Articoli

La vittimizzazione delle donne

di Lucia Di Fonso
(Psicologa, Edizioni GBU)

Il 25 Novembre di quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario dell’istituzione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in ricordo delle tre sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa), violentate e uccise il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana, mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione. In molti paesi, come anche in Italia, il colore esibito in questa giornata è il rosso e gli oggetti simbolo sono rappresentati da panchine o da scarpe da donna rosse posizionate per  ricordare le vittime di violenza e femminicidio.

Qui offriamo una breve prospettiva biblica sul tema, facendo riferimento a un intero capitolo intitolato La vittimizzazione delle donne del libro dei coniugi Derek e Dianne Tidball, Bibbia e quote rosa, Edizioni Gbu, 2021. Gli autori (marito e moglie) consapevoli della complessità dei dati, delle sfide e delle controversie, cercano un approccio umile e integrato al tema guardando alle donne come appaiono nella trama biblica, in luoghi e ruoli chiave.

«La Bibbia non è nient’altro che realistica. Presenta il mondo così com’è, sia quando le relazioni umane sono bellissime sia quando sono caratterizzate da una spaventosa brutalità. Le sue storie recano frequentemente testimonianza a quanto tali relazioni si siano deteriorate dal tempo dell’iniziale disubbidienza di Adamo ed Eva; quanto sono caduti in basso, uomini e donne, rispetto ai propositi creazionali di Dio! Questo è vero più che mai nelle descrizioni dei numerosi e raccapriccianti episodi che coinvolgono le donne» (p. 91).

La vittimizzazione delle figure femminili bibliche, secondo gli autori deriva dal fatto che la stragrande maggioranza degli insegnanti e dei predicatori tradizionalmente erano uomini: «il risultato è che l’esecrabilità a carico degli uomini per quegli atti di crudeltà è minimizzata e se ne fa addirittura ricadere la colpa sulle donne o si sorvola sulle obbrobriosità del comportamento maschile (p. 92).

 

Nell’Antico Testamento varie e importanti donne sono “vittime”. C’è Agar, vittima dell’impazienza di Abramo e dell’insofferenza di Sara.

Poi c’è Dina (il cui nome significa “giudicata” e la cui storia è narrata in Genesi 34). La teologa battista Lidia Maggi, in un articolo pubblicato sul sito Note di Pastorale Giovanile, così riassume la sua vicenda: «Dina, figlia di Giacobbe e Lea esce di casa per incontrarsi con le altre ragazze del villaggio. Il momento di svago si trasforma in un incubo che le cambierà per sempre la vita. Viene vista, rapita e violentata da Sichem, il figlio del capo del paese. Costui, dopo aver abusato di lei, se ne innamora perdutamente, chiede al padre di poterla sposare; “la sua anima si legò a Dina, figlia di Giacobbe; egli amò la fanciulla e parlò al cuore della ragazza” (Genesi 34:3). Il gesto di Sichem provocò una reazione devastante in un crescendo di orrore e violenza su tutti i maschi del popolo di Sichem da parte dei fratelli di Dina che vogliono vendicarne l’onore (o meglio, il loro stesso onore). Dina verrà riportata a casa, senza che le venga attribuita, nel testo, nessun sentimento e nessuna parola.  Dina esce di scena, precipitando nell’oblio, una sorte di merce di scambio tra mondi maschili, pedina dei loro rapporti di forza»[1].

Anche Tamar (Genesi 38) è vittima dell’indifferenza della sua famiglia e poi quasi vittima della giustizia dell’uomo, finché non ne mette allo scoperto l’ipocrisia. Più tardi, c’è un’altra Tamar figlia del re Davide (2 Sam 13) che fu rapita e abusata incestuosamente dal fratellastro e principe reale Amnon e vendicata due anni dopo da suo fratello Absalom (Bibbia e quote rosa, p. 93).

Diversi capitoli del libro dei Giudici (Gdc 11:29-40) sono dedicati alle figure femminili che denunciano la violenza della società patriarcale: alcune sono donne vittime (la figlia di Iefte o la concubina del levita) altre sono  donne eroine (la profetessa Debora; Giaele).

Nella storia della  giovane donna sacrificata dal padre (Gdc 11), Iefte fece un voto a Dio per vincere una battaglia contro gli Ammoniti, promettendo di offrirgli ciò che sarebbe uscito da casa sua al ritorno. Gli si fece incontro la sua unica figlia che lo accolse festante. Questa prese atto dello sconforto del padre ma lo esortò a compiere comunque il suo voto, chiedendogli due mesi di tempo per poter “piangere la sua verginità”. Allo scadere dei due mesi, il voto fu compiuto. Si trattava in effetti di un voto idolatrico in quanto il sacrificio umano non solo era vietato dalla Legge di Mosè (Lv 18, 21; 20, 2-5), ma era tipico del culto cananeo, come quello del dio ammonita Moloc. Il paradosso, quindi, è che Iefte convinto di fare un atto religioso per il Dio d’Israele, in realtà finisce per fare un sacrificio al dio del popolo nemico. Più tardi un altro capo (il re Saul) non esitò a rompere il giuramento pur di salvare suo figlio Gionatan, in una situazione simile (1 Sam 14).

La storia più sconvolgente di tutte, però, riportata in Giudici 19, è quella della moglie del Levita, un’anonima vittima della lussuria di un levita, della violenza di gruppo da parte di un’intera città e della fredda indifferenza del suo padrone.

