Presentazioni libri

Resta con me, Signore, il dì declina

di Filippo Falcone

Autore di “Abide with Me” (1847), Henry Francis Lyte fu pastore anglicano (della All Saints Church di Brixham, in Inghilterra), poeta e innografo. Una salute cagionevole lo spinse, secondo una prassi comune nell’800, a frequenti viaggi verso luoghi più temperati. Contrasse la tubercolosi all’età di 54 anni. Anna Maria Maxwell Hogg, figlia di Lyte, racconta come “Abide with Me” sia stato scritto proprio nel contesto della malattia, che lo porterà a una morte prematura.

Nel giorno della stesura dell’inno, malgrado la sua debilitazione fisica, Lyte aveva insistito, contro ogni resistenza dei familiari, a predicare alla sua congregazione. “Meglio essere sfinito che arrugginito”, diceva. Quella sera, esausto, mise nelle mani di un familiare l’inno, corredato da un’aria di sua composizione (A Dictionary of Hymnology, Vol. 1). Solo alcune settimane dopo, il 20 novembre del 1847, si spense a Nizza.

Abide with me; fast falls the eventide;
            The darkness deepens; Lord with me abide.
            When other helpers fail and comforts flee,
            Help of the helpless, O abide with me.

5          Swift to its close ebbs out life’s little day;
            Earth’s joys grow dim; its glories pass away;
            Change and decay in all around I see;
            O Thou who changest not, abide with me.

            Not a brief glance I beg, a passing word;
10        But as Thou dwell’st with Thy disciples, Lord,
            Familiar, condescending, patient, free.
            Come not to sojourn, but abide with me.

            Come not in terrors, as the King of kings,
            But kind and good, with healing in Thy wings,
15        Tears for all woes, a heart for every plea—
            Come, Friend of sinners, and thus bide with me.

            Thou on my head in early youth didst smile;
            And, though rebellious and perverse meanwhile,
            Thou hast not left me, oft as I left Thee,
20        On to the close, O Lord, abide with me.

            I need Thy presence every passing hour.
            What but Thy grace can foil the tempter’s power?
            Who, like Thyself, my guide and stay can be?
            Through cloud and sunshine, Lord, abide with me.

25        I fear no foe, with Thee at hand to bless;
            Ills have no weight, and tears no bitterness.
            Where is death’s sting? Where, grave, thy victory?
            I triumph still, if Thou abide with me.      

30        Hold Thou Thy cross before my closing eyes;
            Shine through the gloom and point me to the skies.
            Heaven’s morning breaks, and earth’s vain shadows flee;
            In life, in death, O Lord, abide with me.

Versione italiana
Musica: W.H. Monk – Parole: G. Rostagno

1 Resta con me, Signore, il dì declina:
fuga l’angoscia che m’opprime il cuor!
Resta con me, la notte s’avvicina,
resta con me, pietoso Redentor.
2Aspro è il sentier che fino a Te conduce,
debole sono, forte è il tentator:
vincer vorrei, ma il mondo mi seduce,
resta con me, pietoso Redentor.
3. Presso la croce tutto è calma e pace;
è dolce pure, insiem con Te, il dolor;
ogni sospiro, a Te vicino, tace;
resta con me, pietoso Redentor.
4. In questa oscura valle un dì smarrita
l’anima mia non Ti seguiva ancor;
ma Tu venisti a darle pace e vita,
resta con me, pietoso Redentor.
5 Ed ora in Te soltanto credo e spero,
in Te soltanto vivo, o mio Signor;
dolce è il tuo amor, il giogo tuo leggero,
resta con me, pietoso Redentor.

Analisi e commento (sul testo originale inglese)
Questo inno richiama da vicino temi e stilemi propri di Easter Wings (1633), componimento del poeta metafisico George Herbert (vd. Il cielo nell’ordinario, Edizioni GBU, 2020, pp. 112-16).

La prima quartina si apre con la locuzione che costituisce il filo conduttore teologico, esistenziale e poetico dell’inno. “Abide with me” fa eco alla supplica rivolta dai due discepoli sulla via di Emmaus al Signore risorto in Luca 24,29: “Essi lo trattennero, dicendo: ‘Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno sta per finire’”. 

I primi due versi presentano una costruzione chiastica (“Abide with me” / “with me abide”).
La ripetizione del medesimo suono in parole consecutive amplifica il portato della discesa repentina (“fast falls”, v. 1) di un buio fitto e profondo (“darkness deepens”, v. 2). I due versi presentano un parallelismo di significato nel segno dell’intensificazione.
Il chiasmo ha una funzione parentetica, a indicare che il Signore, che con il vocativo (“Lord”) è posto al centro dei due versi iniziali, con la sua presenza contiene, per così dire, la notte dell’io lirico. Cfr. “Quando anche camminassi nella valle dell’ombra e della morte, tu sei con me” (Sal. 23,4).

Il v. 3 presenta l’allitterazione imperfetta di “fail”, “comfort” e “flee”, figura del suono che pone enfasi sulla perdita di consolazione. L’allitterazione è replicata al v. 4 da “Help” e “helpless”, illuminando il parallelismo con la prima parte del v. 3. A “other helpers [fail]” corrisponde “Help of the helpless”. Là dove l’io lirico non può trovare soccorso in altri (“other helpers”), né in se stesso (“helpless”), il Signore invocato al v. 2 è qui identificato come l’aiuto.

“Abide with me” al termine del v. 4 costituisce il terzo fermalibro della quartina (a inizio [v. 1], centro [fine v. 2] e alla fine [v. 4]). Inizio, centro e fine, la ripetizione indica come la presenza del Signore, il Signore stesso, sia la risposta unica ed essenziale alla sofferenza esistenziale e spirituale dell’io lirico, al buio che avanza, all’assenza di consolazione e aiuto attorno a lui e in lui. “Abide with me” ritorna alla fine di ogni quartina.
Qui come nelle successive quartine, la rima baciata crea rapporti di significato, un sottotesto compiuto. Al crepuscolo che avanza (“eventide”) risponde l’invocazione (“abide”), alla fugacità (“flee”) non l’alterità di Dio, ma la natura intima della sua presenza (“me”).

Nella seconda stanza viene ripresa l’immagine del giorno che sta per finire. “Day” è qualificato come “little” (v. 5), a indicare la natura breve e fugace della vita e con essa delle gioie e delle glorie terrene (v. 6). Un parallelismo informa nuovamente il terzo e quarto verso della quartina. A “Change and decay” si contrappone “Thou who changest not”, alla caducità e transitorietà naturale colui che è lo stesso ieri, oggi e in eterno (Ebr. 13,8). La rima baciata nella quartina restituisce “day”, “away”, “see” e “me”. Là dove il giorno della vita (“day”) fugge via (“away”), l’io lirico (“me”) invoca su di sé lo sguardo (“see”) del Signore o altrimenti la sua dimora (in caso si intenda “see” come “visitare”).

La terza stanza sviluppa l’idea di tempo introdotta nella seconda. Se la realtà naturale proietta una perpetua ombra di mutamento, l’io lirico desidera che l’eternità non lo attraversi soltanto, ma che dimori nella sua esperienza finita e la ridefinisca. A “brief glance” e “passing word” (v. 9) risponde “dwellst” (v. 10), a “sojourn” “abide” (v. 12). Torna l’identificazione della seconda persona singolare nel vocativo “Lord” al secondo verso della quartina. Come quella dei discepoli sulla via di Emmaus, quella dell’io lirico è supplica (“I beg”, v. 9). L’io lirico prega il Signore di restare e dimorare con lui, come con i discepoli, nel suo amore che declina i tratti delle perfezioni immutabili di Cristo nel tempo dell’io lirico (“familiar, condescending, patient, free”, v. 11).
La rima qui sottolinea come la parola (“word”) del Signore (“Lord”) liberi (“free”) l’io lirico (“me”).

Nella quarta quartina l’allitterazione di “King”, “kings” e “kind” lega il v. 13 al v. 14. Il Signore, la cui presenza l’io lirico invoca, è sia il Re dei re altro e tremendo (“terrors”) del v. 13 sia colui che è definito dalla grazia e dall’amore (“kind and good”) del v. 14, giudice e redentore, Signore dei signori e fonte di guarigione. Visitami come colui che guarisce la mia infermità (“healing in thy wings”), come colui che non spegne il lucignolo fumante, ma sana il cuore dolente.
Là dove “tears” (v. 15) riprende “terrors” (v. 13), il v. 15 parla dell’identificazione del Signore con la realtà dell’uomo. Il Dio tremendo è colui che con la sua incarnazione partecipa alle sofferenze dell’io lirico. Lui stesso è “tears” per i suoi mali (“woes”), “heart” per ogni supplica (“plea”).

Il v. 16 completa l’identificazione dell’oggetto dell’invocazione. Egli è colui che mangia con i peccatori, l’amico dei peccatori (“friend of sinners”). L’io lirico annovera se stesso tra questi, riconoscendo a un tempo il suo bisogno del Salvatore. “Abide” al v. 16 diventa “bide” per ragioni metriche e di significato. L’inserimento di “thus” detta le prime e ridefinisce la dimora del Signore con l’io lirico come risultato della sua grazia. È come amico dei peccatori che il Signore può attendere (“bide”) con l’io lirico la fine del giorno e accompagnarlo nell’ora più buia verso un giorno nuovo.

