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Natale sì, Natale no! La storia infinita

Giacomo Carlo Di Gaetano
Francesco Schiano
Valerio Bernardi


Christianity Today, il 10 dicembre 2024 ha pubblicato un articolo dal titolo «In Italy, Evangelicals Wage a Quiet War on Christmas» (In Italia, gli evangelici portano avanti una guerra silenziosa contro il Natale) in cui riportava l’opinione di qualche italiano contrario alla celebraizone del natale e di alcuni missionari che vivono in Italia.

Stimolati dall’articolo ci siamo posti, come redazione del DiRS, tre domande alle quali abbiamo cercato di rispondere

  1. Gli evangelici in Italia, oggi, celebrano il Natale?

Giacomo Carlo Di Gaetano
(Edizioni GBU, filosofo)

Non ho dati statistici per dare una risposta certa a questa domanda; me la potrei cavare dicendo che l’approccio degli evangelici italiani alla celebrazione del Natale è legato alla loro carta d’identità, alla loro età. Sarebbe abbastanza veritiero affermare che le generazioni più avanti nell’età tendono ad avere un approccio negativo alla festività mentre i giovani hanno completamente mutato il loro approccio.

Qualcosa però mi dice che se c’è una situazione in evoluzione e la celebrazione del Natale si va sempre più diffondendo non solo al livello della percezione dei singoli evangelici o delle famiglie (nel passato accadeva anche questo: celebrazioni casalinghe e negazione pubblica) ma anche al livello delle comunità locali le ragioni non sono unicamente anagrafiche.

Per spiegare quella che è una mia percezione posso far riferimento alla mia esperienza personale. Sono cresciuto in una famiglia in cui non si celebrava il Natale. Il periodo dell’anno era stigmatizzato con riferimenti all’ipocrisia del nominalismo, all’idolatria e al rifiuto di tutti quegli elementi tradizionali che infarciscono la ricorrenza.

Tuttavia non si era indifferenti all’elemento “festa” insito nel periodo dell’anno. Era infatti il periodo in cui si organizzavano eventi di chiesa come campeggi, periodi di formazione e tante altre iniziative. Per molti giovani evangelici, che non avevano festeggiato il Natale, il ritorno a scuola, dopo le festività natalizie, era vissuto con lo stesso sentimento di soddisfazione dei colleghi che invece avevano in qualche modo preso parte alle festività.

Questo elemento della festa relativa al periodo dell’anno è anche una chiave per comprendere il mutamento di approccio che io stesso ho vissuto e del quale magari potrò parlare in risposta alla terza domanda.

 

Francesco Schiano
(Staff GBU, storico)

Che io sappia non esistono statistiche, e personalmente non ho abbastanza elementi per provare una stima basata sulla mia percezione, ma conosco tanti evangelici che celebrano il Natale e tanti evangelici che non lo fanno.

Le denominazioni che contano più chiese in Italia (ADI, Pentecostali “liberi” e Assemblee dei Fratelli) hanno una posizione tradizionale di rifiuto della festa, che viene ritenuta non biblica e costruita con elementi tratti da antichi culti pagani, ma anche all’interno di queste denominazione c’è sempre stato chi ha celebrato il Natale. Altre denominazioni non hanno mai avuto nessuna ostilità nei confronti del Natale e in generale gli evangelici in Italia hanno sempre considerato questa festa come una grande opportunità evangelistica.

 

Valerio Bernardi
(Storico e filosofo, Edizioni GBU)

Mi pare che quando si parla di evangelici in Italia e di un mondo piccolo vanno fatte delle differenziazioni. Se parliamo di evangelici includendo anche le chiese cosiddette storiche (Valdesi, Metodisti, Battisti) dobbiamo subito dire che il Natale è stato sempre parte integrante delle festività celebrate da parte di questi ultimi. Se parliamo di chiese libere o di stampo pentecostale bisogna dire che vi è stato negli anni un rifiuto del Natale, dovuto a diversi fattori che andrebbero analizzati con attenzione e che non vanno dimenticati.

Io appartengo ad una Chiesa di origine americana che non ha mai avuto una preclusione nel festeggiamento del Natale, pur appartenendo all’ambito libero. Natale veniva visto come un’occasione di festeggiamenti familiari, ma anche di riflessione sull’incarnazione. Sin da piccolo (e questo è successo anche ai miei genitori) uno dei momenti centrali che doveva servire anche di testimonianza della propria fede era la preparazione, da parte dei bambini e dei ragazzi, di recite natalizie che dovevano testimoniare soprattutto del Vangelo. E’ ancora tradizione cantare nel periodo dell’Avvento e nei dodici giorni delle festività canti natalizi durante il culto e la cosa è accettata con gioia dalla comunità.


  1. C’è stato indubbiamente un tempo in cui l’approccio generale alle feste comandate o del calendario liturgico era negativo e ostile. Per quali ragioni?

 

Giacomo Carlo Di Gaetano

Se volessi continuare la narrazione personale, non potrei negare che l’approccio negativo al Natale esisteva ed era molto presente. Tuttavia, mi sento di fare un sottile ma importante distinguo. Non era un approccio che oggi definirei “teologico” del tipo cattolici vs evangelici o protestanti. Tutti, anche i miei genitori, erano consapevoli del fatto che il Natale veniva regolarmente celebrato nei paesi protestanti e molti evangelici che conoscevamo non facevano mistero di esprimere un parere negativo sulla chiusura degli evangelici italiani.

Ciò che spingeva a prendere la distanza era il peso ossessivo delle tradizioni, vale a dire quell’insieme di elementi della cultura popolare intrecciati con elementi della narrazione biblica e della tradizione liturgica della chiesa cattolica. Era quell’insieme asfissiante che suscitava la repulsione per credenti che volevano parlare e testimoniare della libertà in Cristo. Si sentiva poi ripetere spesso quel refrain che poi diventerà sempre più appannaggio di tanti esponenti della Chiesa cattolica fino a raggiungere la finestra dell’Angelus di Piazza San Pietro, vale a dire l’invettiva contro il consumismo che si esprimeva, e si esprime, durante le festività.
I riferimenti alla data storica della nascita così come altri elementi più dottrinari (p.es. gli apostoli non hanno ordinato simili celebrazioni; per non dire nulla di altre sottigliezze dottrinali che pure distinguono la comprensione evangelica del Natale rispetto a quella del cattolicesimo) erano sfumati, rispetto all’appello a far nascere Gesù nel proprio cuore, ritornello tipico di ogni risveglio evangelico.

 

Francesco Schiano

Quando ho vissuto in Inghilterra, e ho conosciuto dall’interno la chiesa Anglicana, ho avuto modo di osservare la mia cultura evangelica italiana dall’esterno. Quell’esperienza mi ha fatto riflettere su quanto l’identità evangelica italiana si sia costruita in opposizione alla cultura cattolica.

Ci sono ragioni ovvie e motivazioni valide per spiegare questo fenomeno. Basti pensare all’ostilità del cattolicesimo nei confronti delle chiese evangeliche, che nell’atteggiamento di parroci e famiglie è sopravvissuto per decenni al Concilio Vaticano II; oppure al fatto che la chiesa evangelica italiana, storicamente, è stata composta in larga parte da ex-cattolici,  che sentivano l’esigenza di dimostrare una rottura chiara ed evidente con il loro passato, soprattutto con lo scopo di testimoniare la loro fede in Gesù.

