Tre domande a Valerio Bernardi su razze, etnie e culture

  1. Qualche giorno fa tutte le associazioni di antropologi italiani (sia fisici che culturali) hanno pubblicato un breve documento intitolato Razza e dintorni (consultabile a http://pikaia.eu/razza-e-dintorni-la-voce-unita-degli-antropologi-italiani/), in cui ribadiscono, in maniera sintetica qual è lo stato dell’arte sulla questione della razza e delle differenze etniche e culturali in antropologia. Cosa puoi dirci di questo documento da esperto del settore?

 

Al contrario di quello che pensa la opinio communis il concetto di razza è stato, almeno a partire dagli anni 1960 del secolo scorso, superato dalle scoperte della genetica. Oggi sappiamo che, a livello di DNA, le differenze sono molto minori tra quelle che una volta erano considerate le razze, rispetto a quelle che ci possono essere tra singoli individui. Un “bianco” potrebbe avere più caratteristiche genetiche in comune con un “nero” rispetto al suo vicino bianco. Questa “scoperta” di tipo scientifico non ha risolto la questione delle differenze culturali. Il documento infatti spiega che gli antropologi si occupano proprio di queste differenze culturali e ammettono che queste esistono, pur partendo da livelli iniziali dell’individuo che sono uguali. L’antropologia culturale riconosce che gli “strumenti” che l’uomo ha a disposizione per formare il proprio bagaglio culturale è identico (lo ribadiva alla fine degli anni 1950 Claude Lévi-Strauss nel Pensiero selvaggio), ma la società in cui si vive porta a differenze che vanno riconosciute. Nelle società si formano, anche per rassicurare il proprio essere umani, sensi di appartenenza che possono diventare veicolo anche di discriminazione da ciò che ritengo sia i l mio patrimonio rispetto a quello che ritengo sia quello degli altri, che vengono vissuti come “estranei”. La “discriminazione”, pertanto, non è un fatto razziale, bensì culturale, formatasi per ragioni storiche e sociali. Qualsiasi tentativo di difesa della razza, come quelli avvenuti nel secolo scorso, non ha fondamento scientifico. Esiste però, soprattutto in persone nate e cresciute in ambienti diversi, una forte differenziazione culturale e sociale che è quella che poi porta a vedere lo straniero che vive nelle nostre città come un estraneo, un diverso,  una persona da cui ci sentiamo minacciati. Gli antropologi portano all’attenzione del lettore un’altra questione: il fatto che le culture, benché possano essere diverse, non possono essere considerate “pure”; in quanto anche da un punto di vista culturale noi siamo frutto di  una perenne contaminazione che deriva dal fatto che scambi e migrazioni sono costanti nella storia dell’homo sapiens, a iniziare dall’era delle glaciazioni.

 

  1. Il 2018 è un anno di celebrazioni che hanno a che fare con il razzismo e con i problemi che tale atteggiamento ha causato alla società occidentale, in quanto ricordiamo sia gli ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia che i cinquant’anni dall’assassinio di Martin Luther King jr. Ritieni che il razzismo sia un problema superato per la nostra società oggi?

 

Ritengo che nel mondo occidentale, anche a causa dei processi innescati dalla globalizzazione (un maggiore movimento di persone provenienti dai paesi poveri e da culture differenti), dopo un momento di “pausa” iniziato negli anni Settanta del secolo scorso, si sia tornati, soprattutto a partire dagli inizi del XXI secolo, ad avere atteggiamenti discriminatori che sfociano in comportamenti razzisti e nella “rivalutazione” della identità (nazionale, culturale e razziale). L’etnocentrismo (ritenere la propria etnia o cultura al centro e migliore di quelle degli altri) è un atteggiamento comune a qualsiasi cultura o nazione, che ha bisogno di potersi identificare in alcune certezze per creare una comunità coerente. Molto spesso le identità sono totalmente inventate (non a caso alcuni studiosi parlano di “imbroglio etnico”, si pensi all’idea che in Italia si è diffusa di una “cultura padana” o di un meridione come eldorado durante il periodo borbonico, idee assolutamente non fondate né da un punto di vista storico né sociale). La verità è che noi siamo il frutto di  un perenne “meticciato” che ha permesso la formazione della nostra cultura, anche in alcune maniere di vestire e persino in alcuni cibi, che non esisterebbero se non ci fosse stato il cosiddetto “scambio ecologico”. Si pensi alla pizza che è oggi considerata un cibo identitario per un italiano e che non esisterebbe senza i pomodori che provengono dall’America. In un anno come questo, fatto di commemorazioni che hanno a che fare con il razzismo (sia  italiano che estero) bisogna tornare ad avere un allarme alto nei confronti di qualsiasi forma discriminatoria che derivi o dalla paura dei migranti o da un rigurgito di antisemitismo di cui l’Europa non sembra essere esente. La ricerca di una propria identità e il voler escludere gli altri è un problema che difficilmente viene superato e su cui bisogna vigilare. L’antropologia ha un grande compito nel suo ruolo pubblico: convincere le persone che la differenza razziale sorge da pregiudizi e può portare a derive pericolose, come sono state quelle dell’Italia del 1938, quando furono promulgate leggi in cui si discriminava sulla base della presunta esistenza di una razza ariana e si dava di tutto questo motivazioni scientifiche (come quelle che apparvero nella rivista la Difesa della Razza) o dell’Apartheid in Sud Africa.

 

  1. Da un punto di vista teologico-biblico cosa possiamo dire a proposito di atteggiamenti razzisti o etnocentrici?

Il testo biblico, nonostante le discussioni che vi sono state nel XIX secolo negli USA e nel XX in Sud Africa soprattutto (ma non solo) da parte di alcune chiese riformate, è abbastanza chiaro: per Dio non vi sono distinzioni dal punto vista razziale e le uniche differenze possono essere causate dalla caduta dell’uomo nel peccato. Il racconto biblico della Creazione è chiaro: Dio ha creato l’uomo a Sua immagine e somiglianza e la differenziazione culturale che porta anche all’idolatria, è causa del peccato e dell’orgoglio umano, come è chiaro nel racconto di Babele, dove le diverse lingue (e culture) nascono a causa del peccato: prima di Babele avevamo una sola umanità, senza alcuna distinzione di razza, lingua o cultura. Dopo l’esclusivismo ebraico che, come etnia (anche qui si può parlare di stirpe e non di razza) ha avuto come suo scopo la venuta del Salvatore del mondo, il cristianesimo è pronto ad aprirsi al mondo ed ha una vocazione ecumenica in cui le culture, pur se rimangono tali, non contano nel piano di salvezza. Il messaggio del Vangelo pertanto è chiaramente antirazzista e antinazionalista, perché il mondo di quaggiù è un qualcosa di provvisorio e nella restaurazione del Creato non vi è posto per differenziazioni all’interno della specie umana. L’apostolo Paolo lo dice chiaramente ai Galati che la differenza etnica in Cristo non ha più ragion d’essere. Ecco perché il credente dovrebbe essere schierato (per dirla con l’antropologo Remotti) contro l’identità etnica e particolaristica e a favore di un’identità universale che coincida con il Vangelo.

 

Valerio Bernardi è docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Quinto Orazio Flacco di Bari e presso l’UNiversità degli Studi della Basilicata. E’ membro del Comitato Editoriale di Edizioni GBU e del DiRS-GBU

Tre domande a Elena Ammirabile sull’impegno in politica

  1.   Elena potresti spiegarci brevemente qual è il tuo grado di coinvolgimento nella vita politica? Come sei giunta concepire la tua partecipazione a un’esperienza politica locale in qualità di cristiana evangelica?

A partire da maggio 2014, elezioni per cui mi ero candidata come consigliera comunale, grazie al buon numero di preferenze e credo anche all’impegno profuso per tutto il gruppo, mi è stato chiesto di ricoprire la carica di Assesore presso il Comune in cui abito.

L’avvicinamento alla politica attiva è arrivato nel 2013, appena laureata avevo tempo e voglia di capire cosa volesse dire partecipare alla vita politica locale, appena mi si presentò la possibilità di entrare nell’assemblea comunale del partito di cui avevo preso la tessera non mi sono tirata indietro e tutto è iniziato. Non sapendo cosa mi aspettasse non mi sono chiesta come sarebbe stato conciliare la mia fede con questo lavoro, è un percorso, come per tutti credo, quotidiano di confronto con i problemi e con i colleghi.

 

  1. Ritieni che anche l’impegno politico a livello locale debba in qualche modo farsi espressione di visioni politiche più ampie e non essere unicamente una risposta a esigenze di tipo amministrativo–burocratiche?

Della politica locale spesso si pensa che sia un mero “risolvere i problemi delle persone”, quelli di tutti i giorni, e che quindi non implichi scelte politiche. Non è così, affinché la scelta amministrativa sia efficacie e coerente è necessario avere un progetto e un metodo. Nel mio ruolo mi trovo a gestire le risorse della comunità e quindi devo valutare ogni giorno se ciò quello che sto facendo porta un progresso o meno per la comunità e se sto creando delle disparità di trattamento.

Essere cristiani cambia completamente la prospettiva dell’impegno politico perché il nostro obiettivo non sarà la fama o il potere e neanche solo il servizio ai cittadini, ma in tutto essere imitatori di Cristo, questa consapevolezza libera dal peso di dover emergere, dalla necessità di ricercare il consenso a tutti i costi, e questo rende anche più obiettivi rispetto alle singole questioni.

 

  1. Quale idea ti sei fatta relativamente al secolare tema del coinvolgimento dei cristiani nella vita politica, anche in considerazione dell’imminenza delle elezioni politiche italiane?

Se la Politica è vissuta come servizio, idea cara al mondo anglosassone, e a ricondurre l’interesse del singolo all’interesse generale allora non vedo chi meglio dei credenti potrebbe rispondere al bisogno di persone oneste, integre, senza doppi fini ed abituate alla vita di comunità,  in posizioni di responsabilità. Nella Bibbia troviamo molti esempi di uomini e donne in posizione chiave, non ultimo Daniele, come lui dobbiamo essere consapevoli che ci potremmo trovare un giorno ad andare contro tutti ma Dio ci darà la forza per essere di testimonianza anche in quel momento nel frattempo bisogna darsi da fare. Tornando alla mia esperienza, quando ho iniziato ad impegnarmi non immaginavo che l’esito sarebbe stato questo, ho lavorato senza risparmiarmi per il gruppo cercando di essere sempre positiva, non dando spazio alla maldicenza, un passo alla volta il Signore mi ha spianato la strada.