La quinta quartina sviluppa ulteriormente il tema della precedente, mostrando come la vita dell’io lirico, sin da un’età precoce (“in early youth”, v. 17), testimoni il suo peccato (“rebellious and perverse”, v. 18) e la sua fragilità e infedeltà (“I left thee”, v. 19), ma nel contempo la vocazione, la grazia (“didst smile”, v. 17) e la fedeltà (“Thou hast not left me”, v. 19) di Dio. Il chiasmo del v. 19 – “Thou hast not left me, oft as I left thee” – intreccia la prima e la seconda persona, palesando come al fallimento dell’io lirico (“I left thee”) non corrisponda a un abbandono da parte di Dio (“Thou hast not left me”). Al contrario, quell’io lirico (“me” e “I”) che ha spesse volte (“oft”) lasciato Dio è compreso, racchiuso nell’abbraccio di “Thou” e “thee”.
La grazia che ha informato la vita dell’io lirico fino a quel momento è l’essenza stessa della sua perseveranza sino alla fine (“On to the close”, v. 20). Di qui il rinnovarsi dell’invocazione: “Abide with me”.

La rima parla del sorriso di Dio verso di lui in tenera età (“smile”) e del passare del tempo (“meanwhile”), per poi additare la dinamica di una seconda persona (“thee”) che sino alla fine definisce l’identità dell’io lirico (“me”).
La ripetizione di “thy” nei primi tre versi della sesta quartina mette in luce l’oggetto della ricerca dell’io lirico e la fonte ultima del suo bene – la presenza di Cristo, la sua grazia, Cristo stesso. La presenza di Cristo è risposta alla transitorietà (“passing hour”, v. 21), la sua grazia alla tentazione (“tempter’s power”, v. 22) e la persona di Cristo allo smarrimento dell’io lirico (“my guide and stay”, v. 23).
L’io lirico non invoca circostanze esteriori e interiori (“cloud and sunshine”, v. 24) differenti né risposte alla sua condizione, ma unicamente la presenza di Dio attraverso (“Through”) quelle circostanze e quella condizione.
La rima addita un’ora (“hour”) in cui si manifesta la potenza della tentazione (“tempter’s power”). L’io lirico può affrontarla soltanto nella misura in cui rinuncia alle prerogative dell’io per fare di Cristo la propria identità: sii me (“be me”).

La settima quartina si apre con l’allitterazione di “fear” e “foe”. Là dove torna il riferimento a satana, già tentatore (v. 22) qui nemico (“foe”), la paura viene meno nella misura in cui l’io lirico è “with thee”. Allora né lacrime (“tears”) né mali (“ills”) recano in sé l’amarezza e il peso che le definisce quando la voce lirica s’affida all’io. 
Il tono di derisione e sfida di Paolo in 1 Cor. 15:55-57 viene riecheggiato ai vv. 27-28. La vittoria di Cristo sulla morte è la vittoria presente dell’io lirico in Cristo. L’invocazione lascia il posto qui a un se (“if”) concessivo, in cui si sovrappongono una realtà posizionale e la realizzazione esperienziale della stessa. Ancora una volta, nella sconfitta della prima persona “I” campeggia il trionfo della seconda persona “Thou”. Si chiude qui un movimento iniziato nella quinta quartina con le perversioni dell’io e che culmina nella sua resa, là dove nella propria morte, nel passaggio da “I” a “with thee”, l’io lirico conosce la vita di Cristo. La rima testimonia l’appropriazione da parte dell’io lirico (“me”) della vittoria di Cristo (“victory”), che passa per una sofferenza (“bitterness”) benedetta (“bless”), poiché è nel terreno della massima debolezza che l’io lirico può conoscere la forza del Signore.

L’ultima quartina è dominata dall’immagine della croce (v. 29) e si sviluppa per figure dicotomiche, giovannee – notte e giorno (v. 31), buio e luce (vv. 30-31), morte e vita (v. 32), occhi che si chiudono e orizzonti celesti (vv. 29-30). La croce realizza il passaggio: là dove c’è il buio, essa fa risplendere la luce; là dove c’è la morte, reca vita; là dove gli occhi si chiudono e la vita si spegne, proietta lo sguardo verso infinito ed eternità; e là dove il giorno è ormai al liminare, reca con sé una nuova alba di resurrezione. L’ultimo verso si chiude con un’allusione a 1 Tess. 5,10: “[Cristo] è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui”.  
La rima rafforza questa prospettiva nella misura in cui l’io lirico (“me”) acquista occhi (“eyes”) per vedere il cielo (“skies”) e là librarsi (“flee”) su ali di Pasqua (cfr. Easter Wings).

Questo inno è una preghiera, “anima in parafrasi”, direbbe Herbert, espressione di un’anima che cerca Dio nel crepuscolo della vita, di fronte alla sofferenza e alla morte, là dove dubbio, pianto e smarrimento informano uno sguardo che non vede in sé, né attorno a sé, alcuna risposta. Risposta non c’è, né l’io lirico s’interroga. La sua è l’invocazione di chi non chiede gli sia risparmiato il buio o la notte dell’anima, il grido di chi sa che Dio non elide il passaggio attraverso la valle dell’ombra di morte, ma vi si incammina con lui e rimane con lui nel senso più intimo e profondo, facendo della sofferenza il terreno stesso del rinnovamento, lo spazio in cui l’io viene decostruito per lasciare posto alla grazia e alle sue identità.  

I Interpretazione del testo italiano sulla musica di Monk di Marta Falcone

https://www.youtube.com/watch?v=Asr7h1qWmPo

Filippo Falcone è Dottore di ricerca in Letteratura inglese e si è specializzato presso la Oklahoma State University. E’ stato professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano; ha pubblicato una monografia sul concetto di libertà in John Milton e saggi sul poeta inglese; collabora con la Società Biblica di Ginevra e con le Edizioni GBU, cone le quali ha curato l’opera di George Herbert, Il cielo nell’ordinario. Antologia ragionata e lettura critica (2020).

Dio sussurra nei nostri piaceri, parla nelle nostre coscienze ma grida nelle nostre sofferenze

C.S. Lewis nelle sue conferenze sulla sofferenza (The problem of pain – 1940; tr. it. Il problema della sofferenza – 1988) affermò che la sofferenza potrebbe essere considerata come una sorta di megafono con cui Dio cerca di parlare e a un mondo sordo ai suoi richiami.

Il regista Richard Attenborough, trasponendo cinematograficamente in Shadowlands (Viaggio in Inghilterra, 1983) un altro scritto dell’apologeta inglese Diario di un dolore (tr. it. 1990) in cui questi raccoglieva il suo calvario interiore per la morte della moglie Joy, metteva giustamente in contrapposizione la fulgida certezza della metafora riportata sopra con lo sconforto provato dallo scrittore dopo che quel megafono gli aveva strillato nelle orecchie, privandolo della moglie.

In quella vicenda la sofferenza era espressione di quello che i filosofi chiamano male naturale, il male come si manifesta nelle pieghe di una natura matrigna. È difficile (anche se non impossibile), in quei casi, pensare a un Dio che ti voglia parlare usando quel tipo di megafono.

La stessa condizione vivono sicuramente tutti coloro che nella pandemia che stiamo soffrendo stanno sperimentando il lutto e le separazioni (al 28 marzo, almeno in Italia, i morti sono ben 9134)!

Tuttavia la pandemia presenta un altro aspetto, non meno inquietante, del male naturale: esso è rappresentato dai miliardi di persone che, per evitare il contagio, sono costrette a vivere il distanziamento sociale; in pratica a recludersi e a immaginare il male che vaga nei dintorni della propria casa, cercando di intrufolarvisi ogni volta che si tocca una maniglia …

È pensando a questa massa enorme di donne e di uomini che è stato assemblato il libro che presentiamo dal titolo Lutero e la pandemia. La pandemia scopre la nostra fragilità di uomini minacciati da un elemento naturale che non si presenta, almeno non direttamente, con i contorni della tragedia diretta, improvvisa o deturpante come può essere un terremoto o un cancro. La scoperta della nostra fragilità avviene nel lento scorrere del tempo in quarantena, mentre i mezzi di comunicazione ci mettono al corrente dei numeri e delle notizie che rendono conto dell’ampliarsi del contagio e del restringersi dei nostri spazi vitali. In queste circostanze è possibile pensare alla sofferenza, a questo tipo di sofferenza, come a un messaggio che rintrona nelle nostre orecchie come se fosse trasmesso da un megafono, o da un altoparlante.

Dio sta parlando? Per i credenti è facile intravedere i tratti di questo discorso; lo è un po’ meno per chi credente non è. Il nostro testo vuole provare a raccogliere in uno le certezze del credente e i dubbi del non credente, rintracciando tutti i registri con i quali è possibile mettersi all’ascolto del megafono di Dio.

Queto instant book esce nel mentre l’OMS calcola che al mondo siano più di 300.000 i contagi mentre i morti arrivano a 15.000. Alcuni elementi caratterizzano il testo. Il primo è rappresentato dalla composizione: è evidente che il lbro è composto da due parti. Nella prima il fulcro è rappresentato dalla traduzione della lettera di Lutero sul comportamento dei cristiani nell’epidemia che imperversava nella seconda metà degli anni ’20 in Germania e che aveva coinvolto anche Wittenberg (Se sia lecito fuggire da una pestilenza mortale). Il testo di Lutero è preceduto da un’introduzione che ricostruisce il contesto storico e da un commento al testo medesimo da parte di uno studente di teologia ciinese della zona di Wuhan.
Nella seconda parte, segnata dal sottotitolo “la fede ai tempi del coronavirus”, sono raccolti i contributi in parte pubblicati sul nostro blog del DiRS–GBU.