Per queste e altre ragioni, alcune caratteristiche della cultura evangelica italiana si fondano sul principio “se lo fanno i cattolici, e non è nella Bibbia, noi non lo facciamo”. Il Natale, così come il Carnevale e la Pasqua cristiana, rientrava in questa categoria di azioni religiose non contemplate dalla Bibbia e presenti nel cattolicesimo.

 

Valerio Bernardi

Buona parte dell’ostilità deriva da un malinteso anticattolicesimo. Il non festeggiare le feste del calendario liturgico veniva visto come una sorta di liberazione. A questo poi si sovrapponevano delle letture delle celebrazioni natalizie, viste solo in un’ottica cattolica di cattolicesimo soprattutto popolare. Veniva frainteso, ad esempio, il significato di alcuni simboli natalizi come il presepe e non si comprendeva che vi era una tradizione natalizia che era propriamente evangelica.

Alcuni simboli come l’Albero o il Padre Buono che portava doni non erano propri del Cattolicesimo, ma venivano così letti. Si trattava di una interpretazione non del tutto appropriata e che derivava da una polemica piuttosto forte con un mondo religioso maggioritario che era sicuramente ostile.

Vi era poi (tra le buone intenzioni) l’idea che qualsiasi cosa non fosse nel Vangelo o nel testo biblico non meritasse attenzione e si pensava che le celebrazioni di qualsiasi tipo fossero un modo negativo di affrontare la vita. Il principio del Vangelo veniva quindi distinto dalle feste e dai noviluni (per usare un’espressione paolina) che con il Nuovo Patto venivano ad essere abolite.

In terzo, ed ultimo luogo, i più colti del mondo evangelico facevano notare una derivazione pagana e il tentativo di una celebrazione invernale che andava a contraddire lo stesso racconto evangelico della nascita. Queste ritengo siano state le maggiori ragioni che hanno portato a non festeggiare il Natale.


  1. Che cosa è cambiato oggi?

 

Giacomo Carlo Di Gaetano

Oggi, personalmente, a Natale, organizzo un momento di riflessione biblica in famiglia; cerco di farlo in particolare durante la cena della vigilia (lascito cattolico questo?); adotto anch’io alcuni simboli (l’albero; le luci, ma non il presepe, quello proprio non riesco ad elaborarlo).

Resta una continuità con il passato: l’atmosfera di festa e di sospensione con la novità che in questo clima oggi tento di riapporpriarmi del linguaggio del Natale. Tutto ciò che c’è di collegamento con la tradizione cattolica (saranno solo parole? ma sono sufficienti) viene riappropriato nell’intento di riportarlo alle dimensioni della Parola.

Anche la serata speciale che organizziamo ormai da molti anni come chiesa locale, “Il più grande dono” nel tentativo di comunicare il vangelo è in realtà un’occasione di riappropriazione della narrazione biblica del Natale.

Per riassumere il cambiamento che si è verificato mi sovviene il ricordo di una zia: lei mi chiese una volta come mai mio padre (convertitosi dal cattolicesimo all’età di 25 anni, in un paesino del sud) non celebrava il Natale, e il suo riferimento crucciato era al fatto che mio padre non accettava i dolci e le prelibatezze che lei preparava proprio per Natale, mentre io non avevo problemi a prendere quei dolci (che naturalmente erano buonissimi) e a non farmi problemi di alcun genere.
Le chiesi se per lei i dolci come altri elementi della tradizione popolare natalizia del mio paesino avessero ancora per lei lo stesso significato rispetto a quarant’anni prima quando lei e mio padre si confrontarono sui contenuti della fede e si allontanarono da un punto di vista religioso. Lei mi disse che no, tutte quelle tradizioni non avevano più l’aura sacrale degli anni ’50, non appartenevano più all’atmosfera che De Martino descriveva in Sud e magia.
Allora io gli risposi: questo è il motivo per cui io non ho problemi oggi a celebrare il Natale; è giunto il tempo in cui sia io sia tu abbiamo bisogno di riscoprire il Natale.

 

Francesco Schiano

Negli ultimi decenni è cambiata la composizione delle chiese evangeliche in Italia, perché gli ex-cattolici praticanti sono una minoranza; è cambiata la cultura italiana, perché il significato religioso del Natale è importante per molte meno persone; è cambiato il cattolicesimo, perché l’ostilità nei confronti degli evangelici è praticamente scomparsa. Di conseguenza è cambiato il modo che gli evangelici hanno di confrontarsi con il cattolicesimo, e sempre più chiese evangeliche celebrano apertamente il Natale.

Un esempio, che illustra come questo sia un discorso che non riguarda solo il Natale, mi viene dalla mia chiesa locale, dove si discute spesso sull’opportunità di partecipare o meno a cerimonie religiose nelle chiese cattoliche. Se in passato alcuni membri della chiesa si erano inimicati l’intera famiglia non partecipando a battesimi, comunioni, matrimoni e funerali, oggi sono in pochi quelli che sentono il bisogno di distanziarsi in modo così netto da riti che si ritengono comunque teologicamente errati. Questo perché l’aspetto teologico è quasi del tutto irrilevante per chi si sottopone al rito e perché si ritiene possibile testimoniare della propria fede partecipando al rito ed esprimendo le proprie convinzioni con un approccio meno conflittuale.

Mi sembra giusto sottolineare che, al netto degli errori che sicuramente la Chiesa italiana ha commesso nella sua storia, resta costante il desiderio di testimoniare di Cristo “in tempo e fuori di tempo”.

 

Valerio Bernardi

Se guardo al mondo dei social e ad alcuni dei filmati o delle affermazioni che sono state fatte nell’articolo di Christianity Today direi nulla. Se, invece, analizzo la realtà devo concordare che, oggi, le chiese evangeliche sono sempre meno anticattoliche ed vi è sicuramente una tendenza a valorizzare anche il momento della festività come uno stare insieme e come una festa di comunione fraterna. Ritengo che ancora oggi il mondo evangelico sia ampiamente diviso sulla questione e che vi siano posizioni (molto poco meditate ed adeguate sulla situazione attuale) che somigliano ad un mondo fermo agli anni post-bellici in cui ancora gli evangelici non avevano adeguati spazi di libertà e si sentivano perseguitati e circondati.

Ritengo invece che le festività natalizie possano essere un’occasione. Negli ultimi decenni, pur se non in maniera ufficiale, ho introdotto proprio in questo periodo la possibilità di riflettere sulle narrazioni profetiche e dei Vangeli sulla nascita e sull’importanza di riflettere sul profondo significato dell’Incarnazione.

A mio parere, poi, sarebbe doveroso anche guardare alla tradizione evangelica e riflettere come per personaggi come Lutero e molti dei Riformatori il Natale rimanesse una festa importante, un momento in cui ricordare la nascita di Cristo che permette la salvezza del mondo. Un ritorno ad un autentico pensiero che si rifaccia al Vangelo ed ai Padri della Riforma, che comprenda che il mondo cattolico non è stato il solo a celebrare il Natale, dovrebbe essere un punto di partenza per una riappropriazione del Natale come festa religiosa che non passi semplicemente come uno dei momenti più consumistici dell’anno dove ci riempie la bocca di buone intenzioni, in maniera anche un po’ ipocrita.

Ci fa evangelici “una solida e serena convinzione”

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Il racconto di un'amicizia. Dialogo tra papa Francesco e il pastore Giovanni Traettino - Alessandro Iovino - copertinaNote a margine della lettura del libro di Alessandro Iovino, Il racconto di un amicizia. Dialogo tra papa Francesco e il pastore Traettino, Eternity, Milano, 2024, pp. 182.