Il protagonista di questa storia è un Levita della tribù omonima, addetta a importanti funzioni nel tempio. Abitava ad Efraim ma sposò una ragazza di Betlemme. La donna “concubina”, non ha un nome, appare passiva. Lei gli fu infedele, la traduzione non rende, il termine ebraico chiave può significare che fu “arrabbiata”, piuttosto che “infedele” verso di lui. Potrebbe darsi benissimo che sia stato lui, con il suo comportamento, ad averla indotta a tornare dal padre e abbia fatto quello che tutti gli altri facevano come viene descritto in tutto il libro dei Giudici, vale a dire, quello che le pareva meglio. Quattro mesi dopo, il levita si mise alla sua ricerca. L’uomo sembra interessato a riaverla con sé; decide, pertanto, di partire con l’intenzione di “parlare al suo cuore”. Perché si mise alla sua ricerca? Era perché l’amava o cercava una fredda giustizia, spinto dal desiderio di riprendersi quello che «gli apparteneva»? Se era in cerca di una vera riconciliazione, perché nel suo successivo comportamento la ignora tanto spesso? Quali che siano le sue motivazioni, il levita è ben accolto dal padre della concubina e sembra legare subito con lui. Per qualche giorno il levita si gode l’ospitalità dei genitori di lei. Della concubina non si dice nulla. I riflettori sono puntati sugli uomini, che rimangono il soggetto, gli attori principali; lei è una semplice comparsa. Pochi giorni dopo, questo clima conviviale comincia a deteriorarsi; il levita ha fretta di partire e di tornare a casa sua con la concubina.  Essendo ormai tardi, bisogna fermarsi per la notte.

Lidia Maggi nota: «Non è bene, tuttavia, fermarsi in un villaggio straniero, come suggerisce il servo. Conviene arrivare fino a Gàbaa, città di Beniamino, una delle tribù di Israele. La donna non viene consultata. Continua ad essere passiva. Nessuno sembra più interessato a parlare al suo cuore e neppure alle sue orecchie. Ironia della sorte, la terra che doveva proteggerli – terra promessa, dove avrebbero dovuto scorrere il latte ed il miele di relazioni libere – diventa terra pericolosa, ostile, straniera. Il levita con il servo e la concubina vengono sì ospitati in casa di un anziano; ma, mentre si godono l’ospitalità, ecco che dei pervertiti circondano la casa»[2].

Gli uomini all’esterno della casa vogliono abusare del levita. Il vecchio che li ospita interviene, facendo appello al sacro vincolo dell’ospitalità e propone di offrire in cambio due donne: la sua giovane figlia e la concubina del levita. Abusare di un uomo era inaccettabile. Lo stupro omosessuale sarebbe stata una palese violazione delle regole dell’ospitalità, che erano pesantemente sbilanciate in favore degli uomini. Violentare una o due donne, invece, non sembrava avere le stesse implicazioni o caricarsi dello stesso peso. L’aspetto più sconcertante di quest’episodio della storia è la facilità con cui gli uomini sono pronti a consegnare le donne perché diventino dei giocattoli nelle mani del branco. Viene loro detto: «Fatene quel che vi piacerà» (Tidball, p. 99).

A questo punto «il levita, lesto, spinge fuori la concubina che viene afferrata e violentata per tutta la notte. All’alba, quando i pervertiti si dileguano, la donna si trascina sulla soglia della casa e, con la mano tesa verso la porta, crolla a terra esausta. Passerà qualche ora prima che qualcuno si preoccupi di soccorrerla. Il levita, al risveglio, quando il sole è già alto, la trova sulla soglia. Come se niente fosse, le ordina di alzarsi: sono le prime parole che gli sentiamo rivolgere. Strano modo di parlare al suo cuore! La donna non risponde, non può rispondere.  Il levita non la soccorre: la carica di peso sull’asino e riprende il viaggio verso casa»[3].

L’abuso, lo stupro e la violenza erano degenerati nell’omicidio. Così il levita raccoglie il suo corpo malridotto come se fosse un «sacco di patate» o un tappetino in vendita in un mercato, la caricò sull’asino e partì per tornare a casa sua. Nulla, nella storia, ci offre alcuna indicazione dei suoi sentimenti. Non la piange. Il silenzio sembra calcolato per presentarlo come un uomo indifferente, freddo e spietato.  Si munì di un coltello, prese la sua concubina e la divise… (Tidball, p. 100).

Se non è stato lo stupro collettivo ad ucciderla, e neppure quell’assurdo viaggio di ritorno, ci penserà il coltello del levita che, in nome della giustizia, taglia il corpo della donna in dodici pezzi da mandare alle dodici tribù di Israele: “guardate che cosa mi hanno fatto!”[4].

I Tidball, commentano (op. cit., p. 101): Con un atto «inutilmente brutale», non mostra verso di lei nessun rispetto, non tratta il suo corpo con alcuna tenerezza d’affetti e la fa crudelmente a pezzi, proprio come se fosse la carcassa di un animale.

Ci si può immaginare il levita che giustifica il suo comportamento. L’ha fatto come segno d’avvertimento a Israele. È stato per impartire loro una lezione. La macabra natura del suo pacchetto doveva indurre tutti a fare un balzo sulla seggiola e a considerare quanto si fosse caduti in basso. Serviva una terapia d’urto.