Il secondo elemento che caratterizza questo libro è il fattore temporale: tutti i contributi, soprattutto quelli della seconda parte, riportano la data in cui sono stati pubblicati. Scorrendoli si ottiene una sorta di time lapse dell’esperienza della pandemia che, mentre pubblichiamo, è ben lungi dal permetterci di vedere all’orizzonte la luce in fondo al tunnel.

Nel darlo alle stampe nutriamo la fiducia che, pur nell’alternanza di certezze e interrogativi, il testo possa contribuire a farci cogliere il messaggio che Qualcuno vuole forse comunicarci.

(Giacomo Carlo Di Gaetano)

Il cielo nell’ordinario

Filippo Falcone

Abbiamo rivolto alcune domande a Filippo Falcone, il curatore di uno splendido volume sulla poesia del poeta inglese Gerge Herbert, dal titolo Il cielo nell’ordinario (di prossima pubblicazione presso Edizioni GBU, nella collana Orizzonti del pensiero cristiano)
Filippo Falcone
 insegna inglese presso un Liceo di Domodossola e collabora con Società Biblica di Ginevra ed Edizioni GBU. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Letteratura inglese presso l’Università degli Studi di Milano e si occupa dell’intersezione fra teologia e letteratura nel Rinascimento inglese. Fra le sue pubblicazioni, Milton’s Inward Liberty. A Reading of Christian Liberty from the Prose to Paradise Lost (Pickwick 2014).


Filippo, chi prende in mano questo libro la prima cosa che fa è leggere il titolo. «Il cielo nell’ordinario»: che cosa significa, potresti spiegarlo?

In una sua breve lirica, Christina Rossetti scriveva «Heaven is not far» (Il cielo non è lontano), riferendosi alla realtà celeste successiva alla morte. George Herbert, dal canto suo, non vede il cielo soltanto come una realtà futura, per quanto prossima, ma come una realtà presente. Il cielo è qui e ora. Il cielo non è infatti inteso unicamente come spazio della beatitudine futura, ma come escatologia realizzata nella comunione presente con Dio. La locuzione «cielo nell’ordinario» è tratta dal componimento “Prayer” (“Preghiera”) e si riferisce qui alla preghiera. La preghiera è cielo nell’ordinario, perché canale attraverso cui esperire la presenza e la comunione con Dio nel quotidiano. Come la preghiera, molteplici sono per Herbert i mezzi ordinari della comunione con Dio, primo fra tutti la Scrittura, frammento di cielo nell’ordinario e spazio dell’incontro con la Parola. La Cena del Signore, a sua volta, è segno di ciò che è altro e diventa terreno della presenza del Signore là dove espressione fisica della fede. Ma c’è di più. È l’ordinario nella sua totalità ad assumere funzione sacramentale nella misura in cui la fede realizza la presenza di Dio nel segno. La poesia stessa allora diventa nelle mani di Herbert cielo nell’ordinario quando si costituisce parola della Parola.

Chi è George Herbert? Perché hai scelto proprio lui?

George Herbert (1593-1633) vive e opera nell’Inghilterra pre-rivoluzionaria e incarna la figura dello studioso umanista e riformato che abbraccia in sé impegno civile, religioso ed espressione artistica. Herbert è oratore pubblico per l’Università di Cambridge e membro del parlamento inglese, parroco anglicano, musicista e poeta. In lui queste dimensioni non sono altrettante categorie in cui suddividerne la persona e l’opera, ma declinazioni di un’unica realtà radicale e olistica di conoscenza e servizio di Dio in Cristo. Se le altre espressioni sono necessariamente legate alla contingenza storica, quella poetica ha un respiro universale che giunge fino al lettore di oggi e lo chiama in causa, facendogli vedere, udire e sentire tramite immagini sensibili e ordinarie ciò che è altro.

La poesia, che è un modo di organizzare il parlare, la parola, tenta di ridire un’altra Parola; non si potrebbe correre il rischio che questa seconda parola (la poesia) fagociti e oscuri l’altra Parola, quella divina?

Per Herbert, la parola poetica non può sostituirsi né sovrapporsi alla Parola. Essa non è la Parola, ma può soltanto essere generata dalla Parola e definita dal suo servizio. In questo senso, la poesia è parola della Parola nella misura in cui è espressione della grazia che rigenera il poeta e che scrive il suo verso, un verso nuovo declinazione di un nuovo canto che, funzione della Parola, porta l’anima in campo aperto, là dove Dio desidera incontrarla.

Ma secondo te è possibile veramente che il cielo possa scendere nel flusso ordinario delle cose?

Lo è, perché lo ha fatto. La Parola stessa si è fatta carne e ha abitato per un tempo fra noi. Giovanni dice: «Quello che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi e che le nostre mani hanno toccato della Parola della vita…». Herbert vive naturalmente nel tempo in cui, nelle parole di Regina Schwartz, «Dio ha lasciato la terra», ma se carne e sangue non possono ereditare le cose del cielo, è sul piano della fede, in ordine ai sensi della fede, che si gioca la possibilità di conoscere e sperimentare Dio nel flusso ordinario delle cose. Prima della sua ascesa al cielo, Gesù promette di non lasciare orfano l’uomo: lo Spirito, il Paracleto, raggiungerà l’uomo per abitare in lui e comunicargli Cristo. La fede in Herbert si appropria della realtà dello Spirito facendosi verso.


Autore: George Herbert
Titolo: Il cielo nell’ordinario. Antologia ragionata e lettura critica
Collana: Orizzonti del pensiero cristiano
A cura di Filippo Falcone
Prefazione di G. Iannaccaro
FORMATO: 21,5 X 13,5
ISBN: 9788832049138
PREZZO: € 14,00 | PP. 209
GENNAIO | FEBBRAIO 2020

La morte per via delle mille ferite inferte dalla vergogna

Curt Thompson
La vergogna. La sua anima, gli eetti che produce e i possibili rimedi

www.edizionigbu.it


Alla ricerca di una definizione

Cos’è, dunque, esattamente quella realtà cui diamo il nome di vergogna? Come riconoscerla, quando si presenta? … Possiamo ricorrere a varie parole (umiliazione, imbarazzo, indegnità, disgrazia, etc.). …rappresentazioni dell’effettivo stato neuropsicologico in cui entriamo quando la sperimentiamo.

… l’aspetto più radicato e potente della vergogna è il suo ca­rattere emozionale. Certo, può emergere in risposta a infor­mazioni ricevute e dare quindi l’impressione di avere la pro­pria origine nella cognizione; la sua forza, però, sta nell’espe­rienza percepita che ne abbiamo.

[ma]… non considero la vergogna come una contaminazio­ne neutra o benigna.

Non si tratta semplicemente di provare un’emozione che alla fine si traduce in espressioni come «mi sono comportato male». … questo fenomeno è il mezzo fondamentale su cui il male fa leva, la scaturigine di tutto ciò che possiamo definire peccato.

La mia ipotesi è che il rovinoso intento del male non trovi attuazione più vigorosa (quantunque subdola, in linea con la sua abilità di stratega) che tramite lo sfruttamento della vergogna. Nel­la prospettiva di un’antropologia biblica, la vergogna non è un giocatore neutrale in campo. Non è un mero artefatto del­la nostra esistenza o semplicemente uno dei tanti diversi stati emozionali affioranti dalle nostre reti neurali.

Ciò che inizia nella mente come separazione delle sue di­verse funzioni e porta all’isolamento di ciascuna di loro dalle altre, alla fine trova espressione nel mondo delle relazioni, dal­la famiglia, alle amicizie, alle comunità, alle nazioni, lascian­dole ferite e incapaci di ricostruire qualsiasi senso d’integri­tà relazionale. Ecco la vergogna nella sua peggiore espressio­ne. Non c’è bisogno di credere in Dio per sapere che è così che funziona. Ci siamo passati tutti e sappiamo che questo senso di dis–integrazione è reale.

… quando gli indivi­dui non trattano la vergogna da loro provata sul piano perso­nale, gli esiti potenzialmente esplosivi alla fine possono fago­citare interi pezzi d’umanità.

Vergogna e persona
Maturiamo un profondo senso di ver­gogna prima e più di quanto non elaboriamo una spiegazione razionale di una serie di eventi.

Per qualcuno la ver­gogna può celarsi nei particolari della sua vicenda, oppure può essere di pubblico dominio. Può essere oscurata dal linguaggio proprio di altre emozioni a noi più familiari come la tristezza, l’ira, la delusione o perfino il senso di colpa. Oppure può es­sere una presenza avvertita profondamente e consapevolmente in molte delle nostre ore di veglia. Possiamo avere eventi, im­magini, parole o espliciti sentimenti che la rappresentano. Può essere compulsiva o può darsi che ne scorgiamo appena la sua azione nel mezzo del nostro tran tran quotidiano. Alla fine, però, tutti ci troveremo ad affrontare questo spettro… A quanto pare, non c’è modo di evitarlo.

Quando la vergogna dà il peggio di sé produce una sensa­zione e un tono emozionale privi di eguali. Pochi stati emo­zionali possono competere con lei per quanto riesce a esse­re insopportabile e dolorosa.

Nell’allontanare lo sguardo e il corpo da qualcuno, per esempio, cerchiamo di ridurre il più velocemente possibi­le il sentimento dolorosamente acuto di essere esposti. Anche se non ce ne rendiamo conto, stiamo rinfor­zando l’idea profondamente sentita, metabolizzata attraver­so tratti della memoria implicita, di avere effettivamente ra­gione di vergognarci.