 

Iovino ha fatto un capolavoro giornalistico. Non c’è che dire, anche in considerazione della diffusione del libro. Non c’è giorno in cui non si aggiunga un opinionista, un recensore, un’intervista alla lunga sequela di coloro che segnalano la novità rappresentata dal libro.

Dobbiamo allora, in prima istanza, dire qualcosa sul progetto che sta dietro il prodotto editoriale.

Tutto parte dall’amicizia tra l’attuale Pontefice e il pastore Giovanni Traettino, figura di spicco dell’evangelismo pentecostale e carismatico italiano e punto di riferimento della “Chiesa della Riconciliazione”. Questa amicizia raggiunge l’apice nella visita che Francesco fa al pastore, alla sua famiglia e alla chiesa di evangelica di Caserta il 28 luglio 2014. Il libro contiene belle e preziose foto di questo evento, in particolare quelle nella casa del pastore Traettino.

Il lavoro di Iovino comincia all’indomani di questo evento con un percorso di avvicinamento allo stesso pastore, che l’autore rivela di non aver conosciuto in precedenza, e poi di preparazione dell’intervista vera e propria che si è svolta il 7 novembre del 2023 presso Casa Santa Marta, la residenza del pontefice, anche questo evento corredato di foto a colori.

Si tratta dunque di un libro che intende fissare subito, senza perdere tempo, il flusso di eventi che hanno ruotato e ruotano intorno a questa amicizia, facendola conoscere, raccontandola e caricandola, come è naturale che sia, di significati e prospettive che guardano al futuro.

Lo ribadiamo, una bella operazione “giornalistica”. Insisto sul qualificativo perché sarebbe un errore approcciare il libro da un lato con le lenti amplissime e indefinite dello sguardo ecumenico e, dall’altro lato, sbirciandolo dall’angustissimo e contraddittorio evangelico “buco della serratura”, che in altri tempi ho definito “approccio identitario al cattolicesimo”.

Tra questi estremi c’è infatti il ricco spazio costituito dal materiale proveniente da confronti e rapporti tra cattolici ed evangelici che richiede chiavi di lettura più adeguate e spendibili nell’unica ottica alla quale un evangelico può attenersi per leggere e interpretare i fenomeni della storia e della vita in generale, vale a dire quella del vangelo (faccio tutto per il vangelo … esclamava Paolo, 1 Cor 9). Abbiamo tra le mani dunque un libro relativo al rapporto tra cattolicesimo ed evangelismo – nella versione italiana di un simile rapporto. Questo è un fatto ineludibile che, ancor prima di essere declinato nella prospettiva della documentazione giornalistica, impone una riflessione preliminare.

Di che cosa parliamo quando parliamo di rapporti tra evangelici e cattolici? L’espressione potrebbe essere espressa con altre formule (cattolicesimo/protestantesimo – ma ho i miei dubbi sull’adeguatezza di questa formula per il libro di cui stiamo parlando, nonostante l’autore provi a inserire l’evento-intervista in un panorama più  ampio, vedi pp. 53-55).
Io direi che ci sono almeno tre risposte da dare alla domanda relativa al contenuto di materiale che si occupa del rapporto tra cattolici ed evangelici.

Per prima cosa potremmo avere a che fare con materiale che si occupa del cattolicesimo in sé e per sé, con un approccio tipico di studiosi di storia della chiesa, di storia del dogma, di teologia, etc.. In questo approccio il punto di partenza dello studioso (evangelico o cattolico o secolare) conta un po’ meno. L’idea è che nel descrivere un mondo, e il cattolicesimo è un’intera costellazione di mondi, ci si sforzi di essere il più obiettivi possibili nella sua descrizione. Sarà importante, in questo approccio, tra le tante precauzioni metodologiche, fare attenzione per esempio ai registri comunicativi con i quali il cattolicesimo, i suoi esponenti o sezioni quali Conferenze episcopali, etc. oppure lo stesso pontefice, si esprimono. Un’intervista ha una collocazione che è differente da un documento ufficiale e nello studio bisognerà pensare al modo opportuno di articolare queste due fonti. Il ricorso a spot o a frasi ad effetto per parlare di cattolicesimo non appaiono adeguati in questo primo approccio che, ribadiamolo, ha lo scopo di descrivere il cattolicesimo. La descrizione obiettiva si presta poi a essere usata per diverse finalità. Sicuramente, la testimonianza cristiana al vangelo potrebbe giovarsi di simili descrizioni.

All’estremo opposto dell’approccio focalizzato sul contenuto c’è l’approccio focalizzato sull’interesse di chi parla di cattolicesimo. L’ho definito approccio identitario al cattolicesimo (AIC). In questo caso tutto lo studio del cattolicesimo (ma anche di qualsiasi altro oggetto di studio) ha lo scopo di far emergere gli approcci evangelici al cattolicesimo. Si studia il cattolicesimo, de jure e de facto, per capire che cosa pensano e fanno gli evangelici (di tutto il mondo) nei suoi confronti. L’approccio identitario al cattolicesimo è allora un mascherato studio della condizione dell’evangelismo, volto a suggerire una maggiore circospezione e tutela nei confronti di ipotetici complotti finalizzati a portare gli evangelici sotto la cupola di Roma. Questo approccio, che non si pone lo scopo della testimonianza al vangelo, potrebbe intravedere nel lavoro di Iovino un pericoloso precedente. Unico motivo, più o meno dichiarato, è quello di intruppare gli evangelici in una novella e gigantesca dieta planetaria (dieta era il termine usato nel XVI secolo per i dibattiti, a volte sanguinosi, tra cattolici ed evangelici) con tanti emuli di Lutero e Calvino intenti a segnare i limiti di ciò che non può essere attraversato, nel rapporto con il cattolicesimo.

Ma c’è un terzo modo di intendere e studiare il rapporto tra cattolici ed evangelici. Non centrato sull’oggetto studiato (il cattolicesimo); non sull’interesse di chi studia (approccio identitario) ma semplicemente focalizzato sul rapporto in sé e per sé.

Di cosa stiamo parlando, nel nostro caso? Di un incontro tra un pontefice e un pastore evangelico (PUNTO).

Sicuramente è qualcosa di straordinario e Iovino non lesina espressioni enfatiche per il suo capolavoro giornalistico (un momento di luce purissima, p. 57). Il libro appartiene allora a un materiale, prezioso, che racconta ciò che è accaduto tante altre volte, magari a livelli inferiori, quanto ad autorevolezza dei protagonisti. E non mi riferisco agli incontri ecumenici veri e propri ma a una lunga sequela di eventi, incontri, dibattiti che si organizzano a livello di parrocchie, di sedi arcivescovili, in contesti di celebrazioni storiche, di presentazioni di iniziative sociali e di varia natura, etc.

Questo materiale non deve essere derubricato al livello di indicazione universale, ma neanche nazionale, su quello che è lo stato dei rapporti tra il cattolicesimo e l’evangelismo. È al contrario un materiale prezioso che testimonia di una vera e propria provvidenza divina che ha permesso il superamento dei secoli e dei decenni bui in cui queste comunità di fede si guardavano in cagnesco. Nel libro sono presenti numerosi accenni a questi tempi bui: c’è la testimonianza di Bergoglio (pp. 32); c’è il riferimento alla Circolare Buffarini-Guidi (pp. 52sg.), etc. Per inciso: Iovino non conosce forse pienamente la storia ottocentesca dell’evangelismo italiano e la faticosa conquista, condita di stragi e attentati, della libertà di culto. Il materiale relativo ai rapporti tra cattolici ed evangelici racconta dunque una bella storia di rispetto crescente, stima e apprezzamenti. Grazie a Dio per questo.

