa.

Darrell L. Bock (Dallas Theological Seminary)

Darrell Bock è stato il relatore del XII Convegno Nazionale GBU (2017)
Puoi vedere e ascoltare le sue relazioni nel Canale Vimeo di Edizioni GBU

Plenaria 1. Prepararsi adeguatamente alla battaglia: ridefinire il conflitto culturale
Plenaria 2. Lezioni paoline per il confronto culturale
Plenaria 3. Come affrontare e condure un dialogo difficile
Plenaria 4. Il vangelo rintracciato nella promessa e nei sacramenti
Plenaria 5. Che cos’è il vangelo? Uno sguardo a Luca 3:16 e Romani 1:16-17
Plenaria 6. Perché l’amore è un imperativo?

 

Darrell L. Bock
Alla riscoperta del vero vangelo perduto
Prefazione di Rick Warren
Collana: Orizzonti del pensiero cristiano
Edizioni GBU, Chieti, 2017
FORMATO: 21,5 X 13,5
ISBN 9788896441916
PREZZO: € 15,00 | PP. 180

Tre domande a Pablo Martinez su Bibbia e violenza

  La Bibbia contiene pagine in cui sono descritte e presentate diverse forme di violenza. Che cosa pensa di quelle pagine?

La Bibbia contiene descrizioni di violenza, non sue prescrizioni. Tutti i racconti che hanno a che fare con la violenza hanno a che fare in ultima analisi con la malvagità della natura umana che è la sorgente di tutte le «guerre e le contese» (Gc 4:1).

È vero che ci sono alcuni casi in cui i giudizi di Dio implicano un certo grado di violenza che in apparenza potrebbe essere attribuita a Dio. Questi testi dovrebbero essere interpretati attentamente nel contesto dell’esecuzione di tali, divini giudizi, allor quando il peccato del popolo era «giunto fino al colmo» (Gen 15:16). Dio non punisce in maniera capricciosa (Il SIGNORE! il SIGNORE! il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco in bontà e fedeltà, Es 34), ma un Dio giusto ha il diritto e il dovere di giudicare e di scegliere come farlo. Dio ha usato sia il suo popolo sia le nazioni pagane come mezzi di giudizio. Per esempio, Dio ha usato la ferocia dell’esercito dei Caldei (Abacuc 1––2) come uno strumento per manifestare il giudizio sul suo popolo. Le pagine violente della Bibbia, allora, quelle che sembrano riferibili a Dio si trovano sempre in questo contesto di amministrazione della giustizia.

 

  1. Crede che la violenza sia insita nella natura di Dio così come è presentata nella Bibbia?

Nella Bibbia la violenza è uno specchio del carattere dell’uomo e non del carattere di Dio. Si noti che noi tutti abbiamo una tendenza a proiettare sugli altri i nostri fallimenti e i nostri errori. Ritenere che il problema della violenza si collochi in Dio non è altro che una proiezione e un auto inganno (Ger 17:9). Gesù stesso ha avvertito: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo?” (Lc 6:41–42). Ha chiaramente insegnato che la radice del male a tutti i livelli si trova dentro di noi. Ha spiegato con termini molto chiari la ragione per la quale nel mondo c’è tanta difficoltà «È quello che esce dall’uomo che contamina l’uomo; perché è dal di dentro, dal cuore degli uomini, che escono cattivi pensieri, … » (Mc 7:20–23).

Dio ha in abominio la violenza a tal punto da essersi pentito di aver creato l’uomo poiché «Il SIGNORE vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo» (Gen 6:5). Egli non poteva sopportare così tanto male.

La vera essenza del carattere di Dio è amore, ed è per questo motivo che ogni forma di violenza ferisce il cuore di Dio «Il SIGNORE si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo» (Gen 6:6).

Il Dio della Bibbia non solo afferma di essere amore ma lo ha anche dimostrato. Il suo venire a noi sulla terra in Gesù Cristo e nella sua sofferenza per noi sulla croce è la suprema e insuperabile prova che l’essenza di Dio è amore.

 

  1. Crede che il cristianesimo sia una religione violenta o che contenga in sé i germi della violenza, al punto tale da essere una religione pericolosa per la convivenza tra i popoli, ma anche per lo sviluppo dell’individuo?

Penso che sia esattamente il contrario: il cristianesimo è storicamente riconosciuto come la religione dell’amore. Si presuppone che l’amore sia l’aspetto distintivo di chiunque si rapporti a Gesù. L’amore è l’aspetto preminente e il carattere peculiare della vita e dell’insegnamento di Gesù. Tutto in lui ruota intorno all’amore poiché egli ha dato la precedenza all’amore. L’amore è la motivazione e l’apice di tutto ciò che era, che insegnava e che fece.

Una religione che riassume l’intero dovere dell’uomo in due frasi – amare Dio e amare il prossimo – non può essere altro che un contributo salutare e positivo alla società.

Oggi anche i pensatori non cristiani riconoscono che la nostra civiltà europea sia appoggiata su un tripode con tre pilastri: il sistema giuridico di origine romana, la filosofia greca e l’etica ebraico–cristiana.

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Violenza monoteista?

La violenza è percepita oggi, almeno in Occidente, come uno dei maggiori problemi del mondo contemporaneo. L’opinione comune, che ne è angosciata e ossessivamente preoccupata, scopre con sorpresa mista a stupore che questa è in parte correlata alla religione. La religione, che nel secolo scorso era ritenuta piuttosto inoffensiva e particolarmente inefficace, è riemersa nel XXI secolo sotto le caratteristiche minacciose del jihadista. La famosa frase di Andre Malraux1 sul religioso XXI secolo, spesso citata con ironia, non fa più sorridere, ma rabbrividire. Nel tentativo di esorcizzare l’ansia cerchiamo di convincerci che la religione non c’entra niente con la violenza, che lo scatenarsi della violenza debba essere attribuito a estremisti canaglie che non hanno compreso nulla della religione che sostengono di servire. Ci affrettiamo a sostenere e ribadire in coro che la religione in questione è una religione di pace, come se l’incantesimo avesse il potere di realizzare quello che ci si augura … senza però che ci crediamo troppo.

In questo clima non sorprende che vengano mosse critiche alla religione stessa. Non è forse vero che essa si ritroverebbe alla radice delle violenze che hanno segnato la storia e che pre­occupano così tanto il tempo presente? Il bersaglio principale di queste critiche contemporanee è il monoteismo. Sorge un dubbio: è per cercare di non stigmatizzare l’Islam che le tre re­ligioni del Dio unico sono unite sotto la stessa riprovazione? Si noterà comunque che le critiche sono rivolte in gran parte, spesso esclusivamente, contro l’Antico Testamento e contro il Cristianesimo. Gli autori del recente rapporto della Commis­sione teologica cattolica internazionale2 sono stupiti, e giu­stamente, in quanto si rendono conto che l’obiettivo prin­cipale della critica contemporanea è la religione monoteista che ai nostri giorni sta compiendo i maggiori sforzi in vista di un dialogo di pace tra le principali religioni, e i cui fede­li, «in molte parti del mondo, sono colpiti da intimidazioni e violenze per la semplice ragione di appartenere [appunto] alla comunità cristiana». Il rapporto presenta alcune interessanti ipotesi sia relative al silenzio verso l’Ebraismo e l’Islam sia sul sorprendente accanimento contro il Cristianesimo.