Ricordiamo che quando si tratta di disturbi dell’emotività, specie di qualche cosa così destabilizzante come la vergogna, il cervello farà tutto quan­to è in suo potere per ridurre quel disagio il più velocemen­te possibile. In questo modo, la nostra reazione alla vergogna, che si tratti di un allontanamento fisico o dell’elaborazione della nostra narrazione, non fa che rinforzarla. … Vuo­le che raccontiamo le nostre storie in modo tale da essere noi la sola parte responsabile di quanto proviamo; vuole che col­tiviamo l’isolamento, non le relazioni. Provo vergogna, quin­di, perché devo vergognarmi.

La vergogna è presente ovunque ed è insita nel DNA dello sforzo narrativo umano. Possiamo anche figurarcela come un tutor personale. Immagina di avere a tua completa disposizio­ne un tutor sensibile a ogni tua percezione, immagine, emo­zione, idea e attività. Immagina però che questo tuo tutor, la vergogna, non abbia buone intenzioni; che non si preoccu­pi di te ma d’infondere elementi non verbali e verbali di giu­dizio in ogni momento della tua vita. La parola tutor o tuto­re sulle prime può sembrare poco indicata dato che di solito si riferisce a qualcuno che ha a cuore il nostro migliore inte­resse. È così, però, che la vergogna funziona: è un lupo in ve­ste d’agnello.

Non dobbiamo fare molta fatica a immaginare come un so­stanziale senso di vergogna possa portarci a giudicare, nascon­derci, metterci sulle difensive e isolarci. Non è così scontato comprendere che esporsi è la sola cosa necessaria per guarire dalla vergogna. Visto quanto ci sentiamo costretti ad allonta­narci, ad attaccare noi stessi dall’interno o gli altri in risposta alla vergogna, non ci viene intuitivo un repentino movimen­to verso l’altro quale via d’uscita dal problema. Quando siamo in mezzo a una tempesta di vergogna, sembra sostanzialmente impossibile tornare a voltarsi per guardare in faccia qualcuno, anche qualcuno con cui altrimenti potremmo sentirci a no­stro agio. È come se il nostro solo rifugio fosse il nostro isola­mento; la prospettiva di mettere in piazza quello che provia­mo, attiva le nostre previsioni di altra vergogna.

La vulnerabilità
… nessuno prova mai il mor­so acuto della vergogna a prescindere dall’iniziale interazio­ne con qualcun altro che, pur senza avere forse nessuna con­sapevole intenzione di farlo, attiva la risposta della vergogna. Risultato: quantunque la vergogna riguardi soprattutto me, non riguarda mai solo me, neppure quando l’esperienza che ne ho sembra emergere in tutto e per tutto dalle profondità dei recessi della mia mente.

Quando, in presenza di qualcun altro, mi prende un senso di disagio, anche se è facile che attribuisca alla persona esterna alla mia pelle la responsabi­lità del mio turbamento, il vero problema è molto più vicino a me, perché in definitiva è dentro di me.

Abitiamo un mondo in cui abbiamo ereditato, ge­neticamente, epigeneticamente, generazionalmente e cultu­ralmente la tendenza a nasconderci in risposta al timore in­dotto dall’evocazione della nostra vulnerabilità. Non, però, semplicemente della nostra vulnerabilità come un dato ben­sì come una percepita implicazione: l’imminente abbandono di cui stiamo per essere oggetto profetizzato dalla vergogna.

Un’esplosione distruttiva di vergogna influisce profonda­mente sul senso del sé di chiunque. Anche se, però, nella no­stra esperienza la vergogna è una reazione interamente e au­tonomamente interna al nostro essere, essa emerge in rispo­sta a un nostro incontro con qualcun altro.

Eppure, è nel movi­mento verso l’altro, verso la connessione con qualcuno di fida­to, che veniamo a conoscere la vita e la libertà da questa pri­gione.

Paradossalmente, la soluzione sta nel fare proprio quello che la vergogna ci convince essere l’atto più pericoloso e mi­naccioso che potremmo compiere.

Noi saremo insufficienti. Nella nostra cultura, ammettere di non avere le nostre vite ben confezionate e impacchettate, di esse­re nel caos, di avere bisogno dell’aiuto di qualcun altro, è qua­si una bestemmia. Ammettere di non conoscere qualche cosa, di non essere bravi in qualche cosa o di avere commesso un errore, essere vulnerabilmente conosciuti, non è certo qualche cosa in cui siamo maestri.

Abbiamo però il terro­re della vulnerabilità necessaria proprio per questo contatto. La vergogna è la variabile che veicola tale paura del rifiuto di fronte alla vulnerabilità.

L’Altro
… come la tripartizione fra mente, cervello e relazionalità può essere distrutta dalla vergo­gna, allo stesso modo le relazioni sono lo strumento con cui la vergogna è controllata e guarita mediante il conseguimen­to di un attaccamento sicuro (eco di Dio che viene a noi in­carnato in Gesù).

Per quanto allettante sia la speranza di poter eliminare la ver­gogna dalla nostra dieta relazionale, si tratta di un vano desi­derio. La nostra speranza sta invece nel cambiamento del no­stro modo di risponderle lungo il nostro comune cammino verso il regno di Dio, già presente anche se non ancora in tut­ta la sua pienezza.

Ecco quello che fa il Dio della narrazione biblica. Cerca. Riesce a trovarci. Nella nostra percezione, spesso si sta allontanando, lasciandoci al di fuori della sua mente. Questo forse dice più della nostra capacità percettiva che dei suoi movimenti e del­la sua presenza.

Non dobbiamo dimenticarcene: siamo fatti di polvere e respiro e la guarigione della vergogna implicherà necessariamente di ope­rare diversamente con il nostro corpo. Ci muoveremo, quan­do prima eravamo letteralmente incapaci di farlo a causa del­la nostra paralisi emotiva. Parleremo quando prima tacevamo. Manifesteremo un concreto agire nel mondo reale, come Dio ha fatto in Gesù, dicendo agli altri di stendere le loro mani (Mc 3:5), di prendere i loro lettucci e camminare (Gv 5:11) e di andare a lavarsi (Gv 9:7). La guarigione della vergogna non è mai soltanto un’operazione interiore.  (192)

… non si deve fare molta fatica a riconoscere la vulnerabilità di Gesù e la realtà del tentativo, da parte della vergogna, di farlo letteralmente a brandelli, riducendolo a una condizione di dis–integrazio­ne.

Possiamo essere qualsiasi cosa: genitori, pastori, contadi­ni, allevatori, giocatori di basket, falegnami, agenti di polizia, ingegneri delle strutture; queste attività le facciamo in risposta all’amore e alla vergogna in competizione fra loro per la no­stra attenzione, in lotta per il controllo sulla nostra memoria, le nostre emozioni, le nostre percezioni e i nostri comporta­menti. Queste due forze emotive governano l’universo e rap­presentano la lotta fra il bene e il male. Dentro ciascuno di noi questi due stati emotivi, rappresentati dalla presenza del­lo Spirito Santo da un lato e da quell’eminenza grigia che è la vergogna dall’altro, sono in guerra per noi e la cultura che stiamo plasmando. Nello Spirito riecheggia la voce del nostro Padre che ci dice che siamo sue figlie e suoi figli; egli ci ama e si compiace in noi. Il nostro tutor, la vergogna, ci ricorda, a volte in modi eclatanti, altre volte in modi più sottili, che tut …..

Se però crediamo di fare parte di un grande arazzo che Dio sta in­tessendo, allora ogni momento in cui scegliamo consapevol­mente di vivere in modo vulnerabile, esponendo la nostra ver­gogna in un contesto comunitario sicuro e salutare, mettia­mo, con l’aiuto di Dio, un altro mattone nel suo regno che è al tempo stesso già e non ancora. Nel processo, narriamo la grande storia della speranza, della fede e della gioia, a dispet­to del difficile lavoro necessario per portate un grande dram­ma al suo momento culminante. (230)

Abbiamo così chiuso il cerchio. Abbiamo studiato la natura fondamentale della vergogna e visto che non è un mero arte­fatto, bensì una componente dell’esperienza umana brandi­ta intenzionalmente dal male, che se ne serve per dis–inte­grare, in modo subdolo e silenzioso, le nostre menti, le no­stre relazioni e le nostre comunità. Abbiamo anche visto che la guarigione della vergogna comporta una nostra disponibi­lità a non essere così sciocchi da aspettare che sia lei a trovar­ci ma a stanarla noi (seguendo l’esempio di Gesù). Infine, ab­biamo visto come le nostre abitudini narrative incomincino a casa, siano affinate nella famiglia di Dio e ci accompagnino poi in ogni ambito vocazionale da noi occupato. Osserviamo in questo modo come l’obiettivo che il male si prefigge in rap­porto alla vergogna non sia semplicemente quello di rendere miserevoli le nostre vite interpersonali; egli vuole distruggere ogni cosa pensata da Dio per la bontà e la bellezza del mon­do. Il suo intento non è solo quello di affossare la nostra cre­atività come artisti, ingegneri, insegnanti: vuole anche che ci sentiamo, semplicemente, scontenti di noi stessi.

(Curt Thompson)

 

La plausibilità nella sfera delle scelte sessuali (a proposito di un libro di Ed Shaw)

Edizioni GBU,
170 p. | 14.00 €

 

Ed Shaw, secondo Vaughan Roberts

Questo è un libro importante, uno dei più importanti che ho letto negli ultimi anni. … non è proprio un libro moderato, indirizzato solo ai credenti che vivono un’attrazione verso lo stesso sesso, per spingerli a seguire su quel tema la linea biblica. Si tratta, soprattutto, di un libro radicale, che richiede a tutti i credenti una completa trasformazione del pensiero e del comportamento.