Lavorare per la comunità è anche una splendida occasione per conoscerne le necessità e poter aiutare la chiesa a individuare gli ambiti dove può intervenire, affinché si rompa quella diffidenza, spesso dovuta all’ignoranza, che circonda le nostre chiese, non adagiarci nell’attesa che le persone entrino in chiesa ma andare nei loro luoghi, come ci insegna Gesù.

 

  3b. Sempre da un punto di vista cristiano, cosa pensi del dibattito sul populismo?

Da un punto di vista cristiano io vorrei che ci fosse un dibattito sul populismo perché implicherebbe un nostro interesse per la sfera pubblica non solo quando vengono toccati temi etici. Molto è stato detto e scritto, quello che vedo quotidianamente è l’indisponibilità ad uscire da un punto di vista strettamente personale ed egoistico perché richiede impegno o fiducia, che la politica italiana ha dilapidato da tempo. Chi non ha la chiamata ad un impegno attivo dovrebbe almeno sforzarsi a non cedere al senso comune ed ad andare in profondità nelle questioni politiche perché, volenti o nolenti, ci riguardano.

E’ da poco passata la Giornata della Memoria, le testimonianze dirette di deportate che ho avuto modo di sentire mi hanno fatto pensare a Isaia 1:16-18, è Dio che parla ad Israele  “cercate la giustizia, rialzate l’oppresso, fate giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova!”, quando la rabbia e l’odio hanno al loro servizio la legge e lo Stato, la giustizia soccombe e i primi a farne le spese  sono gli ultimi che la Bibbia individua nell’orfano, nella vedova e nello straniero. Se queste parole ci interpellano ancora oggi dovremmo valutare con attenzione i programmi elettorali, le parole degli esponenti politici e anche, se ci sarà, l’occasione di un impegno diretto per non essere correi perché indifferenti come è successo durante le dittature nazifasciste.

 

Elena Ammirabile, 32 anni, laureata in Relazioni Internazionali. Studentessa del Gbu un tempo e attiva sostenitrice di questo ministero è Assessore presso il Comune di Montespertoli (FI).

Tre domande a Filippo Falcone su poesia e rivelazione

1. Che rapporto c’è fra poesia e rivelazione e qual è secondo te la funzione della poesia all’interno della rivelazione?

Volendo circoscrivere la forma poetica alla forma poetica letteraria nel contesto della rivelazione particolare, che i cristiani identificano nelle Scritture ebraiche e cristiane, colpisce in prima istanza la presenza stessa di poesia nel testo. Le Scritture non si limitano all’espressione referenziale di contenuti teologici o filosofici. In altre parole, gli scritti biblici non sono unicamente un insieme di enunciati di fede o proposizioni e discettazioni di natura argomentativa su Dio. La Bibbia si presenta, anzi tutto, come fine narrazione, una narrazione ricca di rapporti intertestuali che declina la teologia ― la conoscenza di Dio ― in modo spesso implicito nella Storia e nelle vicende autentiche dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con Dio (vd. Alter, The art of biblical narrative, 12-13). La sua natura letteraria viene da subito messa in evidenza. La narrazione biblica possiede qualità letteraria in ragione della sua forma, ma possiede altresì qualità letteraria perché rivela Dio nel contesto di un’esperienza umana che, pur nella sua specificità, mantiene un carattere universale. Scorrendo i testi narrativi, facciamo quindi una scoperta sorprendente. Già al loro interno troviamo incastonate gemme e pietre preziose, brevi intermezzi poetici. Questi si trasformano in estesi brani poetici nei profeti per prendere poi tutta la scena nel libro dei Salmi. L’insegnamento di Gesù e, in parte quello degli apostoli, è per immagini e possiede a sua volta qualità poetica. Se crediamo che le Scritture siano più che deposito dell’esperienza dell’uomo con Dio; se crediamo cioè che le Scritture siano rivelazione che scende dal cielo, parola che procede dalla bocca di Dio (cf. 2 Ti 3:16) e che si “incarna” nel tessuto umano, dobbiamo chiederci quale sia al suo interno la funzione delle varie forme letterarie di cui si compone. In altri termini, dovremmo domandarci a quale esigenza risponda l’inclusione dell’elemento letterario e, in particolare, di quello poetico nel testo biblico. La risposta credo venga dal testo stesso. La Bibbia sin dall’inizio ci rivela Dio come potenza creatrice, ma anche come immaginazione creativa, e ci rivela l’uomo come essere creato a sua immagine. L’uomo ne riflette cioè il carattere razionale ed emotivo, relazionale e creativo. Sarà quindi Dio ad assumere dell’uomo il carattere materiale nell’incarnazione. Rivelazione in Dio sottende volontà, desiderio di farsi conoscere all’uomo. Dio sceglie il linguaggio per farsi conoscere. Parlare all’uomo in termini puramente razionali e referenziali significherebbe fare appello alla sola mente dell’uomo, mentre Dio desidera che l’uomo lo conosca in senso relazionale. Egli prepara perciò nella Scrittura un terreno di incontro fra sé e l’uomo e lo fa rivolgendosi a tutto ciò che l’uomo è, alla componente razionale come a quella emotiva, alla componente immaginativa e creativa come ai sensi. Ciò avviene attraverso una cascata di forme letterarie al cui interno la forma poetica gioca un ruolo di primaria importanza. È proprio la poesia biblica, infatti, a realizzare quella che potremmo chiamare associazione di sensibilità. La poesia biblica nei modi più vari ci fa sentire ciò che vuole farci capire attraverso immagini tratte dall’esperienza umana comune e sensibile. La poesia biblica fa anche altro. Attraverso l’ordine delle parole e, in particolare, attraverso parallelismi, ripetizioni e inversioni, crea effetti di accumulo e intensificazione che contribuiscono ad accrescere il portato dinamico dei significati. La musica del testo poetico, l’elemento estetico e l’immagine sensibile, infine, parlano ai sensi dell’uomo (cf. Alter, The art of biblical poetry).

 

2. Potresti fare qualche esempio delle funzioni poetiche che hai descritto?

– Le lettere del Nuovo Testamento tendono a descrivere il rapporto di Dio con l’uomo in termini teologici, affermando, ad esempio, il carattere immutabile e incondizionato della grazia di Dio e della sua sovranità che si traducono, in relazione ai suoi figli, in salvezza, giustizia, fede, amore, speranza, protezione, cura, guida, gioia e pace. Tutto ciò si trasferisce nel salmista Davide in immagine poetica e in questo passaggio la forma ridefinisce il contenuto:

Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca.
2 Egli mi fa riposare in verdeggianti pascoli,
mi guida lungo le acque calme.
3 Egli mi ristora l’anima,
mi conduce per sentieri di giustizia,
per amore del suo nome.
4 Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte,
io non temerei alcun male,
perché tu sei con me;
il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza.
5 Per me tu imbandisci la tavola,
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo;
la mia coppa trabocca.
6 Certo, beni e bontà m’accompagneranno
tutti i giorni della mia vita;
e io abiterò nella casa del SIGNORE
per lunghi giorni. (Salmo 23)

Ciò che le lettere spiegano chiedendo al lettore capacità di astrazione è qui illustrato da immagini di vita quotidiana che hanno una risonanza particolare nel contesto di una società agreste, ma che risultano efficaci ancora oggi. La grazia, la guida e la provvidenza che informano il rapporto fra l’uomo e Dio diventano il rapporto che intercorre fra la pecora e il suo pastore. Questi provvede a ogni suo bisogno e la conduce in luoghi ameni e lungo sentieri di giustizia, paesaggi dell’anima e immagini di una vita caratterizzata da pace e amore. A questa realtà, Davide subito contrappone la valle dell’ombra e della morte. Chi appartiene al Signore non è esente da prove, difficoltà, afflizioni, pericoli; ma in tutte queste cose Dio è con lui come il pastore attraverso la valle oscura con il suo gregge. Il Salmo si chiude con uno sguardo di gioia proteso all’eternità, speranza certa del salmista.

– Là dove il Nuovo Testamento parla dell’efficacia eterna dell’espiazione (Ebrei 10:14), una realtà spirituale, Davide dipinge davanti ai nostri occhi una distanza fisica:

Come è lontano l’oriente dall’occidente,
così ha egli allontanato da noi le nostre colpe. (Salmo 103:12)

– Infine, due esempi di parallelismo:

3 Poiché la tua bontà vale più della vita,
le mie labbra ti loderanno.
4 Così ti benedirò finché io viva,
e alzerò le mani invocando il tuo nome.
5 L’anima mia sarà saziata come di midollo e di grasso,
e la mia bocca ti loderà con labbra gioiose. (Salmo 63:3-5)

Il Salmo si apre con le parole “l’anima mia è assetata di te” (v. 1). La brama e il bisogno che il salmista ha di Dio sono come la brama e il bisogno di acqua dell’uomo che percorre una terra arida. Questa terra è correlativo oggettivo dell’anima inaridita del poeta. A quest’immagine fa eco un’altra potente immagine fisica all’inizio del versetto 5: “L’anima mia sarà saziata come di midollo e di grasso”. L’anima assetata si dichiara ora affamata e la comunione di Dio diventa cibo che sostenta e soddisfa. Un parallelismo lega poi i secondi versi dei versetti 3 e 5, dove “le mie labbra ti loderanno” è ripreso da “la mia bocca ti loderà…” e la lode ridefinita come frutto della gioia da “…con labbra gioiose”.

Purificami con issopo, e sarò puro;
lavami, e sarò più bianco della neve. (Salmo 51:7)

Osserviamo qui la disposizione parallela di elementi analoghi nel primo e nel secondo verso, dove “purificami” diventa “lavami” e “sarò puro” diventa “sarò più bianco della neve”. Qui il parallelismo non ha una mera funzione enfatica dettata da ripetizione, ma ha funzione di intensificazione. Il poeta vuole indicare che là dove il peccato è abbondato nella sua vita, la grazia sovrabbonderà (vd. Ro 5:20) e il salmista potrà tornare a gustare la gioia della sua salvezza.