Il motivo dichiarato della critica è di tipo logico: si pensa di aver trovato nella credenza in un Dio unico la causa del­la violenza. L’argomento è di una semplicità disarmante: se credi che il tuo Dio è l’unico vero, non considererai i segua­ci di altre religioni, o gli atei, come estranei, empi, persino come nemici da abbattere? Come potrebbe, chi non accetta altro Dio che il proprio, tollerare convinzioni e pratiche di­verse dalla propria?

Accuse antiche
Va detto che una simile accusa non è recente. Due brevi accenni permetteranno di apprezzare sia la conti­nuità dei rimproveri sia la peculiarità della critica attuale.

Nel secondo secolo della nostra era il filosofo Celso denun­ciava l’Ebraismo e il Cristianesimo come religioni che pro­muovevano la ribellione, che turbavano il vivere comunitario3 della società antica. Egli non attribuisce esplicitamente que­sto vizio al credere in un solo Dio, ma non riesce a spiegarsi perché i cristiani si rifiutino di immaginare che si possa ado­rare la stessa divinità chiamandola con nomi diversi: «Penso che sia indifferente, afferma, chiamare l’Altissimo Zeus, Zen, Adonai, Sabaoth, Amon come gli Egiziani, Papaeos come gli Sciti» (Origene, Contra Celsum, V, 41; SC 136, v. III, 1969, p. 123).

All’epoca dei Lumi, Voltaire, denunciava con la sua tipica ver­ve i massacri commessi in nome della religione. Nell’articolo “Religion” nel suo Dictionnaire Philosophique (1769), non ha tuttavia in mente il monoteismo come causa della violenza re­ligiosa, sebbene metta sul banco dei colpevoli Ebrei e Cristiani: «i maomettani, scrive, si sono sporcati degli stessi atti inumani ma raramente»

Le altre religioni sono totalmente sdoga­nate: «Per quanto riguarda le altre nazioni, non ne esiste nessu­na dall’inizio del mondo che abbia mai combattuto una guer­ra meramente di religione»5. Poche pagine dopo, menzionan­do esplicitamente il paganesimo, ripete: «La religione pagana ha sparso pochissimo sangue; mentre la nostra ne ha coperto la terra» (in it. p. 2639). Se non incrimina il monoteismo nel suo atto d’accusa è perché non considera la fede in un solo Dio come una specificità dell’Ebraismo e del Cristianesimo: «Fu a quell’epoca, quando il culto di un Dio supremo si era uni­versalmente affermato tra tutti i saggi in Asia, in Europa e in Africa che la religione cristiana ebbe origine» (in it. p. 2655). La stessa convinzione viene espressa a proposito dei Romani, nell’articolo “Dieu, dieux”:

«Questa adorazione di un Dio supremo è attestata da Romolo fino alla distruzione definitiva dell’impero, e della sua religio­ne. Malgrado tutte le follie del popolo che venerava dèi secon­dari e ridicoli, e malgrado gli epicurei che, in fondo, non ne riconoscevano nessuno, è assodato che i magistrati e i savi ado­rarono in ogni epoca un Dio sovrano»6.

La violenza che Voltaire non imputa al monoteismo in sé l’at­tribuisce a ciò che egli chiama teologia. Nell’articolo Religion si oppone a due forme di culto. Nella prima, che considera in­nocua e definisce «religione dello Stato»7, i ministri di culto, gli iman [sic], i preti e i pastori mantengono lo status civile e inse­gnano la morale della gente sotto il controllo delle autorità ci­vili (in it. p. 2661). La seconda, la «religione teologica» è, dice, «l’origine di tutte le idiozie e di tutti i disordini immaginabili; è la madre del fanatismo e della discordia civile; è la nemica del genere umano» (idem).

Il monoteismo è chiamato in causa
La discussione sul monoteismo in quanto tale appare esse­re uno dei tratti specifici che caratterizzano maggiormen­te8 il dibattito contemporaneo.

Questo processo al monotei­smo, ampiamente avviato già negli anni ’90 del ‘900, è sta­to aperto dalle pubblicazioni di autori le cui competenze di base sono esterne al campo della teologia, come ad esem­pio l’egittologo Jan Assmann, in Germania, il sociologo del­la religione Rodney Stark o la specialista di letteratura inglese del diciassettesimo secolo, Regina Schwartz, negli Stati Uni­ti. Una volta avviata, la controversia ha raggiunto logicamen­te il campo della teologia, lo studio dell’Antico Testamento ovviamente, ma anche il Nuovo Testamento e la sistemati­ca, senza dimenticare la storia, grandemente sollecitata. Dal momento che il dibattito investe la società nel suo comples­so, non si riescono a contare gli autori, provenienti da tutti gli ambienti, che hanno voluto a tutti i costi dare il loro con­tributo. …

 

Il dibattito biblico

In teologia non si è persa l’opportunità di cogliere il problema per affrontare nuovamente la questione del monoteismo. Nel­lo studio dell’Antico Testamento il monoteismo è stato, fin dall’avvento della moderna critica biblica, uno dei temi cru­ciali nell’analisi della religione d’Israele. A partire dallo sche­ma evolutivo, che ha visto nel monoteismo il culmine di un progresso religioso, si è cercato di individuare nei testi bibli­ci le tracce di questa evoluzione. Quando apparve il monotei­smo nella storia di Israele? Al tempo di Mosè? Con la riforma di Giosia? Durante l’esilio? Dopo l’esilio? Quali furono le tap­pe che precedettero tale evoluzione? Quali sono stati i fattori interni o esterni che hanno causato o facilitato l’emergere del fenomeno nella storia religiosa dell’umanità? La presunta data di edizione dei testi biblici e loro successive edizioni ha pesato fortemente nell’elaborazione degli schemi proposti, rischian­do di finire sempre in un circolo vizioso a causa del metodo: se il monoteismo appare in un testo ritenuto tardo, si conclu­derà che la dottrina è tarda e, al contrario, se un testo afferma un’idea di tipo monoteista, si dedurrà che tale testo non può essere altro che tardo. …

Il dibattito così avviato può suggerire le seguenti conclusioni.

1) Sembra innegabile che il discorso dell’unico Dio comporti un rischio, almeno latente, di violenza. Non stiamo cercando di determinare se le religioni monoteiste debbano essere rite­nute responsabili di maggiore violenza delle altre. La violen­za colpisce tutte le opere umane, inclusa la religione, per una serie molto ampia di motivi. Ci si limita qui a riconoscere l’e­sistenza di uno specifico fattore di violenza legato alla fede in un unico Dio.