Di primo acchito, l’azione del levita sembra avere sortito l’effetto sperato. Quella di tutti è una reazione d’orrore. «Una cosa simile non è mai accaduta né si è mai vista, da quando i figli d’Israele salirono dal paese d’Egitto fino al giorno d’oggi! Prendete a cuore questo fatto, consultatevi e parlate!» Inoltre, a un esame più ravvicinato, la reazione generale è più ambigua di quanto non possa sembrare. «Qualche cosa deve essere fatto», gridano. Che cosa, però? A ben pensare, la speranza è che vogliano dire che devono pentirsi del loro stato di anarchia e riformare le loro vite in vista della creazione di una società più giusta e meno violenta. Quello che segue, però, suggerisce che abbiano in mente altri tipi di risposta. Quello che hanno in mente è la guerra civile! L’azione del Levita serve soltanto a dare libero corso ad altra violenza, non ad arginarla, dato che tutto Israele si raduna a Mispa per un consiglio di guerra e stabilisce unanime di trattare la tribù di Beniamino «secondo tutta l’infamia che ha commessa in Israele». Il risultato è che 25.000 soldati beniaminiti muoiono in battaglia e le loro città sono date alle fiamme.

In conclusione, come sostengono i Tidball, il modo con cui sono trattate le donne, nel libro dei Giudici e non solo, fa da termometro per misurare la temperatura morale e spirituale del popolo d’Israele. Le tremende esperienze di alcune donne sono in genere riportate come dati di fatto, senza interpretazioni e spesso anche in modo asettico. L’approccio espositivo prevalente nella Bibbia è quello di lasciare che la storia parli da sola. Le storie in cui le donne sono vittime vengono dunque raccontate senza interpretazioni, senza lezioni morali e di solito senza che siano attribuite delle colpe.

È  il lettore dunque a doversi fare un’idea su quello che è giusto e quello che è sbagliato, su ciò che è bene o su ciò che è male.
Per questo motivo potremmo farci delle domande per contestualizzare questi eventi.

1) Perché nelle Scritture sono riportate con dovizia di particolari episodi così cruenti?

2) Quali sentimenti e considerazioni suscitano in noi racconti di tale efferatezza?

3) Quali comportamenti, nel caso del Levita (forse il personaggio più sinistro dei racconti biblici evocati) suscitano maggiormente la nostra indignazione?

4) Quali sentimenti possiamo immaginare provò la concubina nei confronti di diversi uomini (il marito-padrone, il padre, l’ospite e gli stupratori) di cui fu vittima?

In queste storie oltre alla violenza fisica non vanno dimenticate altre forme di violenza. Resta un’ultima domanda: è possibile un processo di guarigione della vittima e/o del violento? E in che modo?

 

[1]  L. Maggi, Dina e la concubina del levita: due storie distopiche, https://www.notedipastoralegiovanile.it/questioni-bibliche/dina-e-la-concubina-del-levita-due-storie-distopiche (visionato il 20/11/24).

[2] Art. cit.

[3]  L. Maggi, art. cit.

[4] Ibid.

Il vaso debole … da non frantumare

a cura di Rebecca Ciociola e Giacomo Carlo Di Gaetano

L’espressione “vaso debole” si trova nella 1 Pietro (3:7), all’interno di uno dei tanti codici famigliari contenuti nel Nuovo Testamento. L’espressione dà il titolo alla risposta che quattro donne, tutte impegnate in un ministero cristiano o in una professione socialmente rilevante per il tema trattato, hanno fornito a tre domande che abbiamo rivolto loro come redazione del DiRS–GBU.

Federica Albano, si occupa per lavoro e per passione di educazione e temi sociali. Ha operato per diversi anni in un centro antiviolenza. Vive in Lombardia ed è membro di una chiesa evangelica di Milano.

Katia Lavermicocca, Psicologa psicoterapeuta, docente d’area psicologica e consulente per enti che hanno come destinatari minori e famiglie, è membro della chiesa di Cristo di Bari.

Rossana Zanetti Sciuto, Diaconessa della comunità della Chiesa Apostolica di Piacenza, laureata in Teologia, indirizzo Pastorale della famiglia. Impegnata nella Formazione Ministeriale della Chiesa Apostolica dove insegna Questione Femminile nella Chiesa nel corso dei secoli.

Anna Moretti, impegnata da anni in un ministero di formazione e consulenza per donne, membro dell’Assemblea dei Fratelli di Novoli a Firenze.

 

 

1) Nel 2024 il Viminale ha registrato più di 90 casi di femminicidio. 4 omicidi su 5 avvengono nell’ambito familiare ristretto o allargato. Cosa ti fanno pensare/quale realtà descrivono questi dati?

Federica:

Anche se sono passati tanti anni ed il tema è stato molto discusso, di fatto il problema non è regredito. Il dato mostra che la strada da fare è ancora lunga sia per lo Stato e la sua legislazione sia per i cittadini / e le cittadine, per il sentire comune e l’idea che si ha della violenza, rivittimazzando le vittime (p. es.: in fondo se l’è anche un po’ cercata).

Katia:

Il femminicidio rappresenta il gesto estremo di una violenza che ha alle spalle una realtà complessa di oppressione, di disuguaglianze, di abusi, di violenza nei confronti delle donne. Il dato registrato quindi mette in evidenza il punto di non ritorno di una complessità sociale, relazionale, etica che coinvolge le coppie e le famiglie in questi anni.

