Il cristianesimo in tempi di epidemie

(John Wyatt)

Nel mondo antico le epidemie erano una fonte di terrore. Si sarebbero abbattute sulle città dell’Impero romano portando devastazione. Quella che viene chiamata l’epidemia di Cipriano fu una pandemia che afflisse l’Impero romano all’incirca dal 249 al 262 d.C. In questo periodo, al culmine della sua esplosione, si disse che nella stessa città di Roma morivano 5000 persone al giorno.

Ponzio di Cartagine scrisse una descrizione di prima mano: «In seguito, scoppiò una terribile piaga (peste), e l’eccessiva distruzione di destabile malattia invase ogni casa, una dopo l’altra, della popolazione tremolante, portando via giorno dopo giorno, con rapidità improvvisa innumerevoli persone, ciascuna dalla propria casa. Tutti tremavano, scappavano, cercavano di scansare il contagio, mettendosi empiamente a contatto con i proprio amici, esponendoli a rischio, come se, con l’esclusione della persona che sicuramente sarebbe morta di peste, uno potesse respingere anche la morte stessa. Intanto, ricoprivano tutta la città, non più di corpi, ma di carcasse di tanti e, la contemplazione di una sorte che a turno sarebbe stata la loro, esigeva che gli stessi passanti avessero compassione per se stessi. Nessuno considerava altro che il proprio crudele egoismo. Nessuno tremava al ricordo di un evento simile. Nessuno faceva all’altro quello che egli stesso avrebbe voluto sperimentare… »

Sorprendentemente, non ci sono giunti dei resoconti di prima mano relativi ai sintomi clinici e ai segni esteriori della piaga da parte dei medici ippocratici del tempo. Sebbene fossero rendicontate le descrizioni cliniche di molte altre malattie è stato notato che le descizioni mediche coeve della piaga sembrano vaghe e semplicistiche.

Perché? Sicuramente una ragione sta nel fatto che alle prime avvisaglie della piaga i medici ippocratici avrebbero disertato le città e sarebbero fuggiti nelle campagne per mettersi in salvo! Quando l’epidemia mise in pericolo Roma, il grande medico Galeno si spostò rapidamente in una tenuta di campagna dell’Asia Minore dove vi rimase fino a che non passò il pericolo.

Nell’opera ippocratica De arte lo scopo del medico era definito come «l’eliminazione della sofferenza del malato, ridurre la virulenza delle malattie e rifiutare coloro che sono già dominati dai loro malanni con il rendersi conto che in tali casi la medicina è impotente». Curare chi stava morendo equivaleva probabilmente a gettare discredito sulla reputazione della professione e mettere a rischio la fiducia nella capacità di guarire del medico.


È dunque notevole il fatto che fu un vescovo cristiano, Ciprano, che ci ha fornito la più accurata e dettagliata descrizione clinica dell’antica piaga: «Queste erano indicate come prova: mentre la forza del corpo si dissolve, le viscere si dissipano in un flusso; un fuoco che inizia nelle parti più profonde sale e brucia le ferite nella gola; gli intestini si scuotono a causa di un perpetuo vomitare; gli occhi bruciano per la pressione del sangue; ad alcuni, l’infezione della putrefazione mortale mozza i piedi o altre estremità; e mentre prevale la debolezza per i fallimenti e le perdite dei corpi, si paralizza il passo si perde l’udito si resta ciechi».


La descrizione di Cipriano ci fa pensare che la piaga del terzo secolo di cui egli fu testimone possa essere stata un’infezione virale emorragica, altamente infettiva e letale, simile al virus di ebola, sebbene continui il dibattito sulla natura di queste antiche epidemie.


Ciò che è chiaro è che c’erano scene di orrore – le strade piene di corpi sanguinanti dei moribondi e c’era il disperato tentativo della popolazione di salvarsi quali che fossero le conseguenze per gli altri. Qui c’è un’altra testimonianza di Dionigi di Alessandria: «Alla prima manifestazione della malattia i pagani allontanavano i malati e fuggivano dai loro cari gettandoli nelle strade prima che fossero morti e lasciavano i loro corpi non sepolti come si trattasse di immondizia, sperando così di evitare la diffusione e il contagio della malattia fatale; facevano quel che potevano ma era difficile per loro sfuggire …».


Eppure in molte di quelle città dell’Impero romano c’era un piccolo corpo di credenti, spesso osteggiati e stigmatizzati come “atei” (per il fatto che nelle loro case e nei loro luoghi di radunamento non c’erano state e idoli) oppure definiti “galilei”. Come reagivano in questo tempo di distretta e orrore? Scappavano anch’essi in campagna per salvare le proprie vite?

Il racconto di Dionigi prosegue: «La maggior parte dei nostri fratelli, dunque, senza avere alcun riguardo per se stessi, per un eccesso di carità e d’amore fraterno, accostandosi gli uni agli altri, visitavano senza preoccupazione gli ammalati, li servivano meravigliosamente, li soccorrevano in Cristo e morivano assai gioiosamente con loro; contagiati dal male degli altri, attiravano su di sé la malattia del prossimo e ne assumevano volentieri le sofferenze. Molti poi, dopo aver curato e ridato forza agli altri, morirono essi stessi [ . . . ]».


Seguendo l’esempio di Cristo i cristiani credenti offrivano cure compassionevoli ai loro vicini pagani – accogliendoli nelle loro case, lavando le ferite, pulendo il sangue e gli effetti delle perdite, offrendo acqua, cibo e medicinali di base, «li soccorrevano in Cristo», anche se sapevano che esponevano se stessi a un rischio estremo.


Il mondo antico non aveva mai visto qualcosa del genere. Rodney Stark, uno storico della società ha intrapreso un’analisi dettagliata gingendo alla conclusione che le azioni dei cristiani al tempo dell’epidemia fu uno dei fattori più importanti nella crescita esplosiva della chiesa cristiana in questo periodo.


Quando ho letto questi racconti mi sono sentito indegno di portare lo stesso titolo di un servo cristiano. Quanto poco ho sperimentato il costo della cura simile a quela di Cristo se i paragono alle mie sorelle e ai miei fratelli del terzo secolo.
Ma nei secoli successivi i servi cristani si sono comportati allo stesso modo dalla storia tragica della piaga dell’epidemia di Cipirano del 250 fino all’epidemia di ebola del 2014 e fino ad oggi. Molti degli infermieri e dei dottori della Sierra Leone che hanno sacrificato le loro vite per curare le vittime di ebola erano cristiani credenti. Sapevano che l’equipaggiamento protettivo era scadente e che nonostante tutte le loro precauzioni, non avrebbero potuto difendersi. Eppure essi si sono presi cura, come le loro antiche sorelle e i loro fratelli che ministrarono ai malati nel nome di Cristo.


Non ho dubbi che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi verranno fuori le storie di sacrificio eroico. Va detto che nel mondo moderno non sono solo i cristiani credenti che si sacrifiano nella cura degli sconosciuti. Dobbiamo celebrabre l’impegno nella cura di tutti a prescindere dal loro credo o motivazione. E naturalmente, come professionisti dobbiamo essere sapienti nel prendere le precauzioni, sì da poter continuare a curare il più possibile, piuttosto che infettarci anche noi. Ma non dobbiamo dimenticare la nobile storia del cristianesimo in tempi di epidemia, ricordando le parole di Gesù, come fecero i primi cristiani: « In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me» (Matteo 25:40).

John Wyatt è Professore emerito di Neonatal Paediatrics alla UCL e Senior Researcher presso il Faraday Institute for Science and Religion, dell’Università di Cambridge

In italiano si può leggere, dello stesso autore, Questioni di vita e di morte. Dilemmi moderni alla luce della fede cristiana, Edizioni GBU, 2018.


L’articolo è stato ripreso dal blog di CMF (Chrisrian Medical Fellowship) ed è stato tradotto con permesso. (https://cmfblog.org.uk)

UN SALMO PER L’EPIDEMIA: LA FIDUCIA TRIONFA SULLA PAURA

di Pablo Martinez (Spagna)
Traduzione di Daniela Buraghi

“Chi abita al riparo dell’Altissimo riposa all’ombra dell’Onnipotente.
Io dico al Signore: “Tu sei il mio rifugio e la mia fortezza, il mio Dio, in cui confido!”

Il Salmo 91, chiamato anche l’”Inno trionfale della fiducia”, è un gioiello. Ha dato respiro e pace a milioni di credenti che attraversavano il fuoco della prova. Secondo alcuni commentatori venne scritto nel bel mezzo di un’epidemia di peste (2 Samuele 24:13). Potrebbero essere state circostanze simili a quelle che stiamo vivendo oggi. Quindi, il suo messaggio è particolarmente rilevante per la nostra situazione attuale di epidemia.

Viviamo giorni di ansia e incertezza. Il mondo intero ha paura. All’improvviso abbiamo preso coscienza della fragilità della vita. Che cosa succederà domani? La fortezza nella quale l’uomo contemporaneo si credeva al sicuro è diventata debolezza, ci sono delle crepe nella roccia e noi ci sentiamo vulnerabili. La gente va in cerca di un messaggio di serenità e tranquillità. Dove trovarlo?

Il messaggio del Salmo 91 si riassume in una frase: la fiducia trionfa sulla paura.
Il salmista ci presenta tre frasi chiave che riassumono il “percorso” dall’ansia e dalla paura verso la fiducia:

“Il Mio Dio”: ciò che Dio è per me
“Egli ti libererà”: ciò che Dio fa per me
“Confiderò”: la mia risposta

1- “IL MIO DIO”: IL CARATTERE DI DIO

Il salmo inizia con un’illuminante descrizione del carattere di Dio. Nei due versetti iniziali si menzionano perfino quattro nomi diversi per spiegare chi è com’è Dio. Uno straordinario ingresso nella fiducia! Per il salmista Dio è l’Altissimo, l’Onnipotente, il Signore (Yahweh) e il Dio Sublime.

La consapevolezza della grandezza di Dio è il fondamento della nostra fiducia. Potremmo parafrasare il proverbio e affermare “dimmi com’è il tuo Dio e ti dirò com’è la tua fiducia”. Nel momento del timore il primo passo è alzare gli occhi al cielo, guardare a Dio e contemplare la sua grandezza e le sua sovranità. Nel farlo, il salmista sperimenta che Dio è il suo Riparo, la sua Ombra, il suo Rifugio e la sua Fortezza. Il ritratto di Dio in “quattro dimensioni”comporta una quadrupla benedizione. Conoscere come Dio è realmente è un passo imprescindibile nel percorso verso la fiducia.

Tuttavia, notiamo che il salmista si riferisce a Lui come il Mio Dio. Questa piccola parola, “mio”, ci apre una prospettiva particolare e cambia molte cose: il Dio del salmista è un Dio personale, vicino, che interviene nella sua vita e si preoccupa dei suoi timori e delle sue necessità. Siamo di fronte a uno dei tratti più caratteristici della fede cristiana: Dio non è soltanto l’Onnipotente, il creatore dell’Universo, ma anche un padre intimo, l’Abba (“papà”) che mi ama e mi protegge (Galati 4:6). Questo è il nostro grande privilegio: Dio ci tratta come un padre tratta i suoi figli perché in Cristo siamo fatti figli adottivi di Dio. Il salmista descrive questa esperienza con una bellissima metafora:

“Egli ti coprirà con le sue penne e sotto le sue ali troverai rifugio”. (v4)

2- “EGLI TI LIBERERÀ”: LA PROVVIDENZA DI DIO

“Certo egli ti libererà dal laccio del cacciatore e dalla peste micidiale… La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Tu non temerai… né la peste che vaga nelle tenebre, né lo sterminio che imperversa in pieno mezzogiorno… Nessun male potrà colpirti, né piaga alcuna s’accosterà alla tua tenda.” (v. 3-6,10)

Arriviamo al cuore del salmo: la protezione di Dio nella pratica. La conoscenza della grandezza di Dio deve essere accompagnata dalla consapevolezza della provvidenza di Dio. Siamo arrivati ad un punto cruciale, decisivo, dell’esperienza di fede. Se lo comprendiamo bene, sarà una fonte insuperabile di pace e serenità, però se lo interpretiamo male possiamo cadere in errori ed estremismi, oppure sentirci frustrati nei confronti di Dio.

La manipolazione del diavolo. È molto significativo che il diavolo tentò Gesù (Matteo 4:6, Luca 4) con una doppia citazione da questo salmo: “Poiché egli comanderà ai suoi angeli di proteggerti… Essi ti porteranno sulla palma della mano, perché il tuo piede non inciampi in nessuna pietra.” (v.11-12). Usare male le promesse della protezione divina è una tentazione molto di moda ai nostri giorni. Fate attenzione alla super spiritualità e alla super fede! Può essere un modo di tentare Dio, come ci insegna la risposta schiacciante di Gesù a Satana: “Non tentare il Signore Dio tuo” (Matteo 4:7). Confidare in Dio non ci esime dal comportarci in modo responsabile e saggio.