2) Tentare di svincolare il monoteismo dalla violenza di cui è accusato, promuovendo una particolare definizione di mono­teismo, un monoteismo cosiddetto aperto, inclusivo, ponde­rato, compiuto, etc., è un’operazione che non corrisponde né alla testimonianza biblica, di cui saremmo costretti a rifiuta­re una parte notevole né alle credenze rappresentative più co­stanti e caratteristiche delle tre religioni monoteiste. Certa­mente Dio si pone sempre al di là delle nostre rappresentazio­ni umane, ma la rivelazione che la Scrittura pretende di por­tare è ben presentata come l’unica via di verità su Dio …

3) Nella violenza di cui può essere giustamente accusato il Cristianesimo, il legame col potere politico ha avuto un ruolo decisivo …

Tre domande a Roberto Garaventa su Bibbia e violenza

Inizia con questo articolo il percorso di avvicinamento al XIII Convegno nazionale GBU (7–9 dicembre 2018) che avrà come tema proprio il tema della violenza: “Il Dio della Bibbia è un Dio violento?“.
Abbiamo posto queste domande al prof. Garaventa quale esponente informato e appassionato di una visione filosofica che si interroga continuamente su temi del genere (leggi qui il suo curriculum). La sua analisi, esterna alle convizioni che come GBU abbiamo sulla Bibbia e su Dio (Basi di fede) ci è utile, quale sfida lanciataci con gentilezza e rispetto, per comprendere la posta in gioco del dibattito sulla violenza ma anche per stimolarci affinché ci studiamo di comprendere in che modo la nostra fede nella Bibbia quale Parola ispirata di Dio debba prendere seriamente in carico le domande che ci vengono dai nostri contemporanei.

Ringraziamo dunque il prof. Garaventa per averci offerto questo straordinario spaccato e auspichiamo un dibattito aperto tra i lettori di questo post (anche tramite i commenti) e degli altri che verranno, in attesa di porci poi tutti quanti all’ascolto della Bibbia nel Convegno di dicembre.

Giacomo Carlo Di Gaetano (giacomocarlodigaetano@gbu.it)

 

 

  1.  Prof. Garaventa, la Bibbia contiene pagine in cui sono descritte e presentate diverse forme di violenza. Che cosa pensa di quelle pagine?

Il fatto che la Bibbia non solo descriva e presenti forme di violenza, ma sopratutto sia piena di morti ammazzati nel nome di Jahvé (come è noto, spesso è lo stesso Jahvé a condurre in battaglia il suo popolo e a ordinare lo sterminio dei nemici di Israele, mentre molte importanti figure della storia ebraica non hanno avuto scrupoli a spargere sangue umano in nome del “signore degli eserciti”), mostrando così un’arcaica tendenza alla violenza e alla crudeltà sia contro popoli stranieri seguaci di altre fedi, sia contro i membri del popolo d’Israele sostenitori di concezioni di fede e di norme di comportamento divergenti da quelle dominanti, dimostra a) che la Bibbia nel suo complesso non può essere addotta a sostegno del principio della sacralità e quindi della inviolabilità della vita, visto che in tali passi Dio non sembra affatto curarsi di ciò; b) che la guerra santa non è stata sempre e solo appannaggio della tradizione islamica; c) che è impossibile considerare la Bibbia (che per altro contiene molteplici e diverse immagini di Dio) quale unica istanza interpretativa di ciò che è bene o male, giusto o ingiusto, come invece sostengono, dal versante cattolico, la costituzione dogmatica Dei verbum sulla divina rivelazione del 1965 (per cui tutto quanto è contenuto ed è presente nelle Sacre Scritture è stato scritto “sotto l’ispirazione dello Spirito Santo” e ha “Dio come autore”; i testi biblici contengono “tutto ciò e solo ciò” che Dio voleva fosse scritto e insegnano “sicuramente, fedelmente e senza errore” la verità e quindi devono valere come sacri e canonici “nella loro totalità e con tutte le loro parti”) e, dal versante luterano-evangelico, la Formula di Concordia del 1580, per cui la Sacra Scrittura è l’unico criterio (“unico giudice, regola e istanza”) in base a cui giudicare la bontà o meno di tutte le dottrine (Allein die heilige Schrift bleibt der einige Richter, Regel und Richtschnur, nach welcher als dem einigen Probierstein sollen und müssen alle Lehren erkannt und geurteilt werden, ob sie gut oder bös, recht oder unrecht sein). C’è invece sempre bisogno di ermeneutica.

 

  1. Crede che la violenza sia insita nella natura di Dio così come è presentata nella Bibbia?

Ogni religione storico-positiva, nella misura in cui ritiene di fondarsi su una «rivelazione» divina indiscutibile e quindi rivendica per sé il possesso (esclusivo o inclusivo) della verità, si trova a dover fare i conti con altre religioni storiche che sollevano la stessa pretesa. Nasce così il problema di come una fede religiosa «assolutisticamente» intesa debba rapportarsi alle altre fedi religiose «assolutisticamente» intese: missione o dialogo? Ora, che la fede in un unico Dio (tratto che accomuna ebrei, cristiani e musulmani) abbia prodotto storicamente forme di «suprematismo zelotico e fanatico» (P. Sloterdijk), ovvero sia stata storicamente fonte d’intolleranza e di violenza inter-religiosa e intra-religiosa, è un dato storico difficilmente contestabile. È vero che la violenza è stata ed è presente anche nelle religioni non-monoteistiche (basti pensare alla centralità del sacrificio cruento in tutte le grandi tradizioni religiose dell’umanità). Tuttavia si può legittimamente sostenere, come ha fatto Jan Assmann, che la «distinzione» (operata per la prima volta da Mosè all’interno di un mondo fondamentalmente politeista, ma fatta propria anche da cristianesimo e islamismo) «tra vero e falso in religione», ovvero «tra il vero Dio e i falsi dèi, tra ortodossia ed eresia, tra scienza e ignoranza, tra fede e miscredenza», contenga in sé i germi di una «strutturale intolleranza» e sia quindi foriera di violenza religiosa. Infatti, ciò che adesso viene bollato come «falsità», «idolatria», non viene più considerato il frutto di mera ignoranza (errore involontario, semplice abbaglio), bensì, alla luce della rivelazione «assolutisticamente» intesa, viene visto come la conseguenza di un atto di voluta disubbidienza (miscredenza, caduta, peccato), se non addirittura di un rigetto da parte di Dio. Il che porta la comunità religiosa interessata ad assumere un atteggiamento intransigente e intollerante nei confronti di chi la pensa in modo diverso e, quindi, a respingere, escludere, cacciare, ostracizzare, se non addirittura a uccidere l’infedele, il miscredente, l’eretico. L’episodio del vitello d’oro (Gn 32) e le orge di violenza di Elia (1Re, 17-19) mostrano paradigmaticamente in che modo l’ebraismo, per difendere la retta dottrina e il retto comportamento e distinguersi rispetto al mondo religioso esterno, abbia proceduto alla discriminazione, all’espulsione e all’eliminazione dei dissidenti interni. E in effetti la violenza è stata spesso utilizzata con l’esplicita e consapevole intenzione di difendere le proprie verità di fede e di proteggere il proprio sistema di valori da qualsiasi avversario o nemico che vi si opponga o non vi si attenga o, semplicemente, professi altre verità e altri valori. Per conservare puro e intatto il proprio bagaglio religioso-culturale da ogni forma di contaminazione, le religioni rivelate hanno utilizzano anzitutto il disprezzo, la scomunica, la prescrizione e il bando, ma spesso (anzi fin troppo spesso) esse hanno fatto ricorso alla violenza armata (guerre missionarie, guerre sante, crociate), senza farsi alcuno scrupolo di utilizzare tutte le possibili varianti della crudeltà umana pur di eliminare e distruggere fisicamente il nemico (mago, strega, seduttore, eretico, miscredente). E alla violenza annientatrice hanno ripetutamente fatto ricorso non solo per difendere, ma anche per diffondere e imporre la propria fede quale unica verità e unica via di salvezza. Oggi la violenza contro i miscredenti, in nome e per la gloria di Dio, viene usata soprattutto dal fondamentalismo islamico, ma, se confrontiamo le motivazioni teologiche un tempo addotte per legittimare le crociate, possiamo notare molte affinità con quelle addotte oggigiorno in favore del jihad.