La famiglia è il luogo presente in maniera continuativa nella vita di molti uomini e donne. Luogo inteso come spazio psicologico in cui costruire la propria identità ed appartenenza. Laboratorio di esperienze vissute prima nella dimensione di figlio e successivamente nella dimensione di adulto, compagno o genitore. L’ambiente domestico o di relazione esclusiva di coppia può quindi diventare motore creativo in cui si impara il dialogo, l’ascolto, la gestione delle emozioni, delle proprie frustrazioni o per motivazione diverse, luogo di solitudine in connotazione negativa, quindi di difficoltà nell’andare verso l’altro.

Le forme che può prendere questa difficoltà in età adulta possono essere diverse; la violenza verso la propria compagna è una di queste. Lenore Walker (1979) descrive le tre fasi del ciclo della violenza. La prima fase è quella in cui si accende la tensione tra i partner e l’uomo violento manifesta un crescente nervosismo, un atteggiamento perennemente irritato, opaco e ambiguo che confonde la donna. Il distacco del partner è avvertito dalla donna come un potenziale segno di abbandono che la spinge ad evitare di contestare il proprio compagno od opporsi, assecondando ogni sua mossa ed ogni suo volere.
La seconda fase vede agire il maltrattamento sia fisicamente che verbalmente.
La terza fase, infine, è caratterizzata in genere da una finta riappacificazione. L’uomo violento si riavvicina alla donna giurando pentimento e pronunciando scuse e parole d’amore a profusione, venendo prontamente perdonato e riaccolto. Nei primi episodi di violenza, la fase della falsa riappacificazione dura generalmente più a lungo; al contrario, all’aumentare degli episodi violenti, la durata della riappacificazione si riduce. Questa fase costituisce una sorta di rinforzo positivo per la donna, che con l’alternarsi di ogni fase diventa sempre più dipendente da questo meccanismo e sempre più bisognosa di questo legame, seppur malato, mentre l’uomo violento acquista sempre più potere all’interno della relazione di coppia

Rossana:

Dal 1° gennaio al 17 novembre 2024, in Italia, sono stati commessi 98 femminicidi di cui 84 avvenuti in ambito familiare/affettivo; 54 di queste donne sono state uccise dal partner o ex partner (Fonte governativa). Questi dati sono allarmanti e sono il campanello d’allarme di un problema ancora più grande che è di difficile risoluzione. Sono il sintomo di una società malata, una società che ha perso la sua identità, una società fluida, dove i valori primari sono stati smarriti. Una società che non è in grado di offrire una parità ed un’uguaglianza di genere e che non riesce a garantire al cento per cento protezione ad una fascia più sensibile dei suoi componenti, una società che ha difficoltà a relazionarsi con i propri simili. In questa società la famiglia, che è il nucleo primario di una società civile, ha perso quel valore e quel ruolo fondamentale che aveva in passato.

Oggi, le famiglie sono deboli, non sono all’altezza del compito al quale sono chiamate. La società odierna impone ritmi e ruoli totalmente alterati e questo, secondo me, è il fattore scatenante di tanta violenza. Le donne hanno conquistato, a fatica, il diritto ad avere voce in capitolo e, contrariamente a 60/70 anni fa, quando i ruoli in casa erano ben definiti, oggi si ritrovano a dover spesso ricoprire anche il ruolo che dovrebbe essere dell’uomo. A causa dei ritmi serrati a cui si è spesso sottoposti la comunicazione è venuta meno, le relazioni si sono incrinate e spesso, diventano malate. La competizione fra i sessi è stata portata a limiti estremi e l’uomo non si riconosce più negli stereotipi che vengono proposti.

Ecco che scatta allora in lui il desiderio di reprimere la libertà delle donne, della propria donna che una volta era remissiva, forse anche troppo, e subiva in silenzio, e che oggi invece si ribella a condizioni di vita deprivanti.

La donna ha più consapevolezza dei suoi diritti ed è in grado di gestirsi da sola in ogni situazione. È indipendente sia socialmente che economicamente e questo, in una società che è ancora dichiaratamente patriarcale, è un elemento dirompente. Questo continuo confronto fra uomo e donna è il fattore scatenante di tanta violenza. L’uomo non riesce ad accettare che la propria donna sia in grado di prendere le decisioni da sola, che può scegliere di uscire con le amiche, che sia, in alcuni casi, economicamente più forte del proprio partner, che non abbia bisogno di un mentore che la guidi e la consigli in ogni cosa e che le gestisca la vita impartendo ordini. Tutto questo viene visto come una minaccia all’amor proprio, scatena un senso di impotenza e di inferiorità che va a minare tutte le sicurezze dell’uomo. Ecco che allora si scatena la voglia di riaffermare quella superiorità atavica che vede l’uomo maschio come essere dominante, come essere superiore dalla quale la donna deve dipendere in tutto e per tutto; scatta allora il possesso, la voglia di reprime ogni libertà faticosamente conquistata e, nel momento in cui l’uomo realizza che la donna non è disposta ad essere più succube di certe situazioni, dirompe la violenza, quella violenza cieca desidera annientare ed assoggettare a sé l’altro.

Anna:

Se hai mai fatto una lunga passeggiata in montagna, sai bene che cosa susciti vedere un rifugio: troverò cibo, una bevanda calda, avrò la possibilità di riposarmi, farò due chiacchiere per raccontare il mio pezzo di strada fino a lì.
Nel progetto di Dio, la casa, come quel rifugio, doveva essere il luogo privilegiato in cui ogni membro della famiglia trovasse nutrimento, protezione   e relazioni profonde e stabili. In quella casa doveva circolare l’amore.
Questo era il progetto, questa la destinazione d’uso.