Detto questo, non possiamo minimizzare la potente azione protettrice di Dio sopra coloro che confidano in lui:

“Poich’egli ha posto in me il suo affetto, io lo salverò; lo proteggerò, perché conosce il mio nome. Egli m’invocherà, e io gli risponderò; sarò con lui nei momenti difficili; lo libererò e lo glorificherò.” (v. 14-15)

Una polizza per tutti i rischi? La parola chiave è “liberare”. Che cosa significa “Dio ti libererà”? La medesima espressione si applica a Giuseppe – “Dio lo liberò da ogni sua tribolazione” (Atti 7:10), tuttavia il patriarca dovette passare per molte valli dell’ombra della morte. Dio non gli evitò la prova, però lo riscattò da essa. Come disse Spurgeon, “è impossibile che nessun male accada a coloro che sono amati da Dio”. La fede non garantisce l’assenza della prova, ma garantisce la vittoria sopra la prova. L’apostolo Paolo sviluppa questa idea in forma magnifica nel cantico di Romani 8:28-39: “in tutte queste cose (le prove), noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati, Cristo.”

Quindi, la fede in Cristo non è un vaccino contro tutti i mali, bensì una garanzia di totale sicurezza, la sicurezza che “se Dio è per noi, che sarà contro di noi?” (Rom. 8:31). Questo salmo non è una promessa di completa immunità, ma è una dichiarazione di piena fiducia. Fiducia nella protezione di Dio espressa in tre maniere.

La tripla “C” della protezione di Dio. In ogni situazione di prova,

Dio conosce
Dio controlla
Dio ha cura (di me)

Nella vita dei figli di Dio nulla avviene senza la sua conoscenza e il suo assenso. Il caso non esiste nella vita del credente. La maestosa provvidenza del Dio personale risplende nei momenti più oscuri: “Cadranno al tuo lato in mille e diecimila alla tua destra; ma a te non arriveranno.” Niente succede se Lui non lo permette, come vediamo molto chiaramente nell’esperienza di Giobbe. Questa promessa viene ratificata dal Signore Gesù stesso:

“Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure non ne cade uno solo in terra senza il volere del Padre vostro. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque; voi valete più di molti passeri.” (Matteo 10:29-31, Luca 12:6-7).

3 -LA MIA RISPOSTA: “CONFIDERÒ”

Dopo avere contemplato il carattere di Dio – ciò che Egli è per me – e la sua provvidenza – ciò che Egli fa nella mia vita – il salmista esclama con fermezza: “il Mio Dio, in cui confido!”.

È una sequenza logica. La fiducia è la risposta a delle certezze. Il salmista ha conosciuto Dio in maniera personale, intima – “perché conosce il mio nome” (v.14). Una tale conoscenza lo porta a innamorarsi di Lui – “ha posto in me il suo affetto” (v.14) e si stabilisce una relazione stretta. Qui troviamo, certamente, la sostanza della fede cristiana: è la fiducia che nasce da una relazione d’amore, la certezza che l’amato non mi tradirà perché “Egli (Dio) è fedele”.
La nostra vita non è in balia di un virus, ma è nelle mani di un Dio Onnipotente. In questo è radicata la certezza della nostra fede e il fondamento della fiducia che vince tutti i timori. Non c’è posto per i trionfalismi, ma certamente c’è un trionfo. È il trionfo che Cristo ci ha assicurato con la sua vittoria sopra il il male e il maligno alla Croce. È lo stesso Cristo le cui ultime parole furono:

“Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente”. (Matteo 28:20)

Di Pablo Martinez potete leggere in italiano i seguenti libri, tutti editi da Edizioni GBU:
Abba Padre. Teologia e psicologia della preghiera (1998)
La spina nella carne. Come trovare forza e speranza nella sofferenza (2011)
Inseguendo l’arcobaleno. Oltre il dolore, il lutto e le separazioni (2014)

Di prossima pubblicazione:
Abbi cura di te stesso. Sopravvivere e progredire nel servizio cristiano (giugno 2020)
Gesù: pazzo o Dio? A proposito della più brillante delle menti (giugno 2020)

La fede e la scienza ai tempi del coronavirus

Nicholas Wolterstorff, filosofo americano, all’inizio della sua carriera scrisse un piccolo libretto dal titolo The reason within the bounds of Religion (1976): il titolo faceva il verso alla ben più famosa opera di Immanuel Kant, La religione nei limiti della semolice ragione (1792). L’intento era abbastanza chiaro: rilevare che, contrariamente al programma illuministico, esemplificato dal pensiero del filosofo di Konigsberg, la religione continuava ad allungare le sue propaggini in tutti gli ambiti dell’esistenza umana; la ragione, lungi dall’essere autonoma e deliberante in maniera assolutistica nel campo del sapere e dell’etica (tentativo questo già compiuto, per altri versi, da Schleiermacher) doveva fare i conti con quei “motivi di fondo” che molte correnti di pensiero dell’inizio del ‘900 rimandavano alla religione.

La neutralità in campo filosofico, ma anche scientifico, era un “mito” (per citare il titolo di un’altra opera del 1991, (The myth of religious neutrality) per certi versi riferibile al testo di Wolterstorff.

Ma proprio in quel piccolo libretto il filosofo nordamericano, nel tentativo di spiegare in che modo interagiscono queste due mega–strutture dell’esistenza umana, la religione e la ragione, e fondando la tesi dell’imprescindibilità della dimensione religiosa, pronuncia una piccola parola di precauzione. Nel dire ai sostenitori della ragione pura e, di conseguenza, della sola scienza considerata guida per la propria vita, che è necessario prendere in carico i motivi di fondo religiosi, afferma anche che ci sono momenti in cui la comunità di fede deve prestare attenzione alla ragione, alla scienza e alla comunità scientifica. Arrivando addirittura a modificare le proprie convinzioni “religiose” e, al limite, anche le proprie interpretazioni della Bibbia.

L’esempio per questo audace pronunciamento – audace per un credente – è, naturalmente, l’affaire Galileo, un passaggio storico in cui venne richiesto esplicitamente alla comunità di fede un cambiamento di lettura del testo biblico sulla base di precise indicazioni scientifiche e filosofiche.

Il matematico di Oxford John Lennox, negli ultimi anni, ha fatto molto per dimostrare la tesi secondo la quale dietro le rivoluzionarie assunzioni di Galileo c’era una visione del mondo cristiana, ergo, che dietro la scienza moderna c’è la Bibbia (I sette giorni della creazionexi, Edizioni GBU). Ma tuttavia il clima che la vicenda Galileo provocò rivelò quanto fosse difficile e complicato per la comunità di fede sottomettersi all’autorità della scienza empiricamente affermata e modificare le peroprie convinzioni e la propria lettura del testo biblico.

Nel Vangelo di Matteo viene narrato un miracolo compiuto da Gesù e consistente nella guarigione di un lebbroso (cap 8): questi, rompendo le convenzioni della profilassi del tempo, si avvicinò a Gesù giungendo fino a un contatto fisico con il Maestro. Nel breve dialogo di cui rende conto il Vangelo il lebbroso ha modo di esprimere la sua forte convinzione di fede, (convinzione che riecheggia anche negli altri miracoli dei capp. 8 e 9 di questo Vangelo: il centurione, il paralitico, la donna dal flusso di sangue, etc.): se tu vuoi tu puoi. Alla fine, il lebroso è guarito e il tocco di Gesù con il quale fu operato il miracolo ha avuto un’enorme risonanza nella storia degli effetti del testo (dalle pagine de I promessi sposi a Madre Teresa di Calcutta, etc.).

La fede, la fede cristiana biblica, quella che prende sul serio la narrazione biblica considerandola Parola rivelata di Dio, è il luogo dell’impossibile, il campo in cui tutto ciò che l’uomo costruisce o che riesce a spiegare può essere sconvolto dall’azione potente del Dio vivente (a Dio ogni cosa è possibile, Mt 19:26). Da sottolineare: la nozione di un Dio vivente per i cristiani non è una nozione astratta ma una che prende corpo e si rafforza grazie al racconto evangelico della risurrezione dai morti di un essere umano (Gesù di Nazaret), il quale proprio in virtù della risurrezione fu proclamato Signore (Atti 2 – lo era anche prima). La fede cristiana crede dunque nella rottura dei vincoli, nello scompaginamento delle barriere, anche sanitarie, che l’uomo può erigere in virtù della potenza di Dio. Interi movimenti di risveglio nella storia del cristianesimo stanno lì a dimostrare che la potenza di Dio, e dello Spirito, è attiva, quando si hanno le lenti giuste per identificarla. Il dibattito cessazionista (se cioè i doni spettacolari e miracolosi dello Spirito non fossero limitati esclusivamente – fossero cessati – all’epoca apostolica) a fronte della crescita esponenziale del movimento carismatico appare anacronistico.

Queste convinzioni cristiane sono divenute particolarmente battagliere negli ultimi vent’anni, nella stagione di quello che è stato definito il nuovo ateismo, quando cioè pensatori di varia estrazione hanno messo sul banco degli imputati la fede in un Dio onnipotente (in inglese si dice dock e God in the dock era già il titolo di un saggio di C.S. Lewis, ed 1979). La fede in un Dio onnipotente, di fatto inesistente, hanno sostenuto questi pensatori, è una fede pericolosa, dannosa. L’orizzonte principale di questa polemica era la violenza terroristica – le religioni e il cristianesimo in particolare sono la madre di tutta la violenza umana (si veda in proposito Dio è un Dio violento?, Edizioni GBU, 2018). L’accusa era rivolta a quella fede che, partendo dall’esistenza non provata di Dio, costruiva una vera e propria visione del mondo. Lo scontro è stato molto duro. Da questa stagione, e dai dibattiti Dio esiste/Dio non esiste, è emerso una sorta di nuovo dilemma etico: sottomettersi alla scienza o sottomettersi alla religione e alla fede cristiana? Le forze in campo infatti si confrontavano come forze onnicomprensive che richiedevano una vera e propria adesione totale.


Poi sono arrivate le notizie da Wuhan, e il paziente 1 di Codogno, e il coronavirus ha imperversato!

Che ne è del dibattito tra scienza e fede alla luce dello scenario che stiamo vivendo? Sto scrivendo all’indomani della dichiarazione da parte del Governo italiano dell’Italia “tutta” come zona protetta (10 marzo 2020).

La parola d’ordine oggi è quella di seguire una serie di regole di comportamento tutte discendenti da alcune assunzioni scientifiche. Ci viene chiesto, in soldoni, di sottometterci all’autorità della scienza.

Dawkins sembra essere in vantaggio, a questo punto!

Continua la lettura in Lutero e l’epidemia. La fede ai tempi del coronavirus

Tre domande a Jonathan Lamb sulla Brexit

Jonathan Lamb

Nel mentre sto scrivendo molti dei miei amici e famigliari, di fatto tutti i miei connazionali inglesi, hanno celebrato oppure hanno fatto cordoglio per la nostra recente separazione dall’Europa. Durante la mia vita niente è stato così divisivo e polarizzante nella società britannica come questa questione. Essa ha fatto venir fuori differenze sostanziali in ordine a identità, cultura e tradizioni ed è stata caratterizzata da una retorica divisiva, segnata dalla perdita del garbo nel dibattito pubblico, e aizzata da posizioni stridenti sui social media. L’intero dibattito è stato amplificato dalle tribù cibernetiche che sembravano incapaci di espressioni sfumate o di legittimare posizioni di compromesso o finanche incapaci della cortesia dell’ascolto. Tutto ciò che è accaduto provoca degli interrogativi di fondo.

Chi ha ragione?

Dobbiamo sicuaramente ammettere che, come in tutti i dibattiti nazionali, ci sono motivazioni e importanti argomentazioni da entrambe le parti. Per coloro che desideravano separarsi (to leave) le preoccupazioni includevano la necessità di una gestione sapiente dell’immigrazione, il problema della sovranità nazionale (espresso dal ritornello «riprendiamoci il controllo» “take back control”), e la libertà di sviluppare nuove opportunità commerciali. Queste preoccupazioni evidenziano l’importanza della libertà, della democrazia, della trasparenza e della responsabilità.

Per coloro entusiasti di continuare a far parte dell’Europa (to remain) i temi erano costituiti dalla vitale importanza di una forte partnership economica con i nostri vicini, una posizione proiettata verso l’esterno rappresentato dalle diverse culture e i diversi popoli del mondo e un convinto sostegno a una significativa alleanza che ha garantito la pace in Europa per 70 anni. Queste preoccupazioni rivelano l’importanza dell’interdipendenza, dell’aperture, della diversità e della generosità.

Il fatto è che entrambe le parti del dibattito contengono delle verità che devono essere riconosciute e portate avanti e da solo questo fatto spiega perché un semplice referendumo binario “si/no” sia stato un meccanismo veramente povero per prendere una simile, significativa decisione. Inoltre, la scelta binaria ha portato a una polarizzazione a partire dalla quale non è più possibile giustificare l’altra parte o riconoscere la forza dell’argomentazione dell’altra persona, in pratica si è trattato di una ricetta adatta per ulteriori divisioni.

Che cos’è che è importante?

È evidente che al momento ciò che serve maggiormente nella società britannica è una narrazione unficante e resta il dubbio se esista una leadership politica capace di creare una cosa del genere nonché una opinione pubblica vogliosa di abbracciare una simile narrazione.

Così come la cosa è stata presentata sembrava una semplice scelta, ma le ragioni che soggiacciono alla polarizzazione sono molteplici. C’è un bisogno urgente di una maggiore eguaglianza sociale ed economica, molta più empatia nel dibattito sociale, una grande volontà di forgiare coalizioni piuttosto che apprfondire le linee di divisione e un’atmosfera aperta in cui possiamo ascoltarci attentamente gli uni gli altri piuttosto che alzare la voce a partire dalle nostre posizioni. 