Lasciate che vi dica perché mi piace così tanto.

Innanzitutto, è un libro sensibile. È sensibile dal punto di vista pastorale, come ci si potrebbe aspettare da uno scrittore che è trasparente in merito alla propria esperienza dell’attrazione verso lo stesso sesso. La sua onestà su come ci si sente è nuova. Egli “capisce”. Questo è importante per quelli che si trovano nella stessa situazione. Ma, cosa altrettanto importante, Ed Shaw è sensibile da un punto di vista culturale. Riconosce che gli dei della nostra epoca, siano essi riconosciuti consapevolmente o meno, hanno una maggiore influenza sulla posizioni etiche rispetto all’interpretazione biblica, anche per molti cristiani sostenitori della tesi secondo la quale la Bibbia  sia l’unica autorità. Non si tratta tanto del fatto che le menti siano state conquistate da nuove interpretazioni ma che i cuori siano stati catturati dai presupposti dell’individualismo.

In un mondo e, troppo spesso, in una chiesa, in cui l’autoespressione e l’autorealizzazione sono valori ampiamenti incontrastati, la posizione cristiana ortodossa relativa all’omosessualità può apparire a un tempo sia insostenibile sia, persino, immorale. In questa ottica pochi saranno convinti della correttezza di quell’insegnamento, per quanto biblicamente ben esposto, a meno che non siano persuasi della sua plausibilità.

Ed Shaw si rende conto che questo clima esige una riflessione che non focalizzi semplicemente la mente sull’interpretazione di alcuni testi chiave, ma che si rivolga al cuore e alle sue spesso ignote e nascoste convinzioni.

La seconda caratteristica che colpisce di questo libro è che è molto positivo. Come sostiene Ed, un approccio all’omosessualità che si limiti a dire «soltanto no!» non è più efficace, ammesso che lo sia mai stato. Quello che egli ci offre invece è una visione positiva della possibilità di una vita vibrante e appagante in comunione con Cristo per i cristiani attratti verso lo stesso sesso, anche se questo vuol dire privarsi del sesso e del matrimonio.

Sicuramente, a volte ci sarà sofferenza ma, come ci si potrebbe aspettare qualcosa di diverso se si segue colui che è entrato nella gloria mediante la crocifissione e che ha invitato i suoi discepoli a percorrere la stessa strada, rinunciando a se stessi e prendendo la croce? Ciò a cui ci viene chiesto di rinunciare non è nulla in confronto a ciò che possiamo ricevere, sia al presente sia in futuro. La vita con Cristo implica sacrificio, come in tutte le relazioni, ma dopotutto è determinata non da ciò che viene negato ma da cosa o, meglio, da chi, viene abbracciato. Il dire “no” è preceduto e avvolto dal “si” detto a Cristo, in risposta al suo amorevole “SI” per noi. Egli è venuto per portarci la vita, non una forma di morte vivente, ed è morto per renderla possibile.

Potremmo sperimentare l’equivalente di ciò che Ed chiama i suoi «momenti in cui si è a terra», quando tutto sembra cupo, ma in Cristo e tutto ciò che Dio ci dà in lui abbiamo un buon motivo per rialzarci, perseverare e gioire! Egli ci chiama non a un ostinato stoicismo ma a una fede piena di gioia nel dolore e di speranza nell’afflizione.

L’ultima ragione per cui questo libro mi piace così tanto è che è incisivo. Il tono non è mai aggressivo o prepotente, ma si può percepire la passione dell’autore e la sua legittima frustrazione. I suoi punti di vista non sono rivolti verso un obiettivo prevedibile, cioè fare concessioni ai liberali, ma è rappresentato da coloro che appartengono alla sua stessa fede evangelica.

Piuttosto che accusare gli altri di non essere biblici, dobbiamo esaminare la nostra tradizione alla luce di ciò che dice la Parola di Dio. Mentre pretendiamo di resistere agli idoli dell’edonismo e del relativismo, dobbiamo chiederci: non siamo troppo spesso entrati in un empio accordo con l’egoismo, l’idolo moderno che viene adorato più di tutti? Il risultato, troppo spesso, è un travisamento del cristianesimo autentico, in cui non c’è spazio per gravosi sacrifici e che lascia l’individuo sul trono, al posto del Dio vivente.

Intenti a contrapporci alla rivoluzione sessuale, non abbiamo forse esaltato allo stesso modo il matrimonio e il nucleo famigliare, emarginando o ignorando la visione biblica della chiesa come famiglia di Dio e del celibato, scelto o meno, come vocazione? L’attuale controversia sull’omosessualità nella chiesa ci dà l’opportunità di riconoscere e tornare indietro su questi e altri «passi falsi» che hanno aumentato enormemente il senso di implausibilità della vita a cui sono chiamati alcuni di noi.

Dal punto di vista del mondo, la chiamata di Cristo a un discepolato interpretato con sincerità e sacrificio sembra implausibile e poco attraente per chiunque, indipendentemente dalla propria sessualità o da circostanze particolari. Se vogliamo perseverare nel discepolato e persuadere chiunque altro a unirsi a noi, dobbiamo in qualche modo comunicare che ciò che viene offerto non è un insieme di regole, ma una relazione dinamica con il Dio vivente.

Non potremmo mai vivere una vita del genere nell’isolamento; come cristiani, infatti, non siamo stati lasciati soli. Conosciamo Dio come nostro Padre, che è amorevolmente sovrano su tutte le cose ed è all’opera anche nei momenti e negli aspetti più difficili della nostra vita, per il nostro bene e per la sua gloria. Conosciamo Cristo come nostro Signore e Salvatore, colui che ci chiede di prendere la sua croce e di seguirlo, avendo già dato la sua vita per noi e offerto infinitamente più di quanto egli ci richieda. E conosciamo lo Spirito come Consolatore, che è con noi in ogni passo e ci chiama a vivere una vita di profonda e soddisfacente intimità insieme a Cristo e in comunione con la chiesa.

Quando la vita cristiana viene vissuta con questo Dio al centro, essa è non solo plausibile, ma meravigliosa.

(Vaughan Roberts – St Ebbe’s Church, Oxford)

Tre domande a Giancarlo Rinaldi su Paolo e Nerone

Giancarlo Rinaldi, Paolo e Nerone. L’Epistola ai romani alla luce della storia e dell’archeologia, Edizioni Vivarium novum, Roma 2019, pp. 310, euro 20,00.

 

 

 

1. Un ennesimo commentario all’Epistola ai romani di Paolo? E perché, poi, se a scriverlo non è un teologo né un esegeta di professione?

Ho scritto questo testo proprio perché non ho una formazione teologica ma ho compiuto studi di storia del mondo antico e ho insegnato in università di Stato piuttosto che in seminari o istituti religiosi. La grande sfida per me, infatti, era quella di capirci qualcosa in più in un testo non sempre facile, ponendomi dal punto di vista non dell’esegeta moderno bensì di quello di chi visse all’epoca in cui Paolo scrisse e il suo messaggio iniziò a circolare. Questo spiega anche il perché io abbia scelto una Casa Editrice che non ha mai pubblicato studi sulla Bibbia ma che è specializzata in testi scolastici per lo studio del latino e del greco: ho voluto restituire all’attenzione dei classicisti un documento che appartiene pienamente alla loro letteratura, poiché è scritto in greco, ma che solitamente non viene adeguatamente apprezzato nei percorsi scolastici o universitari. Dal versante opposto, ho inoltre voluto dimostrare ai lettori affezionati alla Bibbia come un suo libro sia molto più facilmente comprensibile quando lo si inserisce nel suo naturale contesto storico. Nel nostro caso il principato di Nerone che va dal 54 al 69 d.C.

2. Quale novità di rilievo emerge da questa contestualizzazione?

Parecchie. Paolo presenta alle comunità romane che lo leggevano (ed erano esigue e non prive di crisi e problematiche) un ‘manifesto’ il quale da un lato metteva in crisi la convinzione dei giudei di costituire, loro e loro soltanto, il popolo di Dio, dall’altro sfidava l’intero impianto culturale classico: una tradizione millenniale di cultura, religione, filosofia, etc. In particolare Paolo sfidò, senza neanche esserne pienamente consapevole, l’assiologia del princeps, di Nerone, cioè la sua visione del mondo e dell’impero la quale metteva al centro l’opera di un imperatore assimilato alla sfera del divino e brillante nelle sue realizzazioni ed esibizioni artistiche. Da questa sfida, paradossalmente, il rabbino di Tarso uscì vincitore e le sue pagine, dopo aver ispirato molte menti acutissime (si pensi ad Agostino, Lutero, Wesley, Barth, etc.) ancora oggi fanno discutere. Paolo ha sfidato i confini della città antica quando ha configurato una nuova politèia, cioè cittadinanza celeste; ha sfidato la filosofia stoica (in auge alla corte neroniana se solo si pensa a Seneca) quando ha proclamato una nuova via per la conoscenza del divino e un nuovo concetto di prònoia – provvidenza; ha sfidato le tecniche esegetiche allora in auge rileggendo, ad esempio, le vicende di Abramo, di Esaù e di Giacobbe; ha polemizzato con il fatalismo astrologico parlando di coordinate celesti (“altezza e profondità”) vinte dalla forza liberatrice di Cristo; ha circoscritto la teologia imperiale d’impianto ellenistico affermando che l’aucoritas del princeps non è assoluta e naturale bensì derivata dall’Alto. Ma v’è anche tanto altro come espongo nel mio volume.