Un’altra caratteristica di questo tipo di materiale, a cui appartiene a pieno titolo il nostro volume, è quello rappresentato dal sentimento espresso dai protagonisti di questi eventi; essi tendono a proiettare l’esperienza positiva del singolo evento verso un futuro che potrebbe riservare ulteriori tappe. Nel libro si parla di raggiungere una maggiore unità nella diversità (p. 55). Non ho la sfera di cristallo ma penso di poter dire che questa speranza è molto bella in quanto restituisce l’atmosfera positiva dell’evento che racconta (figuriamoci: l’intervista a un papa da parte di un giornalista evangelico, p. 47); dice naturalmente poco a proposito del futuro. I protagonisti dell’approccio identitario al cattolicesimo potranno stare tranquilli: ci saranno sempre evangelici che passeranno dall’altra parte così come cattolici che faranno il percorso inverso. Le cose non cambieranno di molto. Speriamo, questo sì, che, grazie a iniziative del genere, cresca il rispetto e la stima reciproca e si possa, in nome di un’stanza superiore, quella del vangelo, permettere che le anime conoscano la salvezza in Gesù.

Adesso veniamo al libro, che si presenta diviso in tre parti.
Nella prima c’è la cronaca dell’Intervista vera e propria, con un resoconto dettagliato delle domande e delle risposte dei due protagonisti in un clima, manco a dirlo, di amicizia, cortesia e con accenti di indubbia, trasparente, cristiana e, perché no, evangelica (in senso lato) comunanza.

Nella seconda parte, dal titolo “Ascoltiamoci”, l’autore cerca di fare un bilancio dell’evento­-intervista, ripercorrendo il percorso delle domande e corredandolo di sue personali riflessioni e di citazioni bibliche. Mi pare di capire, o di interpretare, che queste citazioni vogliano creare, in qualche modo, una zona cuscinetto tra due mondi che non sono solo rappresentati plasticamente dai titoli dei personaggi coinvolti, il pastore evangelico e il pontefice, ma che attraversano, lo si percepisce molto bene, l’intimo del giornalista e del credente Alessandro (Non è semplice trovare buoni motivi per sostenere le proprie aperture, non è semplice trovare parole per spiegare il bisogno di smuovere stati di immobilità durati decenni, p. 64). È questa la parte più autoriale, se così possiamo dire, del libro, quella in cui il giornalista si improvvisa teologo.

La terza parte è una raccolta, preziosa, di fonti (discorsi, interviste e testimonianze) che hanno fatto seguito all’evento del 2014 e giungono fino al giorno d’oggi (pp. 105-173).
In questa terza parte sono riportati i discorsi del pontefice e di Traettino in occasione della visita di Francesco a Caserta.

L’intervista si sviluppa seguendo una successione  di domande. Mi pare che non venga spiegata la successione dei temi e delle domande (sono tredici e sono elencati opportunamente nell’indice). I temi che scandiscono le domande erano comunque presenti nei due discorsi del 2014, tenuti a Caserta. Ma a un lettore attento come potrebbe essere il sottoscritto avrebbe fatto piacere una giustificazione della loro articolazione, per esempio quale domanda prima e quale domanda poi. Questa nota sulla successione dei temi ha anche a che fare con un altro fatto, vale a dire che non sempre si coglie una simmetria nelle risposte che forniscono i due protagonisti.

Mi spiego e faccio l’esempio del tema della diversità (pp. 38-44). Non si capisce perché su questo tema Bergoglio parli di migrazioni e dunque di diversità culturali, di globalizzazione e di integrazione mentre il pastore Traettino si sofferma sulla diversità che si registra tra cristiani. Sarebbe stato interessante ascoltare Bergoglio affrontare di petto, e nel contesto dell’intervista, il tema della diversità all’interno del cristianesimo, e dello stesso cattolicesimo, così come ascoltare Traettino parlare di diversità culturale, di immigrazione e così via. Questo non significa che i protagonisti non affrontino i temi relativi alle differenze tra cattolici ed evangelici. Ma non si capisce perché proprio in quel punto le risposte non rispettino una certa simmetria.

Le differenze teologiche vengono trattate con un approccio fenomenologico piuttosto che dottrinario. Il che restituisce delle convergenze suggestive. Penso per esempio al tema della confessione, declinato da Bergoglio in chiave comunitaria, declinazione nei confronti della quale Traettino non può che essere d’accordo. Eppure la confessione è e resta un sacramento. Idem per la questione del vicariato, così come sul ruolo della Madre di Dio.

È probabile che il clima di rispetto e di apprezzamento reciproco, a cui abbiamo alluso, abbia bisogno di questo ampio spazio fenomenologico in cui i singoli dogmi vengono in qualche modo sfumati per lasciare lo spazio nel dialogo a ciò che di positivo creano. Bello. Ma i dogmi ci sono e questo lo sanno sia Traettino sia Bergoglio. Non dobbiamo suggerirglielo noi.

Ci sono due punti in cui l’autore nelle domande e gli intervistati nelle risposte usano l’espressione “teologia”: teologia dell’essenziale (p. 18) e teologia del poliedro (p. 23). Concentriamoci un attimo su questi due punti perché essi mi sembrano i più qualificanti del volume.

Teologia del poliedro. Bergoglio allude alla figura del poliedro, con buona pace di Iovino che ci confessa non essere bravo in matematica (geometria), quando, nel suo discorso del 2014, parla della diversità tra evangelici e cattolici (cioè proprio l’argomento che manca nella risposta a Iovino). Lì Bergoglio prendendo spunto da un’espressione che, se la memoria non mi inganna, era di Oscar Cullman, vale a dire “diversità riconciliata” e facendo leva sull’azione dello Spirito (con un riferimento abbastanza esplicito a 1 Corinzi 12) afferma che l’unità tra i cristiani assomiglia a un poliedro (anche un prisma?) in cui ogni faccia è beneficiaria dell’unica azione dell’unico Spirito ma si esprime nelle sue proprie peculiarità che siano quelle della chiesa di Roma, delle chiese della Riforma, o del movimento pentecostale: “il poliedro è una unità, ma con tutte le parti diverse; ognuna ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità nella diversità” (p. 106). Bergoglio riteneva che questa figura potesse esprimere un nuovo volto del vecchio progetto ecumenico.

Il vecchio progetto ecumenico, che pure aleggia in alcune risposte e in tutto il volume, prendendo spunto da un altro brano neotestamentario (Giovanni 17 – vi allude Traettino – p. 110) poneva capo a un’altra figura “geometrica”, quella del cerchio (una ruota) in cui i raggi convergono al suo centro dove il centro, fuor di metafora, è Cristo.

Qui abbiamo un ampio campo di confronto tra evangelici e cattolici che si avvantaggia del fatto che non si sviluppa a suon di versetti sparati l’uno contro l’altro o di costruzioni teologiche che si contrappongono. No, ancora una volta, ricorrendo alla mediazione dei fenomeni a cui danno vita le costruzioni teoriche, abbiamo il vantaggio di discutere a partire da costellazioni metaforiche e figurative.