 

3. La poesia può avere una funzione sacramentale?

Occorre capire in prima battuta cosa si intenda per sacramento. La questione sacramentale ruota attorno alla possibilità o meno di esperire l’immanenza di Dio nella realtà sensibile. In termini biblici, il sacramento è tale non perché è la realtà stessa, ma perché della realtà è segno. Il segno, il significante, non contiene il trascendente, ma lo addita e in questo senso vi partecipa in termini di significato (cf. Schwartz, Sacramental poetics, 6). Se parliamo di poesia biblica, essa, come d’altronde tutta la Scrittura, ha certamente una funzione sacramentale. Cristo, la Parola, si identifica con la sua parola, che è segno di Cristo. In un senso molto reale, avvicinarsi al testo biblico è avvicinarsi a Cristo. La Bibbia, parola di Dio, frammento di cielo sulla terra, realizza per l’uomo l’immanenza di Dio nel momento in cui diventa terreno di incontro fra l’uomo e Cristo, la Parola. La poesia biblica, dal canto suo, svolge una funzione essenziale in questo senso. Con i suoi suoni, i suoi rapporti di significante e significato e le sue immagini sensibili essa ci fa sentire, per così dire, Dio e ce lo fa conoscere al di là dei nostri processi meta-cognitivi.
Rimane da interrogarsi sulla funzione della poesia sacra non contenuta nelle Scritture. Quello che vale per la poesia biblica vale anche per la poesia sacra in genere? Sì, ma in termini di riflesso. Così come la predicazione scritturale informata dalla guida dello Spirito riflette il carattere di parola della Parola proprio della predicazione apostolica, la poesia sacra, laddove tessuto della parola e dello Spirito, può anch’essa diventare veicolo della realtà di Dio.

 

Filippo Falcone è Dottore di ricerca in Letteratura inglese e si è specializzato presso la Oklahoma State University. E’ stato professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano; ha pubblicato una monografia sul concetto di libertà in John Milton e saggi sul poeta inglese; collabora con la Società Biblica di Ginevra e con le Edizioni GBU.

 

Tre domande a Valerio Bernardi su Netflix, Prime e la pop theology

  1. Uno dei fenomeni (soprattutto nel mondo giovanile) che negli ultimi anni si è diffuso è il seguire la televisione attraverso i programmi in streaming, offerti da apposite piattaforme (Netflix, Infinity, Prime Video, Hulu etc). Cosa può dire a proposito uno studioso dei fenomeni sociali? Si tratta di un fenomeno passeggero o di qualcosa da osservare con attenzione?

 La televisione in streaming che può essere facilmente veicolata attraverso i nuovi mezzi multimediali (smartphone, smart tv, tablet, computer) è uno dei maggiori cambiamenti avvenuto nell’uso di uno dei principali mass media inventati nel XX secolo. Non possiamo sapere che sviluppi potrà avere questo fenomeno ma siamo ben sicuri che, per il momento, si tratta di un trend crescente che aumenterà nel medio periodo. Dal punto di visto dell’utilizzo del mezzo, la tv in streaming porta ad  un grande cambiamento. Lo spettatore che, in questo caso, è soprattutto il singolo (una parte dei mezzi attraverso cui viene diffuso il segnale serve per singoli utenti e difficilmente si passa ad una visione collettiva), può decidere di scegliere come e quando vuole vedere la tv sulla base di quanto viene offerto. Lo streaming, quindi, permette di poter scegliere cosa vedere sulla base delle proprie preferenze, quando vedere e quanto vedere (dai pochi minuti ad ore intere). Dal punto di vista tecnologico si tratta sicuramente di un passo in avanti. Dal punto di vista sociale, benché il fenomeno non si stato studiato ancora con sistematicità,  mostra una duplice caratterizzazione: è la maniera di guardare la tv che gradualmente sta prendendo piede tra i più giovani ed è un ulteriore individualizzazione dell’utilizzo dei mass media, affiancabile, per certi versi, a quanto già avvenuto con l’utilizzo dei social. Nella maggiori piattaforme di streaming, infatti, ognuno ha il suo profilo ed il sito ti suggerisce o ti mette in primo piano le serie o i film che potrebbero piacerti sulla base delle tue scelte precedenti. Il rischio pertanto è quello di un ulteriore isolamento dell’individuo e di una maggiore esposizione del proprio io al mondo dei mass media senza avere le sufficienti difese per la formazione di una visione critica dei contenuti. Il vantaggio di tali piattaforme, invece, è nella scelta che si può fare, che permette a coloro che le usano di costruire un proprio percorso di visione. Possiamo dire, quindi che ci troviamo di fronte ad una tv sicuramente più interattiva, ma anche con un profilo più individualista ed isolazionista.

 

  1. Piattaforme come netflix mettono a disposizione diverse serie televisive, molto diffuse tra il popolo giovanile ma non solo. Come dobbiamo porci di fronte a queste serie? Possono portare a dei rischi per quello che veicolano?

 Una delle novità presenti sulle piattaforme streaming è la presenza di serie televisive di telefilm che non possono essere viste altrimenti e che sono di proprietà esclusiva della piattaforma, accanto ad altri prodotti che sono meno visti dagli utenti (netflix propone anche documentari e talkshow). Le proposte, per la maggior parte, sono, da un punto di vista cinematografico, di buona qualità e di diverso tipo, pertanto la valutazione è diversa a seconda di quello che si sceglie di vedere. Generalmente, però, la privatizzazione del servizio, ha portato anche ad una maggiore “radicalizzazione” dei contenuti, più liberi da censure sociali che invece continua a servire da morsa per le tv generaliste. Potremmo dire, ad un primo sguardo di ciò che è proposto, che, talvolta, le scene di violenza, di sesso, l’uso del linguaggio volgare sono più esplicite di quanto accade nelle serie della tv generalista. Allo stesso tempo, va detto che la possibilità di creare serie televisive di nicchia (dedicate ad un pubblico più limitato e meno generale) ha permesso anche un miglioramento ed un perfezionamento delle trame. La ottima narratività di alcune delle serie proposte, ancor più degli effetti speciali, risulta essere piuttosto alta. Non è un caso che in una manifestazione come quella dei Golden Globes molti dei serial tv premiati appartenessero alle piattaforme di streaming.

I valori veicolati da queste serie non sono differenti da quelli portati avanti dai prodotti tv della nostra epoca e riflettono un mondo secolarizzato anche se non mancano interessanti intrecci con i valori etici e religiosi. Il grosso spazio che viene dato ai racconti fantastici dimostra anche una certa volontà di evadere dalla vita quotidiana ma, come per tutte le fiction, la fantasia serve anche per costruire una riflessione sul presente senza aderire troppo alla realtà quotidiana.

Un consiglio che mi sento di dare ai genitori che hanno i propri figli adolescenti che si collegano a piattaforme di streaming è quello di imparare a conoscere le serie viste dai propri figli per poterne discutere eventualmente con loro e condividerne le impressioni senza porre censure preventive ma iniziando un dialogo che possa vagliare quanto è scelto e possa anche valutare cosa è visto.

 

  1. E’ possibile, a partire dalle buone strutture narrative di alcune delle serie, costruire una vera e propria “teologia pop” che possa dialogare con questi fenomeni di massa, ma anche, per certi versi, elitari? Esiste la possibilità di entrare in dialogo con i personaggi che oggi segnano la cosiddetta cultura pop?

Come per ogni fenomeno mediologico, anche le serie proposte da Netflix e dalle altre piattaforme possono essere oggetto di discussione e possono diventare anche oggetto di dialogo e riflessione. A titolo esemplificativo voglio prendere prendere in esame tre serie, tutte fruibili sulla piattaforma Netflix.

La prima è la acclamata serie The Crown che, nelle sue due stagioni, racconta dei primi anni del regno di Elisabetta II. A parte la sontuosa ricostruzione storica, chi avrà voglia di vederla, scoprirà una Regina donna di fede ed ammiratrice di Billy Graham, figura da cui rimane ammaliata. Il dialogo con la fede, pertanto, in una serie assolutamente secolare,  è visto come una cosa importante ed alcune frasi della sovrana che vuole essere considerata una semplice credente, meritano attenzione e profonda riflessione.

Tra le varie serie della Marvel sicuramente Daredevil, una delle serie meglio scritte tra quelle prodotte dalla compagnia di Stan Lee. L’avvocato cieco di Hell’s Kitchen è un fervente cattolico che spesso ritroviamo in Chiesa a dialogare con un sacerdote sulla divisione tra bene e male, sull’uso della violenza, su altre questioni etiche. La prima serie di Daredevil si interroga ripetutamente su questi interrogativi e potrebbe anch’essa essere fonte di discussione e origine di spunti per un dialogo teologico sul problema del male, della violenza, dell’ambiguità della coscienza umana.

Non si può non concludere la carrellata con Stranger Things, una sorta di cult  tra gli adolescenti di tutto il mondo. La serie, che si basa su interessante intreccio tra fantascienza, soprannaturale, horror e vintage, pur nelle sue discutibili trame, potrebbe far riflettere a lungo sugli stati della psiche umana, sullo straniamento dei pre-adolescenti, sui valori portati avanti da famiglie disfunzionali, sulla presenza del sovrannaturale nelle nostre vite.

La pop theology è sempre possibile, ma ovviamente, non vanno tralasciati gli aspetti negativi di alcune di queste serie che abbiamo già citato sopra. Come sempre si tratta di prepararci anche di fronte a questo fenomeno ad una visione critica che, però, ci permette un dialogo continuo con la cultura veicolata da questi prodotti. Molti vedono i prodotti mediologici come gli ispiratori delle nostre visioni del mondo e questo aspetto, anche da parte di persone che ritengono che la nostra visione del mondo deve essere fondata sui testi biblici, non va ignorata.

 

 

 

 

Tre domande a Roberto Garaventa su Bibbia e violenza

Inizia con questo articolo il percorso di avvicinamento al XIII Convegno nazionale GBU (7–9 dicembre 2018) che avrà come tema proprio il tema della violenza: “Il Dio della Bibbia è un Dio violento?“.
Abbiamo posto queste domande al prof. Garaventa quale esponente informato e appassionato di una visione filosofica che si interroga continuamente su temi del genere (leggi qui il suo curriculum). La sua analisi, esterna alle convizioni che come GBU abbiamo sulla Bibbia e su Dio (Basi di fede) ci è utile, quale sfida lanciataci con gentilezza e rispetto, per comprendere la posta in gioco del dibattito sulla violenza ma anche per stimolarci affinché ci studiamo di comprendere in che modo la nostra fede nella Bibbia quale Parola ispirata di Dio debba prendere seriamente in carico le domande che ci vengono dai nostri contemporanei.