Ma proprio perché la famiglia è un’idea di Dio, viene attaccata fin dalle sue fondamenta: il progetto viene riscritto e rimaneggiato, se ne propone un altro dove sono al centro io, dove comando io, dove ricevo dei servizi io, dove ti schiavizzo e se prendi il mio posto ti urlo dietro, ti strattono, ti picchio e se mi va e mi fa sentire meglio, ti tolgo di mezzo così quel posto a capotavola non lo prenderai mai più!
La famiglia: nel luogo per eccellenza in cui doveva circolare l’amore, non c’è più ossigeno, circola solo la paura, è lì che affermo il mio potere battendo il pugno, urlando parole cattive e offensive, facendo cose cattive e offensive.
Ti userò, non ti servirò, mi compiacerai in tutto, non ti ascolterò, ti sottometterò con violenze psicologiche dicendoti che tu non vali nulla, sei solo un’incapace.
Uomini che pensano di avere fra le mani oggetti e non persone, per cui come si butta via un piatto di carta usato, si butta via una donna, dopo averla usata.
Quante volte mogli e compagne amate “appassionatamente” sono finite a pezzi in sacchi della spazzatura? Quante volte sono state sfregiate perché non si riconoscessero più guardandosi allo specchio? Quante volte la violenza verbale le ha annichilite fino a ridurle allo stremo?

Il luogo dell’amore, la casa, trasformato nel luogo dell’orrore.

Il progetto di Dio cestinato. Quattro omicidi su cinque avvengono in famiglia, proprio perché nel progetto di Dio quello doveva essere il luogo più sicuro.
L’uomo riformula il progetto, si mette al posto di Dio, con conseguenze visibili sotto gli occhi di tutti: scarpe e panchine rosse di sangue.

 

2) L’ONU (Statistical framework for measuring the gender-related killing of women and girls, 2022) definisce i femminicidi, quelli che riguardano l’uccisione di una donna in quanto donna. Le tipologie sono diverse: si va dall’omicidio ( e dalle violenze) compiute e perpetrate dal partner, ai casi in cui anche a opera di uno sconosciuto, violenze e omicidi sono legati alle differenze e alle motivazioni di genere.

A tuo giudizio quali potrebbero essere le cause principali per l’incremento di questo fenomeno?

Federica:

Le cause sono da ricercare nella radicalizzazione della cultura patriarcale intesa come totale supremazia dell’uomo sulla donna, la considerazione della donna quale oggetto da mostrare / usare (p. es. la pornografia, la pubblicità, etc.), il poco ascolto dedicato alle testimonianze delle donne vittime di violenza, la difficoltà ad immedesimarsi nel loro vissuto, la scarsa presa di responsabilità e di distanza degli uomini, tutti gli uomini, rispetto alla violenza quando si manifesta.

Katia:

Il fenomeno della violenza di genere copre un panorama più ampio, in cui i termini differenza, disparità, disuguaglianza giocano un peso importante. Dal punto di vista psicologico, le differenze individuali che sono state oggetto di studio dei maestri della psicologia come Eysenck, per la definizione delle diverse personalità, possono essere viste come una risorsa o come un pericolo. Il diverso da me, chi non corrisponde ai miei schemi, può essere percepito come stimolante o come minaccioso. Utilizzando schemi personali troppo rigidi non possiamo conoscere la persona come veramente è, creando una barriera che ci difende e ci protegge. Le distanze generano pregiudizi, cioè un giudizio anticipato che non riflette il reale. Le distanze generano anche stereotipi, cioè opinioni precostituite. Il senso di pericolo percepito o di rifiuto del diverso può portare a violenze.

Fenomeno in incremento per una complessità di ragioni di matrice diversa, ma metterei l’attenzione sul paradosso creato dal conoscere il mondo attraverso i social media. Un canale di “esperienza” del mondo e delle persone in cui si è o attori o spettatori, e che quindi non permette il reale scambio tra persone in-situazione, cioè nella contingenza dello scambio vissuto reciprocamente, che è alla base dell’educazione alle differenze.

Rossana:

La prima cosa che mi sento di rispondere è la paura. Paura del confronto, paura di non essere più all’altezza del proprio ruolo e del proprio compito, paura di non essere più l’essere umano dominante, paura di relazionarsi con un essere pari a sé. Mentre le donne hanno acquisito consapevolezza di sé, hanno lottato per ottenere uguali diritti, anche se la strada per la vera uguaglianza è ancora lunga e difficile da raggiungere, sotto il profilo economico soprattutto, l’uomo vede in tutto questo una minaccia alla propria persona. Ancora oggi si fa fatica ad accettare il diritto della donna a non essere considerata oggetto e quindi, proprietà di qualcuno. La donna sceglie di gestire la propria vita come meglio crede, sceglie il proprio partner, sono finiti, almeno sulla carta, i tempi in cui i matrimoni venivano imposti. La donna occidentale ha facoltà di scegliere di studiare, farsi una carriera, lavorare fuori casa, di migliorare le proprie condizioni di vita. C’è altro oltre il marito/compagno ed i figli.