Giusto un piccolo assaggio. La figura dell’ecumenismo storico, il cerchio, se da un lato esprime un grande afflato teleologico (si va tutti verso Cristo) pone il problema di quale sia il punto di partenza. Gesù Cristo non è solo l’omega ma anche l’alfa; non è solo un punto di arrivo ma anche un punto di partenza. Parliamo dello stesso Cristo quando riflettiamo e tiriamo dentro al discorso ecumenico tutta la vicenda della ricerca del Gesù storico nel suo rapporto con il Cristo della fede? O qual è lo status del Risorto in rapporto a due segmenti della storia del cristianesimo, vale a dire la chiesa nella sua condizione istituzionalizzata (successione) oppure la predicazione della Parola che è viva in ragione del Vivente?

La nuova figura per i rapporti ecumenici, quella del poliedro, è debitrice nei confronti di 1 Corinzi 12. Ma non sarebbe questa una sorta di santificazione e cristallizzazione dello status storico raggiunto dalle chiese? E se ogni faccia del poliedro ha la sua ragion d’essere nel carisma ricevuto, non sarebbe questa una gigantesca premessa per un relativismo teologico in cui è bene che ognuno stia al proprio posto, premesso che ci riconosciamo nei carismi ricevuti e che ce li teniamo cari senza metterli in discussione? Qui l’approccio identitario al cattolicesimo, quello in cui si studia il cattolicesimo per dirsi alla fine “dobbiamo essere più protestanti” trova una sua ragion d’essere proprio nel poliedro proposto da Francesco. In questo caso, veramente, si finisce sotto la cupola di Roma (sic). E infine, potrebbero darsi altre, nuove facce del poliedro? Chi le introduce, come verranno accolte, quale autorità potrà alla fine dire: ecco, il poliedro si è arricchito di una nuova faccia?

I due modelli, cerchio e poliedro, si dimostrano deficitari non nei confronti di questa o quella prospettiva confessionale, ma deficitari nei confronti del vangelo. Non hanno forse affermato i due protagonisti, Bergoglio e Traettino, in più punti, che bisogna pensare a un cristianesimo in cammino? Solo il vangelo è ciò che può mettere in cammino donne uomini che rinunciano alle loro identità, siano esse cattolica, protestante o pentecostale!

La teologia dell’essenziale (p. 18). Qui, se capisco bene lo sviluppo dell’ottimo lavoro fatto da Iovino, mi pare di percepire uno slittamento. Quando il pastore Traettino introdusse nel 2014 il tema dell’essenziale, riprendendo una frase di Raniero Cantalamessa (gli evangelici sono cristiani col carisma dell’essenzialità, p. 111), declinò egregiamente quella caratteristica in una una pagina impregnata di cristocentrismo con il chiaro riferimento a 1 Corinzi 3:11: “la conversione a Cristo; la relazione personale con Cristo; l’imitazione di Cristo …” (p. 112).

Quando il tema viene ripreso nell’intervista (pp. 18sg.) l’essenzialità viene declinata in modo diverso: “chiederei a entrambi di raccontarmi l’essenza dell’amore per Dio e dell’amore di Dio, facendo riferimento a quella che potremmo definire teologia dell’essenziale” (Iovino). Le risposte sono abbastanza conseguenti, volgendosi verso quello che appare essere il grande paradigma che il mondo post-cristiano chiede alle chiese cristiane di interpretare. Un paradigma in cui si esprima nell’amore (Vattimo parlava di caritas) il tutto del cristianesimo. Per carità, tutto potrebbe tenersi: il cristocentrismo è un’elaborazione che non esclude il tema dell’amore di Dio per il mondo e del possibile amore del mondo per Dio e degli uomini tra loro (“energia sorgiva per tutte le relazioni”, Traettino, p. 19).

Ma questa è una grande sfida epistemologica: il cristianesimo può essere ridotto a una sua essenza che si limiti a un afflato inclusivo generalizzato senza prevedere l’altro tema della verità e, ahimè, dell’esclusione?

Il libro in questo senso è un esercizio interessante che ci spinge a interrogarci. Hanno risposto Bergoglio e Traettino a questa sfida? Hanno colto le differenze che insistono tra il vangelo e le conseguenze del vangelo. Il pastore Traettino del discorso del 2014 mi piace di più del pastore che nel 2023 risponde alla domanda sull’essenzialità.

Devo concludere questa lunga riflessione. Questo è un libro che dà a pensare, che stimola anche là dove il lettore potrebbe aver desiderato maggiore coerenza. Un libro da non leggere con le lenti semplicisticamente ecumeniche ma neanche da leggere con i paraocchi dell’approccio identitario al cattolicesimo, magari suggerendo che esso potrebbe essere espressione di uno scivolamento che si vorrebbe evitare all’evangelismo italiano e addirittura mondiale.

Un libro, al contrario, da leggere con curiosità, con generosità nei confronti di chi lo ha pensato e assemblato. E se da questa venisse fuori la necessità di tornare a pensare sempre e di nuovo a partire dal vangelo, allora vuol dire che si è trattato di una “buona” lettura.

 

 

 

Hans Küng, il teologo che mise in discussione il Papato

di Valerio Bernardi

Si è spento a 93 anni qualche giorno fa il teologo Hans Küng, uno dei più famosi e noti anche al grande pubblico per alcune delle sue posizioni che hanno fatto storia. Diversi anni fa, quando sono stato per motivi di studio a Tubinga, ho avuto il piacere di conoscerlo e con me è stata una persona affabile, assolutamente preparata e disponibile a parlare con un giovane studioso che stava preparando il suo lavoro di tesi in un campo che sicuramente era anche di suo interesse. Per me fu un piacere ed un onore ed il suo Istituto di Teologia ecumenica era anche il mio rifugio perché scoprii che per i teologi cattolici l’italiano era la lingua franca e, pertanto, quando volevo riposare la mia mente era il luogo adatto per andare a fare una chiacchierata con i suoi collaboratori.

Perché Küng è stato un teologo importante e cosa dovrebbe interessare ad un evangelico del suo pensiero oggi, ad ormai quasi sessant’anni dal Concilio Vaticano II? In questo breve articolo indicherò alcune piste su cui vale la pena seguire il pensatore svizzero e solleverò anche alcune perplessità e disaccordi.

Küng fu tra i più giovani osservatori del Concilio Vaticano II e il suo pensiero mutò notevolmente in quel periodo, rendendolo uno dei maggiori pensatori dell’ala progressista cattolica. La sua opera più significativa dopo il Concilio fu quella che concerneva il concetto di Chiesa. Contrapponendosi a Ratzinger che, più o meno nello stesso periodo ritornava ad un concetto di Chiesa dove la gerarchia assumeva un ruolo fondamentale e l’aspetto sacramentale rimaneva importante, il trattato sulla chiesa del teologo svizzero invece sottolineava, riprendendo la Lumen Gentium (il decreto conciliare sulla Chiesa prodotto dal Concilio Vaticano II), che la Chiesa era una comunità che rappresentava il popolo di Dio, dove il sacerdozio era conferito a tutti, il Magistero era essenzialmente al servizio dei fedeli e lo stesso Papa (pur rimanendo convinto del ministero e del primato pietrino) non era il depositario della successione apostolica, ma semplicemente il ministro e servo del Popolo di Dio che egli rappresentava. Cristo per lui era l’unico mediatore e il Papa non aveva questo potere. Nonostante queste affermazioni coloccassero Küng dalla parte dell’ala più avanzata del cattolicesimo, rimaneva nell’alveo della Chiesa per diversi motivi: il primo era il forte radicamento nella Tradizione (che rimaneva una delle fonti di ispirazione della Chiesa), l’altra era quella  dell’idea del primato pietrino e la permanenza di un’idea sacramentale della Chiesa, benché già si accennasse allo “scandalo” di un cristianesimo separato e non nascondesse una vocazione ecumenica, in cui sperava in una sorta di Parlamento delle Chiese per risolvere i problemi anche di tipo dottrinale.