Ringraziamo dunque il prof. Garaventa per averci offerto questo straordinario spaccato e auspichiamo un dibattito aperto tra i lettori di questo post (anche tramite i commenti) e degli altri che verranno, in attesa di porci poi tutti quanti all’ascolto della Bibbia nel Convegno di dicembre.

Giacomo Carlo Di Gaetano (giacomocarlodigaetano@gbu.it)

 

 

  1.  Prof. Garaventa, la Bibbia contiene pagine in cui sono descritte e presentate diverse forme di violenza. Che cosa pensa di quelle pagine?

Il fatto che la Bibbia non solo descriva e presenti forme di violenza, ma sopratutto sia piena di morti ammazzati nel nome di Jahvé (come è noto, spesso è lo stesso Jahvé a condurre in battaglia il suo popolo e a ordinare lo sterminio dei nemici di Israele, mentre molte importanti figure della storia ebraica non hanno avuto scrupoli a spargere sangue umano in nome del “signore degli eserciti”), mostrando così un’arcaica tendenza alla violenza e alla crudeltà sia contro popoli stranieri seguaci di altre fedi, sia contro i membri del popolo d’Israele sostenitori di concezioni di fede e di norme di comportamento divergenti da quelle dominanti, dimostra a) che la Bibbia nel suo complesso non può essere addotta a sostegno del principio della sacralità e quindi della inviolabilità della vita, visto che in tali passi Dio non sembra affatto curarsi di ciò; b) che la guerra santa non è stata sempre e solo appannaggio della tradizione islamica; c) che è impossibile considerare la Bibbia (che per altro contiene molteplici e diverse immagini di Dio) quale unica istanza interpretativa di ciò che è bene o male, giusto o ingiusto, come invece sostengono, dal versante cattolico, la costituzione dogmatica Dei verbum sulla divina rivelazione del 1965 (per cui tutto quanto è contenuto ed è presente nelle Sacre Scritture è stato scritto “sotto l’ispirazione dello Spirito Santo” e ha “Dio come autore”; i testi biblici contengono “tutto ciò e solo ciò” che Dio voleva fosse scritto e insegnano “sicuramente, fedelmente e senza errore” la verità e quindi devono valere come sacri e canonici “nella loro totalità e con tutte le loro parti”) e, dal versante luterano-evangelico, la Formula di Concordia del 1580, per cui la Sacra Scrittura è l’unico criterio (“unico giudice, regola e istanza”) in base a cui giudicare la bontà o meno di tutte le dottrine (Allein die heilige Schrift bleibt der einige Richter, Regel und Richtschnur, nach welcher als dem einigen Probierstein sollen und müssen alle Lehren erkannt und geurteilt werden, ob sie gut oder bös, recht oder unrecht sein). C’è invece sempre bisogno di ermeneutica.

 

  1. Crede che la violenza sia insita nella natura di Dio così come è presentata nella Bibbia?

Ogni religione storico-positiva, nella misura in cui ritiene di fondarsi su una «rivelazione» divina indiscutibile e quindi rivendica per sé il possesso (esclusivo o inclusivo) della verità, si trova a dover fare i conti con altre religioni storiche che sollevano la stessa pretesa. Nasce così il problema di come una fede religiosa «assolutisticamente» intesa debba rapportarsi alle altre fedi religiose «assolutisticamente» intese: missione o dialogo? Ora, che la fede in un unico Dio (tratto che accomuna ebrei, cristiani e musulmani) abbia prodotto storicamente forme di «suprematismo zelotico e fanatico» (P. Sloterdijk), ovvero sia stata storicamente fonte d’intolleranza e di violenza inter-religiosa e intra-religiosa, è un dato storico difficilmente contestabile. È vero che la violenza è stata ed è presente anche nelle religioni non-monoteistiche (basti pensare alla centralità del sacrificio cruento in tutte le grandi tradizioni religiose dell’umanità). Tuttavia si può legittimamente sostenere, come ha fatto Jan Assmann, che la «distinzione» (operata per la prima volta da Mosè all’interno di un mondo fondamentalmente politeista, ma fatta propria anche da cristianesimo e islamismo) «tra vero e falso in religione», ovvero «tra il vero Dio e i falsi dèi, tra ortodossia ed eresia, tra scienza e ignoranza, tra fede e miscredenza», contenga in sé i germi di una «strutturale intolleranza» e sia quindi foriera di violenza religiosa. Infatti, ciò che adesso viene bollato come «falsità», «idolatria», non viene più considerato il frutto di mera ignoranza (errore involontario, semplice abbaglio), bensì, alla luce della rivelazione «assolutisticamente» intesa, viene visto come la conseguenza di un atto di voluta disubbidienza (miscredenza, caduta, peccato), se non addirittura di un rigetto da parte di Dio. Il che porta la comunità religiosa interessata ad assumere un atteggiamento intransigente e intollerante nei confronti di chi la pensa in modo diverso e, quindi, a respingere, escludere, cacciare, ostracizzare, se non addirittura a uccidere l’infedele, il miscredente, l’eretico. L’episodio del vitello d’oro (Gn 32) e le orge di violenza di Elia (1Re, 17-19) mostrano paradigmaticamente in che modo l’ebraismo, per difendere la retta dottrina e il retto comportamento e distinguersi rispetto al mondo religioso esterno, abbia proceduto alla discriminazione, all’espulsione e all’eliminazione dei dissidenti interni. E in effetti la violenza è stata spesso utilizzata con l’esplicita e consapevole intenzione di difendere le proprie verità di fede e di proteggere il proprio sistema di valori da qualsiasi avversario o nemico che vi si opponga o non vi si attenga o, semplicemente, professi altre verità e altri valori. Per conservare puro e intatto il proprio bagaglio religioso-culturale da ogni forma di contaminazione, le religioni rivelate hanno utilizzano anzitutto il disprezzo, la scomunica, la prescrizione e il bando, ma spesso (anzi fin troppo spesso) esse hanno fatto ricorso alla violenza armata (guerre missionarie, guerre sante, crociate), senza farsi alcuno scrupolo di utilizzare tutte le possibili varianti della crudeltà umana pur di eliminare e distruggere fisicamente il nemico (mago, strega, seduttore, eretico, miscredente). E alla violenza annientatrice hanno ripetutamente fatto ricorso non solo per difendere, ma anche per diffondere e imporre la propria fede quale unica verità e unica via di salvezza. Oggi la violenza contro i miscredenti, in nome e per la gloria di Dio, viene usata soprattutto dal fondamentalismo islamico, ma, se confrontiamo le motivazioni teologiche un tempo addotte per legittimare le crociate, possiamo notare molte affinità con quelle addotte oggigiorno in favore del jihad.

 

  1. Crede che il cristianesimo sia una religione violenta o che contenga in sé i germi della violenza, al punto tale da essere una religione pericolosa per la convivenza tra i popoli, ma anche per lo sviluppo dell’individuo?

Tutte le religioni (compresa quella cristiana) sono realtà ambigue e pericolose, nella misura in cui pretendono di disporre dell’unica, vera manifestazione di Dio. Inoltre, per quanto concerne il cristianesimo, ciò che è realmente decisivo e rilevante per la fede cristiana sembra essere non tanto il Gesù storico, quanto il Cristo testimoniato e annunciato dalla chiesa, che ha raccolto e selezionato le testimonianze su Gesù e ha fissato il canone dei testi sacri. La chiesa però è un’istanza terrena che pretende di avere l’autorità di imporre la giusta interpretazione e a cui i credenti devono ossequio ed obbedienza. Quindi ciò con cui abbiamo a che fare è in realtà soltanto un’istanza umana (spesso maschile), che pretende di parlare a nome di Dio. La parola della chiesa non è però la parola di Dio come tale, bensì soltanto la parola di un’istanza mondana che rivendica per sé il potere di parlare in nome di Dio. Se però già il kérygma è un’interpretazione umana, non è facile fissare un confine netto tra ciò che bisogna accettare per obbedienza e ciò che si può discutere criticamente. D’altra parte, ogni tentativo di comprendere il kérygma depositato nelle Sacre Scritture, non ha fatto che produrre nuove e diverse interpretazioni del messaggio originario (Hans Küng conta almeno cinque o sei macro-paradigmi nella storia del cristianesimo), producendo una serie infinita di discussioni, conflitti e guerre tra le differenti confessioni cristiane, nonché favorendo la nascita delle più diverse forme di fondamentalismo. I fanatici che pretendono di sapere con certezza ciò che Dio dice e vuole (in quanto non avvertono l’ambiguità presente in tutte le esperienze della voce di Dio) non riescono più a parlare tra loro e con noi da uomini. Se sono impotenti, sono gentili con noi. Se sono potenti, ci uccidono. Solo un ritorno al Gesù storico ci può salvare.

 

Prof. Roberto Garaventa
Ordinario di Storia della filosofia contemporanea
Dipartimento di Scienze Filosofiche, Pedagogiche ed Economico-Quantitative
Università di Chieti

Tre domande a Francesco Raspanti su Riforma e Medioevo

 1. Francesco la Riforma protestante è stata sintetizzata con il motto della città di Ginevra “Post tenebras lux”, lasciando a intendere che le epoche precedenti e in particolare il Medioevo siano state epoche appunto di “tenebra” dal punto di vista delle verità che la Riforma riscoprirà. Ritieni corretta questa analisi?

A mio modo di vedere dobbiamo, brevemente, considerare il contesto a cui questa domanda va posta. Credo sia opportuno ricordare che la riforma prende il via dal 1500 (oggi nel 2017 si ricordano i 500 anni delle tesi di Lutero) mentre il medioevo copre un tempo estremamente più vasto, diciamo di almeno mille anni dal 400 al 1500. Per un riformatore era difficile cogliere l’insieme del medioevo, della sua luce spirituale. Lutero, Calvino, avevano vicino il recupero dei classici romani e greci da parte degli umanisti e uno specchio di una chiesa romana corrotta e secolarizzata come mai prima. Per cui la riforma è certamente giustificabile con il motto “Post tenebras lux” ma tenendo presente che al riformatore del 1500 il medioevo era quello del passato prossimo, un medioevo fatto di vendita di indulgenze, inquisizione e crociate contro gli eretici. Quello che noi a distanza di mezzo millennio da Ginevra dobbiamo tenere presente è come il medioevo sia l’epoca storicamente più vasta per quanto riguarda il cristianesimo; definire “tenebra” la maggior parte della nostra storia, del vissuto dei cristiani che ci hanno preceduto, la ritengo una grave semplificazione, per altro capace di toglierci ricchezza spirituale oltre che visione storica.