 

  1. Crede che il cristianesimo sia una religione violenta o che contenga in sé i germi della violenza, al punto tale da essere una religione pericolosa per la convivenza tra i popoli, ma anche per lo sviluppo dell’individuo?

Tutte le religioni (compresa quella cristiana) sono realtà ambigue e pericolose, nella misura in cui pretendono di disporre dell’unica, vera manifestazione di Dio. Inoltre, per quanto concerne il cristianesimo, ciò che è realmente decisivo e rilevante per la fede cristiana sembra essere non tanto il Gesù storico, quanto il Cristo testimoniato e annunciato dalla chiesa, che ha raccolto e selezionato le testimonianze su Gesù e ha fissato il canone dei testi sacri. La chiesa però è un’istanza terrena che pretende di avere l’autorità di imporre la giusta interpretazione e a cui i credenti devono ossequio ed obbedienza. Quindi ciò con cui abbiamo a che fare è in realtà soltanto un’istanza umana (spesso maschile), che pretende di parlare a nome di Dio. La parola della chiesa non è però la parola di Dio come tale, bensì soltanto la parola di un’istanza mondana che rivendica per sé il potere di parlare in nome di Dio. Se però già il kérygma è un’interpretazione umana, non è facile fissare un confine netto tra ciò che bisogna accettare per obbedienza e ciò che si può discutere criticamente. D’altra parte, ogni tentativo di comprendere il kérygma depositato nelle Sacre Scritture, non ha fatto che produrre nuove e diverse interpretazioni del messaggio originario (Hans Küng conta almeno cinque o sei macro-paradigmi nella storia del cristianesimo), producendo una serie infinita di discussioni, conflitti e guerre tra le differenti confessioni cristiane, nonché favorendo la nascita delle più diverse forme di fondamentalismo. I fanatici che pretendono di sapere con certezza ciò che Dio dice e vuole (in quanto non avvertono l’ambiguità presente in tutte le esperienze della voce di Dio) non riescono più a parlare tra loro e con noi da uomini. Se sono impotenti, sono gentili con noi. Se sono potenti, ci uccidono. Solo un ritorno al Gesù storico ci può salvare.

 

Prof. Roberto Garaventa
Ordinario di Storia della filosofia contemporanea
Dipartimento di Scienze Filosofiche, Pedagogiche ed Economico-Quantitative
Università di Chieti

Tre domande a Francesco Raspanti su Riforma e Medioevo

 1. Francesco la Riforma protestante è stata sintetizzata con il motto della città di Ginevra “Post tenebras lux”, lasciando a intendere che le epoche precedenti e in particolare il Medioevo siano state epoche appunto di “tenebra” dal punto di vista delle verità che la Riforma riscoprirà. Ritieni corretta questa analisi?

A mio modo di vedere dobbiamo, brevemente, considerare il contesto a cui questa domanda va posta. Credo sia opportuno ricordare che la riforma prende il via dal 1500 (oggi nel 2017 si ricordano i 500 anni delle tesi di Lutero) mentre il medioevo copre un tempo estremamente più vasto, diciamo di almeno mille anni dal 400 al 1500. Per un riformatore era difficile cogliere l’insieme del medioevo, della sua luce spirituale. Lutero, Calvino, avevano vicino il recupero dei classici romani e greci da parte degli umanisti e uno specchio di una chiesa romana corrotta e secolarizzata come mai prima. Per cui la riforma è certamente giustificabile con il motto “Post tenebras lux” ma tenendo presente che al riformatore del 1500 il medioevo era quello del passato prossimo, un medioevo fatto di vendita di indulgenze, inquisizione e crociate contro gli eretici. Quello che noi a distanza di mezzo millennio da Ginevra dobbiamo tenere presente è come il medioevo sia l’epoca storicamente più vasta per quanto riguarda il cristianesimo; definire “tenebra” la maggior parte della nostra storia, del vissuto dei cristiani che ci hanno preceduto, la ritengo una grave semplificazione, per altro capace di toglierci ricchezza spirituale oltre che visione storica.

2. Se anche durante il Medioevo abbiamo avuto luci che si sono accese e hanno fatto brillare la Parola di Dio, potresti indicarcene alcune? Quali sono stati invece, secondo te, i momenti più bui?

Nel corso del millennio cristiano chiamato medioevo esiste una quantità in sostanza inesauribile di testi cristiani e di luci spirituali. Pensiamoci, oggi noi facciamo fatica a tenere a mente alcune delle luci dei risvegli italiani, ed in effetti, dobbiamo “solamente” coprire un paio di secoli. Proviamo a dilatare il ricordo per mille anni e per tutta l’Europa, si capisce che abbiamo un tesoro immenso. Per inciso ritengo sia una lacuna prima di tutto culturale da parte del mondo evangelico lasciare il medioevo come periodo completamente “cattolico”. Dovremmo “riscoprire” quest’epoca, tenendo a mente che prima che essere patrimonio di una denominazione è un lascito spirituale per tutti i cristiani. Detto questo ho già avuto modo di toccare alcuni personaggi di rilievo (Paolino di Aquileia VIII secolo, Colombano di Bobbio VII, i riformatori patarini dell’XI, i movimenti pauperistici del XIII, gli scritti originali di Francesco di Assisi che ho avuto modo di leggere personalmente, le regole monastiche, l’esicasmo greco dal XIV secolo, Alcuino di York). In tutta sincerità è difficile segnalare una singola luce. Abbiamo un fiorire di piccole lanterne in tutto un mondo che essi stessi definiscono come patrimonio del Populus Christianus. In questo modo si percepiva il mondo, non vi erano né Italiani, né francesi, né tedeschi, semplicemente il popolo cristiano. Questo semplice fatto dovrebbe farci pensare, noi oggi, ora, mentre leggiamo davanti ad uno schermo queste parole, come ci consideriamo? Forse come cristiani, forse come credenti: facciamo fatica ad apprezzare la ricchezza dello stilema “populus christianus”. La chiesa è composta dal popolo di Dio, questo fatto era presente in modo pervasivo in tutti i testi medievali.