Una tale concezione “naturalmente” porterà al suo libro-dossier del 1970 (Infallibile?) dove verrà messo in discussione il dogma dell’infallibilità del Papa, che, come si sa, era stato proclamato tale da Pio IX nel 1870, proprio mentre l’esercito italiano si impossessava della città di Roma. La messa in discussione dell’infallibilità papale sembrava un altro segnale di volontà di ammodernare la Chiesa Cattolica e il discorso di Küng sembrava essere un tentativo di applicazione di alcuni dei decreti del Concilio Vaticano II. Nonostante ciò fu sospeso a divinis e gli fu tolta la possibilità di insegnare nella facoltà di teologia cattolica di Tubinga, la stessa dove era stato anche preside. Questo tentativo di disciplinamento e di messa a tacere del pensatore svizzero, divenne il suo trampolino di lancio nel mondo dei media. Infatti, la sua attività di insegnante non terminò ed ottenne di diventare direttore dell’Istituto di Teologia Ecumenica della stessa università, all’interno della Facoltà Protestante, ma, allo stesso tempo indipendente da essa: insomma, il suo Istituto, era una sorta di “Svizzera” (il suo paese di nascita) all’interno del panorama teologico.

Küng seppe a quel punto usare a suo vantaggio le sue grandi doti di comunicatore e divenne probabilmente il più noto teologo del mondo occidentale, cui veniva chiesto, soprattutto nell’Europa continentale un parere su tutte le questioni che concernevano la fede. Egli ha scritto per diversi dei quotidiani europei più prestigiosi (i suoi articoli sono spesso apparsi, in traduzione, in Italia su “Repubblica”). Anche alcuni dei suoi libri furono scritti in maniera tale da essere capiti da non addetti ai lavori. Proprio per questo motivo può essere considerato, a suo modo, anche un apologeta, avendo difeso in alcune delle sue opere divulgative l’esistenza di Dio e l’opera di Cristo. Lo stile in questi casi era quello delle tesi che potevano affascinare un pubblico che non era avvezzo alla cultura teologica e biblica ed erano scritti con un linguaggio chiaro e semplice ed immediato, senza per questo cadere nella banalità.

Il confronto con la cultura occidentale è sempre stata una delle costanti del pensiero di Küng (la sua dissertazione di dottorato era un serrato confronto della teologia cattolica con il pensiero di Hegel) e una delle sue opere più celebri (recentemente ripubblicata in italiano in una nuova edizione) è Esiste Dio? In questo testo il pensatore svizzero si confronta con il pensiero filosofico e scientifico moderno e cerca di mostrare come si possa dare una risposta all’incipiente atesimo. Al contrario dell’“ortodossia” cattolica, che si rifà normalmente alle tradizionali prove dell’esistenza di Dio messe a punto dalla teologia medievale, il suo testo si confronta con la modernità e contrappone in un excursus di circa 1000 pagine il modello pascaliano della scommessa (che è strettamente collegato alla plausibilità della fede) a quello cartesiano (ritenuto sin troppo razionale e portante direttamente all’ateismo). L’analisi di Küng è molto dettagliata e di grande interesse mostra la sua apertura verso il mondo moderno. Il testo ha il suo fascino (non ha caso è stato ripubblicato recentemente in una nuova edizione in italiano) e rimane un valido tentativo di confrontarsi con la contemporaneità, anche se non tiene del tutto conto del dibattitto post-moderno.

Nell’ultimo periodo il teologo svizzero si è dedicato non solo ai rapporti ecumenici tra Chiese, ma anche al dialogo interreligioso. Sue sono state le iniziative di un parlamento delle religioni che potesse contribuire alla pace nel mondo. L’iniziativa in questo caso non ha riscontrato grande successo anche se ha permesso la produzione di testi sulla conoscenza delle religioni ed in particolare dell’Islam di grande accuratezza, come sempre avveniva nella sua opera. Il dialogo interreligioso non è mai stato una novità nel mondo cattolico ed era sicuramente influenzato anche dall’inclusivismo di alcune posizioni teologiche che si sono sviluppate nel cattolicesimo olandese e tedesco della seconda parte del XX secolo.

Con la sua morte, pertanto, è venuto a mancare uno dei grandi teologi della tradizione liberale tedesca che, sin dal XIX secolo, si sono aperti al mondo moderno, hanno cercato di dialogare con il mondo nel senso più ampio del termine ed hanno anche cercato di produrre dei cambiamenti all’interno della struttura della chiesa cui appartenevano.

Cosa possiamo dire di questo teologo da un punto di vista evangelico? In primo luogo, quando si legge Küng, lo si deve sempre considerare nell’ambito del cattolicesimo: nonostante i chiari avvicinamenti al mondo protestante (soprattutto nella concezione di una chiesa come comunità di credenti), il suo attaccamento alla interpretazione della Tradizione della Chiesa, un certa concezione che va verso il sacramentale dell’istituzione ecclesiastica ed una gerarchia che, anche se al servizio, rimane tale (soprattutto se affiancata dai teologi) lo hanno fatto rimanere nella Chiesa cattolica, la cui continuità storica non è stata mai da lui messa in discussione. Le sue posizioni progressiste sono state sempre molto interessanti ma, allo stesso, la sua teologia non ha mai fatto un largo uso del testo biblico, pur conoscendolo (si vedano il suo libro sulla chiesa o le sue tesi su Gesù). Il suo attaccamento alla tradizione tedesca lo ha fatto sempre essere collegato al campo della teologia liberale.

Nonostante questi “limiti” la sua capacità di divulgazione lo ha reso probabilmente soprattutto nel ventennio che è andato dal 1970 al 1990, il teologo più conosciuto nel mondo. La sua profonda cultura (attestata dalle sue opere da studioso sempre molto accurate ed anche molto analitiche) sicuramente rimane un lato da apprezzare e che mancherà all’attuale panorama teologico mondiale. Küng ha avuto una capacità da cui varrebbe la pena imparare: quella di dialogare non solo con la Chiesa, ma anche (e forse soprattutto) con il mondo esterno.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

L’approccio “identitario” al cattolicesimo (AIC)

I tempi che stiamo vivendo (in piena pandemia per il coronavirus), come era facile immaginare, ma anche auspicabile, stanno spingendo gli uomini a dare fondo a tutte le risorse per contrastare la pandemia. Gli stati elaborano misure di profilassi sanitaria estrema (lockdown), con il correlato di misure economiche; la comunità scientifica è impegnata in una corsa contro il tempo per trovare la cura e un vaccino; i media tentano una copertura totale del fenomeno, etc.
La dimensione religiosa dell’essere umano non poteva mancare ed è probabile, così come nel passato che, tramite le grandi fedi mondiali, giocherà un ruolo sempre più rilevante nello sviluppo di questo straordinario e drammatico momento storico.
L’appello di Francesco (capo – non tanto indiscusso – della Chiesa di Roma) ai cristiani di qualsiasi confessione, e orientmento a rivolgere al cielo tutti insieme una preghiera, la preghiera (il Padre Nostro), è solo uno dei tasselli di una vicenda che è destinata a ingrossarsi.
A questa iniziativa dall’afflato inclusivo fanno da contraltare, c’era da aspettarselo, le pratiche esclusivistiche di tutti. Lo stesso Papa ne ha dato prova con l’indizione dell’indulgenza plenaria. Dall’altro lato altre confessioni e denominazioni (e qui mi avvicino al focus di queste note), non sono state da meno e hanno messo in campo iniziative speculari sia inclusiviste (appelli alla preghiera e all’unità) sia esclusiviste.