2. Se anche durante il Medioevo abbiamo avuto luci che si sono accese e hanno fatto brillare la Parola di Dio, potresti indicarcene alcune? Quali sono stati invece, secondo te, i momenti più bui?

Nel corso del millennio cristiano chiamato medioevo esiste una quantità in sostanza inesauribile di testi cristiani e di luci spirituali. Pensiamoci, oggi noi facciamo fatica a tenere a mente alcune delle luci dei risvegli italiani, ed in effetti, dobbiamo “solamente” coprire un paio di secoli. Proviamo a dilatare il ricordo per mille anni e per tutta l’Europa, si capisce che abbiamo un tesoro immenso. Per inciso ritengo sia una lacuna prima di tutto culturale da parte del mondo evangelico lasciare il medioevo come periodo completamente “cattolico”. Dovremmo “riscoprire” quest’epoca, tenendo a mente che prima che essere patrimonio di una denominazione è un lascito spirituale per tutti i cristiani. Detto questo ho già avuto modo di toccare alcuni personaggi di rilievo (Paolino di Aquileia VIII secolo, Colombano di Bobbio VII, i riformatori patarini dell’XI, i movimenti pauperistici del XIII, gli scritti originali di Francesco di Assisi che ho avuto modo di leggere personalmente, le regole monastiche, l’esicasmo greco dal XIV secolo, Alcuino di York). In tutta sincerità è difficile segnalare una singola luce. Abbiamo un fiorire di piccole lanterne in tutto un mondo che essi stessi definiscono come patrimonio del Populus Christianus. In questo modo si percepiva il mondo, non vi erano né Italiani, né francesi, né tedeschi, semplicemente il popolo cristiano. Questo semplice fatto dovrebbe farci pensare, noi oggi, ora, mentre leggiamo davanti ad uno schermo queste parole, come ci consideriamo? Forse come cristiani, forse come credenti: facciamo fatica ad apprezzare la ricchezza dello stilema “populus christianus”. La chiesa è composta dal popolo di Dio, questo fatto era presente in modo pervasivo in tutti i testi medievali.

I momenti bui sono per assurdo più facilmente individuabili. La donazione di Costantino (che sto studiando da oltre diciassette anni), lo scisma del 1054 con la chiesa d’oriente (causato anche dal falso di cui sopra) al terribile “dictatus papae” di Gregorio VII (XI secolo, che ha al suo interno parti desunte dalla donazione di cui sopra) a Innocenzo III, la crociata contro gli albigesi e la conquista di Costantinopoli nel 1204 (di nuovo giustificata con il falso). Con Bonifacio VIII e le indulgenze si arriva ad un’altra pagina buia. Lo scisma di Avignone ha tra i suoi frutti la stagione del conciliarismo (sarebbe da studiare e apprezzare anche questa come cristiani del XXI nel pieno dell’ecumenismo). Si arriva poi al rinascimento con i papi che tutti conoscono. I Borgia, Leone X. Mi sia concesso affermare che nel mondo evangelico si considera Costantino (IV secolo) come una cesura netta: dalla chiesa dei Padri alla chiesa romana come la videro i riformatori. Ma poniamoci la domanda: quanta della chiesa romana di Leone X è frutto di un falso attribuito a Costantino? Per altro composto nell’VIII secolo. Quante voci durante il medioevo si sono levate contro il culto dei santi? Quante contro l’adorazione delle immagini? Quante contro le reliquie? Il culto a Maria era diffuso? Le risposte del medioevo potrebbero essere un’assoluta sorpresa, considerando anche che le luci spirituali sono tantissime e tutte da riscoprire e ristudiare. Di nuovo mi si permetta di puntualizzare come la storiografia riformata si sia scagliata contro l’approssimazione delle vite dei santi e i falsi che pullulano nel mondo medievale, tralasciando (con la lodevole eccezione della mistica tedesca) la spiritualità medievale.

 

3. Come dobbiamo affrontare, in quanto cristiani evangelici, lo studio e la comprensione di tutte le manifestazioni della spiritualità medievale?

A questa domanda rispondo con l’umiltà di un piccolo cristiano dell’XXI secolo. Le voci dal passato di questi nostri fratelli in fede, perduti e celati dietro una barriera di pregiudizio, sono – una volta liberate e tradotte (si tenga a mente che i testi e le testimonianze sono in pratica nella loro totalità in latino) – una ricchezza e una consolazione da tenere in grande conto. Secondariamente, ma è una questione metodologica pregiudiziale, si affronti lo studio e l’analisi dei testi pensando agli scrittori medievali come prima di tutto cristiani, capaci anche di una critica al potere papale che io sinceramente vedo raramente così ancorata alla scrittura negli scrittori contemporanei. Questo fatto deve camminare insieme alla consapevolezza che la storia cristiana del medioevo, un patrimonio di spiritualità nelle forme più varie e mutevoli, non è di appannaggio esclusivo ad alcuna denominazione cristiana, nemmeno alla chiesa romana cattolica. Come cristiani abbiamo il dovere di sentirci in comunione diretta (quindi senza questa dolorosa, autoimposta e non necessaria cesura di un millennio) con i padri della chiesa. La chiesa è molto più grande di una singola denominazione, la parola di Dio ha portato frutti in ogni periodo. Come possiamo pensare che un intero millennio di testimonianza cristiana sia esclusivamente una proprietà della tradizione cattolica? Del resto ricordiamo 1 Re 19: 18 “ma io lascerò in Israele un residuo di settemila uomini, tutti quelli il cui ginocchio non s’è piegato davanti a Baal, e la cui bocca non l’ha baciato”.

 

Francesco Raspanti si laureato a Bologna nel 2003 con una tesi sul pensiero politico medievale, e si è addottorato in Storia presso il Dipartimento di paleografia e medievistica nel 2007.

Ha collaborato con la cattedra di Storia del pensiero politico medievale della medesima università e ha fatto parte della redazione della Rivista Pensiero politico medievale. Ha al suo attivo diversi scritti scientifici e un volume dedicato alla storia politica del medioevo (Le piattaforme del potere, 2014); svolge ricerche sulla famosa donazione di Costantino. È membro di una chiesa evangelica (Assemblea dei Fratelli) di Bologna.

 

 

 

Tre domande a Valerio Bernardi sulle tradizioni popolari

  1. Le tradizioni popolari fanno parte di quel grande campo di studi che è l’antropologia culturale; che cosa offrono quanto a ricostruzione delle peculiarità dell’essere umano gli studi sui riti e le credenze che rappresentano la sostanza delle tradizioni popolari?

Va subito precisata una cosa. La demologia (così si chiama lo studio delle tradizioni popolari) in Italia ha preceduto lo studio dell’antropologia culturale che è arrivato nel nostro Paese a pieno titolo solamente nella seconda metà del Novecento. Cosa offre oggi la demologia? La possibilità di studiare le usanze, i costumi di quelle che erano chiamate le classi subordinate all’interno della propria società (A.M. Cirese parlava di dislivelli interni di cultura), del cosiddetto popolo che adotta proprie usanze e riti diversi da quelli che appartengono alla cultura ufficiale. Appare chiaro che tale studio ha attraversato diverse fasi e periodi. Nel nostro Paese, gli studi demologici, almeno sino agli anni Novanta del secolo scorso (ma anche oltre) hanno studiato soprattutto le “tradizioni” delle popolazioni contadine, scarsamente alfabetizzate sino agli anni Cinquanta e con una serie di riti e credenze che potevano risalire anche a tempi molto antichi ma che erano state rielaborate sicuramente a partire dalla fine del Cinquecento, sotto il rigoroso controllo della Chiesa Cattolica.

Oggi la demoantropologia si occupa della cultura popolare all’interno delle nostre società complesse e può anche studiare, dal punto di vista qualitativo, fenomeni che hanno a che fare con il popolare odierno. Lo spettro delle inchieste è pertanto più ampio e ci si occupa anche di argomenti come i social, il consumo, le abitudini alimentari non solo delle classi subalterne, ma della società in generale, leggendole come i nuovi riti sociali. Sicuramente la demologia della società contemporanea è profondamente diversa nell’oggetto dello studio da quella precedente. Il lascito della storia delle tradizioni popolari in Italia rimane, però, lo studio della cultura delle classi contadine disagiate, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia.

 

  1. In Italia le tradizioni popolari sono nella stragrande maggioranza dei casi legate al cattolicesimo; molte di esse hanno addirittura una radice controriformistica. Come spieghi questo nesso tra tradizioni popolari e religione cristiana?

Il cristianesimo è stato per molto tempo un fenomeno cittadino che, almeno in zone come l’Italia, non aveva coinvolto in maniera diretta e sentita le masse popolari, rappresentate dai contadini che abitavano nelle campagne. Non è un caso che il termine pagano, derivi proprio da pagus, il contado. Per diverso tempo il Cattolicesimo dei contadini in Italia (ma anche in buona parte in Europa) era legato a credenze che provenivano da culti di tipo naturale ed animistico che erano diffusi sin da tempi remoti.

Dopo il XVI secolo la Chiesa Cattolica, che doveva per la prima volta in Europa Occidentale fronteggiare un reale nemico, il Protestantesimo, cercò di “conquistare” al cattolicesimo queste masse. L’operazione effettuata fu quella, dopo il Concilio di Trento, di legare al culto dei Santi e in particolare di Maria la devozione e la credenza delle classi subordinate. Se si legge un’opera come l’Altra Europa dello storico Galasso, si scoprirà che il culto di Maria si diffonderà moltissimo nell’Italia Meridionale dopo la metà del XVI secolo.

Tutto ciò fu fatto attraverso la spettacolarizzazione di processioni, la rivalutazione di forme di pellegrinaggio anche locale verso santuari dove si supponeva fossero avvenute visioni di santi, la rassicurazione della popolazione che viveva una vita incerta ed insicura attraverso l’affidarsi a riti e personaggi questa volta controllati dalla Chiesa. Anche le pratiche di bassa magia o i culti animistici furono messi sotto controllo e calendarizzati secondo l’anno liturgico.