I momenti bui sono per assurdo più facilmente individuabili. La donazione di Costantino (che sto studiando da oltre diciassette anni), lo scisma del 1054 con la chiesa d’oriente (causato anche dal falso di cui sopra) al terribile “dictatus papae” di Gregorio VII (XI secolo, che ha al suo interno parti desunte dalla donazione di cui sopra) a Innocenzo III, la crociata contro gli albigesi e la conquista di Costantinopoli nel 1204 (di nuovo giustificata con il falso). Con Bonifacio VIII e le indulgenze si arriva ad un’altra pagina buia. Lo scisma di Avignone ha tra i suoi frutti la stagione del conciliarismo (sarebbe da studiare e apprezzare anche questa come cristiani del XXI nel pieno dell’ecumenismo). Si arriva poi al rinascimento con i papi che tutti conoscono. I Borgia, Leone X. Mi sia concesso affermare che nel mondo evangelico si considera Costantino (IV secolo) come una cesura netta: dalla chiesa dei Padri alla chiesa romana come la videro i riformatori. Ma poniamoci la domanda: quanta della chiesa romana di Leone X è frutto di un falso attribuito a Costantino? Per altro composto nell’VIII secolo. Quante voci durante il medioevo si sono levate contro il culto dei santi? Quante contro l’adorazione delle immagini? Quante contro le reliquie? Il culto a Maria era diffuso? Le risposte del medioevo potrebbero essere un’assoluta sorpresa, considerando anche che le luci spirituali sono tantissime e tutte da riscoprire e ristudiare. Di nuovo mi si permetta di puntualizzare come la storiografia riformata si sia scagliata contro l’approssimazione delle vite dei santi e i falsi che pullulano nel mondo medievale, tralasciando (con la lodevole eccezione della mistica tedesca) la spiritualità medievale.

 

3. Come dobbiamo affrontare, in quanto cristiani evangelici, lo studio e la comprensione di tutte le manifestazioni della spiritualità medievale?

A questa domanda rispondo con l’umiltà di un piccolo cristiano dell’XXI secolo. Le voci dal passato di questi nostri fratelli in fede, perduti e celati dietro una barriera di pregiudizio, sono – una volta liberate e tradotte (si tenga a mente che i testi e le testimonianze sono in pratica nella loro totalità in latino) – una ricchezza e una consolazione da tenere in grande conto. Secondariamente, ma è una questione metodologica pregiudiziale, si affronti lo studio e l’analisi dei testi pensando agli scrittori medievali come prima di tutto cristiani, capaci anche di una critica al potere papale che io sinceramente vedo raramente così ancorata alla scrittura negli scrittori contemporanei. Questo fatto deve camminare insieme alla consapevolezza che la storia cristiana del medioevo, un patrimonio di spiritualità nelle forme più varie e mutevoli, non è di appannaggio esclusivo ad alcuna denominazione cristiana, nemmeno alla chiesa romana cattolica. Come cristiani abbiamo il dovere di sentirci in comunione diretta (quindi senza questa dolorosa, autoimposta e non necessaria cesura di un millennio) con i padri della chiesa. La chiesa è molto più grande di una singola denominazione, la parola di Dio ha portato frutti in ogni periodo. Come possiamo pensare che un intero millennio di testimonianza cristiana sia esclusivamente una proprietà della tradizione cattolica? Del resto ricordiamo 1 Re 19: 18 “ma io lascerò in Israele un residuo di settemila uomini, tutti quelli il cui ginocchio non s’è piegato davanti a Baal, e la cui bocca non l’ha baciato”.

 

Francesco Raspanti si laureato a Bologna nel 2003 con una tesi sul pensiero politico medievale, e si è addottorato in Storia presso il Dipartimento di paleografia e medievistica nel 2007.

Ha collaborato con la cattedra di Storia del pensiero politico medievale della medesima università e ha fatto parte della redazione della Rivista Pensiero politico medievale. Ha al suo attivo diversi scritti scientifici e un volume dedicato alla storia politica del medioevo (Le piattaforme del potere, 2014); svolge ricerche sulla famosa donazione di Costantino. È membro di una chiesa evangelica (Assemblea dei Fratelli) di Bologna.

 

 

 

Che cosa celebriamo quando celebriamo la Riforma?

L’autore della Lettera agli Ebrei invitava i lettori a ricordare i loro conduttori in quanto questi, «vi hanno annunciato la parola di Dio; e considerando quale sia stata la fine della loro vita, imitate la loro fede» (Eb 13:7). Sebbene nella Bibbia abbondino gli inviti a considerare il passato, a custodire la memoria (dagli appelli popolo d’Israele, all’istituzione della Cena del Signore), mi pare che questo ammonimento sia molto vicino alle nostre sensibilità (non c’è il rischio dell’orgoglio etnico né quello di decidere quale sia lo status della Cena).

Il brano chiede allora tre cose:

  • Ricordare;
  • Considerare la fine dei conduttori;
  • Imitarne la fede

 

 

Appare evidente che due dei tre elementi hanno un sapore chiaramente “storico” mentre il terzo si presta a considerazioni di altro ordine (spirituale?).

Pensando ai due elementi storici, la riflessione da fare nella ricorrenza della Riforma è se questa sia stata presa e considerata come un evento realmente storico (non ci sarà un’altra porta di una cattedrale di Wittenberg con un elenco di tesi affisse); il rischio infatti è che si possa alludere a essa come a una sorta di età dell’oro considerata sub specie aeternitatis.

Giorgio Spini metteva in guardia sulla retta considerazione dei fenomeni storici:

«non si è storici se non si ha coscienza chiara che il passato è il passato e non l’avvenire, e che se si smarrisce questa coscienza si possono fare cento altri mestieri belli o brutti, da quello ammirabile dell’apostolo a quello assai meno ammirabile del padre inquisitore, ma non si farà giammai il mestiere dello storico» (Storia dell’età moderna, p. 22)

In sostanza facciamo giustizia alla Riforma allorquando la presentiamo in tutta la sua crudezza storica, senza nascondere niente: pluralità e dunque lotte intestine; conflitti teologici (dai sacramenti alla predestinazione) fino alle rivendicazioni contadine, etc..

 

Tenendo conto di questi due rilievi apostolici dal sapore storico viene da pensare all’enfatizzazione, ricorrente nei dibattiti e nelle conferenze, delle conseguenze positive della Riforma, conseguenze da registrare sul piano sociale, culturale, etc.. Benissimo! Personalmente penso che il piano su cui la Riforma abbia inciso più degli altri sia quello educativo. Si tratta, se vogliamo, di una lettura apologetica della Riforma. Una lettura che sembra sorgere da un bisogno quasi ossessivo di giustificare la Riforma oppure di renderla appetibile per via delle conseguenze. Ma dobbiamo ammettere che su questa strada, con operazioni di storia del pensiero abbastanza complesse, corriamo il rischio di imbatterci in operazioni di segno contrario, altrettanto valide, nelle quali ci vengono ricordate alcune conseguenze negative della Riforma.

In questa lettura apologetica non si corre dunque il rischio di mettere in ombra le riscoperte teologiche dei Riformatori dal momento che queste vengono inserite nel frullatore delle rivendicazioni o delle contestazioni confessionali?

 

Restando sul piano dei due elementi dell’ammonimento apostolico va segnalato anche lo strano fenomeno della Riforma ricordata e rappresentata al cospetto di interlocutori cattolici, quando non anche di appartenenti a Chiese protestanti storiche. Che significato ha questa operazione?