E mentre riflettiamo sull’Europa, molti di noi provano una notevole tristezza per il fatto che, ai nostri numerosi cittadini e residenti all’interno dell’UE e oltre, siamo apparsi ostili – altro tema questo che necessita di essere risolto positivamente affinché l’integrazione sociale sia incentivata e la nazione benefici della ricca diversità della sua popolazione. Non c’è spazio per i crimini di odio, gli atteggiamenti razzisti o quelli rabbiosamente polarizzati. Quale che sia la nostra idea della Brexit, per una popolazione isolana come quella britannica fa bene ricordare la nstra dipendenza dagli altri. “Nessun uomo è un’isola” dichiarò John Donne 400 anni fa aggiungendo che “ogni uomo è un pezzo di un continente”. In un tempo più vicino al nostro, Martin Luther Kijng Jr. epresse l’importanza dell’interdipendenza quando disse: “prima che finiate la vostra colazione di questa mattina, avete sperimentato la dipendenza da più della metà del mondo”.

Nel giorno della seprazione dall’Europa, il Primo Ministro inglese ha sostenuto che un bisogno urgente per l’Inghilterra è quello “che inizi la guarigione”. Come può accadere tutto ciò?

Qual è il prossimo passo?

Come membro della famiglia cristiana britannica ed europea condivido la convinzione di molti milioni sparsi nel continente e secondo la quale il vangelo parla direttamente alla nostra situazione e offre la speranza per un nuovo futuro. A livello personale come comunitario o nazionale la risposta alle sfide non è “l’egoismo”. I problemi all’interno delle nostre società europee che inquietano di più e che si sono affacciati nella mia nazione riflettono atteggiamenti e comportamenti profondamente radicati e che spesso emergono quando rigettiamo i valori della fede cristiana nella nostra vita personale e pubblica. Ciò risulta non solo nella frammentazione e nella divisione ma spiega anche gli atteggiamenti egoistici, collerici e pieni di odio e di orgoglio che sono stati in evidenza nel dibattito pubblico e nei social.

In un periodo di turbolenza, intorno alla metà del ventesimo secolo, il Ministro degli Esteri francese Robert Schuman sostenne che la ricostruzione era possibile unicamente “in un’Europa profondamente radicata nei valori cristiani” e in questo fu accompagnato da altri leader europei per la costruzione di un progetto che doveva portare a una nuova e salutare partnership nel continente. La stessa cosa è vera oggi: i valori contano. Il vangelo ha tanto da dire a proposito della dignità e del valore di tutte le persone, quale che sia la loro cultura, nazionalità, classe o genere. L’apostolo Paolo si accorse che avendo conosciuto Gesù Cristo la sua visione delle altre persone ne er stata trasformata: “da ora in poi, noi non conosciamo più nessuno da un punto di vista umano” spiegò ai Corinti (2 Cor 5:16). Non giudichiamo la gente a partire dallo standard del successo terreno ma vediamo ognuno fatto all’immagine divina e come qualcuno per il quale Cristo è morto. In una società divisa la comunità cristiana è chiamata a modellare la guarigione, la riconciliazione e l’interdipendenza, cose alle quali il Primo Ministro inglese oggi si appella. In realtà, è possibile vivere tutto ciò solo quando noi stessi ci siamo riconciliati con il Dio che ci ha fatti.

Questo concetto è espresso più chiaramente da Gesù stesso. Non solo invitò i suoi discepoli ad amare il prossimo come se stessi ma andò anche oltre: “Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano … e infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? (Mt 5:43-47). È questa la ragione per la quale l’insegnamento e l’esempio di Gesù sono così controculturali e hanno avuto un impatto così profondo sugli individui e sulle società intorno al globo. Essi scalzano l’arroganza autocentrata e l’indipendenza e richiamano all’umile dipendenza da Dio, la fonte di ogni saggezza e verità, e il cui scopo in Cristo è quello di stabilire un “nuovo uomo” (Ef 2:15). 

Questa è la profonda visione che dovrebbe modellare le nostre speranze per il nostro futuro personale, nazionale e continentale.

Jonathan Lamb è autore e insegnante biblico. Molti dei suoi libri sono stati pubblicati da Edizioni GBU

Tre domande a Emanuele Negri sui Coronavirus

  1. Cosa sono i Coronavirus?

I Coronavirus sono una famiglia di virus ampiamente diffusa nella popolazione umana e sono in genere considerati insignificanti per quanto riguarda la loro pericolosità. Possono causare sintomi come il comune raffreddore arrivando ad essere responsabili del 10-30% delle malattie respiratorie acute. Sono però presenti anche in altre specie animali. Solitamente non c’è passaggio da una specie all’altra, ma a volte succede e questo può causare l’insorgenza di un “nuovo” virus con caratteristiche diverse per scambio di materiale genetico. Il nuovo virus diventa quindi potenzialmente importante a seconda della capacità di essere trasmesso tra uomini, del nuovo “aspetto” che lo rende sconosciuto al nostro sistema immunitario, della sua virulenza cioè della capacità di causare una malattia più o meno grave.

Con i Coronarovirus tutto questo è già successo in altre due occasioni: nel 2002 con il virus responsabile della SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) e nel 2012 con quello responsabile della MERS (Middle East Respiratory Syndrome). Per la SARS le persone coinvolte (intese come infette accertate cioè con isolamento del virus) furono circa 8000 con un 10% di morti ed un 20-30% di ricoveri in terapia intensiva. La MERS ha coinvolto in forma più episodica circa  2500 con una mortalità del 30% ed un 50-80% di ricoveri in terapia intensiva.

  1. Quali sono i rischi di questo nuovo virus?

Pur essendo, per quanto sappiamo fino ad oggi, molto meno pericoloso a livello individuale del SARS-CoV e del MERS-CoV, questo 2019-nCoV (questo il nome tecnico) lo è di più come potenzialità di interessamento di una popolazione molto più numerosa.

Secondo i dati a disposizione la mortalità da infezione da 2019-nCoV è del 2-3%. Paradossalmente è però più difficile contenere una epidemia da parte di un virus che causa delle forme di malattia lievi e che sono simili ad altre infezioni virali “banali” delle vie aeree. Così si possono avere più persone contagiate prima di riconoscere il propagarsi dell’infezione. Da qui la preoccupazione delle autorità sanitarie. L’impatto di un’infezione non dipende solo dalla pericolosità della singola infezione ma soprattutto dal numero di persone che ne verranno coinvolte. Anche se la mortalità relativa a questo infezione non è così alta, può diventare comunque alto in termini assoluti il numero di malati gravi e la mortalità complessiva. Essendo un virus sconosciuto al nostro sistema immunitario siamo tutti potenzialmente a rischio se ne veniamo a contatto. Attualmente siamo di fronte ad un epidemia ma non ad una pandemia (il 98% dei casi sono confinati ad una sola nazione) ma è ragionevole mettere in atto le misure possibile per evitarne la propagazione. Per il SARS-CoV le misure hanno funzionato. Per questo nuovo virus non possiamo ancora dire quale sarà l’efficacia delle misure preventive ma ad ogni modo anche solo il rallentamento della propagazione è molto utile perché dà tempo per preparare un eventuale vaccino e provare dei trattamenti antivirali.

  1. Quanto devo essere preoccupato e cosa devo fare?

Spesso abbiamo atteggiamenti irrazionali pendolando tra fatalismo (ad esempio verso il virus influenzale per il quale c’è la possibilità di vaccinarsi ma pochi lo fanno) e allarmismo (“evitiamo contatti con i cinesi”). Per quanto riguarda l’Italia, in termini assoluti, il virus che fa più danno è sempre quello influenzale mentre fino ad oggi non c’è nessuna evidenza che questo 2019-nCoV circoli nella popolazione italiana, quindi l’allarmismo è ingiustificato [ARTICOLO PUBBLICATO L’8 FEBBRAIO 2019, ndr]. E’ giusto che le autorità sanitarie siano prudenti ma io come singola persona devo comportarmi normalmente.

  1. Cosa suggerisce questo evento da un punto di vista cristiano?

Osservare quello che sta accadendo in Cina dove l’epidemia è un fatto reale, tangibile, ci ricorda  che nonostante tutto il nostro sapere e tutta la tecnologia a nostra disposizione, siamo fragili. Basta poco per bloccare tutto ciò che diamo per scontato. Crediamo di essere forti ma in realtà siamo disarmati. Dio ci avverte di questa nostra fragilità e per questo invita l’uomo a rivolgersi a lui oggi e non domani, perchè è solo lui che ci può dare pace e sicurezza.

Detto questo non credo che sia utile usare questo messaggio per “spaventare” le persone e annunziare l’evangelo, ma dobbiamo piuttosto mostrare sobrietà e saggezza e dimostrando testimoniando così che la pace e la sicurezza che dona il Signore sono concreti.

Emanuele Negri è medico internista e responsabile di terapia semi-intensiva presso l’High Care, il Dipartimento di Medicina Interna dell’IRCCS Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia Specialista in Cardiologia e Geriatria è anche responsabile di una locale chiesa evangelica a Parma.

Che relazione c’è tra l’Olocausto e i Vangeli?

Il valore della testimonianza nei resoconti evangelici

Il Gesù raffigurato dai Vangeli è Gesù così come i testimoni oculari l’hanno ritratto, è il Gesù della testimonianza. Dobbiamo osservare più da vicino questa categoria della testimonianza, il suo stato epistemologico, il suo ruolo nella storiografia e la sua rilevanza come categoria teologica.
La testimonianza è sia la categoria storicamente appropriata per la comprensione del tipo di storia che i Vangeli rappresentano, sia la categoria teologicamente appropriata per la comprensione del tipo di accesso che i lettori cristiani dei Vangeli hanno a Gesù e alla sua storia. È la categoria che ci mette in grado di superare la dicotomia fra il cosiddetto Gesù storico e il Gesù della fede.

Il punto fondamentale è che la testimonianza richiede fiducia. Ma come può essere giustificata una tale fiducia? Come si ricollega la conoscenza acquisita sulla base della testimonianza ad altri generi di conoscenza? Qual è il suo stato epistemologico? La nostra fiducia nella parola di altri è essenziale all’idea stessa di una seria attività cognitiva (R.A. Coady). Se la testimonianza è un mezzo di conoscenza tanto basilare quanto la percezione, la memoria e la deduzione, allora dobbiamo concepire la nostra situazione epistemica in termini meno esclusivamente individualistici e più in termini collettivi o intersoggettivi. Ma ciò non significa rinunciare a qualche genere di autonomia conoscitiva, come se l’individuo non potesse mai pensare da solo. Significa, piuttosto, che la fiducia epistemica negli altri è la matrice fondamentale all’interno della quale l’individuo può apprendere e usare, ciò che Coady chiama “un robusto grado di autonomia conoscitiva”. La fiducia è fondamentale, mentre la valutazione critica è importante ma possibile solo come attività secondaria, che presuppone un più basilare atteggiamento di fiducia.

I Vangeli, sebbene siano per molti aspetti particolari forme di storiografia, condividono largamente l’atteggiamento verso la testimonianza oculare che era frequente fra gli storici del periodo greco–romano. Questi storici tenevano in considerazione soprattutto i resoconti dell’esperienza diretta degli eventi che raccontavano. La cosa migliore per lo
storico era l’esser stato egli stesso un partecipante agli eventi (autopsia diretta). In mancanza di ciò, andavano alla ricerca di informatori che potessero parlare in base a una conoscenza diretta e che potessero interrogare (autopsia indiretta).

Non dovremmo però supporre che gli storici dipendessero in maniera acritica dalla testimonianza. Gli storici migliori vagliavano i loro informatori e soppesavano le testimonianze contrastanti, talvolta riportando due diversi resoconti benché giudicassero che uno era più credibile.

Ci sono certamente delle distinzioni molto valide da fare fra i metodi antichi e quelli contemporanei di fare la storia. Tuttavia, il forte contrasto è con la storiografia del tardo periodo romano e medioevale piuttosto che con i grandi storici del mondo grecoromano, che riuscivano a valutare le loro fonti con un certo livello di rigore perché (almeno quando stavano seguendo la prassi migliore) c’erano testimoni oculari che essi incontravano e interrogavano personalmente. Niente riguardo al metodo storico contemporaneo ci impedisce di leggere le testimonianze esplicite del passato per il gusto di ciò che esse intendevano raccontare e rivelare. Dipende da quali quesiti poniamo.

Nello studio scientifico neotestamentario [per esempio] c’è in circolazione un modo di pensare che affronta le fonti con un fondamentale scetticismo, piuttosto che con fiducia, e che pertanto esige che tutto ciò che le fonti affermano sia accettato solo se gli storici possono personalmente verificarlo.

È doveroso dire, ripetutamente, che il rigore storico non consiste in un fondamentale scetticismo verso la testimonianza storica ma in una fondamentale fiducia unita alla verifica per mezzo di interrogatori critici. La testimonianza potrebbe essere inesatta e potrebbe fuorviare, ma ciò non può essere presunto in modo globale bensì deve essere stabilito in ciascun caso. La testimonianza dovrebbe essere considerata affidabile fino a prova contraria.