Non poteva mancare, in questo quadro, anche la polemica religiosa e identitaria, soprattutto da parte evangelica, contro “l’idolatria” della Chiesa di Roma. Non ho ancora notizia di qualche prelato o intellettuale cattolico che punti il dito per questo “giudizio divino” contro i soliti mali della modernità, alla base dei quali ci sarebbe la Riforma protestante (ricordate il famoso discorso di Ratisbona di Benddetto XVI?).

Veniamo dunque al nostro tema: che cos’è l’approccio “identitario” al cattolicesimo (AIC)?
Si tratta di una prospettiva interna all’evangelismo italiano che si tenta di esportare a livello globale, come è testimoniato dalle polemiche e dalle schermaglie che suscita in organismi evangelici internazionali.

1. Qual è il focus di questo approccio?
Per spiegarlo, è utile una piccola digressione. Quando un bibliotecario deve identificare il soggetto di un libro parla, usando un termine inglese, di aboutness (ciò di cui il libro veramente parla). L’identificazione di un soggetto infatti è un’operazione complessa che deve tener conto di diverse variabili tra le quali spicca l’ambiguità del titolo: spesso infatti non corrisponde al soggetto che il libro svilupperà ma risponde a esigenze di mercato o di indicizzazione.

Quando gli evangelici dicono di volersi occupare di cattolicesimo, si stanno veramente occupando di cattolicesimo? Ne fanno veramente un oggetto di studio che richiede l’adozione di tecniche di interpretazione identificabili e tendenti all’oggettività? Ogni studio “scientificamente” accurato ha poi il suo risvolto pratico e appplicativo. A questa logica non sfugge neanche lo studio del cattolicesimo. Perché si studia il cattolicesimo? Le risposte potrebbero essere tante.
Chi scrive ritiene, per esempio, che l’unica ragione che dovrebbe spingere un evangelico a fare del cattolicesimo un oggetto di studio sia il vangelo, inteso nel più radicale dei significati (la buona notizia di Dio che è venuto sulla terra per compiere un’opera di salvezza nei confronti di donne e uomini di tutti i tempi). Ma questa ragione, le esigenze del vangelo, da sola, sarebbe sufficiente a fare un oggetto di studio anche dell’evangelismo, e del protestantesimo!

L’AIC afferma di occuparsi di cattolicesimo (e nauralmente questo è in parte vero – c’è sempre una relazione tra il titolo di un libro e il suo contenuto) ma di fatto, anzi de jure, il suo focus è “l’approccio evangelico al cattolicesimo” (AIC). Questo è il “soggetto” di AIC (l’aboutness). Il succo è: studiamo il cattolicesimo per comprendere il modo in cui interagiamo con esso. Se c’è qualcosa che non va in questo approccio, allora lavoriamo su noi stessi. Da qui il presupposto “identitario” di questo approccio: approccio identitario al cattolicesimo (AIC). Uno dei grandi presupposti è che lo scopo, neanche tanto velato, del cattolicesimo sarebbe quello di portare tutti gli evangelici sotto Roma!

Chris Castaldo, pastore americano legato alla Gospel Coalition, lascia trapelare questa curvatura dell’approccio al cattolicesimo quando afferma, in un libro del 2015 dal titolo Talking with Catholics about the Gospel. A Guide for Evangelicals: “non è abbastanza comprendere semplicemente che cosa sono i cattolici. Dobbiamo anche fermarci un attimo e considerare l’approccio (attitude) e la postura con i quali ci relazioniamo a essi” (p. 41).

Castaldo esplicita questo passaggio rendendosi subito conto che non esiste UN approccio evangelico al cattolicesimo ma ne esistono molteplici, tanto da riportare una tassonomia di ben sette. Nel proseguire la sua indagine Castaldo adotta un metodo descrittivo di questi approcci per poi fare la sua proposta, che è una proposta classica: quali sono i punti di convergenza e quelli di differenza tra evangelici e cattolici?

L’approccio identitario al cattolicesimo (AIC), dal momento che “de jure” è interessato, sotto il titolo di “studio del cattolicesimo”, alle nostre reazioni al cattolicesimo non si limita alla descrizione di queste reazioni ma diviene prescrittivo. Nel senso che tenta di correggere quelli che ritiene approcci sbagliati e per tale motivo legge e studia il cattolicesimo per motivare la prescrizione.

2. La semplificazione identitaria
L’approccio “identitario” al cattolicesimo (AIC) impegna dunque le maggiori risorse nell’analisi e nella valutazione degli atteggiamenti e delle posture evangeliche verso il cattolicesimo. Da qui deriva che la rappresentazione del cattolicesimo ricorrere al metodo della semplificazione di una realtà complessa. Questa semplificazione può avvenire in diversi modi. Alcuni sono raffinati: per esempio il cattolicesimo, che ha dimensioni storiche, sociali, teologiche, istituzionali, di spiritualità, viene ritenuto un sistema coerente, espressione a sua volta di uno o due pochi principi di fondo. In qualsiasi sistema (limitiamoci qui solo al versante teologico) possono esserci elementi portanti. È indubbiamente un asse portante del pensiero “ufficiale” del cattolicesimo quello già ben focalizzato da Vittorio Subilia, vale a dire che nel credo della Chiesa di Roma la “chiesa” non sia altro che la prosecuzione dell’incarnazione di Gesù. Ma quanto un tale asse riesca ad aggregare del pensiero e della prassi del cattolicesimo è da dimostrare. Così come è da dimostrare un altro principio che secondo i teorici dell’AIC ricapitola in sé tutta la complessità del cattolicesimo: mi riferisco a un punto del pensiero di  Tommaso d’Aquino relativo alla relazione tra natura e grazia (la grazia perfeziona la natura, detto così in soldoni). Questo principio, per esempio, secondo AIC condizionerebbe la soteriologia cattolica.

Nel caso di quest’ultimo principio ci troviamo di fronte a un’altra strategia di semplificazione tipica di AIC, vale a dire la riduzione di elementi della storia del pensiero a elementi sub specie aeternitatis, cioè non più elementi che devono essere compresi nel loro contesto storico ed eventualmente nella loro evoluzione sempre storica (ce lo insegna l’ermeneutica) ma come chiavi interpretative globali dalla tonalità molto spesso negativa (oltre a natura/grazia, possiamo pensare a termini quali “umanesimo”, sinergismo, pelagianesimo, etc.).