 

3. Chi legge l’Epistola ai romani con interesse di teologo o anche di semplice credente che giovamento può ricevere dalla lettura del suo libro?

In generale la contestualizzazione del documento, con il sussidio della storia romana e dell’archeologia del periodo, aiuta non poco a comprendere il testo stesso nel suo significato specifico. Intanto ci si libera da successive stratificazioni esegetiche le quali spesso sono diventate pesanti precomprensioni. Nella storia è sempre il prima che spiega il poi e mai viceversa. Risulta ad esempio che Paolo aveva ben presente il sostanziale fallimento della sua missione verso i giudei, che pure erano suoi naturali ‘fratelli’ di sangue. Fu questo fallimento ad aprirgli gli enormi orizzonti di un apostolo “delle genti”, cioè dei ‘pagani’. Questa acquisizione ci fa rileggere i tormentati capitoli dal nono all’undicesimo con nuova luce: Paolo, ad esempio, enfatizza la sovranità di Dio nel processo di salvezza (via salutis) non certo per attribuirgli la condanna aprioristica di un gruppo o di chicchessia ma anzi, al contrario, per mettere a tacere quei giudei he reputavano impossibile l’estensione della grazia di Dio all’universo mondo di chi avrebbe creduto. E ciò a prescindere da afferenze etniche. Inoltre una lettura attenta del capitolo settimo ci fa comprendere il debito di quella pagina verso le tecniche della retorica antica per cui la prigionia del peccato e la difficoltà al bene operare (video bona, deteriora sequor) non è già un’autoconfessione d’impotenza di Paolo bensì una ‘prosopopea’, cioè un espediente letterario che mette in scena un interlocutore tipizzato laddove invece, l’esperienza paolina (che è poi quella dell’autentico credente) è quella della liberazione dal peccato. Secondo il manifesto paolino la vittoria sul peccato è possibile, e proprio in questa vita, senza attendere ‘purgatorio’ di sorta nell’aldilà né liberazioni dell’anima dal corpo, secondo la diffusa concezione orfico platonica dell’epoca. Insomma quando Paolo chiamava ‘santi’ i suoi lettori non li prendeva in giro: faceva sul serio.

 

Habermas per chi non ha tempo

La casa editrice Morcelliana (come anche altre case editrici italiane) ha inaugurato da non molto tempo una collana intitolata “Piccoli fuochi”, dove vengono proposti in forma di libriccino, dei saggi importanti di autori che hanno scritto testi significativi per il pensiero e la cultura occidentale. Tra gli ultimi testi pubblicati vi è il saggio Rinascita delle religione e secolarismo, scritto da J. Habermas, uno dei maggiori filosofi viventi, circa nove anni fa e che riassume il pensiero del francofortese a riguardo del rapporto tra società e religione nel XXI secolo, riprendendo alcune delle questioni affrontate in maniera più ampia da Scienza e fede e Verbalizzare il sacro, editi in Italia entrambi da Laterza e di quanto da lui affermato precedentemente nei confronti con l’allora cardinale Ratzinger e Böckenförde, filosofo del diritto tedesco di origine cattolica.

Il saggio pubblicato dalla casa editrice bresciana ha una nota prefattiva di Leonardo Ceppa che espone e colloca il testo all’interno della produzione dell’ultimo Habermas e della revisione che egli ha fatto del suo pensiero sicuramente in senso più moderato, ma anche molto più aperto al fatto religioso. Ceppa cita come antesignano di questo interesse uno dei maestri di Habermas: M. Horkheimer. Anche Horkheimer nel suo periodo finale aveva parlato di una Nostalgia del totalmente altro, anche se la sua visione era più disperante di quella habermasiana e meno propositiva della stessa. Per Ceppa infatti Habermas ha un atteggiamento maggiormente positivo nei confronti della religione, grazie anche al confronto con i pensatori del mondo anglosassone, che hanno rivisto il concetto di secolarizzazione della società.

Il saggio di Habermas inizia con una riflessione sulla secolarizzazione, ammettendo che le interpretazioni sociologiche classiche che hanno visto nel XIX e XX secolo la fine della religione ed avevano preconizzato la sparizione della stessa erano sbagliate, non solo hanno sbagliato nelle loro previsioni ma hanno sopravvalutato le loro osservazioni, sottovalutando l’importanza del fatto religioso. Allo stesso tempo l’A. Ritiene che il processo di secolarizzazione della società che non significa l’aumento di un professante ateismo, quanto l’applicazione nel campo politico e sociale di una legislazione diversa da quella propugnata dai valori religiosi.

Il filsofo tedesco ritiene anche che la maggiore “visibilità” della religione avutasi negli ultimi decenni non derivi semplicemente dall’aver visto con più attenzione al mondo emergente (i continenti diversi da quello europeo), ma dall’affermarsi dei fondamentalismi in tutte le religioni che hanno fatto parlare più di prima del fatto religioso e dalla differente interpretazione che è arrivata all’idea che esso divenisse il motivo principale dei conflitti, come ha sostenuto da Huntington parlando di conflitti di civiltà. Pur non essendo d’accordo con le idee di Huntington, l’A. ammette che il fondamentalismo ha visto le religioni intervenire di più nel campo politico volendo portare avanti i propri programmi e le proprie idee in maniera più risoluta di quanto lo fosse stato fatto nell’immediato secondo dopoguerra.

Per questo motivo non è possibile pensare che lo Stato metta tra parentesi i credi religiosi nella sua opera politica e amministrativa. Benché la comunità sociale sia oggi pluralista e tenda, soprattutto nelle democrazie di stampo occidentale, a voler ignorare il religioso nelle sue decisioni, ogni esponente politico porta le sue idee e credenze quando agisce e non si può ignorare che, anche in Occidente, ci siano politici che hanno le loro idee religiose. Tali idee non vanno scartate, ma possono essere anche un arricchimento in un mondo dove esistono una pluralità di prospettive.

Proprio per questo Habermas, al termine del saggio, propone che lo Stato debba adottare una sorta di agnosticismo dei valori, in cui sospendere il giudizio sulle religioni, ammettendole nel dibattito politico e dandole il giusto spazio, senza per questo dare pieno appoggio ad esse. Si tratta di una notevole concessione da parte di un filosofo laico.

Il breve testo non è sempre di facile lettura, perché la prosa di Habermas è piuttosto complessa anche se il lettore viene ben guidato dalla nota di prefazione. E’ chiaro che chi conosce l’idea di Habermas sulla visione di un mondo moderno che è post-metafisico comprende meglio il suo ragionamento, ma il testo ha valore di per sé e può essere inizio per comprendere il rapporto che, negli ultimi anni, il filosofo ha sviluppato con la religione. Si tratta di un saggio di poche pagine che dà un’idea precisa del suo pensiero a riguardo.

Per il lettore evangelico la lettura di Habermas è interessante perché si tratta di un pensatore laico che non ha avuto paura di confrontarsi con il tema religioso e che ritiene che una “fede pubblica” non sia vietata e che abbia anzi la sua importanza. Nella lettura dei suoi testi rimane però il dubbio su quanto tutto ciò debba contare e su quale sia il modello che si proponga per le religione nel loro intervento politico che è poco delineato nel suo pensiero.
(Valerio Bernardi – DIRS GBU)

Il nuovo “Omero”

Il nuovo “Omero”.

I fumetti, nati negli USA agli inizi del XX secolo come strisce di intrattenimento dei giornali quotidiani, sono diventati, soprattutto dal 1930 in poi, un genere a parte che ha avuto una sua storia autonoma e che ha  sviluppato diversi personaggi e storie interessanti. E’ in questo mondo che si inseriscono i supereroi, nati in USA negli anni Trenta del secolo scorso e che servivano a infondere speranza e fiducia in una società in crisi. Superman, Batman (non il Cavaliere Oscuro di oggi ma il primo Batman) sono eroi senza macchia e senza paura, esempi quasi perfetti di umanità.

In questo universo ha iniziato a lavorare Stan Lee (nome d’arte di Stanley Martin Lieber, ebreo agnostico di origine rumena). Lee, morto questa settimana, è stato senz’altro il più importante personaggio di questo mondo ed è, soprattutto negli ultimi anni, diventato un’ “icona pop” grazie ai suoi camei nei film basati sui numerosi personaggi da lui inventati, in collaborazione con Jack Kirby e Steve Dikto.

Lee è stato uno dei più fecondi inventori di personaggi a partire dagli anni Sessanta e la novità è stata quella che i suoi super-eroi non erano al di sopra dell’umanità, ma “super-eroi con super problemi” che lasciavano vedere il loro lato umano e le loro debolezze. Benché difendessero l’umanità rimanevano con i loro conflitti, con i loro problemi individuali e sociali.

Per questo nascono figure come quelle dei Fantastici Quattro (che ricevono i loro super-poteri da un incidente spaziale), come Hulk (la cui storia ricalca quella di Dottor Jekyll e Mister Hyde), dell’Uomo Ragno (che ha i problemi tipici dello studente universitario). La rassegna degli eroi, quindi, diventa una rassegna umana, in cui, tra l’altro vengono anche affrontati i problemi dell’uomo contemporaneo nella loro complessità.