Per una valutazione filosofica della storiografia più adeguata potremmo rivolgerci alla importante opera di Paul Ricoeur. Egli distingue tre fasi del lavoro dello storico. Queste sono intese come momenti metodologici e non ricorrono necessariamente in sequenza cronologica. Esse sono: 1) documentaria, 2) esplicativa/comprensiva, e 3) la fase rappresentativa. Una delle costanti preoccupazioni di Ricoeur è di distinguere la storia dalla finzione della narrativa insistendo che per ogni stadio ci sia un riferimento intenzionale, da parte del testimone o dello storico, a ciò che è accaduto nel passato.

Alla radice dell’intera impresa c’è la memoria La memoria è dichiarata nella testimonianza, la quale quando è registrata e depositata in un archivio diventa per lo storico un documento da studiare. I documenti sono perciò una “memoria archiviata”. Non si tratta di un caso di accettazione acritica della testimonianza. Ma la testimonianza richiede di essere creduta. Il testimone dice non solo: “Io ero lì” ma anche “credetemi”.

Credere nella parola di un altro, atto spontaneo e indispensabile nella vita quotidiana, nella storiografia deve convivere dialetticamente con il genere d’interrogatorio critico che la testimonianza archiviata provoca. Qui la necessità di fiducia è troppo facilmente trascurata poiché la testimonianza è stata rimossa dall’immediatezza del contesto dialogico della vita di ogni giorno, dove la dimensione della fiducia nella parola di un altro è scontata; per la testimonianza archiviata in qualità di documento storico la fiducia non è meno richiesta, è complicata ma non è affatto rimpiazzata da una valutazione critica.

Nella ricezione “critico-realistica” dello storico e nell’uso della testimonianza c’è una dialettica tra fiducia e valutazione critica. Ma la valutazione è più precisamente una valutazione della testimonianza in quanto affidabile o meno. Ciò che non è possibile è la verifica indipendente o la falsificazione di tutto quello che la testimonianza riferisce, tale che non sarebbe più necessario fare affidamento di essa. La testimonianza condivide la fragilità della memoria, che è l’unico accesso della testimonianza al passato, mentre, quando è antecedente alla memoria vivente, esistendo solo come memoria archiviata, è anche tagliata fuori dal contesto dialogico della testimonianza contemporanea. Ma, per la maggior parte degli scopi, la testimonianza è tutto ciò che abbiamo.

La speciale importanza che gli storici dell’antichità grecoromana attribuivano alla testimonianza oculare dei partecipanti conserva la sua validità. È vero che il pregiudizio contemporaneo contro le parti interessate, coinvolte nelle vicende narrate e perciò condizionate che ha portato a guardare con maggior favore gli osservatori presumibilmente neutrali degli eventi, ha giocato un ruolo importante nella storiografia contemporanea (e non meno negli studi biblici). Ma, in qualunque modo lo si voglia minimizzare, il punto di vista del partecipante coinvolto offre ancora un accesso unico al vissuto interno degli eventi. I lettori sono interessati al modo in cui i partecipanti vissero e percepirono quei particolari eventi.

Come moderno parallelo alla pratica degli storici greco romani sono addotte [Samuel Byrskog]le discipline relativamente recenti della storia orale. Il lavoro dello storico orale è fondamentalmente diretto a mettere in grado i testimoni stessi di raccontare tanto da permettere che il significato sociale trovato nelle loro esperienze sia parte della storia.

E il testimone oculare ha un ruolo speciale quando si tratta di eventi che trascendono la normale esperienza degli storici e dei loro lettori. Più è eccezionale l’evento e più l’immaginazione storica da sola è soggetta a condurci fuori strada. Senza il testimone che ci mette di fronte alla pura singolarità dell’evento, interpreteremo l’avvenimento secondo il criterio di valutazione della nostra personale esperienza. In tali casi, la testimonianza dell’informatore partecipe potrebbe disorientarci o provocare incredulità, ma, per conservare la ricerca della verità storica, dobbiamo permettere alla testimonianza di opporre resistenza alla limitativa pressione delle nostre personali esperienze e aspettative.

Come caso paradigmatico della storia contemporanea di un evento eccezionale di questo genere, viene subito alla mente l’Olocausto. Ricoeur parla di un evento al limite dell’esperienza e della rappresentazione, una frase che prende in prestito da Saul Friedlander (precedentemente Ricoeur ha usato l’espressione “eventi incomparabilmente unici”. Le testimonianze sull’Olocausto, egli dice, pongono un problema di accoglimento.

Le testimonianze dell’Olocausto non vengono facilmente fatte proprie dallo storico, visto che appaiono come scarsamente credibili alla prima impressione e sfuggono, inoltre, alle solite categorie di giustificazione storica. (Charlotte Delbo disse dei nuovi arrivi ad Auschwitz ciò che è valido anche per chiunque legga le testimonianze dell’Olocausto: “Essi si aspettavano il peggio, non si aspettavano l’inconcepibile”). Questo è il motivo per cui le testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto sono assolutamente necessarie per qualsiasi tentativo di comprendere ciò che accadde. L’Olocausto è un evento la cui realtà potremmo a stento immaginare se non avessimo le testimonianze dei sopravvissuti.

Anche nei Vangeli, se crediamo in essi, abbiamo a che fare con un evento “ai limiti”. Il paragone è azzardato. Fatta eccezione per l’eccezionalità storica dell’evento, l’Olocausto e la storia di Gesù non hanno niente in comune. La nostra argomentazione non intende in alcun modo sminuire la particolare unicità della Shoah. Al contrario, dobbiamo apprezzare questa unicità se il caso dell’Olocausto deve insegnarci qualcosa riguardo al ruolo della testimonianza in altri casi di eccezionalità storica. Con l’unicità dell’Olocausto ben chiaro in mente, perciò, ci volgiamo a considerare alcuni esempi della testimonianza dei suoi sopravvissuti.

La testimonianza dell’Olocausto e la testimonianza dei Vangeli
La testimonianza dei sopravvissuti dell’Olocausto è il contesto contemporaneo nel quale più facilmente riconosciamo che la testimonianza autentica dei protagonisti è totalmente indispensabile per acquisire una reale comprensione degli eventi storici, almeno degli eventi di una simile eccezionalità. All’infuori di questa notazione i casi dell’Olocausto e la storia di Gesù sono enormemente diversi. Ma la loro eccezionalità e il ruolo della testimonianza nel trasmetterli, per quanto possano essere trasmessi, sono comuni a entrambi. In ciò che segue traggo alcune delle implicazioni di questa corrispondenza di eccezionalità allo scopo di evidenziare certi aspetti delle testimonianze dei Vangeli.

1) Sia per l’Olocausto sia per la storia di Gesù, intesa nel modo in cui la intendono i Vangeli, ci vuole la categoria di Ricoeur degli eventi “incomparabilmente unici”, sebbene debba essere sottolineato di nuovo che ciò che qualifica ciascuno per una simile descrizione è totalmente diverso. Eppure in ciascun caso l’analogia viene meno in modo
molto più considerevole di quanto faccia l’impareggiabile particolarità di ogni evento storico, e questa mancanza di analogia è strettamente collegata al modo in cui ciascuno di questi due accadimenti assume il carattere di rivelazione, sebbene e di nuovo, in modi molto diversi.

L’Olocausto rivela a coloro che ascoltano la testimonianza dei testimoni ciò che non potremmo altrimenti sapere sulla natura del male e dell’atrocità e sulla condizione umana nel mondo contemporaneo. (“I nostri racconti … non sono essi stessi racconti di una nuova Bibbia?” domanda Primo Levi). La storia di Gesù rivela l’azione definitiva di Dio per la salvezza umana, ma solo a coloro che ascoltano la testimonianza dei testimoni.

Quando Ricoeur ha parlato per la prima volta degli eventi “incomparabilmente unici”, paragonò e contrappose le categorie positive e negative. Nel paradigmatico caso di Auschwitz (“Le vittime di Auschwitz sono, per eccellenza, i delegati presso la nostra memoria di tutte le vittime della storia” abbiamo a che fare con un evento che evoca orrore. L’orrore è la reazione che riconosce un simile evento, lo individua nella nostra consapevolezza della storia non solo in termini di impareggiabile particolarità di tutti gli eventi, ma in un modo che sfugge al tentativo dello storico di rendere particolari eventi comprensibili rintracciando le loro connessioni con altri eventi: L’orrore isola e rende incomprensibile, incomparabilmente unico, unicamente unico. Se persisto nell’associarlo all’ammirazione (assunta come opposto dell’orrore), è perchè rovescia il sentimento grazie al quale andiamo avanti a tutto ciò che ci sembra portatore di creazione. L’orrore . una venerazione rovesciata. È in questo senso che si è potuto parlare di Olocausto come di una una rivelazione negativa, di un anti–Sinai.

Cos’è allora che isola la storia di Gesù come impareggiabile nella sua inequivocabile rivelazione di Dio? Al posto di “ammirazione” e “venerazione.”, i termini che Ricoeur propone qui, dovremmo forse parlare di miracolo e manifestazione di gratitudine in presenza di un’incomparabile “pienezza miracolosa”. Proprio come accade per l’orrore (sebbene il termine sembri troppo debole) che risulterebbe sminuito se si equiparasse l’Olocausto agli orrori non eccezionali della storia, così come, senza le testimonianze, probabilmente faremmo, similmente è per il miracolo che sarebbe perduto se fossimo privati delle testimonianze dei Vangeli che evocano il carattere teofanico della storia di Gesù. (Non possiamo approfondire qui il modo in cui i Vangeli riferiscono l’orrore della croce a questa eccezionalità “piena di miracolosità” della storia di Gesù). Non è questo prodigio che perdiamo quando ci volgiamo dalle testimonianze dei Vangeli alle ricostruzioni inevitabilmente riduttive di un qualche tipo di “reale” Gesù storico?

2) L’unicità qualitativa di ciascuno di questi due eventi crea un problema di comunicazione, come abbiamo già visto nel caso dell’Olocausto. Il tentativo di collegare quanto accadde con le esperienze e la comprensione del nostro mondo consueto è fin troppo facile e punta a una facile intelligibilit. a prezzo dell’unicità dell’evento e pertanto anche del suo potere di rivelare. Quando la ricerca del Gesù storico ignora quello che i testimoni affermano nell’interesse di ciò che è facilmente credibile per gli standard dell’analogia storica, vale a dire, l’esperienza ordinaria, ciò riduce la rivelazione alla banalità di ciò che conoscevamo o potevamo conoscere comunque.

3) Malgrado la difficoltà della comunicazione, i testimoni che partecipavano hanno provato, per entrambi gli eventi, l’imperativo a comunicare, a rendere testimonianza. Non tutti i sopravvissuti all’Olocausto si sentirono spinti a rendere testimonianza, ma molti lo furono, specialmente quelli che hanno scritto biografie. A dire il vero, molti di quelli che morirono nell’Olocausto lasciarono le loro testimonianze. Wiesel, paradossalmente e in considerazione della sua stessa affermazione: .Per la sua unicità l’Olocausto sfida la letteratura., pensava anche che l’unicità dell’Olocausto creasse veramente una nuova letteratura: “Se i greci hanno inventato la tragedia, i romani l’epistola e il Rinascimento il sonetto, la nostra generazione (cioè, gli ebrei che hanno testimoniato dell’Olocausto) ha inventato una nuova letteratura, quella della testimonianza. Noi tutti siamo stati testimoni e noi tutti sentiamo che dobbiamo rendere testimonianza per il futuro, E quella . diventata un’ossessione, la singola più potente ossessione che abbia permeato tutte le vite, tutti i sogni, tutto il lavoro di quelle persone. Un minuto prima di morire pensavano che era quello che dovevano fare”.

Il criterio (non uno propriamente generico) secondo il quale i testimoni dell’Olocausto hanno creato una nuova letteratura della testimonianza, è praticamente lo stesso criterio secondo cui i testimoni della storia di Gesù hanno creato i Vangeli. Quei testimoni ritennero l’imperativo di testimoniare come un comando del Cristo risorto, e il parallelo è sufficiente per essere suggestivo. In entrambi i casi, l’unicità ha richiesto proprio il testimone come unico metodo per mezzo del quale gli eventi potevano essere adeguatamente conosciuti.

4) In entrambi i casi, l’eccezionalità dell’evento implica che solo la testimonianza di un testimone partecipante possa darci un qualcosa che si avvicina a un accesso alla realtà dell’evento. Nel caso dell’Olocausto è di nuovo Wiesel a esprimere questo in un modo ormai celebre: “la verità di Auschwitz è nascosta nelle sue ceneri. Solo quelli che l’hanno vissuta nella loro carne e nelle loro menti possono forse trasformarla in conoscenza”. Ma il punto viene sostenuto di nuovo dai sopravvissuti. Questa rivendicazione, presa come un diritto privilegiato alla conoscenza non condivisibile che nessuno pu. contestare, solleva l’obiezione professionale di una studiosa, Inga Clendinnen, la quale protesta che, per lo storico, .”nessuna parte della documentazione umana può essere dichiarata proibita […]. L’azione della storia, la nostra conversazione in atto con la morte, riposa sulla valutazione critica di tutte le voci provenienti dal passato”. Sostiene il suo punto intraprendendo una valutazione critica della testimonianza di Filip Müller, il cui resoconto del suo servizio come Sonderkommando ad Auschwitz è una preziosa evidenza di quanto altrimenti non sarebbe stato conosciuto. La valutazione è equilibrata.