Alcuni uomini, quelli deboli, hanno difficoltà ad accettare tutto questo. Non riescono a sopportare che una donna, in quanto donna, abbia dei diritti, abbia facoltà di scelta, abbia facoltà di dare una direzione diversa alla propria vita. Non è ammissibile per loro. Il confronto li destabilizza e li spaventa, non riescono proprio ad accettare che un essere umano con caratteristiche fisiche diverse dalle loro sia in grado di autogestirsi. Gli uomini deboli si sentono minacciati da tanta sicurezza, non tollerano che una donna, in quanto donna, possa essere superiore rispetto a loro. Questo fa scattare il desidero di eliminare il soggetto per dimostrare la forza bruta, per dimostrare la loro superiorità fisica. Qualcosa che mette paura deve essere annientato, eliminato altrimenti finisce per eliminare te e questo, l’uomo debole non lo può accettare. Ecco che si sviluppa allora il pensiero criminale: ti uccido perché rappresenti una minaccia per la mia persona. Ti anniento per non essere sopraffatto. Ti elimino per affermare la mia virilità e la mia superiorità. In una società che si preoccupa di difendere i diritti di tutti, questo non è accettabile. Bisogna educare all’affettività fin da piccoli ed al rispetto dell’altro per evitare di diventare degli adulti che non sanno amare.

Anna:

La sensazione che provo nel rispondere a questa domanda è di smarrimento, sconfitta e ineluttabilità. Anche oggi, nella mia città, più di una donna proprio vicino a me, sarà picchiata, insultata, umiliata, controllata e questo, per il semplice motivo che è una femmina. Lei scambierà il controllo per amore, la gelosia morbosa per cura, le parole offensive per espressione di vera mascolinità.
Non so se la violenza nei confronti delle donne sia effettivamente aumentata, ritengo che in tempi non remoti sia stata normalmente accettata e quindi non denunciata. Guardare un film come C’è ancora domani di Paola Cortellesi, apre uno squarcio su una realtà che è delle nostre nonne e bisnonne. Una realtà fatta di silenzi assordanti, di soprusi quotidiani, di lotta per la sopravvivenza e di anelito costante alla libertà personale.
Se è aumentata la violenza nei confronti delle donne, così come si evince dai dati raccolti su più fronti, penso che ciò sia legato al fatto che è aumentata la violenza in generale. La cassa di risonanza dei social non discrimina fatti eticamente corretti da scorretti, quello che conta veramente sono i like, per cui si possono tranquillamente postare immagini, parole, idee che hanno la violenza e il sopruso al centro. Vedere determinate immagini o ascoltare determinate parole, soprattutto quando si è molto giovani, forma le coscienze.
È triste, ma una delle conseguenze del peccato di Adamo ed Eva che si ripercuote nelle nostre vite ancora oggi, nella giornata in cui si lotta per l’eliminazione della violenza sulle donne, è quanto Dio disse ad Eva. Forse si ricorda più facilmente il concetto legato al dolore del parto e si dimentica la realtà dei desideri di lei che si sarebbero rivolti verso di lui.
Le donne accettano un ultimo appuntamento, cercano un ultimo chiarimento, e ritengono lo schiaffo di oggi l’ultimo e invece vengono uccise domani. Le donne continuano ad essere relazionali e a cercare con lo sguardo l’amore vero nell’uomo che hanno accanto.
Non essere indifferenti ai segnali, aiutare chi ci chiede aiuto, non minimizzare, educare la nuova generazione al rispetto della femminilità, tutto questo può sviluppare la crescita di una sensibilità che porti a riconoscere le micro–violenze prima che si trasformino in macro.
Allora ci sarà… ancora domani!

 

3) Ragioniamo a partire dalla fede cristiana: questa è la nostra prospettiva. Quali risposte offre il vangelo a questa piaga terribile della nostra società?

Federica:

Dio condanna la violenza in ogni sua forma.
La Bibbia prevede ruoli definiti nella coppia ma richiama a modalità di rispetto reciproco nel rapporto uomo-donna. Il nostro obiettivo è tendere al modello divino che non è mai stato violento nei confronti del femminile.

Katia:

Può essere utile prendere spunto proprio dall’esperienza che Gesù ha con le donne del suo tempo, e dal modello di matrimonio successivamente proposto come mutuo servizio in cui sia l’uomo sia la donna sono fatti a immagine di Dio. Gesù è in relazione alla Samaritana e a Maria Maddalena non avendo timore della diversità e del giudizio che c’era su queste donne; il suo atteggiamento di apertura, disponibilità al “diverso da me” è anche in altre occasioni la chiave di svolta degli eventi e la rivoluzione del suo messaggio.

E nel matrimonio il mutuo servizio è poi la disponibilità ad accogliere ciò che l’altro è per me e cosa io posso essere per l’altro, presupposto che permette di ridimensionare aspetti di insicurezza, giudizio, violenza subita che possono “sciogliersi” nella relazione di supporto della coppia adulta

Rossana:

Come abbiamo visto, i femminicidi e tutti gli atti di prevaricazione perpetrati ai danni delle donne sono una terribile piaga sociale che sembra inarrestabile.
Alla luce del vangelo, possiamo provare a trovare una soluzione per cercare di arginarla? La mia risposta è: “Si!”
Sono perfettamente consapevole che molti, nella società odierna non conoscono il vangelo, il fattore religioso forse è uno degli elementi della società che è stato messo in standby perché, per essere politicamente corretti e non offendere il prossimo, non possiamo urtare la sensibilità altrui con la manifestazione della fede e della pratica religiosa ma dobbiamo sentirci chiamati in causa in quanto dobbiamo avere cura del nostro prossimo e dobbiamo presentare un’alternativa a questo scempio senza fine.