I fumetti, a fine anni Settanta, entrano in una crisi che sembrava irreversibile e, per questo motivo, Lee, cerca di farli diventare prima cartoni animati e poi film, con alterne fortune: gli effetti speciali e gli sceneggiatori del tempo non riescono ad ottenere grandi successi. La svolta avviene agli inizi del XXI secolo, quando, la XXth Century Fox decide di girare il primo film sugli X-Men e Sam Raimi dirige il primo Spider-Man. Da allora Stan Lee ed il suo mondo di super-eroi vivono una seconda giovinezza, che hanno fatto sì che il Mondo della Marvel diventasse quello, insieme alla Disney, dei maggiori blockbusters cinematografici e che è riuscito ad adattarsi meglio ai tempi, entrando anche nel mondo delle piattaforme streaming con alcuni telefilm tratti dai personaggi inventati dalla Marvel. Ecco perché possiamo considerare Stan Lee un nuovo Omero, perché ha dipinto degli eroi che, pur risolvendo i problemi dell’umanità si trascinano i loro problemi problemi e si pongono una serie di domande esistenziali che non sono risolvibili neanche da loro.

Cosa si può apprendere, dal punto di vista del pensiero evangelico, dai personaggi di Stan Lee, che, come abbiamo già detto era un agnostico? Accanto all’intrattenimento dovuto al largo uso di effetti speciali e, all’epoca, ad una maniera innovativa nel disegno e nello scrivere il fumetto, che avrà anche influenza sulle graphic novels successive, i messaggi dei personaggi di Stan Lee sono tanti e possono essere ottimi per interessanti spunti di riflessione. Per comprendere tutto ciò, menzioniamo tre esempi che meritano attenzione.

Partiamo da un gruppo di interessanti personaggi inventati dall’autore americano: gli X-Men. Il gruppo di super-eroi che prende il nome dal loro mentore che sarebbe il dottor Xavier (magistralmente interpretato da Patrick Stewart nelle trasposizioni cinematografiche): è uno dei fumetti dove più si parla della diversità e dell’adattamento alla convivenza tra esseri umani; i mutanti, proprio per la loro potenza e “stranezza”, non vengono accettati dal resto dell’umanità e fanno fatica a convivere in un mondo che li rifiuta. Xavier cerca di far convivere pacificamente essere umani diversi, mettendo al servizio degli uomini “normali” i suoi allievi dotati di superporteri. Questa idea attraversa tutta la saga e ha delle punte anche alte da un punto vista letterario come quella di Wolverine che, in Logan, proprio come l’invulnerabile Achille dell’Iliade, muore, e lo fa per salvare dei giovani mutanti in fuga, mostrando anche la fugacità della vita sulla terra anche di un super-eroe apparentemente vulnerabile.

Un personaggio poco conosciuto (e apparso in un solo film) è quello di Silver Surfer, un cavaliere galattico che è stato immaginato come viaggiante su una sorta di surf spaziale. Silver Surfer, inventato durante la Guerra del Vietnam, è stato il primo eroe pacifista che, ribellatosi al suo padrone, Galactus il distruttore di pianeti, cerca di salvare la terra e l’universo, usando la sua potenza al meglio. Un super-eroe che, all’epoca, fece indignare parte dell’America, che non piacque immediatamente, ma i cui testi sono dei veri e propri pezzi letterari.

In ultimo uno degli eroi più complessi (forse l’unico in cui esiste un diretto rapporto con il Trascendente ed il Divino): Daredevil. Inventato con Steve Dikto, il super-eroe cieco, di origine irlandese, viene allevato in un orfanotrofio cattolico a New York. Il suo rapporto con  Dio è al centro del suo disagio interiore. Daredevil cerca di seguire un’etica irreprensibile, combatte contro il Male e cerca giustizia, ma non riesce ad avere un sereno dialogo con il Divino, come, forse, molti uomini oggi nella società contemporanea. Anche lui sembra voler essere guarito dal suo disagio e dal contrasto tra il Bene ed il Male.

Come si può vedere la cultura pop di Stan Lee può davvero essere oggetto di diverse riflessione. Si tratta sempre di storie dove, se il grande assente è l’intervento divino provvidenziale, gli spunti per discutere dell’umanità, del Male, dei problemi del mondo non mancano.

(Valerio Bernardi – DIRS GBU)

Vedi anche Il ritorno dell’epica

L’immagine di Dio negli “altri”

Come dovremmo trattare gli esseri umani, queste straordinarie immagini di Dio?

Voglio proporre quattro risposte.

 

Meraviglia
La prima reazione di fronte a un altro essere umano dovrebbe essere di meraviglia per quel miracolo della creazione che rappresenta. Di tutte le meraviglie della creazione è proprio quella dell’essere umano che dovrebbe destare l’ammirazione più grande. Per quanto possa apparire difficile in determinate circostanze, non dovremmo mai perdere lo stupore di trovarci al cospetto del mistero della vita di un altro essere umano. Si tratta dello stesso stupore che prova un genitore al momento della nascita del proprio bambino. Prima c’erano solamente due persone nella stanza, ora, invece, ce ne sono tre. Com’è potuto accadere?

Temo purtroppo che la perdita di questo senso di meraviglia sia abbastanza diffuso … Siamo divenuti supponenti e cinici; per noi queste sono diventate tutte cose già viste; stiamo facendo solo il nostro lavoro, il solito tran–tran quotidiano. Il pensiero cristiano però ci richiama a non perdere il senso di meraviglia di fronte al mistero di ogni essere umano.

 

Rispetto
Il senso di meraviglia si accompagna a quello di rispetto. Rispetto per la misteriosa, immutabile, dignità dell’immagine di Dio. Sono sempre più convinto che il rispetto per gli altri sia uno degli elementi distintivi di un’autentica compassione cristiana. Siamo chiamati a trattarci reciprocamente con lo stesso rispetto e la stessa dignità con cui Dio stesso ci tratta. Assistiamo a una tendenza dei filosofi contemporanei a guardare i deboli, i minorati mentali, i disabili, con un certo grado di disprezzo: sono delle non–persone, non sono autosufficienti, non contano nulla, le loro funzioni biologiche sono al di sotto degli standard richiesti, la loro corteccia cerebrale non funziona bene. Invece, il marchio distintivo del vero amore cristiano nei riguardi dei disabili, dei malati e di coloro che sono prossimi alla morte, non è una forma di pietà ma di rispetto. «L’amore che rispetta», come soleva chiamarlo Teresa di Calcutta.

Abusare, raggirare o maltrattare un altro essere umano equivale a mostrare disprezzo nei confronti di Dio. Riprendendo le parole dei proverbi biblici: «Chi opprime il povero offende colui che l’ha fatto, ma chi ha pietà del bisognoso, lo onora» (Pr 14:31). Abusare o raggirare un altro essere umano è, di fatto, una forma di blasfemia verso Dio, come sputare in faccia al creatore o trattare con disprezzo la sua immagine. Questo è il motivo per cui l’etica biblica non fa distinzioni tra il comportamento religioso (ciò che facciamo in chiesa) e quello secolare (ciò che facciamo quando siamo al supermercato oppure, tanto per dire, dentro un ospedale). L’ordine morale stabilito da Dio, l’ordine di creazione, deve permeare l’intera vita.

 

Empatia
Avere empatia significa immedesimarsi nell’esperienza dell’altro, condividere il suo dolore e la sua gioia. Dato che siamo tutti uguali nella materia grezza di cui siamo fatti, possiamo entrare in sintonia con l’esperienza dell’altro. È interessante notare che quei circuiti neurali e quelle capacità di elaborazione che ci permettono di entrare in empatia con gli altri, di immaginare come ci si possa sentire essendo l’altra persona, sono molto più sviluppati nel cervello umano che in quello di altri mammiferi.

Sembra quasi che possediamo la capacità unica di vedere il mondo con gli occhi di un’altra persona. Tutto ciò è parte della nostra natura umana creata. Siamo progettati per funzionare non come esseri isolati e autonomi, imprigionati nei nostri universi separati, ma come esseri in grado di condividere con gli altri le nostre gioie e i nostri dolori.
I filosofi contemporanei tendono ad enfatizzare l’abisso che separa i sani, coloro che possiedono funzioni normali, da coloro che hanno gravi disabilità o sono severamente malati: io sono una persona, tu invece, sei una non–persona; … La fede cristiana, al contrario, dice: «Siamo tutti e due degli esseri umani, tu e io. Condividiamo la stessa realtà e condivideremo lo stesso dolore».

 

Protezione
Infine, poiché ogni essere umano porta in sé l’immagine di Dio, ogni vita è sacra. Nel nono capitolo della Genesi troviamo la legge del taglione, una delle più antiche formule legali della letteratura mondiale, che prescrive la pena capitale per chiunque si renda colpevole dello spargimento di sangue di un altro uomo:

«Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo, perché Dio ha fatto l’uomo a sua immagine» (Gen 9:6).

Questo brano esprime l’idea secondo cui, a causa della straordinaria dignità della vita umana, e paradossalmente, solo la pena capitale costituisce una retribuzione sufficiente per colui che ha commesso un omicidio. Distruggere una vita umana innocente è eccezionalmente scandaloso, perché equivale a dissacrare l’immagine di Dio, il suo capolavoro. Secondo il modello di società proposto da John Harris, le persone più forti possono usare le non–persone, quelle col cervello malfunzionante, per i propri scopi. Ad esempio si possono prelevare gli organi da coloro che si trovano in stato vegetativo persistente oppure dai bambini malformati, per trapiantarli a qualcuno che vale più di loro. Il forte può usare il debole. Il pensiero cristiano è invece diametralmente opposto. Sono i deboli coloro che sono degni di una tutela speciale, proprio perché sono vulnerabili, mentre i forti hanno il dovere di proteggere i deboli dal raggiro e dall’abuso.