Ci sono verifiche di coerenza e di concordanza con un’altra testimonianza che lo storico può opportunamente applicare. Ma nelle stesse parole di Clendinnen, “eventi non comuni accaddero ad Auschwitz, come in ogni campo”, c’è il riconoscimento che la valutazione deve rispettare l’eccezionalità che inerisce agli eventi per i quali è resa la testimonianza.

In questo e in altri casi, inclusi i Vangeli, la testimonianza chiede di essere creduta. Non consiste nella presentazione dell’evidenza e dell’argomentazione per quello che solo il testimone, la persona coinvolta dall’interno, può riferirci. In tutti i casi, includendo perfino i tribunali, la testimonianza può essere controllata e valutata in modi appropriati, ma ciònonostante deve essere creduta. Per gli eventi incomparabilmente unici che stiamo considerando, ciò è anche più vero. Sostenere, insieme ad alcuni critici dei Vangeli, che la storicità di ciascuna pericope del Vangelo deve essere accertata, una ad una, con argomentazioni a favore di ciascuna, non è riconoscere la testimonianza per ciò che necessariamente rappresenta. Significa supporre che possiamo estrarre fatti individuali dalla testimonianza e fare la nostra personale ricostruzione degli eventi non più dipendente dal testimone. Significa rifiutare quell’accesso privilegiato alla verità che proprio la testimonianza del partecipante ci può dare. La storiografia antica teneva opportunamente in considerazione una simile testimonianza in quanto essenziale per una storia autentica, e l’Olocausto ci dimostra come possa essere indispensabile quando gli eventi che dobbiamo affrontare sono “ai limiti”.

Richard Bauckham,
Gesù e i testimoni oculari

Edizioni GBU, 2010

 

 

 

 

Richard Bauckham sarà il prossimo relatore al XV Convegno di Studi GBU

Ieri (31 dicembre 2019)

Il Dio d’Israele sarà la vostra retroguardia. Isaia 52:12

Sicurezza per il passato. «Dio ci riconduce ciò che è passato». Alla fine dell’anno ci volgiamo con speranza a tutto ciò che Dio ha in serbo per noi per il futuro ma frammisto a questa speranza ci può anche essere un senso di ansia che scaturisce dal ricordo del passato. La nostra gioia di oggi, che si fonda sulla grazia di Dio, può essere offuscata dalla memoria dei peccati e degli errori di ieri. Ma il Signore è anche l’Iddio del nostro passato, e se permette che ce ne ricordiamo lo fa perché esso divenga un patrimonio di insegnamenti spirituali per il futuro. Ci fa ricordare il passato per premunirci contro una falsa sicurezza nei riguardi del presente.

Sicurezza per il domani. «Giacché l’Eterno camminerà dinanzi a voi». Che rivelazione consolante sapere che Dio sarà la nostra difesa là dove siamo stati sconfitti! Egli sorveglierà affinché non ci avvenga che le stesse cose ci sconfiggano di nuovo, come senz’altro succederebbe se non ci fosse lui alla retroguardia. La mano di Dio raggiunge il nostro passato e ne sistema e regola tutti i fallimenti che pesano sulla coscienza.

Sicurezza per l’oggi. «Non partirete in fretta». Entrando nell’anno nuovo, non lasciamoci prendere dalla fretta di raggiungere gioie nuove né dalle folate della spensieratezza ma andiamo avanti con la forza paziente che ci dà il sapere che l’Iddio d’Israele cammina davanti a noi. È vero che il nostro passato rimane per noi irreparabile; è vero che abbiamo perso delle occasioni che non torneranno più; ma Dio può trasformare questa ansia distruttiva in una costruttiva riflessione per il futuro. Lasciamo riposare in pace il passato ma lasciamolo riposare sul seno di Cristo. Abbandoniamo nelle sue mani questo passato che non può essere cambiato e con lui andiamo sicuri verso il futuro inarrestabilmente vittorioso.
(O. Chambers)
Impegno per L’Altissimo

Ambientalismo: una religione senza Fondatore

Origini di questa religione
Fin dall’inizio del 1900 gli scienziati anno postulato che fosse in atto un cambiamento climatico e che era causato dai gas serra rilasciati dalla combustione dei carburanti fossili. Non è stato però prima dello sviluppo delle simulazioni al computer che questa tesi trovò un consenso, verso la fine degli anni  ’70. Nel Regno Unito il movimento [ambientalista / ecologista] entrò nel dibattito politico di massa grazie a Margaret Thatcher che nel 1989 sollevò la questione all’ONU. Quasi due decenni dopo è stato approvato il Climate Change Act 2008, che “ha stabilito l’obiettivo di ridurre significativamente le emissioni di gas serra nel Regno Unito, entro il 2050, e un percorso per arrivarci. La legge ha inoltre istituito il comitato sui cambiamenti climatici (CCC) per garantire che gli obiettivi di emissione siano basati su prove e valutati in modo indipendente”.
Nel 2015, le nazioni appartenenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) hanno firmato l’accordo di Parigi. L’obiettivo èa di rafforzare la risposta mondiale ai cambiamenti climatici per mantenere la temperatura media globale al di sotto di 2° C sopra i livelli preindustriali e, se possibile, limitare l’aumento a 1,5° C.

Una delle caratteristiche più sorprendenti del movimento ambientalista sono le sue sfumature profondamente religiose.

Nel 2018, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), l’organismo delle Nazioni Unite responsabile della valutazione dello stato scientifico relativo ai cambiamenti climatici, ha pubblicato un rapporto sull’impatto del riscaldamento globale di 1,5° C sopra i livelli preindustriali. Tale rapporto è ciò su cui si basa principalmente il movimento ambientalista attuale. Il documento evidenzia, con diversi gradi di affidabilità, le conseguenze osservabili o prevedibili dell’attività umana sulla temperatura globale, nonché lancia un avvertimento sui gravi rischi e sui problemi che il riscaldamento globale rappresenta per le popolazioni umane e animali, tra cui i rischi per la salute e per l’approvvigionamento di cibo e di acqua con le conseguenti ricadute sull’economia.

Il movimento ambientalista nel Regno Unito [ma anche altrove] ha costruito la sua causa sulle prove scientifiche del rapporto IPCC. Con il crescente consenso scientifico, la causa ambientalista si è imposta nella vita comune grazie all’impegno [almeno in Inghilterra] di personaggi quali Sir David Attenborough, la cui serie nel 2018 “Blue Planet II” ha messo in luce drammaticamente il problema dell’inquinamento della plastica.

Anche altri gruppi ambientalisti hanno fatto la loro parte, con l’emergerne di alcuni come Surfers Against Sewage che si sono aggiunti a gruppi di attivisti di lunga data come Greenpeace e i partiti Verdi per portare in primo piano nel dibattito pubblico il problema dell’ambiente. Anche il crescente culto della celebrità che ha investito le figure chiave degli attivisti climatici ha avuto un ruolo significativo. A cominciare da celebrità come Leonardo di Caprio e politici come Al Gore, culminando nell’esaltazione dell’attivista adolescente Greta Thunberg quale eroina del movimento, dopo le sue proteste fuori dal parlamento svedese.

La nascita di Extinction Rebellion (XR) nel 2018 ha rivoluzionato il dibattito. XR ha organizzato proteste di massa in tutto il mondo coinvolgendo milioni di persone e ha catapultato la questione nella coscienza pubblica attraverso le sue strategie di protesta civile pacifica e le manifestazioni di piazza[1]. Il gruppo esprime tre richieste: “dire la verità” sui cambiamenti climatici, “agire ora” e andare “oltre la politica” coinvolgendo i cittadini per affrontare la questione. 

Il movimento ha spinto le preoccupazioni ambientaliste dal margine dell’agenda politica al centro. L’ambiente viene sempre più spesso considerato una questione fondamentale e questo è particolarmente vero tra i giovani.

Di conseguenza c’è stato un successo significativo; per esempio in Inghilterra la Camera dei Comuni è stata costretta ad affrontare il problema. Nel giugno 2019, uno degli atti finali del governo di Theresa May è stato legiferare per il raggiungimento di emissioni nette pari a zero entro il 2050. Tuttavia per molti, un obiettivo come questo non è abbastanza, considerando che XR spinge per abbattere completamente le emissioni entro il 2025.

L’insegnamento biblico sulla preoccupazione ambientale
Possiamo tracciare significativi parallelismi tra le preoccupazioni del movimento ambientalista e l’insegnamento cristiano. La narrazione biblica ci dice che Dio ha creato un mondo “buono” e ha dato all’umanità il compito di prendersi cura e sviluppare questa creazione (Genesi 1-2). Sebbene l’uomo vivesse originariamente in armonia con il creato, tutto ciò è presto collassato, nel momento in cui il peccato entrò nel mondo attraverso il rifiuto opposto a Dio da parte dell’umanità (Genesi 3). Durante il resto della narrazione biblica ci viene ripetutamente mostrato l’effetto devastante del peccato sui nostri rapporti con Dio, tra di noi e con il nostro pianeta:

La terra è in lutto, è spossata,
il mondo langue, è spossato,
gli altolocati fra il popolo della terra languono.

La terra è profanata dai suoi abitanti,
perché essi hanno trasgredito le leggi, hanno violato il comandamento,
hanno rotto il patto eterno.
Perciò una maledizione ha divorato la terra
e i suoi abitanti ne portano la pena;
perciò gli abitanti della terra sono consumati
e poca è la gente che ne è rimasta.
 Isaia 24:4-6

Allo stesso tempo, mentre si manifestata sempre di più la devastazione causata dal peccato, la Bibbia rivela il piano di Dio di ripristinare il suo rapporto con il suo popolo, riscattare le anime, redimere la creazione e unire tutte le cose attraverso e sotto la signoria di Cristo (Efesini 1:9-10).

Infine, i cristiani credono nel giudizio finale e nella giustizia delle leggi di Dio e ciò si applica anche alla terra (Apocalisse 11:18). Inoltre, i cristiani hanno la speranza di un nuovo paradiso e di una nuova terra in cui Dio abita con il suo popolo, in cui non vi è alcuna maledizione e la rottura scatenata dalla Caduta non esiste più (Apocalisse 21-22).

Possiamo tracciare dunque significativi parallelismi tra le preoccupazioni del movimento ambientalista e il cristianesimo.

Tenendo bene a mente quello che abbiamo detto, i cristiani possono affermare e condividere la preoccupazione per la creazione, andando perfino oltre, dato che abbiamo fiducia in un Dio creatore che ci dà buoni doni e ci chiama a onorarlo. Dovremmo detestare il peccato e l’avidità che causano la distruzione e perseguire il comportamento che si prende cura della creazione come Dio la intendeva.

Il quadro biblico ci dà motivo di riesaminare le nostre abitudini relativamente a consumi e spesa. Ci spinge a guardare gli effetti dei nostri stili di vita e a cercare di apportare cambiamenti – non come segno di virtù ma per onorare il nostro creatore. Dovremmo valutare le politiche che sosteniamo e il modo in cui si preoccupano (o non si preoccupano) del mondo. Dovremmo comprendere l’impatto dell’ingiustizia ambientale sui poveri a livello globale e valutare come sostenere le persone più colpite dall’impatto del cambiamento climatico.

Una religione senza speranza
Il movimento ambientalista condivide la visione cristiana della bontà del mondo naturale, e allo stesso modo riconosce che l’avidità, l’egoismo, la sconsideratezza e la malvagità dell’uomo hanno causato la distruzione del pianeta. Tuttavia, manca la speranza cristiana di redenzione e restaurazione, e c’è invece una profonda paura per il futuro. Lo vediamo nelle parole di Greta Thunberg al World Economic Forum di Davos nel gennaio 2019,

 «Gli adulti continuano a dire “abbiamo il dovere di dare speranza ai giovani”. Ma io non voglio la tua speranza. Non voglio che tu abbia speranza. Voglio che ti venga il panico. Voglio che tu senta la paura che provo ogni giorno. E allora voglio che agisci.»

Questa è la narrazione biblica senza speranza – non c’è promessa di salvezza e la motivazione per agire è la paura.

Il problema fondamentale con il movimento ambientalista nella sua forma attuale è che propugna una religione senza Dio. E in questa religione, la salvezza dipende unicamente dallo sforzo umano e dalla sua volontà. Il riconoscimento diffuso dell’errore umano si trova insieme alla soluzione di trasformazione umana, sia individuale sia sistematica. I commenti di Greta Thunberg al Parlamento nell’aprile 2019 danno un assaggio di tale modello di salvezza, “Nel momento in cui decidiamo di realizzare qualcosa, possiamo fare qualsiasi cosa”.

 Al movimento ambientalista manca la speranza cristiana di redenzione e restaurazione
Eppure i cristiani sanno che non è così. L’Antico Testamento ci mostra pazientemente secolo dopo secolo che gli uomini non riescono a vivere come dovrebbero. Nonostante la pazienza, il perdono e la grazia di Dio, vediamo che gli umani non sono in grado di risolvere il problema più profondo: il peccato. Nonostante tutti i loro sforzi e sacrifici, la legge rimane impotente a salvare: “perché mediante le opere della legge nessuno sarà giustificato davanti a lui; infatti la legge dà soltanto la conoscenza del peccato” (Romani 3:20). L’obbedienza alla legge dell’Antico Testamento non può salvare – piuttosto dimostra la nostra incapacità di salvarci. Questo è qualcosa che il movimento ambientalista fa bene. Anche Isaia 64:6 si dimostra utile in ciò:

 Tutti quanti siamo diventati come l’uomo impuro,
tutta la nostra giustizia come un abito sporco;
tutti quanti appassiamo come foglie
e la nostra iniquità ci porta via come il vento.