Dio è il donatore di vita, è per la vita e promuove la vita. Nella sua Parola ci dà una speranza, ci insegna che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi. Il problema è proprio questo, non ci amiamo abbastanza, non sappiamo chi siamo veramente, di conseguenza, non sappiamo più relazionarci fra noi simili. Dio, attraverso le meravigliose pagine del vangelo ci insegna l’amore, ci insegna quale sono i nostri ruoli. Davanti a Lui siamo uguali, non c’è distinzione fra uomo e donna, non c’è prevaricazione, non c’è possesso da parte dell’uomo nei confronti della donna ma c’è reciprocità, c’è complementarità, c’è collaborazione, c’è rispetto e ci deve essere amore. L’uomo è chiamato a prendersi cura della donna, deve vegliare su di lei amandola come Cristo ama la sua Chiesa, deve avere riguardo ad essa come se avesse a che fare con un vaso delicato, la deve onorare perché anche la donna è erede della promessa e della grazia, deve amarla come la propria persona, deve studiarsi di farla stare bene perché da questo ne riceverà grazia. Dio ha dato pari dignità all’uomo e alla donna e questa dignità non può e non deve essere calpestata per nessun motivo.

Ovviamente ci sono dei suggerimenti anche per le donne nei confronti dei propri mariti che devono essere messi in pratica ma credo che il compito maggiore sia proprio degli uomini che sono chiamati a proteggere la donna in quanto rappresenta, nel caso della propria moglie, la propria stessa carne. Non si può amare sé stessi e odiare chi ti sta accanto. Non è questo che ci insegna il Vangelo. Dobbiamo riscoprire la bellezza di vivere la nostra fede e non aver paura di testimoniare e mostrare al mondo che c’è un’alternativa a questa società che ci vorrebbe tutti uguali, automi che non hanno più sentimenti e che non sanno più provare emozioni.

Anna:

Il Vangelo è la buona notizia! La migliore buona notizia che sia mai stata raccontata in questo mondo violento.
Il Vangelo è la buona notizia di un cambiamento personale, di una trasformazione continua e radicale, profonda e strutturale. Il Vangelo è la buona notizia per cui non esiste l’ineluttabilità di “tale padre tale figlio”, il Vangelo è la buona notizia per un uomo violento che ha visto e sentito violenze fin da piccolo, ma che può, volontariamente, abbandonare parole e atti offensivi accettando Cristo nella propria vita.
Il Vangelo non è una favola rassicurante che finisce bene, il Vangelo è una storia vera che cambia le vite e che quindi cambia la società! Qualsiasi cultura, in qualsiasi parte del mondo, anche in Afghanistan dove è prassi uccidere le ragazze che non vogliono sposare il marito scelto dai parenti o in India dove le spose sono bambine ignare di tutto, o in Italia dove le donne rischiano ad uscire quando è buio e ancor più quando tornano a casa, anche qui l’Evangelo può cambiare radicalmente tutto.
I primi a dover sentire l’urgenza di raccontare questa buona notizia sono proprio i cristiani che credono fermamente nella potenza rinnovatrice di questo Vangelo.
Il sangue versato da Cristo, la violenza inaudita di cui è stato oggetto il suo corpo, le torture da lui subite, ci raccontano la storia di un Amore infinito e immisurabile fatto di parole e atti conseguenti, capace ancora oggi di trasformare il cuore dell’uomo più violento in qualunque parte del mondo lui si trovi a vivere. L’amore, dice la Bibbia, non fa mai male al prossimo!
Se la donna vicino a te percepisce un senso di dolore o paura quando le parli o quando ti avvicini a lei, quello non è certamente amore!

Rocco Siffredi, l’educazione sessuale e il Cantico dei Cantici

di Francesco Schiano
(Staff GBU – Napoli)

Il tema della violenza sulle donne è purtroppo costantemente in cima alla lista di quelli più discussi dei nostri tempi, e i tragici fatti di Palermo e Caivano hanno imposto una seria e complessa riflessione su responsabilità e possibili soluzioni al problema.

Hanno destato molto interesse alcune affermazioni della pornostar Rocco Siffredi, il quale ha denunciato alcune brutture dell’industria che rappresenta, rendendosi finanche disponibile a chiudere il suo stesso sito internet per favorire la limitazione dell’accesso dei più giovani alla pornografia e incentivare la loro educazione sessuale.
Il bisogno di un’efficace educazione sessuale è un punto sul quale tutti sembrano essere d’accordo. È abbastanza chiaro che non si tratti di fornire nozioni di anatomia, informare sul corretto uso di contraccettivi o mettere in guardia sulle malattie veneree; ciò di cui ci sarebbe bisogno è una vera e propria educazione sentimentale, che ricollochi il sesso nel giusto contesto di una relazione d’amore, o quanto meno di profondo rispetto reciproco.

Probabilmente non sarà la Bibbia il testo al quale si farà riferimento nel momento in cui si proporranno nuovi programmi per formare i nostri giovani, eppure proprio tra i libri della Bibbia ce n’è uno che sarebbe perfetto per questo scopo: il Cantico dei Cantici.
Teologi e commentatori della Bibbia, insieme a filosofi e altri pensatori, fanno molto spesso riferimento a 2 parole greche per spiegare la complessità dell’esperienza e della manifestazione dell’amore: Eros e Agape.