A parte il pio ma discutibile pensiero di usare questa ricorrenza per evangelizzare … essa pare manifestare l’attesa che la Chiesa di Roma si decida ad accogliere la Riforma. Ma qui si erge un grosso problema: prima di tutto, a che cosa richiamiamo i nostri interlocutori cattolici? Essendo e definendoci evangelici ciò a cui dovremmo richiamarli, sia loro sia noi stessi, sarebbe il vangelo e non una stagione della storia del cristianesimo. In secondo luogo viene da interrogarsi sulle modalità di lettura della Riforma che adoperiamo. Nella sua recente biografia su Lutero, Adriano Prosperi ha focalizzato l’attenzione sugli anni di fuoco dell’esperienza del Riformatore, quelli che vanno dal 1517 al 1520, gli anni della fede e della libertà, come li ha definiti (Mondadori, 2017); alla fine di questo periodo c’è la scomunica e la rottura, e dunque la necessità concreta di pensare a come interagire con una parte del corpo cristiano che rifiutava l’appello a riformarsi. Ma in tutti i modi, come hanno ricordato in molti, Lutero in quegli anni ambiva a riformare quella che riteneva essere la sua chiesa!

Cercando di cogliere la lezione da questa focalizzazione sembra che il primo impulso della Riforma si rivolgesse verso il contesto all’interno del quale era inserita l’esperienza di fede di chi lo aveva sperimentato. Se prendessimo in carico totalmente la movenza degli anni della fede e della libertà di Lutero, avremmo che ognuno di noi dovrebbe pensare alla Riforma avendo nella testa e sullo sfondo la condizione della propria chiesa di appartenenza, quale che sia. Di fatto tutto l’evangelismo dovrebbe avere questa coscienza. Se poi dovessimo pensare a cosa, della Riforma, dovremmo auspicare per le nostre chiese e per tutto l’evangelismo può essere utile considerare la sintetica presentazione di Paolo Ricca: in una conferenza tenuta a un convegno a Torino nel 2008 (La Riforma come fenomeno europeo, Claudiana, 2011) ha sostenuto infatti che l’aspirazione di Lutero era quella di riporre la sua chiesa (nel senso di chiesa a cui apparteneva) sul fondamento che le era proprio, quello di Gesù Cristo, attestato nella Scrittura e per mezzo del quale era imputata al peccatore la giustizia. Desideriamo una chiesa e delle chiese poste sull’unico fondamento che è Gesù Cristo? Il confessionalismo e gli esperimenti confessionali successivi alla Riforma ci hanno insegnato, come ha ben spiegato Alister McGrath nel suo La Riforma e le sue idee sovversive (Edizioni GBU 2017), la necessità che ogni cristiano definisse la sua identità sulla base di una confessione di fede, di un documento che lo collocasse in uno dei partiti usciti dalle epoche delle ortodossie che hanno la Riforma solo a uno dei suoi estremi!

Facciamo dunque un errore di prospettiva quando pensiamo alla Riforma avendo ancora sullo sfondo la condizione della Chiesa di Roma, e non le nostre proprie chiese.

Alcuni teologi evangelici del nordamerica, forse pensando a cosa la Riforma possa dire a tutto l’evangelismo, in questa correzione della prospettiva, hanno posto l’attenzione sul tema della cattolicità di tutto ciò che è venuto fuori dalla Riforma (A Reforming Catholic Confession). È vero, i protestanti e gli evangelici sono più cattolici dei cattolici “romani”. E tuttavia, l’operazione di porre la Riforma avendo sullo sfondo la propria condizione e non quella altrui li ha portati a fare un’amara considerazione:

«Dobbiamo riconoscere che i Protestanti non hanno gestito le differenze dottrinali e di interpretazione in uno spirito di carità e di umiltà, ma nel fare una comune confessione sfidiamo l’idea che ogni differenza o distinzione denominazionale porti necessariamente alla divisione» (Explanation, n. 10; https://reformingcatholicconfession.com/)

Quando poniamo mente a tutto ciò abbiamo ancora voglia di andare a celebrare la Riforma al cospetto dei nostri amici cattolici, avendo forse il retropensiero che è la Chiesa di Roma a doversi riformare? Sicuramente la testimonianza di Lutero, e per suo mezzo il richiamo del vangelo, restano per Roma ancora oggi un appello con cui essi devono confrontarsi; grazie a Dio non più a suon di spade! Ma nel segno della fede e della libertà forse sarebbe meglio per noi iniziare a mettere mano a una riforma di noi stessi, delle nostre prassi segnate dalla ricerca del potere, della visibilità mediatica e di tanti altri idoli che affiorano via via nel nostro vissuto di fede evangelico.

Conclusione: non ci resta che la terza ingiunzione di Ebrei, imitate la fede! Su questo elemento, a differenza dei due storici, possiamo liberamente effondere tutte le nostre energie nella celebrazione. Imitare la fede di qualcuno non è un’operazione di “copia e incolla”, non è uno scimmiottamento di questo e quel riformatore, ma piuttosto un’impresa ermeneutica nella quale la fede da imitare viene ripulita da tutto ciò che è storicamente e culturalmente superato. Si tratta di un’operazione possibile, che i Riformatori stessi, e in particolare Lutero, ci hanno indicato proprio nel crogiuolo degli anni della fede e della libertà: è possibile prendere in carico il passato nella misura in cui ci si ancora saldamente all’insegnamento della sola Scrittura per rispondere alle sfide che man mano ci troviamo davanti.

 

Giacomo Carlo Di Gaetano è Dottore di Ricerca in Filosofia della religione (Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara), e Direttore editoriale di Edizioni GBU, nonché coordinatore del DiRS.

 

 

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Tre domande a Valerio Bernardi sulle tradizioni popolari

  1. Le tradizioni popolari fanno parte di quel grande campo di studi che è l’antropologia culturale; che cosa offrono quanto a ricostruzione delle peculiarità dell’essere umano gli studi sui riti e le credenze che rappresentano la sostanza delle tradizioni popolari?

Va subito precisata una cosa. La demologia (così si chiama lo studio delle tradizioni popolari) in Italia ha preceduto lo studio dell’antropologia culturale che è arrivato nel nostro Paese a pieno titolo solamente nella seconda metà del Novecento. Cosa offre oggi la demologia? La possibilità di studiare le usanze, i costumi di quelle che erano chiamate le classi subordinate all’interno della propria società (A.M. Cirese parlava di dislivelli interni di cultura), del cosiddetto popolo che adotta proprie usanze e riti diversi da quelli che appartengono alla cultura ufficiale. Appare chiaro che tale studio ha attraversato diverse fasi e periodi. Nel nostro Paese, gli studi demologici, almeno sino agli anni Novanta del secolo scorso (ma anche oltre) hanno studiato soprattutto le “tradizioni” delle popolazioni contadine, scarsamente alfabetizzate sino agli anni Cinquanta e con una serie di riti e credenze che potevano risalire anche a tempi molto antichi ma che erano state rielaborate sicuramente a partire dalla fine del Cinquecento, sotto il rigoroso controllo della Chiesa Cattolica.

Oggi la demoantropologia si occupa della cultura popolare all’interno delle nostre società complesse e può anche studiare, dal punto di vista qualitativo, fenomeni che hanno a che fare con il popolare odierno. Lo spettro delle inchieste è pertanto più ampio e ci si occupa anche di argomenti come i social, il consumo, le abitudini alimentari non solo delle classi subalterne, ma della società in generale, leggendole come i nuovi riti sociali. Sicuramente la demologia della società contemporanea è profondamente diversa nell’oggetto dello studio da quella precedente. Il lascito della storia delle tradizioni popolari in Italia rimane, però, lo studio della cultura delle classi contadine disagiate, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia.