Nonostante i nostri migliori sforzi, rimaniamo peccaminosi e imperfetti. Neanche le nostre migliori azioni possono riscattarci.

Attua il cambiamento ma riconosci il salvatore
Il problema cruciale è quindi l’incapacità dell’umanità di affrontare i problemi creati dal proprio peccato. Pur intensificando gli sforzi, questo non verrà risolto. Indipendentemente dalla chiara giustizia del processo decisionale[2], indipendentemente dall’unità con cui le persone rispondono, l’umanità non può affrontare il suo peccato, che è la causa fondamentale della crisi climatica. Anche se il movimento ambientalista fosse unito nella sua causa e avesse una risposta coordinata e costruttiva, gli sforzi umani sarebbero comunque inferiori al cambiamento necessario per invertire il danno e ricostruire una natura fiorente. 

Romani 9 evidenzia chiaramente che la salvezza non dipende dallo sforzo umano ma dalla misericordia di Dio. Il movimento ambientalista nella sua accezione secolare è quindi intrinsecamente difettoso. Noi siamo davvero i responsabili, la distruzione ambientale è chiaramente radicata nel nostro peccato, ma la soluzione può essere trovata solo in altro e “quell’altro” non è Greta Thunberg, Extinction Rebellion o finanche il rovesciamento del capitalismo globale come lo conosciamo.

No, la soluzione è in Gesù, che è Dio diventato uomo, che visse una vita di giustizia ma morì al posto nostro di una morte da peccatore, ma poi risuscitò dai morti tre giorni dopo. 
Per mezzo di tutto ciò ha vinto il peccato e la morte e ha creato la via per la riconciliazione del rapporto con Dio Padre, per la riconciliazione del rapporto con i nostri simili e per la riconciliazione con la stessa creazione. 

Non dovremmo quindi disperare. C’è un Dio di redenzione che cambia i cuori, che spezza il potere del peccato e della morte e trasforma le vite per la sua buona opera. Solo lui fornisce una soluzione e pertanto dobbiamo pregare e portare avanti l’opera di trasformazione del vangelo se vogliamo avere un impatto reale in questo dibattito. Questo non ci esime dall’agire, ma dovrebbe spronarci a prenderci cura della creazione, poiché riconosciamo che “Al SIGNORE appartiene la terra e tutto quel che è in essa, il mondo e i suoi abitanti” (Salmo 24:1).

Il nostro ruolo è quindi quello di rispondere alla chiamata, pronunciata alla creazione, a essere buoni amministratori di un mondo che appartiene a Dio, non a noi. La consapevolezza che un giorno Cristo verrà per rendere tutte le cose nuove non ci legittima a non fare nulla, ma ci chiama a fare di più mentre cerchiamo di essere come lui e così in parte a rappresentarlo nel mondo. E mentre lo facciamo, possiamo lavorare con speranza, non disperazione, sapendo che non tutto dipende solo dai nostri sforzi. Non siamo la soluzione, Cristo lo è.

Il problema cruciale è l’incapacità dell’umanità di affrontare i problemi creati dal suo stesso peccato.

Non possiamo quindi aderire pienamente al movimento nel suo stato attuale, perché abbiamo una speranza e una certezza che è assente da esso. 

Dobbiamo anche riconoscere il comandamento di sottometterci ai nostri leader, avendo in Romani 13 l’esempio principale. Ciò non esclude la pubblica protesta e, data la libera democrazia in cui viviamo, questo diritto può essere esercitato. Tuttavia, dovrebbe cambiare il modo in cui protestiamo o facciamo pressione. Dovrebbe cambiare il modo in cui parliamo dei e ai nostri rappresentanti eletti. La Scrittura in particolare estende la nostra sottomissione ai sovrani oltre la pura sottomissione legale e in regime di rispetto e onore (Romani 13:7; 1 Pietro 2:17). Queste caratteristiche dovrebbero essere evidenti in qualsiasi attivismo o protesta in cui siamo coinvolti.

Ma se c’è una cosa che possiamo imparare dal movimento ambientalista è il modo in cui la loro profonda e sentita convinzione di avere un messaggio che tutto il mondo deve ascoltare e a cui deve rispondere, li ha stimolati ad un’azione urgente e costosa. Il fervore di questo movimento dovrebbe sfidare noi cristiani nella nostra evangelizzazione – se il messaggio evangelico è vero, allora dobbiamo condividerlo. Ci preoccupiamo del mondo creato da Dio e perseguiamo il piano di salvezza di Dio con lo stesso tipo di entusiasmo in cui siamo completamente concentrati?[3]  Quanto siamo audaci nel proclamare la salvezza che si trova in Cristo?

Possiamo affermare il desiderio di un mondo migliore, possiamo affermare la chiamata ad agire per prevenire gli effetti distruttivi del nostro peccato sull’ambiente, ma soprattutto dobbiamo parlare della nostra certa speranza. La speranza cristiana non è creata dallo sforzo o dalle opere ma da un salvatore esterno. C’è solo una via d’uscita dal caos creato dal nostro peccato e non siamo noi. Cristo è la nostra sola speranza; lui risolve un problema molto più profondo di cui la crisi climatica è solo una parte. Cristo risolve il nostro peccato. I cristiani mantengono la speranza che un giorno tornerà, fino ” ai tempi della restaurazione di tutte le cose; di cui Dio ha parlato fin dall’antichità per bocca dei suoi santi profeti” (Atti 3:21). Solo allora vedremo distruzione del nostro mondo annullata per sempre.

Tom Kendall, coordinatore del network dedicato alla politica dei GBU inglesi.
Traduzione di Claudio Pasquale Monopoli (GBU, Roma)
Traduzione con permesso da BeThinking

La vittimizzazione delle donne

Derek e Dianne Tidball
(Bibbia e quote rosa, di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU)

Giudici 19:1 – 30
La Bibbia non è nient’altro che realistica. Presenta il mondo così com’è, sia quando le relazioni umane sono bellissime sia quando sono caratterizzate da una spaventosa brutalità. Le sue storie recano frequentemente testimonianza a quanto tali relazioni si siano deteriorate dal tempo dell’iniziale disubbidienza di Adamo ed Eva; quanto sono caduti in basso, uomini e donne, rispetto ai propositi creazionali di Dio! Questo è vero più che mai nelle descrizioni dei numerosi e raccapriccianti episodi che coinvolgono le donne, che Phyllis Trible ha appropriatamente definito testi di terrore.

Leggere la Scrittura
Le tremende esperienze di alcune donne sono in genere riportate come dei dati di fatto, senza interpretazioni e spesso anche in modo asettico. Raccontare una storia non può mai essere un’operazione totalmente neutra. L’atto di raccontare storie comporta necessariamente l’adozione, da parte del narratore, di una certa prospettiva, che lo porta a selezionare alcuni aspetti in quanto più significativi di altri e a prestare più attenzione a certi personaggi che ad altri. Nondimeno, l’approccio espositivo prevalente della Bibbia, in linea con la migliore tradizione narrativa, è quello di lasciare che la storia parli da sola. Così, le storie in cui le donne sono vittime sono raccontate senza interpretazioni, senza essere corredate di lezioni morali e di solito senza che siano attribuite delle colpe. Si lascia che siamo noi a farci la nostra idea su quello che è giusto e quello che è sbagliato, su ciò che è bene o su ciò che è male. A volte il verdetto è chiaro o il contesto ci guida a una particolare, ineluttabile conclusione. Spesso, però, non è così.

Come lettori, naturalmente, dobbiamo essere consapevoli del fatto che non possiamo evitare di applicare le prospettive che ci sono proprie al nostro approccio alla lettura dei racconti. Dato che la stragrande maggioranza degli insegnanti e dei predicatori, tradizionalmente, erano uomini, spesso questi racconti (anche i testi dove le donne sono evidentemente oggetto di atrocità) sono visti in una prospettiva maschile: il risultato è che l’esecrabilità a carico degli uomini per quegli atti di crudeltà è minimizzata e se ne fa addirittura ricadere la colpa sulle donne o si sorvola sull’obbrobriosità del comportamento maschile. Il passo che sarà più sotto esaminato in modo più particolareggiato è stato spesso spiegato nel senso di un difetto d’ospitalità, il ché è vero. Solo che la donna, che nel racconto è quella che soffre di più, a volte può essere quasi vista come se, nella storia, non fosse neppure una persona.

Vittimizzazione delle donne
Nell’Antico Testamento varie importanti donne sono vittime. Fra loro c’è Agar, vittima dell’impazienza di Abramo e dell’insofferenza di Sara. Dina, figlia di Giacobbe e Lea, è un’altra vittima. Fu rapita da Sichem con fatali conseguenze per lui e i suoi concittadini. Anche Tamar è vittima dell’indifferenza della sua famiglia e poi quasi vittima della giustizia dell’uomo, finché non ne mette allo scoperto l’ipocrisia. Più tardi, c’è un’altra Tamar che fu rapita dal principe reale Amnon e vendicata due anni dopo da suo fratello Absalom. La storia più sconvolgente di tutte, però, riportata in Gdc 19, è quella dell’anonima vittima della lussuria di un Levita, della violenza di gruppo da parte di un’intera città e della fredda indifferenza del suo padrone.

L’anonima protagonista
a. In quel tempo… (1)
L’ambientazione di quest’episodio è significativa. In quel tempo non c’era re in Israele (1) non si limita a segnalare che quest’episodio ebbe luogo nel periodo precedente l’esistenza di una monarchia. La clausola, che ricorre quattro volte alla fine del libro dei Giudici, fotografa il dilagare dell’illegalità, della violenza e dell’immoralità nella vita degli israeliti e ne attribuisce la colpa soprattutto alla mancanza di una buona leadership. I primi giudici avevano messo qualche freno ai peccati del popolo ma gli ultimi erano stati sempre meno incisivi nel farlo, non da ultimo perché la loro stessa personale vita di pietà era in rapido declino. Il sentiero su cui Israele si era incamminato, portò inesorabilmente al rovinoso quadro, dipinto negli ultimi capitoli del libro dei Giudici, di una società che aveva rigettato Dio; una società dove regnava l’anarchia e le persone avevano perso la loro umanità. Lungo questa china, le donne diventarono sempre di più le vittime.

Nel libro dei Giudici le donne svolgono un ruolo di tutto rilievo. Per cominciare, eroine come Debora o Iael salvano la nazione in tempo di crisi e nel caso di Debora prestano servizio come guide anche in periodi meno turbolenti. Con il venire meno della legge e il declino della pietà, però, sempre di più sono presentate come vittime del folle comportamento degli uomini; una follia che la figlia di Iefte paga con la vita, al di là delle buone intenzioni del voto di Iefte. Anche l’anonima madre di Sansone deve avere pianto, quando il suo tanto atteso figlio finì col comportarsi in modo spiritualmente tanto avventato. Il finale, punto culminante in ogni senso del messaggio del libro dei Giudici, è la descrizione della violenza esercitata sulle donne da parte dei Beniaminiti. Nell’immediato, a portarci a un tale scenario è la storia di una donna senza nome che subì la più atroce e terribile delle sorti per mano di alcuni uomini.

Dennis Olson coglie bene il significato del ruolo delle donne nel libro dei Giudici:
Il mutare dei rapporti di forza, l’indipendenza e il modo con cui sono trattati i tanti personaggi femminili all’interno del libro fanno da test sul quale misurare il livello di spiritualità e la fedeltà del popolo di Dio… Al generale declino delle donne, nel libro dei Giudici, da soggetti di azioni indipendenti a oggetti delle azioni e dei desideri dell’uomo, corrisponde il graduale declino, nell’età dei Giudici, della vita sociale e religiosa d’Israele. Declino che culmina con l’atrocità dello stupro e dell’omicidio perpetrati contro la concubina del Levita in Giudici 19, certamente una delle scene più brutali e violente di tutta la Scrittura.

Il modo con cui sono trattate le donne, dunque, fa da termometro per misurare la temperatura spirituale d’Israele.

b. Un Levita… si prese per concubina una donna (1 – 2b)
Il soggetto del racconto è un Levita, un uomo dalla forte personalità e di rango. In altre parole, il protagonista della storia è lui. Quest’uomo, pur abitando nella lontana Efraim, si prese per concubina una donna di Betlemme, che doveva essere a quel tempo molto più popolosa e dove le donne dovevano essergli risultate più accessibili che nella sua comunità di provenienza. In questa fase, non c’è nulla di allarmante che emerga dal racconto, anche se, appena scaviamo un po’ più in profondità, incomincia a suonare un campanello d’allarme. Potrebbe darsi che abbia sfruttato a proprio vantaggio la sua posizione di Levita, quantunque prendere una concubina, a quel tempo, dovesse essere reputata una pratica accettabile e non dovesse essere visto come un comportamento sessuale discutibile. Trent Butler sottolinea che Gedeone lo aveva fatto e il ruolo della concubina potrebbe meglio essere compreso se era vista come una «moglie secondaria». Accettabile o no, si rimane colpiti dal fatto che la concubina sia presentata come l’oggetto silenzioso e passivo della storia. Non le è neppure dato un nome. Nella sua vita è proprietà degli uomini, che possono quindi disporre di lei secondo i loro desideri.