La connessione tra cristianesimo (cattolico) ed usanze deriva da un tentativo di contestualizzazione nell’ambito culturale. Si cercava di adattarsi alla cultura delle popolazioni che non avevano accesso ai dibattiti teologici e che non era in grado di seguirli nella stessa maniera del ceto borghese che via via si autonomizzava dalla Chiesa. L’operazione controriformistica fu sicuramente un successo. Ovviamente da un punto di vista evangelico non si può non dire che tutto questo andava a spese di un autentico cristianesimo evangelico che veniva offuscato da diffusi atteggiamenti paganeggianti che erano assecondati senza una reale opera di evangelizzazione. Contemporaneamente bisogna anche ammettere, però, che l’operazione portata avanti dal cattolicesimo controriformistico rispondeva ad esigenze reali di alcuni territori e di alcuni ceti sociali.

 

  1. Oggi per ragioni di ordine sociale, ma anche turistico e ambientali, si tende a far rivivere, dai piccoli comuni alle grandi città, il clima e gli scenari delle tradizioni popolari ritenendole come un deposito di valori positivi. Quale deve essere l’approccio di un cristiano evangelico a questo mondo? E’ sufficiente la condanna degli elementi idolatrici presenti nelle tradizioni popolari? Possono le tradizioni popolari rappresentare un campo in cui tentare di entrare in dialogo con i sentimenti e i bisogni religiosi, e umani che le animano?

Negli ultimi anni, soprattutto all’interno della rivisitazione di itinerari turistici alternativi diverse di queste tradizioni hanno avuto, dopo un periodo di crisi dovuta all’avanzare della secolarizzazione in ogni parte d’Europa, un recupero ed una ripresa.. La rivalutazione è dovuta più che a motivazioni di tipo religioso a quelle tipo economico. Il folklore porta sempre “colore” e cattura pubblico disposto a passare una giornata per vedere una manifestazione che può destare curiosità. Proprio per questo motivo il ritorno alla tradizioni popolari è visto come una risorsa e come un guardare al passato valorizzando la memoria delle comunità locali. Cosa dire da evangelico? Sicuramente rimane la perplessità della confusione tra l’annuncio del Vangelo e pratiche di tipo pagano che rimane; da studioso, invece, la perplessità deriva dalla ripresa con approcci ancor più consumistici di pratiche che il territorio aveva abbandonato. Oggi lo studioso di antropologia è consapevole che non esiste l’episodio “autentico” e che andrebbero accettati anche i cambiamenti, ma, allo stesso tempo, guarda con una certa criticità alla ripresa di usanze ormai desuete che rischiano anche di dare un’immagine sin troppo localistica del mondo.

Allo stesso tempo non penso che le “tradizioni popolari” appartengano ad un campo che sia assolutamente da evitare. Le manifestazioni culturali vanno comprese e vi sono anche delle occasioni in cui la spiegazione di alcuni fenomeni può aiutarci a comprendere come entrare nel contesto specifico della società in cui bene o male viviamo.

Qualche decennio fa Ernesto De Martino, il più noto etnologo italiano, spiegava alcuni di questi fenomeni (tarantismo, pianto rituale, pratiche di bassa magia) con la categoria della “crisi della presenza”, mutuata dalla psicologia fenomenologica. La crisi della presenza avviene nel soggetto umano quando, di fronte ad un mondo in cui la vita è incerta, o vi sono manifestazioni di disagio (il soggetto in preda a convulsione dovuta al morso della “taranta”) o ci si affida a dei taumaturghi esterni che ognuno cerca di propiziarci. Sono convinto che la crisi della presenza sia un’immagine interessante di quello che avviene in certi fenomeni connessi alle tradizioni popolari.

Io penso che gli evangelici, pur condannando alcune delle tradizioni popolari (non bisogna fare di tutt’erba un fascio, non trovo nulla di male nei vari palii o sagre o nei canti popolari non a sfondo religioso) debbano anche comprendere quanto spazio di manovra di annuncio del Vangelo ci sia nel bisogno espresso dalle masse popolari nell’esigenza di ricercare un rifugio dalle asperità della vita. Pertanto uno studio adeguato delle tradizioni popolari potrebbe portare anche alla ricerca di una maniera originale di annunciare il Vangelo. Il discorso di Paolo in Atti 17 rimane attuale anche in questo campo di studi.

Valerio Bernardi è docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Quinto Orazio Flacco di Bari e presso l’UNiversità degli Studi della Basilicata. E’ membro del Comitato Editoriale di Edizioni GBU e del DiRS-GBU

Tre domande a Nicola Berretta

  1. Si ritiene che la crescita del sapere scientifico e della tecnologia derivante da quel sapere renda sempre più complicato se non addirittura impossibile organizzare la propria esistenza sulla base di una visione del mondo fondata sulla Bibbia; credi che questa analisi sia corretta?

     

     

Trovo disarmante che ci siano credenti che la pensano in questo modo. Lo trovo disarmante anche alla luce delle celebrazioni che stiamo avendo in questi mesi, ricordando gli eventi che dettero inizio alla Riforma. È noto infatti che la rapida e capillare diffusione del pensiero rivoluzionario di cui Lutero e i riformatori furono portatori non possa prescindere dalla pressoché concomitante rivoluzione tecnologica che in quell’epoca rappresentò l’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Gutenberg. Fu quella straordinaria innovazione tecnologica a consentire la diffusione anche tra gli strati sociali più popolari sia degli scritti dei riformatori, sia ovviamente del testo biblico. Su questa base, dovremmo essere noi per primi ad opporci all’idea che lo sviluppo scientifico e tecnologico costituisca un impedimento ad una vita di fede ancorata nelle Scritture.

Questa conflittualità tra fede biblica e sapere scientifico, che indubbiamente si respira all’interno di larga parte del mondo evangelico, non trova alcuna giustificazione storica, perché sono vari gli analisti che indicano semmai proprio nel pensiero biblico il fondamento culturale da cui la ricerca scientifica ha tratto linfa vitale per il suo sviluppo straordinario occorso in occidente negli ultimi tre o quattro secoli. Che tristezza c’è allora in me, quando mi capita – troppo spesso! – di leggere o ascoltare commenti di credenti che abbracciano teorie complottiste, contrarie a trattamenti che nascono da protocolli sperimentali fondati sull’applicazione rigorosa del metodo scientifico…

Detto questo, non voglio sembrare tanto ingenuo da non essere consapevole di come la scienza venga oggigiorno usata anche per perseguire obiettivi che poco hanno a che vedere coi principi biblici, oppure come pretesto per ridicolizzare coloro che credono, ma la responsabilità è soprattutto nostra, di noi credenti, col nostro appoggiare, e spesso anche favorire, questa conflittualità ingiustificata.

 

  1. Il dibattito relativo all’opposizione evocata dalla prima domanda ha delle ricadute al livello della ricerca scientifica applicata, quella che viene condotta nei laboratori di qualsiasi ordine e grado?

     

     

Dipende. Se la domanda si riferisce all’atteggiamento nei riguardi di Dio che hanno coloro che operano attivamente nel mondo della ricerca scientifica, direi che si possono avere esattamente le stesse ricadute che si riscontrano in qualsiasi altro ambito sociale o lavorativo. A volte, forse perché a livello mediatico viene dato molto risalto ad esponenti che fondano le loro convinzioni atee o agnostiche sul fatto stesso di operare in ambito scientifico, prende allora piede l’opinione diffusa che gli scienziati siano per default degli atei. In realtà, coloro che operano in ambito scientifico sono “umani” come tutti gli altri, con gli stessi dubbi e le stesse problematiche di fondo. Al limite, quello che diviene peculiare in questo ambiente sono i pretesti che si usano per sfuggire ai richiami al ravvedimento ed al riporre la propria fede in Cristo, che indubbiamente fanno spesso appello ad argomentazioni razionalistiche. Ma il problema di fondo non è diverso da quello di qualsiasi altra persona, tant’è vero che, quando poi si instaurano relazioni di amicizia più profonde, tutti i bei discorsi su Darwin, sull’evoluzione, sulla scienza che ci dà le risposte… si sciolgono come neve al sole, per andare invece sui problemi di fondo che ogni uomo e ogni donna ha. Persino se scienziati!

Se invece la domanda si riferisce a ricadute di ordine pratico, cioè sull’applicazione del metodo scientifico, allora direi di sì. E mi riferisco in particolare ai presupposti etici che, a mio giudizio, devono necessariamente sottendere all’indagine scientifica. L’impostazione atea ha in genere un approccio puramente utilitaristico: funziona o non funziona? Colui che ha una visione del mondo fondata sulla Bibbia deve inevitabilmente domandarsi prima: è giusto o non è giusto davanti a Dio? E se non è giusto, deve essere pronto a desistere dal proprio proposito d’indagine scientifica, anche qualora fosse convinto del beneficio che quella ricerca potrebbe apportare all’essere umano. Spesso viene evocata la totale “libertà” della ricerca, ma secondo me si tratta di un assurdo. Se la ricerca fosse “libera”, allora potremmo giungere anche fino a giustificare gli esperimenti che il medico Josef Mengele condusse nei campi di sterminio nazisti su inermi gemellini ebrei. Indubbiamente, se potessimo fare esperimenti sull’uomo, la ricerca biomedica “funzionerebbe” molto meglio… Con questo non voglio certamente accusare indiscriminatamente gli scienziati atei di collusione con Mengele, assolutamente! Ma non c’è dubbio che, l’approccio alla ricerca di chi ha un’impostazione atea oppure biblica della vita, si trovano spesso in conflitto quando si discute di tematiche di ordine etico che giustificano o meno una certa indagine scientifica.

 

  1. Quando entri nel tuo laboratorio e guardi in un microscopio o maneggi un vetrino, in che modo la tua fede di cristiano evangelico orienta i tuoi comportamenti? Viene messa in crisi dai dati che scopri? o cos’altro?