 

  1. In Italia le tradizioni popolari sono nella stragrande maggioranza dei casi legate al cattolicesimo; molte di esse hanno addirittura una radice controriformistica. Come spieghi questo nesso tra tradizioni popolari e religione cristiana?

Il cristianesimo è stato per molto tempo un fenomeno cittadino che, almeno in zone come l’Italia, non aveva coinvolto in maniera diretta e sentita le masse popolari, rappresentate dai contadini che abitavano nelle campagne. Non è un caso che il termine pagano, derivi proprio da pagus, il contado. Per diverso tempo il Cattolicesimo dei contadini in Italia (ma anche in buona parte in Europa) era legato a credenze che provenivano da culti di tipo naturale ed animistico che erano diffusi sin da tempi remoti.

Dopo il XVI secolo la Chiesa Cattolica, che doveva per la prima volta in Europa Occidentale fronteggiare un reale nemico, il Protestantesimo, cercò di “conquistare” al cattolicesimo queste masse. L’operazione effettuata fu quella, dopo il Concilio di Trento, di legare al culto dei Santi e in particolare di Maria la devozione e la credenza delle classi subordinate. Se si legge un’opera come l’Altra Europa dello storico Galasso, si scoprirà che il culto di Maria si diffonderà moltissimo nell’Italia Meridionale dopo la metà del XVI secolo.

Tutto ciò fu fatto attraverso la spettacolarizzazione di processioni, la rivalutazione di forme di pellegrinaggio anche locale verso santuari dove si supponeva fossero avvenute visioni di santi, la rassicurazione della popolazione che viveva una vita incerta ed insicura attraverso l’affidarsi a riti e personaggi questa volta controllati dalla Chiesa. Anche le pratiche di bassa magia o i culti animistici furono messi sotto controllo e calendarizzati secondo l’anno liturgico.

La connessione tra cristianesimo (cattolico) ed usanze deriva da un tentativo di contestualizzazione nell’ambito culturale. Si cercava di adattarsi alla cultura delle popolazioni che non avevano accesso ai dibattiti teologici e che non era in grado di seguirli nella stessa maniera del ceto borghese che via via si autonomizzava dalla Chiesa. L’operazione controriformistica fu sicuramente un successo. Ovviamente da un punto di vista evangelico non si può non dire che tutto questo andava a spese di un autentico cristianesimo evangelico che veniva offuscato da diffusi atteggiamenti paganeggianti che erano assecondati senza una reale opera di evangelizzazione. Contemporaneamente bisogna anche ammettere, però, che l’operazione portata avanti dal cattolicesimo controriformistico rispondeva ad esigenze reali di alcuni territori e di alcuni ceti sociali.

 

  1. Oggi per ragioni di ordine sociale, ma anche turistico e ambientali, si tende a far rivivere, dai piccoli comuni alle grandi città, il clima e gli scenari delle tradizioni popolari ritenendole come un deposito di valori positivi. Quale deve essere l’approccio di un cristiano evangelico a questo mondo? E’ sufficiente la condanna degli elementi idolatrici presenti nelle tradizioni popolari? Possono le tradizioni popolari rappresentare un campo in cui tentare di entrare in dialogo con i sentimenti e i bisogni religiosi, e umani che le animano?

Negli ultimi anni, soprattutto all’interno della rivisitazione di itinerari turistici alternativi diverse di queste tradizioni hanno avuto, dopo un periodo di crisi dovuta all’avanzare della secolarizzazione in ogni parte d’Europa, un recupero ed una ripresa.. La rivalutazione è dovuta più che a motivazioni di tipo religioso a quelle tipo economico. Il folklore porta sempre “colore” e cattura pubblico disposto a passare una giornata per vedere una manifestazione che può destare curiosità. Proprio per questo motivo il ritorno alla tradizioni popolari è visto come una risorsa e come un guardare al passato valorizzando la memoria delle comunità locali. Cosa dire da evangelico? Sicuramente rimane la perplessità della confusione tra l’annuncio del Vangelo e pratiche di tipo pagano che rimane; da studioso, invece, la perplessità deriva dalla ripresa con approcci ancor più consumistici di pratiche che il territorio aveva abbandonato. Oggi lo studioso di antropologia è consapevole che non esiste l’episodio “autentico” e che andrebbero accettati anche i cambiamenti, ma, allo stesso tempo, guarda con una certa criticità alla ripresa di usanze ormai desuete che rischiano anche di dare un’immagine sin troppo localistica del mondo.

Allo stesso tempo non penso che le “tradizioni popolari” appartengano ad un campo che sia assolutamente da evitare. Le manifestazioni culturali vanno comprese e vi sono anche delle occasioni in cui la spiegazione di alcuni fenomeni può aiutarci a comprendere come entrare nel contesto specifico della società in cui bene o male viviamo.

Qualche decennio fa Ernesto De Martino, il più noto etnologo italiano, spiegava alcuni di questi fenomeni (tarantismo, pianto rituale, pratiche di bassa magia) con la categoria della “crisi della presenza”, mutuata dalla psicologia fenomenologica. La crisi della presenza avviene nel soggetto umano quando, di fronte ad un mondo in cui la vita è incerta, o vi sono manifestazioni di disagio (il soggetto in preda a convulsione dovuta al morso della “taranta”) o ci si affida a dei taumaturghi esterni che ognuno cerca di propiziarci. Sono convinto che la crisi della presenza sia un’immagine interessante di quello che avviene in certi fenomeni connessi alle tradizioni popolari.

Io penso che gli evangelici, pur condannando alcune delle tradizioni popolari (non bisogna fare di tutt’erba un fascio, non trovo nulla di male nei vari palii o sagre o nei canti popolari non a sfondo religioso) debbano anche comprendere quanto spazio di manovra di annuncio del Vangelo ci sia nel bisogno espresso dalle masse popolari nell’esigenza di ricercare un rifugio dalle asperità della vita. Pertanto uno studio adeguato delle tradizioni popolari potrebbe portare anche alla ricerca di una maniera originale di annunciare il Vangelo. Il discorso di Paolo in Atti 17 rimane attuale anche in questo campo di studi.

Valerio Bernardi è docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Quinto Orazio Flacco di Bari e presso l’UNiversità degli Studi della Basilicata. E’ membro del Comitato Editoriale di Edizioni GBU e del DiRS-GBU

XIII Convegno Nazionale del GBU italiano (Il Dio della Bibbia è un Dio violento? – Emile Nicole)

Leggi il programma del Convegno

 

Emile Nicole, già professore di Antico Testamento presso la Faculté Libre de Theologie Evangelique di Vaux–sur–Seine (presso Parigi).