Non passa molto tempo prima che scappi dal Levita e torni da suo padre. Il gli fu infedele (2) della NIV (e della maggior parte delle versioni italiane; ndt) implica che sia stata lei la responsabile della rottura della loro relazione. Il termine ebraico chiave può significare che fu «arrabbiata», piuttosto che «infedele» verso di lui. Potrebbe darsi benissimo che sia stato lui, con il suo comportamento, ad averla indotta ad andarsene e che abbia fatto quello che tutti gli altri facevano, vale a dire, quello che le pareva meglio.

c. Quattro mesi dopo… (2c – 10)
Quattro mesi dopo, il Levita si mise alla sua ricerca. Questa semplice affermazione solleva diverse domande, cui non ci sono risposte. Perché aspettò quattro mesi (2)? È indice d’indifferenza o stava cercando di porsi nella giusta attitudine mentale prima di mettersi in viaggio? Aspettava che il suo vero carattere si manifestasse, se davvero aveva commesso adulterio? Perché si mise alla sua ricerca? Era perché la amava o cercava una fredda giustizia, spinto dal desiderio di riprendersi quello che «gli apparteneva»? Se era in cerca di una vera riconciliazione, perché nel suo successivo comportamento la ignora tanto spesso? Perché il padre lo accolse così calorosamente (3)? Era perché si sentiva «solo e cercava un compagno di bevute»? Le domande si susseguono ma le risposte ci sfuggono.

Quali che siano le sue motivazioni, il Levita è bene accolto dal padre della concubina e sembra legare subito con lui. Per qualche giorno il Levita si gode l’ospitalità dei genitori di lei. Il vino è abbondante, il cibo continua ad arrivare e la compagnia è piacevole. Della concubina non si dice nulla. I riflettori sono puntati sugli uomini, che rimangono il soggetto, gli attori principali; lei è una semplice comparsa.

Pochi giorni dopo, questo clima conviviale incomincia a deteriorarsi; il Levita ha fretta di partire e di tornare a casa sua, con la concubina al sicuro al suo seguito. Il padre impone al suo sempre più impaziente ospite la propria ospitalità fino a quando il Levita non ne può più. Il loro legame, come osserva Trible, si sfalda ed è sostituito dalla rivalità e da una prova di forza in cui la figlia / concubina è una pedina silenziosa che «tutto subisce senza che nessuno si curi di lei». Ma il marito non volle passarvi la notte; si alzò, partì, e giunse di fronte a Gebus, che è Gerusalemme (10). È una voluta ironia, quella dell’autore, quando aggiunge con i suoi due asini sellati e con la sua concubina? Non ha lei, ai suoi occhi, più valore di loro?

d. Andremo fino a Ghibea (11 – 21)
Se la decisione di partire da Betlemme di sera fu folle, quella di passare oltre Gerusalemme e di forzare le tappe fino a Ghibea fu disastrosa. I preparativi per dirigersi verso Ghibea sono fatti non con la concubina ma con il servo (11 – 12). È evidente che lei non viene consultata e che i suoi desideri non sono presi in considerazione. La ragione fornita è che Gebus non sarebbe stato un rifugio sicuro per loro, dal momento che non c’erano Israeliti residenti. Così presero la via di Ghibea e la raggiunsero quando il sole tramontò (14). I moderni timori di giungere di notte senza aver predisposto nulla per l’ospitalità non devono essere stati per loro motivo di preoccupazione. L’obbligo di offrire ospitalità agli stranieri affondava le proprie radici in profondità nelle vene degli Israeliti; erano fiduciosi che se si fossero recati nella piazza della città sarebbero subito stati invitati in casa di qualcuno. Così questo è quello che fecero, solo, ahimè, per un po’, senza successo.

Alla fine un uomo che non era del posto, un vecchio… della regione montuosa d’Efraim (16) e dunque originario dello stesso territorio del Levita, che aveva lavorato fino a tardi, giunse in loro soccorso e si offrì di ospitarli. È evidente come, nell’accogliere l’invito, il Levita cerchi d’ingraziarselo parlando di se stesso e dei suoi compagni come dei tuoi servi e dicendo che hanno abbastanza provviste con loro e dunque non saranno di nessun impaccio: «A noi non manca nulla» (19). Quando si riferisce alla concubina, però, è condiscendente e parla di lei come di una «serva» (la NIV rende la parola da lui utilizzata semplicemente come «donna»), che è un «termine negativo e sprezzante». Ha quindi inizio una tranquilla notte di riposo, o almeno, questo è quello che loro pensano.

 e. Fa’ uscire quell’uomo… (22 – 26)
Quello che seguì fu terribile per tutte le persone coinvolte ma più di tutti per la concubina. La loro piacevole e tranquilla nottata fu bruscamente interrotta quando una folla di uomini del posto assolutamente privi di qualsiasi ritegno bussarono alla porta e chiesero che il visitatore maschio fosse fatto uscire in modo che potessero farne l’oggetto del loro sollazzo sessuale (22). Si trattava sotto ogni aspetto di una sconsiderata violazione delle regole dell’ospitalità. La tragica ironia era che «avendo sdegnato l’ospitalità degli stranieri ed essendosi affidato agli Israeliti, viene a trovarsi in una virtuale Sodoma». Chi lo ospita si rivela coraggioso, dato che esce a trattare con quella folla e rifiuta di cedere loro il suo ospite maschio. Ogni sensazione di avere a che fare con una persona per bene che sta facendo la cosa giusta, svanisce però rapidamente, non appena si affretta a usare la sua stessa figlia e la concubina del suo ospite come merce di scambio: due donne al posto di un uomo. Comportandosi in linea con i valori  le abitudini del suo tempo, l’ospite prese la sua posizione. Abusare di un uomo era inaccettabile. Lo stupro omosessuale sarebbe stata una palese violazione delle regole dell’ospitalità, che erano pesantemente sbilanciate in favore degli uomini. Violentare una o due donne, invece, non sembrava avere le stesse implicazioni o caricarsi dello stesso peso.

L’aspetto più sconcertante di quest’episodio della storia è la facilità con cui gli uomini sono pronti a consegnare le donne perché diventino dei giocattoli nelle mani del branco. Viene loro detto: «Fatene quel che vi piacerà». Letteralmente tradotto, l’ospite fa l’inquietante affermazione: «Fate loro quello che è giusto agli occhi vostri». Le donne sono delle pedine impotenti fatte per essere spostate sullo scacchiere a piacimento degli uomini che brandiscono il potere in una relazione assolutamente impari. Gli uomini devono essere protetti. Delle donne, tutte le volte che fa comodo, si può fare a meno. La donna diventa una vittima del vigliacco ospite maschio, dell’indifferente Levita di Efraim e dei depravati uomini di Ghibea, che, nella sciagura che segue, sono tutti complici.

La folla sembra essere lasciata fuori della porta mentre gli uomini discutono sul da farsi dentro. La figlia dell’ospite esce di scena. Quando però la folla si fa più irrequieta, il Levita non ha esitazioni: offre la sua concubina perché sia loro preda. Apre la porta e la spinge fuori, dove è soggetta a un prolungato stupro di gruppo (25). Come sottolineato da Tammi Schneider: «Il testo, non cerca di minimizzare o di edulcorare quello che le è successo»; tuttavia, non ne va però neppure fiero. Riferisce in poche parole quanto è avvenuto, senza alcun incoraggiamento al voyeurismo. Dopo ore di supplizio, una volta che gli uomini ebbero finito con lei, lasciarono il suo corpo sulla soglia, come se fosse un topo con cui un gatto ha appena finito di giocare. Come il topo, avendo servito al suo scopo, ora è scaricata ed è praticamente morta.

A quanto pare il suo padrone ha dormito comodo e tranquillo all’interno, senza alcun rimorso di coscienza e senza mostrare alcuna preoccupazione per lei. Non si alzò presto, pronto a prendersi cura di lei nel momento che fosse tornata e meno che mai si mise ad andare in cerca di lei. Così è lasciata lì distesa, abbandonata, finché fu giorno chiaro (26). Quando alla fine il Levita si alzò, si ha come l’impressione che fosse decisamente pronto a tornare a casa senza di lei, se non fosse tornata per quando lui fosse stato pronto a partire. La trova sulla soglia ma non può avere da lei alcuna risposta. Di fatto, non ha mai parlato una sola volta in tutta la storia. È stata una persona senza voce, un oggetto silenzioso cui sono fatte via via diverse cose. Ora quell’esperienza l’ha traumatizzata profondamente e l’ha ridotta così, priva di conoscenza o, più probabilmente, l’ha uccisa. L’abuso, lo stupro e la violenza erano degenerati nell’omicidio. Così il Levita raccoglie il suo corpo malridotto come se fosse un «sacco di patate» o un tappetino in vendita in un mercato, la caricò sull’asino e partì per tornare a casa sua (28). Nulla, nella storia, ci offre alcuna indicazione dei suoi sentimenti. Non la piange. Il silenzio sembra calcolato per presentarcelo come un uomo indifferente, freddo e spietato.

f. Si munì di un coltello, prese la sua concubina e la divise… (27 – 30)
L’orrore del trattamento ricevuto dalla concubina per mano degli uomini di Ghibea è compensato dall’orrore del trattamento che riceve nella morte per mano di suo marito. Giunto a casa, si munì di un coltello, prese la sua concubina e la divise (29). Anni prima, Abramo aveva preso un coltello per squartare suo figlio come sacrificio; la differenza, però, è che in Genesi 22, Dio si fa avanti e blocca quell’atto terribile. «Nel libro dei Giudici, gli atti contro le donne furono incominciati e portati a termine dagli uomini». Il Levita divide tranquillamente il suo cadavere in dodici pezzi, che mandò per tutto il territorio d’Israele (29). Con un atto «inutilmente brutale», non mostra verso di lei nessun rispetto, non tratta il suo corpo con alcuna tenerezza d’affetti e la fa crudelmente a pezzi, proprio come se fosse la carcassa di un animale atta a essere esposta per la vendita nella vetrina di una macelleria. Solo che invece di mettere il suo corpo smembrato in mostra in un negozio, ne sparpaglia i pezzi per tutto Israele. Ci si può immaginare il Levita che giustifica il suo comportamento. L’ha fatto come segno d’avvertimento a Israele. È stato per impartire loro una lezione. La macabra natura del suo pacchetto doveva indurre tutti a fare un balzo sulla seggiola e a considerare quanto si fosse caduti in basso. Serviva una terapia d’urto. Nulla di meno sarebbe stato sufficiente. Quello che ha fatto era «una versione macabra e crudele dei mezzi abituali con cu nel vicino oriente antico s’invocava un contingente militare d’emergenza». Era qualche cosa di simile a quello che più tardi avrebbe fatto Saul, quando tagliò a pezzi una coppia di buoi e li distribuì alle tribù d’Israele per incitarli (con successo) alla battaglia. Di primo acchito, l’azione del Levita sembra avere sortito l’effetto sperato. Quella di tutti è una reazione d’orrore. «Una cosa simile non è mai accaduta né si è mai vista, da quando i figli d’Israele salirono dal paese d’Egitto fino al giorno d’oggi! Prendete a cuore questo fatto, consultatevi e parlate!» (30).

Tuttavia, per quanto egli possa trovare delle giustificazioni razionali alla sua azione, la verità è che svilendo il corpo di lei, conferma di non essere migliore di tutti gli altri protagonisti della storia. La tratta come una sua proprietà, un oggetto da usare e di cui abusare a proprio piacimento e di cui potersi disfare nella maniera che più gli fosse congeniale. Le parole con cui mobilita tutti per la causa confermano il suo egocentrismo. Prima di far menzione del fatto che la sua concubina era stata violentata e uccisa, dice loro che gli abitanti di Ghibea «insorsero contro di me e circondarono di notte la casa dove stavo; avevano l’intenzione di uccidermi»’ (20:5). Le sue parole sembrano finalizzate a declinare tutte le responsabilità da lui avute per la tragedia. Il giudizio di Olsen su quest’uomo sembra difficile da contestare: «Anche se abilmente costruito», è possibile che sia lui «il personaggio più sinistro» della storia.

Inoltre, a un esame più ravvicinato, la reazione generale è più ambigua di quanto non possa sembrare. «Qualche cosa deve essere fatto», gridano. Che cosa, però? A ben pensare, la speranza è che vogliano dire che devono pentirsi del loro stato di anarchia e riformare le loro vite in vista della creazione di una società più giusta e meno violenta. Quello che segue, però, suggerisce che abbiano in mente altri tipi di risposta. Quello che hanno in mente è la guerra civile! L’azione del Levita serve soltanto a dare libero corso ad altra violenza, non ad arginarla, dato che tutto Israele si raduna a Mispa per un consiglio di guerra e stabilisce unanime di trattare la tribù di Beniamino «secondo tutta l’infamia che ha commessa in Israele». Il risultato è che 25.000 soldati Beniaminiti muoiono in battaglia e le loro città sono date alle fiamme. Anche se è una forma di giustizia, si tratta per lo più di un tipo di giustizia in cui ci si fa giustizia da sé; dove si consulta Dio più o meno alla fine, invece di consultarlo fin dall’inizio.