 

Tutt’altro. L’indagine scientifica, condotta nei limiti dell’etica biblica di cui ho appena parlato, non offre altro che ulteriori motivi per lodare Dio, fornendo nuovi punti di osservazione per contemplare la grandezza, la potenza, e la straordinaria fantasia di Dio. Non c’è dubbio che riconoscere i propri limiti, nel non essere noi uomini in grado di fornire risposte a tantissime domande che ancora la natura ci pone, debba sempre rimanere un tratto essenziale di un credente biblico, e permettetemi di aggiungere, di qualsiasi scienziato degno di questo nome. Questo atteggiamento di sana e doverosa umiltà costituisce un baluardo difronte ai deliri di onnipotenza che hanno dato origine ai peggiori disastri per l’umanità. Guai però se, su questa base, un credente giunge a fondare la propria fede in Dio solo e soltanto su ciò che non capisce. Allora sì che la scienza diviene una nemica, perché tutto ciò che essa porta alla luce, fornendo risposte razionali a ciò che prima ignorava, erode poco per volta quel fondamento che gli sta facendo credere in Dio.

 

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Vedi la presentazione di La fede e la ragione

Leggi anche:
J. Lennox, A caccia di Dio, Edizioni Gbu

Tre domande a Giancarlo Rinaldi: la Riforma protestante e i Padri della chiesa

  1. Prof. Rinaldi, quest’anno ricorre il 500° anniversario della Riforma protestante; dal suo punto di vista di studioso del cristianesimo antico, ci può dire quale è stato il rapporto della Riforma, e dei Riformatori, con la patristica?

 

Per rendersi conto della presenza presso i riformatori dell’eredità della patristica basterebbe pensare alle radici agostiniane della riscoperta della grazia da parte di Lutero; si valutino pure le numerose citazioni di testi della letteratura cristiana antica nelle opere dei riformatori. Quante volte, nel corso della controversia con i cattolici, oltre a pagine della Bibbia veniva invocato l’argumentum patristicum cioè il parere esegetico di quegli antichi cristiani atto a dirimere la vertenza. Anche un riformatore di generazioni successive come John Wesley era innamorato della letteratura patristica nella quale ravvisava una rielaborazione rispettosa della tradizione neotestamentaria. Tutto ciò fino all’età di Costantino nel corso della quale, a motivo di un mutato rapporto tra le comunità e il potere, si avviò un processo di secolarizzazione che segnò, nella realtà dei fatti, un voltare alle spalle non solo all’insegnamento evangelico, ma anche a quello dei maestri cristiani dei primi tre secoli.

 

2. Ritiene che ci sia ancora spazio per la lezione che proviene dallo studio dei Padri della chiesa, nel mondo di oggi, sia per i cristiani, sia per chi cristiano non si professa?

Decisamente sì. Quanto ai cristiani che basano la propria fede sulle Scritture va ricordato che queste ci sono pervenute grazie all’opera di studio, trascrizione, conservazione di scrittori di età patristica. Senza questi anelli intermedi non avremmo tra le nostre mani la Bibbia così come oggi possiamo apprezzarla. Si pensi anche alla maniera d’intendere le Scritture. L’esegesi biblica è l’anima dell’antica letteratura cristiana. Il nostro modo d’intendere la Bibbia, letteralista allegorista tipologico che sia, deriva, con le opportune modificazioni, dal lavoro degli antichi. Possiamo dire che senza memoria del passato non avremmo piena consapevolezza del presente e neanche una chiara prospettiva per quanto riguarda il futuro.

Un pensiero sull’ecumenismo: direi che la forma più corretta di ecumenismo per un cristiano evangelico sia il ritorno alle radici ‘patristiche’, cioè lo studio e la valorizzazione dei testi degli antichi cristiani. Nella marcia in questa direzione può trovarsi il profumo dell’unità, piuttosto che in celebrazioni verticistiche e ingessate.

Anche per chi prescinde completamente da una scelta di fede lo studio del mondo degli antichi cristiani e della loro produzione letteraria è indispensabile affinché una Cultura possa pienamente definirsi tale. La storia romana non è altro, nella sua fase d’età imperiale, che la vicenda della conversione della cultura antica dalla paideia classica a quella cristiana. Ci piaccia o meno, è un dato di fatto che la storia dell’esegesi del libro di Daniele è alla basa della riflessione su fede e potere politico (poi diremo: su chiesa e impero) dall’età dei Maccabei (II sec. aC) fino all’alto medioevo.

Non è neanche il caso di parlare di arti figurative. Queste, per lunghissimo tratto, dall’età severiana al Rinascimento si nutrono di motivi tratti non solo dal Nuovo Testamento ma anche dalla letteratura agiografica e dalla memoria storiografica degli antichi cristiani. La teologia degli antichi cristiani è affidata al simbolismo dell’arte, tanto pittorica quanto nelle sculture del sarcofago antico.

Noi protestanti italiani abbiamo una congenita diffidenza nei riguardi della patristica che facciamo coincidere, sbagliando e di molto, con l’insegnamento tradizionale della Chiesa Cattolico Romana. Così, per reazione al cattolicesimo, ci manteniamo lontani dallo studio di quella meravigliosa primavera cristiana e dai suoi frutti succosi. Nei primi decenni dell’evangelizzazione dell’Italia dopo l’Unità vi furono numerosi convertiti dalle fila del cattolicesimo, ex sacerdoti o ex monaci, che avevano una profonda conoscenza della letteratura patristica e della storia del cristianesimo antico. La utilizzavano, con dovizia di citazioni testuali, proprio per dimostrare la fondatezza della loro esperienza e delle loro scelte esegetiche. Tutto ciò poi gradualmente si perse e, tranne rarissime eccezioni, si sviluppò la persuasione del tutto errata di potersi collegare direttamente alla Bibbia ignorando quei secoli che da questa ci separano: la luciferina tentazione dell’uomo di chiamarsi fuori dalla propria storia e di credersi un assoluto giudicante. Oggi in Italia nella formazione del corpo pastorale (tanto in chiese ‘storiche’ quanto ‘evangeliche’), la riflessione sui secoli che si frappongono tra la stesura del Nuovo Testamento e la Riforma è assente oppure affidata alla buona volontà di chi vuol provvedervi da solo. Eppure la nostra esegesi moderna non nasce dal niente ma, naturalmente, s’innesta in quella del passato, anche quando non ne siamo consapevoli; e lo stesso dicasi delle grandi questioni teologiche.

Altra osservazione: spesso nelle comunità crediamo di dover affrontare problemi peculiari solo dei nostri giorni. Sbagliato! La quasi totalità delle controversie, dei problemi, delle situazioni che dobbiamo affrontare sono solo la riproposizione di situazioni e dottrine antiche. Una conoscenza della storia del cristianesimo dei primi secoli ci aiuterebbe a inquadrare più serenamente questi elementi di turbamento e di far tesoro della lezione offertaci dagli antichi che dovettero porre rimedi.

 

  1. Come riassumerebbe, da storico e da credente, la stagione della patristica?

Bisognerebbe distinguere stagioni diverse nella produzione letteraria degli antichi cristiani. In ogni caso la ‘patristica’ (che comunque è vocabolo che ha un sapore piuttosto confessionale) viene solitamente a comprendere tutto quanto scritto nei primi otto secoli.

Noi oggi preferiamo parlare di letteratura cristiana antica piuttosto che di patristica poiché quest’ultimo termine sembra implicare una scelta di tipo confessionale che ha distinto alcuni testi in autorevoli in quanto ortodossi e altri deprecabili in quanto eretici. Ora nella storia delle chiese antiche il processo di separazione dell’eresia dall’ortodossia fu il frutto di una riflessione lunga, elaborata e sofferta. Si pensi a importantissimi autori che non sono entrato nel novero di quelli che noi potremmo definire “padri” della chiesa. Autori di altissimo profilo come Origene, tra i greci, e Tertulliano, tra i latini.

Sarebbe possibile anche introdurre una distinzione diacronica, cioè attenta allo sviluppo attraverso gli anni tanto del pensiero cristiano quanto della vita concreta delle comunità. Così scopriamo che la letteratura cristiana precostantiniana (i primi tre secoli) ha un suo carattere, prevalentemente apologetico e di chiarificazione di alcuni temi dottrinali, mentre quella postcostantiniana è prevalentemente interessata alla riflessione sui grandi temi teologici dibattuti ai concili (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia, etc.). Molto diverso, inoltre, è l’atteggiamento verso il potere: lealista ma eroico nella prima età, cortigiano e intollerante nella seconda. Nella letteratura cristiana antica della chiesa secolarizzata postcostantiniana è l’esperienza monastica che richiama alla purezza dei costumi e orienta verso la perfezione cristiana.

Farei osservare che nella letteratura cristiana dei primi secoli non troviamo manuali di teologia sistematica bensì un’infinità di testi di esegesi biblica, come commentari continuativi, omelie, domande e risposte, e così via. Proprio così: per gli antichi cristiani la teologia coincideva con l’esegesi biblica! E questo è un primo grande insegnamento che dovremmo fare proprio.

Mi consentirete un ricordo personale. Nei primi tempi dopo la mia conversione alla fede cristiana evangelica, quando mi trovavo ad affrontare questioni esegetiche che il solo ricorso alla Scrittura non sembrava dirimere adeguatamente, ricorrevo spesso alla consultazione dei testi patristici e, con mia meraviglia, rilevavo come le posizioni di quegli antichi cristiani convalidassero non gli insegnamenti della Chiesa di Roma bensì quelli che avevo fatto propri a sèguito della mia conversione.

 

Giancarlo Rinaldi ha insegnato Storia del Cristianesimo presso l’Università degli Studi di Napoli
L’Orientale. Si è interessato in particolare al rapporto tra cristianesimo e paganesimo con particolare
attenzione alla percezione del secondo nei confronti della diffusione della fede cristiana.

Giancarlo Rinaldi su FBBlog personale

 

Tre domande a Massimo Rubboli: Riforma protestante e Riforma radicale

1. Il 500° anniversario della Riforma protestante sta per essere archiviato. Se tu dovessi fare un bilancio di tutto ciò che hai visto o di cui hai sentito parlare, cosa penseresti del modo in cui la Riforma è stata ricordata, soprattutto in Italia?

Ora che il tempo delle celebrazioni si avvicina alla fine, penso che sia lecito avventurarsi in un primo tentativo di bilancio, al quale necessariamente dovrà seguire una riflessione più approfondita su questa stagione nella quale alla rievocazione celebrativa si sono affiancatati anche seri tentativi di revisione storica dei vari aspetti della Riforma, come quello – oggetto di un lungo ma sempre vivo dibattito storiografico – sul contributo di Lutero e del luteranesimo successivo alla formazione dello Stato moderno.