Ci sono poi le strategie più terra terra che AIC in qualche modo sdogana, propaganda e anche legittima, vale a dire l’armamentario tipico della controversia del XVI secolo. Ray Galea, nel suo libretto A mani vuote. Cattolici ed evangelici di fronte al messaggio della salvezza (GBU, 2010), sulla base della sua esperienza da ex sacerdote cattolico mette per esempio in guardia sulla famosa retorica secondo la quale il cattolicesimo predicherebbe una salvezza per SOLE opere: “A volte protestanti poco formati accusano il Cattolicesimo di insegnare la «salvezza per opere» in opposizione alla concezione pro­testante di «salvezza per fede». Quest’accusa non è esatta. Il Cattolicesi­mo insegna la salvezza per fede più le opere…” (p. 61).

Il risvolto complementare dell’impegno di AIC è che gli approcci evangelici al cattalicesimo possano essere corretti se il cattolicesimo (ridotto a sistema) fosse affrontato dagli evagelici sistemicamente. L’idea di uno studio sistemico (“sistemico” è diverso da “sistematico”) di una realtà religiosa complessa o di una realtà complessa dalle fattezze religiose ha un suo preciso pedigree storico che affonda le sue radici nel neocalvinismo olandese della fine dell’800.
L’AIC, in buona sostanza, quando parla di cattolicesimo, si rivolge a noi e ci chiede di adottare un sistema da cpontrapporre a un altro sistema. Detto in parole povere: bisoga essere più protestanti di quelo che siamo. Questa è la semplificazione identitaria: a identità si contrappone identità.

3. L’AIC è funzionale al relativismo
Qualche anno fa fece scalpore la visita di Papa Francesco alla comunità pentecostale del suo amico, il pastore Giovanni Traettino. In quella circostanza Francesco fece un discorso di tipo ecumenico, come sempre accade in questi casi, e non c’è da stupirsi. La particolarità fu che prese in prestito alcuni concetti e soprattutto l’immagine del prisma del teologo luterano Oscar Culmann. In sintesi: il discorso ecumenico non deve appoggiarsi su Giovanni 17 (la preghiera di Gesù per l’unità dei cristiani) ma su 1 Corinzi 12 (il discorso di Paolo sull’unico corpo di Cristo) che ha tante membra diverse. Le tradizioni teologiche (e qui semplifichiamo), incluso cattolici e protestanti, sono carismi dello Spirito, rifrazioni misericordiose dell’unico raggio della rivelazione che si rifange in tanti colori diversi. La chiamata di tutti i cristiani è quella di coltivare ognuno la peculiarità e l’identità del carisma ricevuto. Se sei un protesante (questo lo aggiungo io) non è necessario pensare ce tu divenga cattolico (e viceversa): sii più protestante!
Questo suggestivo sforzo ecumenico sembra implicare dunque la coltivazione delle proprie identità, se considerate alla luce del diversità dei doni e delle membra.

Tutti sanno, però, anche, che questa è la porta d’ingresso e la strada maestra del relativismo, nonché una straordinaria risposta ecumenica, di base, da rivolgere alla testimonianza del vangelo che possiamo renderci reciprocamente (protestanti e cattolici). Perché prendere in carico la peculiarità delle visioni evangeliche su Maria, così come affondano nel testo biblico, quando in realtà questa peculiarità è il portato precipuo del dono e del fascio di luce che le tradizioni protestanti hanno ricevuto?
La risposta alla poemica anti–cattolica, all’AIC, potrebbe essere un clamoroso gesto di affetto da parte di un interlocutore cattolico! Che bello, sii più protestante!

L’AIC diviene in tal modo un ostacolo alla testimonianza da rendere al vangelo.

4. L’AIC ritiene insufficiente lo spazio indipendente del vangelo

È noto che nella controversia tra cattolici ed evangelici spesso si è fatto ricorso a modelli intepretativi che giustificassero una situazione che il Nuovo Testamento non lascia presagire (questo è un altro schema di lavoro). Il modello forse più famoso è di assimilare la tradizione cattolica al farisaismo e quelle protestanti alla predicazione di Paolo. Dopo ondate di rinnovamento degli studi biblici, l’affinamento di strumenti interpretativi, il campo si è un po’ confuso.
Nella lettura reciproca che ci facciamo (noi leggiamo e studiamo il cattolicesimo, ma avviene anche il contrario!) appare necessario allora cercare un punto indipendente, che non significa “neutrale”. Questo equivarrebbe, nel nostro interagire con amici e fratelli cattolici, a rinunciare alla nostra tradizione per favorire la strada al vangelo.

Ci proviamo: nel capitolo 4 del Vangelo di Giovanni troviamo il famoso dialogo di Gesù con la donna samaritana, nei pressi di un pozzo. La donna, aldilà della sua condizione personale, esprime una preoccupazione che affonda le sue radici nella coscienza identitaria di quei tempi: dove bisogna adorare? Là dove punta la tradizione samaritana (su questo monte – dice la donna) o al contrario dove punta la tradizione dei Giudei (a Gerusalemme?).
Conosciamo la risposta di Gesù che chiede a tutti i partiti in campo di non fare più riferimento a se stessi ma a qualcos’altro (Gesù le disse: «Donna, credimi; l’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. … Ma l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità» – Giovanni 4:21sg.).

Nello studio del cattolicesimo non dobbiamo studiare i nostri approcci al cattolicesimo ma i nostri approcci al vangelo!
E in questa zona indipendente, che è il vangelo, dobbiamo uscire dalle nostre tradizioni.

Siamo partiti in questa lunga disamina dell’approccio identitario al cattolicesimo (AIC) dalle condizioni che stiamo vivendo, dalla pandemia che sta imperversando fuori dalle nostre case (e non troppo) e abbiamo evidenziato l’impegno sempre più marcato delle religioni che tentano di dare all’uomo speranza e risposte. Abbiamo evidenziato sia i contributi inclusivi sia quelli esclusivistici e polemici, e da qui siamo partiti per l’analisi dell’AIC. Nel leggere alcuni di questi contributi dell’AIC mi sono ricordato di un vecchio libro evangelico sul cattlicesimo: La chiesa romana allo specchio (1971), scritto da un autore francese, Jacques Blocher. L’autore racconta nella Prefazione di aver scritto questo libro che analizza le dottrine della Chiesa di Roma all’indomani di un’esperienza molto forte, simile a quella che stiamo vivendo noi oggi – i campi di concentramento nazisti – un’esperienza vissuta insieme a sacerdoti cattolici. Per la conclusione lascio volentieri a lui la parola.

“Quest’opera sulla Chiesa Romana [il libro], è stata scritta con un grande zelo per la verità e senz’alcuna cattiveria. L’autore, durante l’ultima guerra mondiale, trovandosi in campo di concentramento, ha avuto occasione d’aver per camerati dei sacerdoti cattolici, molti dei quali gli son restati intimi amici. Essi hanno scoperto assieme che il loro culto spirituale era diretto e rivolto allo stesso Dio e al medesimo Salvatore, Gesù Cristo, nato dalla Vergine Maria. Nelle loro conversazioni, hanno compreso quello che li univa ed anche ciò che li separava. È questa esperienza di comunione fraterna che ha spinto l’autore a fare un esame sistematico delle dottrine e delle pratiche cattoliche dalla luce della Rivelazione Biblica e della Storia. Questo chiaro esame è esposto in modo molto sereno e lautore spera di non ferire alcuno, anzi è particolarmente lieto di vedere finalmente quest’opera tradotta in italiano, poiché egli ama grandemente l’Italia ed i cuoi cittadini” (Jacques Blocher).

(Giacomo Carlo Di Gaetano)