Vedi il suo curriculum

Vedi alcune pubblicazioni

Ascolta alcune conferenze (in francese)

 

 

 

Ecco i titoli delle Sessioni plenarie che l’oratore ha sviluppato, con il link ai relativi video

1) La violenza nella Bibbia, con il NT che interviene subito a interpretare l’Antico
(vedi il video)

2) L’esperienza di Davide e la violenza legale (lapidazione, vendetta, schiavitù, condizione della donna …)
(vedi il video)

3) La violenza nelle preghiere (I Salmi che fanno appello alla vendetta di Dio)
(vedi il video)

4) La violenza alle origini di Israele (le piaghe d’Egitto, la traversata del deserto, la conquista della terra)
(vedi il video)

5) Il monotesimo è fonte di violenza?
(vedi il video)

 

 

I tre seminari svolti

 

Sul tema del Convegno puoi leggere:

Lettura complementare

GALLERIA FOTOGRAFICA

 

 

RECAPITI

Giampiero Picciani, Lucia Di Fonso

Tel.: 347/7445468, 345/5217945, 0871/563378, 0871/307943

E–mail: convegnonazionale@gbu.it – giampiero.picciani@edizionigbu.it

 

Tre domande a Nicola Berretta

  1. Si ritiene che la crescita del sapere scientifico e della tecnologia derivante da quel sapere renda sempre più complicato se non addirittura impossibile organizzare la propria esistenza sulla base di una visione del mondo fondata sulla Bibbia; credi che questa analisi sia corretta?

     

     

Trovo disarmante che ci siano credenti che la pensano in questo modo. Lo trovo disarmante anche alla luce delle celebrazioni che stiamo avendo in questi mesi, ricordando gli eventi che dettero inizio alla Riforma. È noto infatti che la rapida e capillare diffusione del pensiero rivoluzionario di cui Lutero e i riformatori furono portatori non possa prescindere dalla pressoché concomitante rivoluzione tecnologica che in quell’epoca rappresentò l’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Gutenberg. Fu quella straordinaria innovazione tecnologica a consentire la diffusione anche tra gli strati sociali più popolari sia degli scritti dei riformatori, sia ovviamente del testo biblico. Su questa base, dovremmo essere noi per primi ad opporci all’idea che lo sviluppo scientifico e tecnologico costituisca un impedimento ad una vita di fede ancorata nelle Scritture.

Questa conflittualità tra fede biblica e sapere scientifico, che indubbiamente si respira all’interno di larga parte del mondo evangelico, non trova alcuna giustificazione storica, perché sono vari gli analisti che indicano semmai proprio nel pensiero biblico il fondamento culturale da cui la ricerca scientifica ha tratto linfa vitale per il suo sviluppo straordinario occorso in occidente negli ultimi tre o quattro secoli. Che tristezza c’è allora in me, quando mi capita – troppo spesso! – di leggere o ascoltare commenti di credenti che abbracciano teorie complottiste, contrarie a trattamenti che nascono da protocolli sperimentali fondati sull’applicazione rigorosa del metodo scientifico…

Detto questo, non voglio sembrare tanto ingenuo da non essere consapevole di come la scienza venga oggigiorno usata anche per perseguire obiettivi che poco hanno a che vedere coi principi biblici, oppure come pretesto per ridicolizzare coloro che credono, ma la responsabilità è soprattutto nostra, di noi credenti, col nostro appoggiare, e spesso anche favorire, questa conflittualità ingiustificata.

 

  1. Il dibattito relativo all’opposizione evocata dalla prima domanda ha delle ricadute al livello della ricerca scientifica applicata, quella che viene condotta nei laboratori di qualsiasi ordine e grado?

     

     

Dipende. Se la domanda si riferisce all’atteggiamento nei riguardi di Dio che hanno coloro che operano attivamente nel mondo della ricerca scientifica, direi che si possono avere esattamente le stesse ricadute che si riscontrano in qualsiasi altro ambito sociale o lavorativo. A volte, forse perché a livello mediatico viene dato molto risalto ad esponenti che fondano le loro convinzioni atee o agnostiche sul fatto stesso di operare in ambito scientifico, prende allora piede l’opinione diffusa che gli scienziati siano per default degli atei. In realtà, coloro che operano in ambito scientifico sono “umani” come tutti gli altri, con gli stessi dubbi e le stesse problematiche di fondo. Al limite, quello che diviene peculiare in questo ambiente sono i pretesti che si usano per sfuggire ai richiami al ravvedimento ed al riporre la propria fede in Cristo, che indubbiamente fanno spesso appello ad argomentazioni razionalistiche. Ma il problema di fondo non è diverso da quello di qualsiasi altra persona, tant’è vero che, quando poi si instaurano relazioni di amicizia più profonde, tutti i bei discorsi su Darwin, sull’evoluzione, sulla scienza che ci dà le risposte… si sciolgono come neve al sole, per andare invece sui problemi di fondo che ogni uomo e ogni donna ha. Persino se scienziati!

Se invece la domanda si riferisce a ricadute di ordine pratico, cioè sull’applicazione del metodo scientifico, allora direi di sì. E mi riferisco in particolare ai presupposti etici che, a mio giudizio, devono necessariamente sottendere all’indagine scientifica. L’impostazione atea ha in genere un approccio puramente utilitaristico: funziona o non funziona? Colui che ha una visione del mondo fondata sulla Bibbia deve inevitabilmente domandarsi prima: è giusto o non è giusto davanti a Dio? E se non è giusto, deve essere pronto a desistere dal proprio proposito d’indagine scientifica, anche qualora fosse convinto del beneficio che quella ricerca potrebbe apportare all’essere umano. Spesso viene evocata la totale “libertà” della ricerca, ma secondo me si tratta di un assurdo. Se la ricerca fosse “libera”, allora potremmo giungere anche fino a giustificare gli esperimenti che il medico Josef Mengele condusse nei campi di sterminio nazisti su inermi gemellini ebrei. Indubbiamente, se potessimo fare esperimenti sull’uomo, la ricerca biomedica “funzionerebbe” molto meglio… Con questo non voglio certamente accusare indiscriminatamente gli scienziati atei di collusione con Mengele, assolutamente! Ma non c’è dubbio che, l’approccio alla ricerca di chi ha un’impostazione atea oppure biblica della vita, si trovano spesso in conflitto quando si discute di tematiche di ordine etico che giustificano o meno una certa indagine scientifica.

 

  1. Quando entri nel tuo laboratorio e guardi in un microscopio o maneggi un vetrino, in che modo la tua fede di cristiano evangelico orienta i tuoi comportamenti? Viene messa in crisi dai dati che scopri? o cos’altro?

 

Tutt’altro. L’indagine scientifica, condotta nei limiti dell’etica biblica di cui ho appena parlato, non offre altro che ulteriori motivi per lodare Dio, fornendo nuovi punti di osservazione per contemplare la grandezza, la potenza, e la straordinaria fantasia di Dio. Non c’è dubbio che riconoscere i propri limiti, nel non essere noi uomini in grado di fornire risposte a tantissime domande che ancora la natura ci pone, debba sempre rimanere un tratto essenziale di un credente biblico, e permettetemi di aggiungere, di qualsiasi scienziato degno di questo nome. Questo atteggiamento di sana e doverosa umiltà costituisce un baluardo difronte ai deliri di onnipotenza che hanno dato origine ai peggiori disastri per l’umanità. Guai però se, su questa base, un credente giunge a fondare la propria fede in Dio solo e soltanto su ciò che non capisce. Allora sì che la scienza diviene una nemica, perché tutto ciò che essa porta alla luce, fornendo risposte razionali a ciò che prima ignorava, erode poco per volta quel fondamento che gli sta facendo credere in Dio.

 

Chi è Nicola Berretta? Leggi qui

 

Se sei interessato a questo tema:

Vedi la presentazione di La fede e la ragione

Leggi anche:
J. Lennox, A caccia di Dio, Edizioni Gbu