Il compito di ricordare al mondo quali fossero il significato e l’eredità della Riforma era stato assunto con largo anticipo dalla Federazione mondiale luterana tramite il Comitato nazionale della Chiesa luterana tedesca o EKD (Evangelische Kirche in Deutschland) che, avvalendosi di cospicue risorse messe a disposizione dal Ministero per la cultura del governo federale (Bundesregierung für Kultur und Medien) e da alcuni Länder, ha finanziato numerosi progetti culturali e il restauro di siti importanti al tempo della Riforma, in particolare a Wittenberg e a Eisenach.

La potente macchina organizzativa ha dato impulso anche a operazioni commerciali secondo le più moderne tecniche di marketing e merchandising. Queste tecniche esigono che tutto ruoti intorno ad un elemento centrale che, in questo caso, non poteva essere che l’ex monaco agostiniano. Si è così assistito ad un proliferare di prodotti enogastronomici e gadgets di ogni tipo (peluche, cioccolatini, giochi, t-shirts, ecc.), tra i quali ha riscosso enorme successo il “Luther Playmobil”, un pupazzetto alto sette centimetri che rappresenta il riformatore con una Bibbia aperta in mano, come nell’austero monumento (una statua di bronzo alta 3 metri e mezzo su una base di granito) collocato a fianco della Marienkirche di Berlino nel 1983, in occasione del V centenario della nascita di Lutero.

In Italia, nel novembre 2016 è stato istituito con decreto ministeriale, su proposta della Fondazione per le Scienze Religiose “Giovanni XXIII” di Bologna, il Comitato Nazionale per la ricorrenza del quinto centenario della Riforma Protestante (1517-2017), presieduto dal prof. Marcello Verga e sotto la responsabilità scientifica del prof. Massimo Firpo, “con il compito istituzionale di promuovere, preparare e attuare le manifestazioni atte a celebrare la ricorrenza” tramite «pubblicazioni, incontri pubblici in Italia e all’estero, giornate di studio ed una rassegna cinematografica», allo scopo «di offrire un contributo scientifico e pluridisciplinare finalizzato a raccontare al mondo contemporaneo la personalità e la figura di Lutero, la sua riforma, il suo percorso nella storia, nella dottrina, nelle istituzioni, nella politica, nell’arte e nella società» (Direzione Generale Biblioteche e Istituti Culturali, MiBACT, http://www.librari.beniculturali.it/opencms/opencms/it/comitati/comitati/comitato_0009.html).

Il Comitato ha erogato finanziamenti per convegni e mostre, come quelle su “La biblioteca di Piero Guicciardini e la Riforma protestante” (3 maggio – 30 giugno 2017), organizzata dalla Biblioteca nazionale centrale di Firenze, e su “Lutero, la Riforma, l’Italia” (31 ottobre – 30 novembre 2017), allestita presso la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino.

Per quanto riguarda il protestantesimo storico italiano, la chiesa valdese ha seguito l’orientamento della chiesa luterana, concentrando l’attenzione su Lutero e sulla Riforma magisteriale.

2. Il tuo contributo alle celebrazioni è stato, tra l’altro, l’allestimento di una mostra dedicata alla Riforma radicale. Cosa puoi dirci in merito, sia di questa espressione della Riforma e del suo impatto sulla storia del protestantesimo e del mondo moderno e sia nei termini della considerazione che essa gode?

Il V centenario dell’affissione delle tesi (un evento quasi certamente mai avvenuto) mi è sembrata un’occasione per ripensare la storia e il contributo della Riforma radicale dalla quale, nonostante la violenta opposizione dei riformatori ‘ufficiali’ e della chiesa cattolica, sono derivati forti impulsi all’affermazione delle più rilevanti conquiste della civiltà europea: la tolleranza, la libertà religiosa e di coscienza, la laicità delle istituzioni pubbliche, i diritti dell’uomo.

Purtroppo, nonostante l’opera di Ugo Gastaldi (Storia dell’anabattismo, 2 voll., 1972 – 1981 Torino) è ancora prevalente un’immagine distorta della Riforma radicale, derivata da due correnti storiografiche.

La prima ha origine negli scritti polemici contro gli anabattisti dei principali riformatori. La rappresentazione che influì maggiormente sulla diffusione di un’immagine negativa degli anabattisti nel mondo protestante si trova negli scritti di Heinrich Bullinger (1504 – 1575), successore di Zwingli alla guida della Riforma a Zurigo e ”architetto” della chiesa riformata; Bullinger faceva appello alle autorità secolari affinché liberassero la Confederazione da questa eresia usando ogni mezzo, anche le esecuzioni pubbliche. Bullinger raccolse i suoi scritti precedenti contro gli anabattisti nel volume L’origine, crescita e sette degli anabattisti (Der Wiedertäufferen Ursprung, Fürgang, Sekten, Zurigo 1560), nel quale collegò la “piaga anabattista” al tradimento e alla sedizione, tracciando una linea di derivazione diretta dell’anabattismo dalla guerra dei contadini e dal “regno anabattista” di Münster. Gli scritti dei riformatori e dei polemisti cattolici hanno esercitato per secoli un’enorme influenza sul giudizio negativo nei confronti della Riforma radicale e, in particolare, degli anabattisti che ha iniziato ad essere seriamente riesaminato soltanto dalle ricerche su fonti archivistiche di fine Ottocento

La seconda risale a uno dei teorici del comunismo, Friedrich Engels (1820-95), che nel suo famoso libro sulla guerra dei contadini in Germania del 1524-25, scritto dopo il fallimento delle rivoluzioni europee del 1848, esaltò la “magnifica figura di Thomas Müntzer” (1489-1525), primo “martire della rivoluzione comunista”, contrapponendolo a Lutero, che “aveva tradito il movimento popolare” diventando un “servo dei principi” (Fürstenknecht) e un “macellaio dei contadini” (Bauernschlächter). L’interpretazione di Engels era stata fortemente influenzata dallo storico hegeliano Wilhelm Zimmermann, che per primo presentò Müntzer come una figura rivoluzionaria in uno studio approfondito della guerra dei contadini (Der grosse deutsche Bauernkrieg, Stuttgart 1841-43). Quest’immagine di Müntzer fu ripresa da studiosi marxisti come August Bebel (1840-1913), Franz Mehring (1846-1919) e Karl Kautsky (1854-1918) che riabilitarono la figura di Müntzer come eroico oppositore dei poteri feudali a difesa dei contadini. Il filosofo marxista Ernst Bloch (1885-77) dedicò a Müntzer un’opera importante (Thomas Müntzer als Theologe der Revolution, Kurt Wolff, München 1921, tr. it. Thomas Münzer teologo della rivoluzione, Milano 1980), nella quale sosteneva che la sua teologia congiungeva nella ‟volontà spirituale di rivoluzione” il piano dell’azione politica al rovesciamento di quei valori terreni che puntavano al consolidamento della religione di Lutero con il nuovo ordine dello stato dei prìncipi. Müntzer diventava così espressione di una figura simbolica essenziale della storia: la ribellione dell’uomo all’autorità. Questa linea storiografica, fortemente ideologica, arrivò anche in Italia con la pubblicazione di una raccolta di scritti politici di Müntzer, a cura di Emidio Campi (Torino 1972), che fu oggetto di studio in un campo estivo del centro ecumenico di Agape.

3. Secondo te, come storico e come credente, che cosa è stata la Riforma?

Come storico, vedo nella Riforma protestante un evento di carattere principalmente religioso, il cui successo imprevisto è da ricondurre anche a fattori politici, economici e culturali. La Riforma, nel lungo periodo, provocò la frammentazione della cristianità europea e innescò un processo di nazionalizzazione della religione che portò alla formazione di chiese nazionali protestanti, che svolsero una funzione importante nella costruzione delle identità nazionali di paesi come l’Inghilterra, la Scozia, i Paesi Bassi e la Svezia, perché l’appartenenza a una comunità religiosa nazionale rafforzò il senso di appartenenza a una comunità politica. La grande importanza attribuita alla lettura personale della Scrittura portò non solo alla pubblicazione di edizioni critiche nelle lingue originali, che sostituirono la Vulgata per le traduzioni nelle lingue nazionali (mentre la diffusione della Bibbia in volgare fu proibita con la costituzione Dominici gregis custodiae del 24 marzo 1564), ma fu anche di stimolo alla diffusione dell’istruzione primaria. Infatti, il livello di analfabetismo diminuì sensibilmente laddove prevalse la Riforma e rimase alto nei paesi che restarono cattolici, come l’Italia e la Spagna. La Riforma non solo modificò profondamente il modo di intendere e vivere l’esperienza religiosa, ma contribuì in modo determinante alla trasformazione della vita sociale, politica ed economica. Desacralizzando l’istituzione ecclesiastica e il ruolo del clero e valorizzando l’impegno nel mondo secolare, la Riforma portò ad una ridefinizione sia dei rapporti tra la sfera spirituale e quella temporale sia del ruolo delle chiese nella società. I cambiamenti nell’ambito religioso favorirono anche il processo di desacralizzazione del potere politico nel mondo protestante

Come credente, mi sembrano importanti – oltre all’affermazione dei capisaldi dottrinali (Sola Gratia, Sola Fide, Solus Christus, Sola Scriptura) – l’accentuazione della centralità della Scrittura, considerata l’unica autorità dottrinale normativa al di sopra di ogni autorità terrena, e l’affermazione del sacerdozio universale dei credenti, che privarono l’istituzione ecclesiastica di gran parte del suo potere e responsabilizzarono l’individuo ponendolo di fronte a Dio senza la mediazione del clero.


Il prof. Massino Rubboli ha insegnato per molti anni Storia dell’America del Nord presso le Università di Firenze e Genova, oltre a tenere corsi di Storia del Cristianesimo e delle chiese cristiane.

Nel XII Convegno Nazionale GBU (7-10 dicembre  2017) terrà una conferenza dal titolo La Riforma radicale, nell’ambito del percorso di approfondimento “Tutto è iniziato in una università – Wittenberg 1517 / Montesilvano 2017″

Per Edizioni GBU dirige la collana Orizzonti del pensiero cristiano, nella quale è imminente la pubblicazione del famoso libro di Roger Williams (1603-1683) dedicato alla persecuzione: La sanguinaria dottrina della persecuzione per causa di coscienza (1644)