L’eccidio di 25.000 dei loro fratelli e il saccheggio delle loro città non soddisfece la sete di vendetta delle tribù, così viene dato libero corso ad altra violenza. Nella seconda fase sono le donne a diventare nuovamente l’oggetto della sofferenza. Molte di loro sono uccise insieme con gli uomini rimasti in vita e quattrocento vergini sono violentate. Poi, più tardi, altre duecento giovani donne sono rapite durante una festa a Silo e costrette a sposare i Beniaminiti sopravvissuti per assicurare la continuazione della tribù.[33] Lo stupro e la morte di una donna è degenerato nello stupro, nel rapimento e nell’uccisione di molte. Le donne sono quelle che pagano il prezzo più alto per l’anarchia sociale e sessuale degli uomini di Ghibea.

I capitoli 17 – 21 costituiscono una parte ben congegnata del libro dei Giudici, che porta il suo messaggio a un punto di non ritorno. Non si tratta semplicemente di una vicenda che compare e finisce semplicemente lì. Questi racconti non sono lì per caso; sono appositamente scelti in quanto emblematici di quello che succede quando le leggi di Dio sono accantonate. La società degenera e imperversa l’individualismo. Tutti fanno quello che più aggrada loro senza pensare ad altri che a se stessi. Quando questo accade, i meno forti, che sono i più vulnerabili, diventano le vittime. Quante volte, nel corso della storia, sono le donne a trovarsi fra le più vulnerabili. Diventano non tanto le peccatrici, quanto quelle contro cui si commette peccato.

Il quadro contemporaneo
La storia della concubina senza nome è fin troppo attuale. Continuamente i giornali riferiscono di donne che sono abusate e violentate dai soldati sui campi di battaglia, dagli ubriachi nei centri cittadini e dai parenti, a porte chiuse. Rendere giustizia alle vittime di violenza è spesso difficile; gli uomini trovano ancora delle giustificazioni per il loro comportamento e dei motivi per far ricadere sulle donne la colpa delle sofferenze che vengono loro inflitte.

Ecco quello che riporta un recente rilevamento di dati statistici, che è in linea con altre ricerche nel campo:

In Gran Bretagna:

  • Il 45% delle donne hanno sperimentato qualche forma di violenza domestica, si tratti di violenza sessuale o di stalking
  • Circa il 21% delle ragazze ha sperimentato qualche tipo di abuso sessuale.
  • Almeno 80.000 donne all’anno subiscono uno stupro.
  • In un sondaggio condotto per Amnesty International, secondo più di 1 intervistato su 4 una donna è parzialmente o totalmente responsabile, se è violentata, qualora si vesta in modo sessualmente eccitante o poco castigato e più di uno su cinque la pensava allo stesso modo qualora una donna avesse avuto diversi partner sessuali.
  • In media, in Inghilterra e in Galles, due donne alla settimana sono uccise da un compagno o ex compagno violento. Si tratta quasi del 40% di tutte le vittime di femminicidio.
  • Il 70% degli episodi di violenza domestica hanno per effetto una lesione.

Si stima che la violenza domestica costi alle vittime, ai servizi sociali e allo stato, un totale di circa ventitre miliardi di sterline (quasi trenta miliardi di euro, ndt) l’anno.

Nel mondo:

  • Almeno una donna su tre è picchiata, forzata a fare sesso o altrimenti abusata da parte di un compagno intimo nel corso della sua vita.
  • Secondo una banca dati mondiale, le donne di età compresa fra i 15 e i 44 anni sono più a rischio di stupro e violenza domestica che di cancro, incidenti automobilistici, guerre e malaria.

In più c’è lo scandalo del traffico di esseri umani:
Le Nazioni Unite stimano che un numero di donne e bambini compreso fra i 700.000 e i 4 milioni sia ogni anno, nel mondo, oggetto di traffico finalizzato alla prostituzione coatta, alla schiavitù e ad altre forme di sfruttamento. Si stima che il traffico di esseri umani sia un business da 7 miliardi di dollari l’anno.

Negli Stati uniti 50.000 donne e bambini sono oggetto di tratta da non meno di quarantanove paesi. Nell’ultimo decennio, all’interno degli Stati Uniti, sono stati oggetto di tratta qualche cosa come 750.000 donne e bambini.

5. Conclusione
La cultura occidentale contemporanea è diventata una cultura improntata al vittimismo, con effetti spesso banalizzanti. Il risultato è che non riusciamo a identificare le vere vittime e siamo ciechi nei confronti della vera ingiustizia che le ha rese tali. Non si dovrebbe consentire nulla che possa banalizzare le innegabili tragedie delle donne vittime dell’Antico Testamento o di quelle che nel mondo contemporaneo sono loro succedute.

Con parole che potrebbero calzare perfettamente alla concubina del Levita, Jonathan Sacks scrive:
La politica del vittimismo è cattiva politica. La psicologia del vittimismo è cattiva psicologia. Una vittima è per definizione un oggetto, non un soggetto, passiva piuttosto che attiva, qualcuno cui qualche cosa è stato fatto più che qualcuno che fa qualche cosa. Se vi vedete come una vittima, allora collocate la causa della vostra condizione in qualche cosa di esterno da voi stessi. Ciò significa che non potrete cambiarla.

Prosegue dicendo, in una citazione di Martin Seligman, che il vittimismo è una «studiata impotenza». Quantunque spesso questo sia vero, le cose non stanno sempre così. Le vere vittime sono spesso vittime non tanto di una studiata quanto di una forzata impotenza. Anche se possono esserci delle vittime che sono nelle condizioni di poter fare qualche cosa per superare la loro condizione, ci sono delle autentiche vittime che non possono farlo. La concubina del Levita era una di loro.

L’epoca dei Giudici non è passata e del suo salutare messaggio c’è ancora bisogno. Il libro dei Giudici, tuttavia, non è che una voce, quantunque una voce inquietante e che non deve essere ignorata, in quello che la Bibbia ha da dire sulle donne. Phyllis Trible sottolinea che nell’Antico Testamento greco al libro dei Giudici segue quello di Rut e una tale disposizione non è casuale. In Rut, che pure è ambientata nello stesso periodo dei Giudici, non c’è traccia di «misoginia, violenza o rivalsa». Le donne non sono vittime passive o oggetti; sono chiaramente dei soggetti attivi. Rut parla con voce diversa, una voce che reca una «parola di guarigione nei giorni dei Giudici», un messaggio che parla della possibilità di riscatto anche in una società patriarcale.[38] La voce dei Giudici deve risuonare forte e chiara; lo stesso però vale per quella di Rut.


La plausibilità nella sfera delle scelte sessuali (a proposito di un libro di Ed Shaw)

Edizioni GBU,
170 p. | 14.00 €

 

Ed Shaw, secondo Vaughan Roberts

Questo è un libro importante, uno dei più importanti che ho letto negli ultimi anni. … non è proprio un libro moderato, indirizzato solo ai credenti che vivono un’attrazione verso lo stesso sesso, per spingerli a seguire su quel tema la linea biblica. Si tratta, soprattutto, di un libro radicale, che richiede a tutti i credenti una completa trasformazione del pensiero e del comportamento.

Lasciate che vi dica perché mi piace così tanto.

Innanzitutto, è un libro sensibile. È sensibile dal punto di vista pastorale, come ci si potrebbe aspettare da uno scrittore che è trasparente in merito alla propria esperienza dell’attrazione verso lo stesso sesso. La sua onestà su come ci si sente è nuova. Egli “capisce”. Questo è importante per quelli che si trovano nella stessa situazione. Ma, cosa altrettanto importante, Ed Shaw è sensibile da un punto di vista culturale. Riconosce che gli dei della nostra epoca, siano essi riconosciuti consapevolmente o meno, hanno una maggiore influenza sulla posizioni etiche rispetto all’interpretazione biblica, anche per molti cristiani sostenitori della tesi secondo la quale la Bibbia  sia l’unica autorità. Non si tratta tanto del fatto che le menti siano state conquistate da nuove interpretazioni ma che i cuori siano stati catturati dai presupposti dell’individualismo.

In un mondo e, troppo spesso, in una chiesa, in cui l’autoespressione e l’autorealizzazione sono valori ampiamenti incontrastati, la posizione cristiana ortodossa relativa all’omosessualità può apparire a un tempo sia insostenibile sia, persino, immorale. In questa ottica pochi saranno convinti della correttezza di quell’insegnamento, per quanto biblicamente ben esposto, a meno che non siano persuasi della sua plausibilità.

Ed Shaw si rende conto che questo clima esige una riflessione che non focalizzi semplicemente la mente sull’interpretazione di alcuni testi chiave, ma che si rivolga al cuore e alle sue spesso ignote e nascoste convinzioni.

La seconda caratteristica che colpisce di questo libro è che è molto positivo. Come sostiene Ed, un approccio all’omosessualità che si limiti a dire «soltanto no!» non è più efficace, ammesso che lo sia mai stato. Quello che egli ci offre invece è una visione positiva della possibilità di una vita vibrante e appagante in comunione con Cristo per i cristiani attratti verso lo stesso sesso, anche se questo vuol dire privarsi del sesso e del matrimonio.

Sicuramente, a volte ci sarà sofferenza ma, come ci si potrebbe aspettare qualcosa di diverso se si segue colui che è entrato nella gloria mediante la crocifissione e che ha invitato i suoi discepoli a percorrere la stessa strada, rinunciando a se stessi e prendendo la croce? Ciò a cui ci viene chiesto di rinunciare non è nulla in confronto a ciò che possiamo ricevere, sia al presente sia in futuro. La vita con Cristo implica sacrificio, come in tutte le relazioni, ma dopotutto è determinata non da ciò che viene negato ma da cosa o, meglio, da chi, viene abbracciato. Il dire “no” è preceduto e avvolto dal “si” detto a Cristo, in risposta al suo amorevole “SI” per noi. Egli è venuto per portarci la vita, non una forma di morte vivente, ed è morto per renderla possibile.

Potremmo sperimentare l’equivalente di ciò che Ed chiama i suoi «momenti in cui si è a terra», quando tutto sembra cupo, ma in Cristo e tutto ciò che Dio ci dà in lui abbiamo un buon motivo per rialzarci, perseverare e gioire! Egli ci chiama non a un ostinato stoicismo ma a una fede piena di gioia nel dolore e di speranza nell’afflizione.

L’ultima ragione per cui questo libro mi piace così tanto è che è incisivo. Il tono non è mai aggressivo o prepotente, ma si può percepire la passione dell’autore e la sua legittima frustrazione. I suoi punti di vista non sono rivolti verso un obiettivo prevedibile, cioè fare concessioni ai liberali, ma è rappresentato da coloro che appartengono alla sua stessa fede evangelica.

Piuttosto che accusare gli altri di non essere biblici, dobbiamo esaminare la nostra tradizione alla luce di ciò che dice la Parola di Dio. Mentre pretendiamo di resistere agli idoli dell’edonismo e del relativismo, dobbiamo chiederci: non siamo troppo spesso entrati in un empio accordo con l’egoismo, l’idolo moderno che viene adorato più di tutti? Il risultato, troppo spesso, è un travisamento del cristianesimo autentico, in cui non c’è spazio per gravosi sacrifici e che lascia l’individuo sul trono, al posto del Dio vivente.

Intenti a contrapporci alla rivoluzione sessuale, non abbiamo forse esaltato allo stesso modo il matrimonio e il nucleo famigliare, emarginando o ignorando la visione biblica della chiesa come famiglia di Dio e del celibato, scelto o meno, come vocazione? L’attuale controversia sull’omosessualità nella chiesa ci dà l’opportunità di riconoscere e tornare indietro su questi e altri «passi falsi» che hanno aumentato enormemente il senso di implausibilità della vita a cui sono chiamati alcuni di noi.

Dal punto di vista del mondo, la chiamata di Cristo a un discepolato interpretato con sincerità e sacrificio sembra implausibile e poco attraente per chiunque, indipendentemente dalla propria sessualità o da circostanze particolari. Se vogliamo perseverare nel discepolato e persuadere chiunque altro a unirsi a noi, dobbiamo in qualche modo comunicare che ciò che viene offerto non è un insieme di regole, ma una relazione dinamica con il Dio vivente.

Non potremmo mai vivere una vita del genere nell’isolamento; come cristiani, infatti, non siamo stati lasciati soli. Conosciamo Dio come nostro Padre, che è amorevolmente sovrano su tutte le cose ed è all’opera anche nei momenti e negli aspetti più difficili della nostra vita, per il nostro bene e per la sua gloria. Conosciamo Cristo come nostro Signore e Salvatore, colui che ci chiede di prendere la sua croce e di seguirlo, avendo già dato la sua vita per noi e offerto infinitamente più di quanto egli ci richieda. E conosciamo lo Spirito come Consolatore, che è con noi in ogni passo e ci chiama a vivere una vita di profonda e soddisfacente intimità insieme a Cristo e in comunione con la chiesa.

Quando la vita cristiana viene vissuta con questo Dio al centro, essa è non solo plausibile, ma meravigliosa.

(Vaughan Roberts – St Ebbe’s Church, Oxford)