La prima descrive l’amore erotico, e più in generale l’amore per qualcosa o qualcuno che si desidera allo scopo di ottenere soddisfazione e piacere. Un amore fondamentalmente egocentrico e spesso egoista. La seconda parola, agape, descrive invece l’amore disinteressato, puro, concentrato sul bene dell’oggetto del sentimento.

Il Cantico dei Cantici è una straordinaria celebrazione dell’amore erotico, della passione romantica e dell’unione fisica tra due amanti; corregge l’associazione tra eros e impurità che dalla filosofia neoplatonica è entrata nella concezione cristiana del sesso.

Proverò a riassumere alcuni concetti esplicitamente contenuti nel Cantico, che, pur essendo un poema, non un manuale, è incluso nella raccolta della letteratura sapienziale della Bibbia, quella rivolta particolarmente alla formazione dei giovani.

I. L’amore sensuale è un dono meraviglioso.
Per accordare la concezione negativa del sesso con la presenza di un libro simile nella Bibbia, si è tradizionalmente considerato l’amore descritto nel Cantico come un’allegoria dell’amore di Dio per il suo popolo o di Cristo per la Chiesa; in realtà, però, questo poema descrive la bellezza e la potenza dell’amore romantico e sensuale in modo molto chiaro e diretto.

1:2 Mi baci egli dei baci della sua bocca,
poiché le tue carezze sono migliori del vino.
3 I tuoi profumi hanno un odore soave;
il tuo nome è un profumo che si spande;
perciò ti amano le fanciulle!

Ecco come si apre il poema, chiamando da subito in causa i cinque sensi e presentandoci la potentissima attrazione fisica tra i due amanti; da qui in poi è un crescendo che si conclude con l’unione sessuale della coppia.

II. Proprio l’apertura del poema, che vede la donna parlare per prima, ci suggerisce il prossimo fondamentale aspetto dell’educazione sessuale biblica: il rapporto tra uomo e donna è paritario. La cosa era sorprendente 2500 o 3000 anni fa, non dovrebbe esserlo adesso; eppure una delle considerazioni che ha messo praticamente d’accordo tutti i partecipanti al dibattito pubblico dei nostri giorni è proprio il maschilismo dell’etica sessuale dominante, che trasforma il corpo femminile in oggetto di piacere.

Per tutto il Cantico dei Cantici, l’amato e l’amata esprimono il loro desiderio, i loro sentimenti e il loro amore in modo reciproco, senza che nessuno risulti l’oggetto della conquista dell’altro.

 

III. Quest’ultimo pensiero è completato dal terzo concetto:
il proprio piacere si trova nel godimento dell’altro.
L’unione sessuale più appagante è quella nella quale gli amanti non cercano di ottenere piacere, ma di darlo l’uno all’altra. L’amore sensuale tende molto facilmente all’egocentrismo, ma può essere altruista e trovare soddisfazione nel darsi all’altro, può godere del piacere dell’altro.

  7:11 Io sono del mio amico,
verso me va il suo desiderio.
12 Vieni, amico mio, usciamo ai campi,
passiamo la notte nei villaggi!
13 Fin dal mattino andremo nelle vigne;
vedremo se la vite ha sbocciato, se il suo fiore si apre,
se i melagrani fioriscono.
Là ti darò le mie carezze.
14 Le mandragole mandano profumo,
sulle nostre porte stanno frutti deliziosi di ogni specie,
nuovi e vecchi,
che ho serbati per te, amico mio.

 

IV. L’amore romantico è esclusivo
Questo punto è probabilmente quello più controculturale. La riduzione dell’essere umano allo stato di animale evoluto, fa si che per molti parlare di monogamia sia quasi una violazione dell’ordine naturale delle cose. Eppure chiunque si sia mai innamorato sa che uno degli aspetti fondamentali dell’amore romantico è proprio la sua esclusività.

2 Quale un giglio tra le spine,
tale è l’amica mia tra le fanciulle.
3 Qual è un melo tra gli alberi del bosco,
tal è l’amico mio fra i giovani.

Ecco come si vedono i due amanti del poema biblico: al tuo confronto le altre sono spine; al tuo confronto gli altri sono un bosco indistinto.
Si può provare attrazione fisica per tante persone allo stesso tempo, ma l’amore sensuale celebrato in questo libro si può provare per una sola persona.

L’amore erotico, quello orientato alla soddisfazione di un bisogno personale, non è sbagliato in se stesso e non deve essere contrapposto all’agape, all’amore disinteressato; piuttosto deve esserne completato.  Ecco il principio fondamentale dell’educazione sessuale biblica: desiderio sessuale e piacere sessuale sono tra i doni migliori di Dio, ma possono essere vissuti in maniera completa solo mettendo l’amata al centro delle nostre attenzioni, amando il prossimo come noi stessi.
Dove troviamo il grande esempio di amore che dona se stesso per il bene dell’altro, se non nella croce di Cristo? È in questo senso che il Cantico dei Cantici ci parla dell’amore di Cristo per la Chiesa, e nel fornirci un modello per la nostra vita sentimentale e sessuale ci spinge verso l’unica speranza di salvezza per il mondo e per ogni singolo essere umano.

 

Pur non essendo pienamente in accordo con alcune delle conclusioni dell’autore, sono in debito, per la maggior parte degli spunti di riflessione presentati in questo breve articolo, con il testo di H. Gollwitzer, edito da Claudiana, Il poema biblico dell’amore tra uomo e donna.
Di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU, Ian M. Duguid, Cantico dei Cantici. Introduzione e commento, Collana Commentari all’Antico testamento (CAT)