Meraviglia, rispetto, empatia e protezione: queste sono le risposte che siamo in dovere di dare gli uni agli altri, proprio per il modo in cui siamo fatti. Siamo portatori dell’immagine di Dio, ciascuno di noi è un riflesso misterioso della Deità.

John Wyatt, Questioni di vita e di morte. Dilemmi moderni alla luce della fede cristiana, Edizioni GBU, Chieti, 2018, pp. 517, 24,00 € (www.edizionigbu.it)

Poeti e poesie della Bibbia

Lunedì Letterario del 4 giugno 2018

(Filippo Falcone)

 

Poeti e poesie della BibbiaPoeti e poesie della Bibbia, libro edito per i tipi di Claudiana (2018), è il frutto di una ricerca rigorosa e fruttuosa condotta da Sara Ferrari, docente di Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano. Ferrari propone l’analisi della cantica del mare e del canto di Debora (cap. 1), del canto di Anna e dell’elegia di Davide in morte di Saul e Gionata (cap. 2), del componimento di Osea 2:4-25 e del cap. 7 del Cantico dei Cantici (cap. 3) e, infine, dei Salmi 126 e 137 (cap. 4).

Una ricerca, quella dell’autrice, rigorosa e fruttuosa, dicevo. Rigorosa, perché si confronta con la critica storica in modo ampio e imparziale, pesando i vari contributi da un punto di vista storico-culturale, filologico, linguistico ed esegetico. Fruttuosa, perché introduce una consistente analisi poetica che fa affiorare significati e rapporti intra e inter-testuali del tutto significativi.

Il confronto con la critica storica, in effetti, mette in luce, ancora una volta, tutti i suoi limiti. Se l’autrice riporta con accuratezza i risultati della ricerca in termini di collocazione dei testi, datazione, paternità e ricostruzione filologica, tali risultati si presentano come antitetici, contradditori e largamente congetturali. La forza dell’opera risiede allora, tutta, nell’analisi testuale. Essa non prescinde dalla contestualizzazione storico-culturale e filologica, ma legge le categorie storiche e teologiche in funzione di quelle poetiche. In questo senso, è la forma a gettare luce sui contenuti e a mostrarne di nuovi. In alcuni casi, il close-reading poetico è persino capace, da solo, di ribaltare convinzioni premiate dal tempo circa l’unità e quindi la paternità di un testo o le relazioni di dipendenza fra testi.

L’approccio di Ferrari si inscrive nel solco di Robert Alter. Nei suoi lavori (e.g. L’arte della narrativa biblica, L’arte della poesia biblica), il noto ebraista della Berkeley fornisce un paradigma analitico, un vero e proprio modello procedurale, che Ferrari adotta e riproduce affrontando testi lambiti da Alter soltanto per contiguità. Così facendo, colma un vuoto che lo studioso americano ha iniziato a riempire.

La cantica del mare, in cui la voce di Mosè si intreccia a quella di Miriam, celebra una liberazione archetipica paradigma di ogni liberazione futura, una liberazione attraverso cui il popolo conosce il suo Dio, la sua giustizia come il suo amore, e riceve un’identità nuova definita dal rapporto con il suo Salvatore. In questa realtà risiede la promessa di libertà e vita in una terra che Dio ha preparato per il suo popolo. È qui che s’innesta il canto di Debora, giudice, profetessa e poeta, la cui voce risponde alla visione prospettica della cantica del mare e infrange il modello ripetitivo di peccato, assoggettamento, angoscia e salvezza del libro dei Giudici, là dove l’intervento del Signore e la parola si fondono per rivelare Dio come identità e compimento del popolo. Debora, dal canto suo, diventa madre della nazione. Rimandi continui nel canto a Mosè e all’attraversamento del mare sottolineano come con Debora si realizzi idealmente la promessa in vista della quale Dio ha liberato il suo popolo. Come il canto di Miriam e Mosè, il suo è canto celebrativo, canto di vittoria, ma è anche canto profetico, perché addita il paradigma all’interno del quale il popolo avrà la vita.

Il discorso di genere porta l’autrice a identificare con precisione un filone che da Miriam giunge ad Anna, passando per Debora. Alla donna profetessa/poeta è affidato il ruolo di cantare l’intervento di Dio e annunciare il compimento futuro del suo disegno. Al di là delle contingenze orizzontali, la donna assume in Dio significato e valore trascendenti. Così Miriam, Debora e Anna, ma così anche Iael, Raab, Rut ed Ester che, in virtù di una femminilità posta al servizio della fede, realizzano la dimensione di Dio nella propria storia e nella storia del popolo.

Come la cantica del mare e il canto di Debora possono essere considerati due ferma libro di una medesima narrazione, così il canto di Anna e il lamento di Davide. In Anna la vicenda personale si fonde intimamente con le sorti della nazione e l’avvento della dinastia regale. L’intervento di Dio nella sua vita anticipa la dimensione ristorativa che appartiene a Davide e alla sua genia. Il tratto principale che accomuna le due figure e che i rapporti poetici con forza mettono in risalto è la loro fragilità e impotenza. Dio sceglie le cose che non sono, manifesta la sua forza nella debolezza, rialza l’oppresso e fa grazia al peccatore. Così facendo, egli rende il fragile individuo partecipe di un disegno che lo contiene e lo supera ad un tempo. Nel lamento di Davide, elementi privati e pubblici si sovrappongono. Da un lato, l’amore reciproco per Gionata, dall’altro, la chiamata a regnare osteggiata da Saul. L’attento studio dei termini, il cui significato viene negoziato attraverso il confronto con le fonti esegetiche rabbiniche, pare indicare come l’uno e l’altra, con i rapporti umani corrispondenti, siano definiti dall’amore e dalla sottomissione al Dio d’Israele.

Nel terzo capitolo, Ferrari affronta l’annosa questione della natura poetica del testo profetico. La risposta è che il testo profetico è poetico là dove sono presenti i tratti distintivi della poesia biblica, vale a dire parallelismo, ripetizione e l’elaborazione semantica, “capace di variare dal linguaggio figurativo al gioco di parole” (140). Così è per Osea, dove questi elementi sono funzionali alla metafora in forza della quale l’unione di coppia esemplifica il rapporto di Dio con Israele. Vocazione profetica e vita privata si legano intimamente e producono una voce il cui coinvolgimento è di per sé poetico. La metafora realizza, per rifrasare T. S. Eliot (The Metaphysical Poets), una associazione di sensibilità, e lo fa, come nel caso dei poeti metafisici e di Eliot stesso, attraverso, nelle parole di Samuel Johnson, “elementi eterogenei aggiogati insieme con violenza” (The Lives of the Poets). Promiscuità e adulterio sono giustapposti a fedeltà e amore e, da ultimo, i primi sono vinti dall’amore eterno e incondizionato di Dio. L’assoluta contrapposizione fra il rapporto coniugale in Osea e l’amore travolgente ed edenico del Cantico dei Cantici ha l’effetto di far affiorare un legame profondo nel segno del rovesciamento. Il legame è evidenziato, anzi tutto, da rimandi testuali e allusioni essenziali che sottendono una dipendenza di Osea dalla tradizione poetica che convergerà nel Cantico. Se il testo poetico in Osea emerge sullo sfondo del Cantico, lo fa, appunto, in termini di rovesciamento e parodia. L’abbruttimento del corpo di Gomer, terreno dall’adulterio spirituale e del perdono di Dio, è nel Cantico corpo femminile puro, terreno di poesia, che si fa strumento per parlare del mistero di Dio riflesso nell’intreccio chiastico della coppia (Io sono del mio diletto / e il mio diletto è mio – 6:3), proprio perché, come questa unione, anche la poesia sfugge a confini meramente razionali e del discorso referenziale.

Il cerchio del libro si chiude idealmente con due Salmi, il 126 e il 137, che insieme recuperano la prospettiva paradigmatica e complementare della cantica del mare e del canto di Debora. Il nucleo tematico dei due Salmi è costituito da Gerusalemme/Sion e dall’esilio. Il Salmo 137 presenta l’esilio in tutta la sua realtà terrena di alienazione e angoscia, dettate dallo sradicamento e dalla distanza da Sion e da tutto ciò che Sion rappresenta per il popolo. Speranza e visione sono qui interamente occultate allo sguardo del salmista. Non così nel Salmo 126, dove lo sguardo del popolo in esilio è proteso in avanti ed esulta alla luce della speranza del ritorno a Gerusalemme e della redenzione propiziata dall’avvento del Messia. L’autrice mostra come la tensione fra queste due realtà sia vissuta nella quotidianità ebraica e definisca nella storia l’identità del popolo di Israele, che alla città di Gerusalemme e al suo Dio lega il proprio esistere.

Poeti e poesie della Bibbia è un libro importante. Se la scrittura di Ferrari non possiede l’efficacia e la capacità di sintesi di Alter, metodo e conclusioni risultano solide e pregnanti. L’autrice mostra, in ultima analisi, che la poesia biblica fa cose che nessun testo argomentativo è in grado di fare. Essa è in grado di creare, per usare le parole di Rilke, “relazioni” fra testi, poeti, personaggi, eventi e temi distanti nel tempo e nello spazio ed è in grado di dare loro universalità e rilevanza, parlando all’esperienza umana e rivelando il Dio di Israele nel contesto di quell’esperienza.

(Filippo Falcone – DiRS GBU)